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La Gig economy: il nuovo caporalato digitale

Spesso confuso con quello della condivisione, il modello del capitalismo delle piattaforme è tutto fuorché sharing economy. Uber, Foodora o Deliveroo promuovono un modello di precarizzazione totale noto come gig (che in inglese significa “lavoretto”) economy.

Quando diciamo economia della condivisione, diciamo qualcosa di preciso e specifico. Non diciamo, ad esempio, Uber. Non diciamo Foodora o Deliverroo, piattaforme che di collaborativo e di condiviso hanno ben poco. Quando parliamo di Uber, Foodora o Deliveroo parliamo, piuttosto, di gig economy. Ma che cos’è, allora, la gig economy? È un modello dove le prestazioni lavorative stabili sono azzerate e, di conseguenza, gli impiegati e i dipendenti a tempo indeterminato praticamente non esistono. Le prestazioni lavorative continuative sono un pallido ricordo di quando la classe operaia sognava il paradiso e quella creativa si illudeva di averlo raggiunto.

Non esistono più posti di lavoro – né a tempo determinato, né indeterminato – e l’offerta di prestazioni lavorative, prodotti o servizi avviene solo “on demand”, quando c’è richiesta. In sostanza, un caporalato digitale. L’espressione gig economy deriva dal termine inglese “gig”, lavoretto. Nel mondo dello spettacolo “gig” è il cachet. Il precario 4.0 è chiamato gig worker e il modello è quello dell’on-demand (economy), completamente disintermediata grazie a app e piattaforme digitali proprietarie.

Nella gig economy il mercato tra domanda e offerta è gestito online. Ma il “gestore” non è un arbitro imparziale e non innova: distrugge la cornice giuridica e il fondamento di ogni relazione e garanzia di lavoro. Un fenomeno, questo, che gli studiosi hanno già ribattezzato Plattform-Kapitalismus, capitalismo delle piattaforme, che attraverso app solo in apparenza neutrali mette in relazione soggetti che cercano e soggetti che offrono prestazioni temporanee di lavoro.

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Authority e Consumatori. Dalla sharing alla social economy

Questo il titolo del convegno svoltosi a Roma il 17 novembre 2016, presso la Sala Danilo Longhi di Unioncamere. In una società in continuo divenire, con un mercato di transizione dalla sharing alla social economy, che ruolo hanno le Authority? Quali sono le garanzie per la tutela del consumatore? che ruolo ha la tecnologia nei nuovi mercati? E soprattutto siamo davvero consapevoli dei pericoli della crescita di una parallela shadow economy?

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Le banche del tempo versione sharing

È un’esperienza che ha anticipato la sharing economy che oggi è diffusa in tutta Italia: sono oltre 500 i casi. Quello più innovativo, in Brianza a Carnate, lo abbiamo raccontato sul numero di Vita Bookazine in edicola che sarà presentato a SharItaly domani

Non riesci più a pagare le bollette? Dona il corrispettivo di ore di lavoro alla tua cittadina e ti vengono pagate con il Fondo solidale attivato da Comune parrocchia e associazioni. Hai bisogno di beni di prima necessità? Presta servizio all’emporio della solidarietà e in cambio avrai diritto a ricevere quello che ti serve. C’è un fenomeno che, all’apparenza silente ma sempre in movimento, sta creando legami tra le persone rafforzando il loro senso di appartenenza a una comunità: è l’evoluzione sempre più sociale delle banche del tempo, che oggi sono 500 in tutta Italia e coinvolgono almeno 50mila cittadini di ogni cultura, reddito, provenienza o religione. Reciprocità è il punto di partenza di ogni realtà del genere, di solito riconosciuta come Aps, Associazione di promozione sociale.

«Il concetto è sempre lo stesso: circolano ore, non soldi, ma ora sempre più Comuni stanno capendo la portata di questo tipo di economia condivisa e scelgono di investirci in termini di idee e risorse», spiega Maurizio Riva, fondatore nel 2009 della Banca del tempo di Carnate, paesotto nella Brianza monzese di cui Riva è stato anche sindaco. Non una Banca a caso: nel 2014, in virtù delle sperimentazioni sociali che ha attivato sul proprio territorio, la Bdt di Carnate — che oggi ha 90 soci — è stata invitata a raccontarsi come case study al Parlamento europeo, dopo avere vinto un bando Ue da 32mila euro che ha permesso di creare una partnership con un ente caritatevole belga per scambiarsi buone prassi in termini di aiuto solidaristico. «Due i progetti che abbiamo avviato e che sono già stati replicati da altri Comuni», sottolinea Riva. «“L’aiuto vien donando” ha creato un meccanismo per cui se, per esempio, qualcuno è in difficoltà a pagare luce o gas, riceve l’aiuto economico del fondo solidale cittadino, che può ripagare “lavorando” per il corrispettivo di 10 euro all’ora arrivando a saldare fino al 50% della cifra. Questo perché molte persone hanno difficoltà ad accettare aiuti per motivi di orgoglio: dando in cambio ore di la- voro, hanno meno remore e si lasciano aiutare», racconta Riva, che sottolinea il sostegno ricevuto per il progetto anche da Fondazione Monza Brianza e Fondazione Cariplo.

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Periferie, l’innovazione nasce dalla cittadinanza attiva

Dal riciclo all’energia, il valore della socialità nell’economia circolare.
Scomporre e ricomporre le parole, scavare nel loro riapparire nel presente storico dell’attualità dell’inattualità, ci rammenta che il denominare, svela carsici percorsi sociali ed economici di derive storiche altro dallo storytelling ipermoderno. «Cooperativa», sembrava parola sepolta nell’epoca della Connectography (Parag Khanna) che disegna il mondo come nodi di reti hard e soft di logistica, finanza, città spettacolo. Altro che cooperare, l’attualità, è connettersi ai flussi! Se poi denominiamo la cooperativa con la parola antica «comunità», evocando nell’epoca delle community e dei social il massimo dell’inattualità, occorre capire senso e significato attuale della voglia di prossimità nell’epoca della simultaneità.
Come si diceva nel fine secolo, il delinearsi della globalizzazione rimandava all’adagio più globale-più locale, dispiegato oggi nel paradigma Flussi-Luoghi. Che interroga, di fronte all’imperativo connettersi e fare community nella simultaneità, sul cosa resta del locale, del territorio, della prossimità. Le cooperative di comunità vengono avanti e sono nate nel margine territoriale, ma interrogano il centro. Riscoprono il cooperare là dove, dissolta e disgregata «la comunità si fa inoperosa». Nei comuni polvere, nelle aree interne, dove partendo dalla scomparsa dei luoghi di aggregazione e di incontro, si ricostruiscono tracce di comunità. Tema non solo del margine territoriale, basta pensare alle marginalità urbane per capire quanto sia urgente il tema dello spazio pubblico, e dell’essere in comune nelle periferie che si fanno banlieue. Anche le esperienze europee di cooperative di comunità le vedono operare in una sussidiarietà top down ai margini della crisi del welfare state.

La vera questione è interrogarsi se da questa vibratilità del margine di esperienze di welfare di comunità, di rigenerazione e rianimazione di aree a rischio di spaesamento, ove si coopera per fare “comunità che viene” ci sono tracce utili nel loro disegnare smart land, a contaminare il nostro progettare smart city nei nodi di reti urbane. Avendo chiaro, che non c’è smart city innervata dall’innovazione tecnologica, senza social city cooperante. Con la cittadinanza attiva mobilitata nell’economia circolare del riciclo, nella domotica per l’energia, nel car e bike sharing per la mobilità, nel recupero di periferie e spazi pubblici, nell’accoglienza, nell’inclusione e nella sicurezza. L’elenco potrebbe continuare delineando la società circolare che viene avanti solo attraverso una cittadinanza cooperante. Ma l’innovazione dall’alto, da sola, non produce cittadinanza attiva. Questa si aggrega dal basso nella “voglia di comunità”. Anche nelle città spettacolo, nelle aree metropolitane, dove la prossimità del fare cooperative di comunità incontra la simultaneità del fare coworking o fablab per sfuggire alla gig-economy dei lavoretti. Il fare accoglienza ed inclusione incontra i grandi numeri delle migrazioni e dei profughi. Il fare comitati di cittadini si evolve nel cooperare per fare comunità di quartiere ridisegnando spazi e forme di convivenza. Il torrente della storia fa riemergere due parole antiche, usiamole e pratichiamole. Nelle aree interne dell’Appennino devastate dal terremoto, dove la voglia di comunità dei senza casa e senza paese si fa dolore e nelle città metropolitane in divenire, come a Bologna, dove nei quartieri è stato promosso un progetto di sviluppo di comunità per delineare la smart city che verrà.

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Servizi di buon vicinato: arriva Toctocdoor, social network di quartiere

Accade a Torino, dove una piccola startup ha lanciato un’applicazione che servirà a scambiarsi servizi e consigli con gli altri utenti registrati nella stessa zona: per localizzarli e accedere agli annunci basterà registrarsi, visualizzandoli poi su una mappa.
Quasi ogni genitore ci è passato, almeno una volta nella vita: sono le 8 del mattino e ci sono due figli da accompagnare in due diverse scuole, ma di accendersi l’automobile non vuol proprio saperne. La lista delle possibili opzioni, tutte più o meno inefficaci, comprende ad oggi: compulsare l’agenda telefonica per trovare un “collega” che faccia all’incirca lo stesso tragitto; prendere un taxi spendendo spesso l’equivalente della riparazione della vettura, o magari farsi assalire da una crisi di panico da riversare presto su figli, consorte e chiunque capiti a tiro, mentre i ragazzi si avviano con gran gusto a perdere almeno una mezza mattinata di lezione. A offrire una soluzione più incisiva, però, potrebbe essere molto presto il mondo dei social network: a Torino un team di creativi e sviluppatori ne sta sperimentando uno pensato per mettere in comunicazione i residenti di uno stesso quartiere, in modo che possano scambiarsi beni, servizi, favori e consigli di buon vicinato. Si chiama Toctocdoor e al momento è attivo in una porzione del Capoluogo che comprende la centralissima via Giolitti e tutte le strade limitrofe, da via Po a via Vittorio Emanuele, passando per il lungofiume. A idearlo è stata una squadra proveniente dalla città di Foggia, e composta dai fratelli Lorenzo e Antonio Trigiani – esperto in pubbliche relazioni il primo e sviluppatore il secondo – e da Viviana Tiso, a sua volta esperta in social media e comunicazione. Un altro aiuto arriverà presto dal centro servizi per il volontariato di Torino, che nel weekend presenterà l’iniziativa alla cittadinanza nel corso di una conferenza pubblica.

Il funzionamento è quanto di più semplice: “durante la registrazione – spiega Tiso – all’utente verrà chiesto di specificare l’indirizzo di residenza. Da quel momento, oltre a visualizzare su una mappa il numero esatto e la collocazione degli utenti attivi in zona, si potrà accedere a post e annunci pubblici divisi per categorie contrassegnati secondo una logica di utilità, molto simile a quella delle banche del tempo ma anche dei semplici rapporti di buon vicinato”. Un modo per portare la pervasività dei social network in una dimensione locale, insomma, analogamente a quanto già fatto da servizi come “Last minute sotto casa”, una app che – riunendo una cordata di supermercati e negozi alimentari – pare stia dimezzando lo spreco di cibo in più di una città italiana. Con la differenza che, in questo caso, la platea di utenti, seppur delimitata da specifici quartieri, sarà decisamente più estesa: al momento, le categorie attivate per la fase sperimentale riguardano gli annunci gratuiti, la compravendita, una sezione per gli oggetti persi e ritrovati e una relativa a crimini e sicurezza. Vale a dire che, con cinque semplici marcatori semantici, c’è già un’infinità di operazioni e servizi che gli eventuali “vicini di social” possono scambiarsi. “Prendiamo la categoria ‘crimini e sicurezza’ – illustra Tiso -: se sentissi arrivare dei rumori sospetti dall’appartamento del mio dirimpettaio in ferie, con un semplice click potrei avere la possibilità di allertare lui, oltre alle forze dell’ordine”. Nel già citato caso dei bambini da portare a scuola, invece, secondo Tiso basterebbe “pubblicare o guardare gli annunci nell’area ‘genitori e figli’, e con un po’ di fortuna si troverebbero diverse mamme e papà che potrebbero offrirsi di dare un passaggio ai bimbi”.

Attivo dallo scorso marzo, al momento TocTocDoor è agli sgoccioli di quella che viene definita “fase beta”: man mano che gli utenti sperimentali – o beta tester – ne saggiano funzioni e caratteristiche, suggeriscono agli sviluppatori migliorie e nuove funzionalità. Il prossimo venerdì, comunque, l’applicazione verrà presentata al pubblico sabaudo: l’appuntamento è per le 17 alla sede del Centro servizi per il volontariato di via Giolitti 21. Segno che, a breve, l’iniziativa potrebbe essere pronta ad abbracciare l’intera cittadinanza.

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Napoli, apre lo store del “tempo”.

Si comprano e si offrono ore per lavorare, studiare, scambiare esperienze
Una casa privata, ma aperta al pubblico. Un salotto, una cucina, un giardino per incontrarsi.
Nasce a Napoli Stazione di Posta 108, la prima Open house cittadina. Una casa privata, ma aperta al pubblico. Un salotto, una cucina, un giardino per incontrarsi, lavorare, studiare, dove si paga solo il tempo di permanenza: 3 euro all’ora. Un progetto di Ciro Sabatino, giornalista, editore, instancabile animatore culturale (sua l’idea della prima libreria popolare Iocisto al Vomero) che ancora una volta importa in città quello che in Europa è già un fenomeno diffuso. “Di open house ce ne sono a Parigi, Londra e Madrid e sono luoghi di condivisione frequentati soprattutto da studenti e ragazzi”, spiega. Spazi fluidi e trasversali che non sono bar né locali. Luoghi di passaggio, per lo più. Di persone, di idee, di progetti. “Come le stazioni di posta di un tempo, dove i viandanti si fermavano per una o più notti nei loro spostamenti condividendo racconti ed esperienze”.

L’apertura di Stazione di Posta 108 è fissata per domenica alle 18. L’indirizzo è via Manzoni 21, all’interno della storica Villa Patrizi all’angolo con via Caravaggio. Duecento metri quadrati circa con giardino, piccolo parcheggio per biciclette e motorini, connessione Wi-fi, biblioteca, computer, stampante e scanner, sala riunioni, ma anche ping pong, biliardino, scacchi e freccette. Perché le open house sono luoghi anche di gioco e di svago, cosa ben diversa dagli spazi di co-working.

“E poi c’è sempre pane e Nutella e caffè caldo fatto in casa”, aggiunge Sabatino. Nel prezzo di 3 euro all’ora (15 euro per l’intera giornata) è infatti incluso il consumo di ciò che si trova in frigo e in dispensa. Sempre pane fresco, acqua, caffè, bibite e il necessario per cucinarsi uno spaghetto al pomodoro. Lo spazio è a tempo, dalle sette del mattino al tardo pomeriggio; dopo le 18 Stazione di Posta ospiterà una serie di eventi a pagamento come i Lunedì del Teatro ed altre serate a tema.

“Stiamo lavorando ora alla Mystery Library, la prima biblioteca ed archivio dedicati al giallo e alla letteratura del mistero con particolare attenzione ai piccoli editori e agli autori emergenti”. Il bookcrossing è solo una delle forme di condivisione proposte, ma Sabatino guarda ancora più lontano: “La sfida è quella di fare rete, net-working, di pensare i luoghi in
modo diverso perché solo dall’incontro e dal confronto creativo nascono progetti spesso vincenti”. Una sorta dunque di factory del pensiero, di creatività urbana condivisa. La formula dell’open house è quella dell’associazione culturale, per accedere allo spazio a tempo è infatti necessario prima associarsi pagando la quota annuale di 10 euro. Stazione di posta sarà aperta dal lunedì al venerdì dalle 7 alle 18.

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Promuovere la sharing city

La città come piattaforma di abilitazione dello scambio di beni, servizi e conoscenze tra pari. Valorizzare, prototipare e regolare nuove forme di reciprocità, in un’ottica di ibridazione con le logiche di scambio e di redistribuzione

Già nel 1987 Tom Malone, Joanne Yates e Robert Benjamin nell’articolo “Electronic Markets and Electronic Hierarchies” avevano previsto il passaggio dalla gerarchia al mercato attraverso la diffusione di tecnologie di rete. Yochai Benkler (2004), che per primo analizza in modo sistematico l’impatto delle tecnologie digitali sui rapporti tra economia e società, vede un superamento anche della logica di mercato: “queste tecnologie hanno permesso di affrontare vari problemi di approvvigionamento secondo forme di produzione decentrata basate su relazioni sociali, piuttosto che attraverso i mercati e le gerarchie”.

Benkler definisce questo modello come “common-based peer production” e i relativi beni come “shareable good”: una forma di produzione basata sulla collaborazione tra pari che mettono in comune il risultato del loro impegno. Un modello che nasce dall’esperienza dei software liberi e open source ma che grazie alle tecnologie digitali può essere esteso dai beni immateriali e non-rivali nel consumo anche a quelli materiali e rivali ma con capacità in eccesso (es. seconde case temporaneamente non abitate, auto parcheggiate ecc.). Benkler enfatizza una dimensione relazionale dello scambio fondata su fiducia, reciprocità di impegno dei soggetti coinvolti e motivazioni non solo strumentali nella condivisione del bene. Un’accezione che è rimasta solo nell’utilizzo più stretto del termine “sharing economy”, inteso come forma di “risocializzazione dell’economia” (Pais, Provasi, 2015), dove il consumo implica nuove forme di relazione, spesso con persone sconosciute, abilitate proprio attraverso meccanismi reputazionali e che Juliet Schor (2015) chiama “stranger sharing”.

Nella letteratura più recente si registra invece una maggiore attenzione all’efficacia distributiva di questi modelli. Arun Sundararajan (2016), pur titolando il suo recente libro “sharing economy”, nella sua analisi ricorre più spesso all’espressione “crowd-capitalism”, per porre l’attenzione su scambi organizzati attraverso “reti decentralizzate di individui anziché aggregati privati o pubblici”.

In questo modello, la “piattaforma” permette lo scambio di beni e servizi tra pari, riducendo le asimmetrie informative, abbattendo i costi di transazione e ottimizzando l’utilizzo delle risorse disponibili. Gli esempi più noti sono Airbnb nell’ambito dell’accoglienza, Blablacar per la mobilità, Upwork per l’incontro domanda-offerta di lavoro digitale, Gnammo nella ristorazione ecc.

La letteratura divulgativa associa la diffusione del modello-piattaforma a una logica di disintermediazione. Un’interpretazione solo parzialmente corretta: se da un lato c’è sicuramente una forma di abilitazione degli attori, dall’altra le norme costitutive sono determinate dalle piattaforme stesse, che introducono forme di re-intermediazione di cui dobbiamo ancora comprendere pienamente le logiche. Per limitarsi a un esempio, il costo del bene/servizio scambiato attraverso le piattaforme non è stabilito da un centro amministrativo, come nelle aziende tradizionali, ma dal singolo operatore; la determinazione del prezzo è però legata a un ranking reputazionale, di cui l’attore generalmente ignora l’algoritmo.

Il passaggio da organizzazioni (grandi e verticalizzate o piccole e a rete) a piattaforme è più evidente nella dimensione dello scambio di mercato, dove stanno cambiando anche le abitudini di consumo: generazioni abituate al possesso, anche come status-symbol, oggi prediligono l’accesso a breve termine.

Le pubbliche amministrazioni possono giocare un ruolo importante nella promozione e regolazione di questi mercati. I punti più delicati riguardano gli aspetti giuslavoristici e di tutela del consumatore. Le piattaforme possono facilitare la democratizzazione delle opportunità economiche e professionali, dal momento che non filtrano i candidati in base alle loro credenziali formali, ma questo richiede la costruzione di nuove forme di verifica della qualità del servizio, per esempio in termini di trattamento antidiscriminatorio. Inoltre il lavoro veicolato attraverso queste piattaforme è parcellizzato e “on demand”. Il vantaggio è che consente una completa flessibilità anche dal lato di chi eroga il servizio, che può decidere “istantaneamente” quando rendersi disponibile; una possibilità apprezzata soprattutto da persone per cui l’attività lavorativa non è esclusiva, come studenti o persone con compiti di cura. D’altro canto, questo comporta la necessità di ripensare la costruzione di profili di tutela del lavoro, ancora oggi costruiti su un modello di lavoratore full time e con datore di lavoro prevalente.

E’ poi importante riflettere sul ruolo delle amministrazioni locali, soprattutto nelle grandi città dove la densità abitativa favorisce la diffusione di queste pratiche. Il modello piattaforma generalizza a tutti i settori quello che nel consumo di prodotti agricoli viene definito “locavorism” e che in Italia traduciamo con il concetto di consumo “a km zero”, ma lo reinterpreta in un’ottica di “localismo cosmopolita”: le dinamiche di prossimità fisica sono rilevanti ma non sono vincolate a residenti stanziali o comunità chiuse perché la tecnologia facilita l’incontro anche occasionale tra domanda e offerta.

Questa dinamica pone nuove sfide alla città intesa come unità di analisi e come attore economicamente rilevante, posta al centro di una duplice tensione dialettica tra dimensione globale e locale e tra cooperazione e competizione (Le Galès 2002). Per spiegare la diffusione della sharing economy in un determinato contesto locale non si può prescindere dall’analisi del sistema socio-economico e istituzionale in cui questa va ad innestarsi: le tradizioni storiche che hanno contribuito alla creazione di competenze, capacità tecniche e know-how in una particolare area; la presenza di imprese che facilitano la crescita economica; l’architettura istituzionale che fornisce beni collettivi locali per la competitività come la formazione o l’accesso alla finanza; ma anche la forza del capitale sociale e delle relazioni comunitarie presenti a livello locale, con particolare attenzione alle ricadute in termini di diffusione dell’economia informale.

A questo si aggiunge un ulteriore livello di progettualità, più strettamente politica, a cui si fa riferimento con l’espressione “shareable city” o “sharing city” (McLaren, Agyeman 2015): molte città in tutto il mondo hanno promosso schemi orientati alla sharing economy in alcuni settori specifici e alcune stanno sperimentando politiche integrate. Tra queste, oltre ai casi internazionali di Seoul e Amsterdam, si segnala quello di Milano.

Oltre alla regolazione delle implicazioni del modello piattaforma nella dimensione di mercato, queste esperienze si caratterizzano per la costruzione di nuovi prototipi direttamente in ambito pubblico. Si tratta di un movimento speculare rispetto a quello visto finora: le logiche e le pratiche più interessanti sono quelle che espandono la reciprocità in direzione dello scambio di mercato, anche in un’ottica di “ibridi organizzativi” (Venturi, Zandonai 2016); allo stesso modo, il modello piattaforma può essere adottato espandere la reciprocità in direzione della redistribuzione (Pais, Provasi 2015).

Secondo il modello proposto da Polanyi (1944 in Pais, Provasi 2015), nella redistribuzione le risorse vengono allocate da un centro dotato di autorità e in funzione di fini che lo stesso definisce come corrispondenti al bene collettivo. (…) I beni e le risorse allocate per via d’autorità possono essere i più vari ma in quanto sottoposti al regime redistributivo assumono per ciò stesso la caratteristica di beni pubblici: beni che rispondono a bisogni ritenuti degni di tutela pubblica e che sono perciò allocati in forza di diritti di cittadinanza definiti dalla legge. I beni così redistribuiti prescindono dall’identità personale di chi li riceve e sono rigorosamente standardizzati sulla base di routine professionali burocratiche.

La reciprocità si distingue dalla redistribuzione, innanzitutto, in quanto presuppone una sostanziale simmetria tra i soggetti coinvolti. Polanyi per caratterizzarla sembra ispirarsi principalmente alle forme non economiche di scambio caratterizzanti le società premoderne e le relazioni primarie (amicali, familiari, di prossimità) di quelle moderne. Si sostanzia di scambi asincroni e non equivalenti, tali da generare un “indebitamento reciproco positivo” mediato dalla riconoscenza o gratitudine personale. (…) Si tratta di una forma di reciprocità elettiva, che presuppone cioè un rapporto diretto tra soggetti che si conoscono e riconoscono reciprocamente. Ciò che qualifica i beni scambiati sotto questo regime di reciprocità è il valore di legame che contribuiscono a creare; sono pertanto a tutti gli effetti beni relazionali, il cui valore cresce nella misura in cui sono in grado di modificare l’identità stessa dei soggetti coinvolti e la loro relazione (Becchetti 2009).

Rispetto alle possibilità di contaminazione tra questi due modelli, un esempio interessante è dato dal crowdfunding civico. Il crowdfunding è la mobilitazione, grazie a internet e ai social network, di piccoli investimenti su singoli progetti (imprenditoriali, creativi, sociali o civici) da parte di un gran numero di individui (la “folla”), a cui generalmente corrisponde un sistema di ricompense simboliche, materiali o economiche (Pais, Peretti, Spinelli 2014). Viene abilitato attraverso piattaforme peer-to-peer e la è relazione simmetrica, con parziale venir meno dei confini tra progettista/produttore e consumatore. L’equivalenza è incompleta perché si finanzia un prodotto o servizio che non è stato ancora realizzato, di cui non è possibile accertare a priori il valore. Oltre a valutare il prodotto, è quindi importante raccogliere informazioni circa l’affidabilità del progettista. Il meccanismo che abilita questo processo, quando non c’è conoscenza diretta tra progettista e finanziatore, è di tipo reputazionale (Pais, Provasi 2015).

Il crowdfunding è civico quando il progetto vede il coinvolgimento diretto o indiretto dell’amministrazione pubblica, nel fornire contributi in termini economici, progettuali o di visibilità (Davies 2015). Generalmente è orientato alla produzione di beni comuni (commons), definiti come quelle risorse sfruttate da più utilizzatori i cui processi di esclusione sono difficili, costosi o non opportuni data la loro essenzialità per la vita della comunità. A differenza dei beni pubblici, quelli comuni possono anche essere rivali: il consumo del bene da parte di un soggetto può ridurre la possibilità di consumo da parte degli altri, come nel caso delle risorse naturali oggetto delle prime analisi di Elinor Ostrom (1990;2015).
In Italia le campagne di civic crowdfunding sono state il 6% del totale fino al 2015 ma il dato è in forte crescita (Pais 2015).

Tra le esperienze più interessanti, si segnala la campagna “Un passo per San Luca” promossa dal Comitato per il restauro del portico di San Luca, che ha visto la donazione iniziale di 100mila euro da parte del Comune di Bologna, a cui si sono poi aggiunti altri 239.743 euro da parte di 7111 donatori.

Il Comune di Milano – nell’ambito delle politiche Milano Sharing City approvate con delibera del 19 dicembre 2014 – ha da poco avviato la sperimentazione di un canale di finanziamento basato sul crowdfunding civico: tra i progetti di innovazione e imprenditoria sociale pubblicati sulla piattaforma selezionata dal Comune, quelli che riusciranno a raggiungere la metà dell’importo previsto otterranno un cofinanziamento per la restante parte, fino a un massimo di 50.000 euro a progetto, per uno stanziamento complessivo 400.000 euro.

Una forma di integrazione che presenta, appunto, tratti di ibridazione tra logiche di reciprocità e di redistribuzione e che, per distinguerla da queste, si potrebbe definire di “condivisione” (Pais, Provasi 2015): si basa su una forma particolare di reciprocità, quella che lega ciascun individuo alla comunità cui si sente di appartenere (reciprocità generalizzata, ma non universale) ma – come nella redistribuzione – i beni prodotti attraverso questo processo vanno a beneficio anche di chi non ha partecipato allo sforzo progettuale e finanziario.

In questa e altre esperienze, anche la pubblica amministrazione sta iniziando ad adottare il “modello piattaforma”: una evoluzione del passaggio da strategie di government, caratterizzate da autoritatività, verticalità e autoreferenzialità dei meccanismi decisionali pubblici e da dinamiche di comando e controllo, a strategie governance, caratterizzate da paritarietà, orizzontalità e apertura verso la cooperazione con la comunità e la società civile (March e Olsen 1989; 2015).

L’elemento di novità sta nel passaggio da un coinvolgimento del cittadino organizzato attraverso associazioni nelle politiche proposte dall’amministrazione a uno «Stato relazionale» o «Stato-regia» (Iaione 2015) che abilita l’iniziativa autonoma dei cittadini. La sfida è quella di riuscire a veicolare e valorizzare il singolo “contributo”, anche in forma sporadica e non organizzata. L’esperienza delle piattaforme di mercato dimostra che è possibile, sia dal punto di vista tecnico che da quello organizzativo, nell’ambito dei processi redistributivi questo passaggio deve però essere accompagnato da una riflessione sulle relative implicazioni sociali in termini di potenziale rafforzamento della partecipazione civica, riduzione delle diseguaglianze sociali e ripensamento del ruolo dell’amministrazione locale.

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Babyvez

Babyvez nasce dall’idea di un giovane uomo che vuole semplificare e rendere economicamente vantaggioso il modo di vestire i bambini.

Quali sono gli oggetti di consumo più comprati ma che si utilizzano per pochissimo tempo? Vestiti, indumenti e accessori per bambini.

Scarpe alla moda da centinaia di Euro, passeggini, vestiti per cresime e comunioni…. Costano tantissimo e dopo qualche mese rimangono inutilizzati.

Semplicemente dall’osservazione della crescita dei bambini da 0 a 12 anni e la rapidità con cui alcuni capi, indumenti, giochi, vengono sostituiti e “messi in soffitta” (alcuni dei quali, quasi tutti, praticamente nuovi o utilizzati pochissimo), è nato questo portale di compravendita o scambio di indumenti e accessori.

In questo modo le famiglie potranno vestire i propri bambini in maniera economica, con capi nuovi e accessori alla moda, senza contare che si potrà addirittura guadagnare dalla vendita dei propri oggetti inutilizzati.

Chiunque potrà inserire annunci, in modo gratuito e immediato, e allo stesso modo fare un offerta per acquistare qualcosa già presente in bacheca.

Bambini alla moda? Si può fare, in maniera semplice ed economica.

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Sharing economy, parte la discussione sulla legge: Airbnb sì, Uber no

Il testo composto da 12 articoli incardinato alle commissioni riunite Trasporti e Attività produttive. Antonio Palmieri, uno dei firmatari del provvedimento: «Puntiamo a ottenere un duplice vantaggio: da una parte ridurre l’evasione e l’elusione fiscale, dall’altra mettere un freno a fenomeni di concorrenza sleale».
Parte alla Camera nelle commissioni congiunte alle Commissioni riunite IX Trasporti e X Attività Produttive l’esame parlamentare dell’atto 3564 battezza “Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione” più nota come legge sulla sharing economy.

In Italia secondo uno studio di Collaboriamo.org e dell’università Cattolica le piattaforme collaborative nel 2015 sono 186 (+34,7 per cento rispetto al 2014) e, nota l’onorevole Antonio Palmieri (Forza Italia) secondo firmatario della proposta di legge e animatore dell’intergruppo per l’innovazione tecnologica, «ormai un quarto degli italiani si serve di questo genere di strumentazioni».

Antonio Palmieri: “vogliamo agevolare questo tipo di economia creando un meccanismo win-win sia per chi mette in condivisione, sia per chi fruisce del servizio», distinguendo in modo netto fra operatori professionali e chi invece utilizza la sharing economy come integrazione del reddito”

La norma ad oggi si compone di 12 articoli.
L’articolo 1 detta le finalità della legge, sostanzialmente favori l’economia della condivisione, mentre a delimitare il perimetro è il secondo articolo in cui dall’economia della condivisione sono escluse « piattaforme che operano intermediazione in favore di operatori professionali iscritti al registro delle imprese».

«L’obiettivo», spiega, Palmieri, «è quello di agevolare questo tipo di economia creando un meccanismo win-win sia per chi mette in condivisione, sia per chi fruisce del servizio», distinguendo in modo netto fra operatori professionali e chi invece utilizza la sharing economy come integrazione del reddito». Per questo all’articolo 5 si prevede un diverso trattamento a seconda del volume di affari: «…Ai redditi fino a 10.000 euro prodotti mediante le piattaforme digitali si applica un’imposta pari al 10 per cento. I redditi superiori a 10.000 euro sono cumulati con i redditi da lavoro dipendente o da lavoro autonomo e a essi si applica l’aliquota corrispondente.». «In questo modo», è ancora il deputato azzurro che parla, «favoriamo chi mette a disposizione una stanza, ma teniamo fuori gli affittacamere che magari si servono di piattaforme tipo Airbnb o servizi sul genere di Uber». Con questo filtro «dovremmo ottenere un duplice vantaggio: da una parte ridurre l’evasione e l’elusione fiscale, dall’altra mettere un freno a fenomeni di concorrenza sleale».

Infine altri due passaggi qualificanti del Pdl: le piattaforme della condivisione dovranno iscriversi a un Registro elettronico nazionale tenuto dall’ L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (articolo 3) e dovranno trasferire all’istat tutte le informazioni statistiche su utenti – naturalmente senza violare il diritto alla privacy – e fatturati (articolo 9) «in modo da costruire un quadro attendibile del peso economico della sharing economy in Italia», conclude Palmieri.

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Il futuro della sharing economy passa dalle cooperative

Se gli autisti di Uber invece di scioperare si auto-organizzassero come i fotografi del sito Stocky? Ecco come il platform cooperativism può cambiare davvero la vita dei freelance

Nel giro di pochi anni, il sogno di una “rivoluzione economica” basata sulla sharing economy si è trasformato nella on-demand economy. Da Couchsurfing a AirBnb, da BlaBlaCar a Uber: nelle differenze tra queste piattaforme c’è tutta la parabola che porta dall’immaginare un mondo in condivisione all’affrontare una realtà spesso fatta di assenza di diritti, bassi salari e cancellazione del welfare.

Ma siccome a ogni azione corrisponde una reazione, anche il sogno infranto della sharing economy ha dato vita alla nuova utopia del platform cooperativism, in cui alla logica della solidarietà che da sempre contraddistingue il cooperativismo si uniscono le opportunità della rete e di alcune tecnologie dalle potenzialità ancora in buona parte inesplorate.

“Si tende a considerare il platform cooperativism come una cosa di sinistra, ponendo l’accento sulle sue caratteristiche più vicine alla tradizione socialista, ma è una forma che attrae anche gli iper-liberisti.

È una realtà che supera la dicotomia destra-sinistra, perché sono cambiati i paradigmi e i meccanismi classici non si applicano più”, spiega Bertram Niessen, direttore di cheFare, una delle prime realtà in Italia a occuparsi del tema.

Fondamentalmente, l’obiettivo è quello di applicare alle piattaforme della sharing economy le logiche della auto-organizzazione. Pensate a come funzionerebbe Uber se tutti coloro i quali ne fanno parte fossero in cooperativa, condividendone valore, rischi, guadagni e avendo l’opportunità di decidere assieme la policy che regola la piattaforma (che è esattamente come funziona la start up La’zooz).

Facile a dirsi, più difficile a farsi. Soprattutto visto che, come sottolineato su CoExist, “Uber e AirBnb non sono diventate quello che sono grazie solo ai loro meriti, ma grazie anche a un ecosistema di investimenti ad alto rischio, incubatori, incentivi governativi e conferenze tech. (…) Il platform cooperativism ha bisogno di imprenditori che vogliano vedere la loro idea diventare un bene sostenibile, non solo un motore di profitti esponenziali e ricerca a tutti i costi della scalabilità”.

Le difficoltà non hanno però impedito a concrete realtà di platform cooperativism di sorgere e di provare a consolidarsi sul mercato. Uno dei casi più celebri è quello di Stocksy, un’agenzia fotografica basata su principi cooperativi fondata nel marzo 2013 da Brianna Wettlaufer e Bruce Livingstone.

stocky

Il concetto alla base è molto semplice: la cooperativa è gestita dagli stessi fotografi, che mantengono il 50% dei profitti generati dalla vendita dello foto e che, soprattutto, ricevono un dividendo dei guadagni alla fine di ogni anno. Con il risultato che, alla fine del 2015, Stocksy aveva redistribuito oltre 4 milioni di dollari in royalties ai suoi circa mille fotografi e raddoppiato il fatturato fino a 7,5 milioni di dollari.

“Il momento è quello giusto per andare nella direzione di una comunità solidale, in cui tutte le voci sono ascoltate e in cui un’equa distribuzione dei profitti consenta al maggior numero possibile di persone di beneficiarne, non solamente ai soliti pochi prescelti. Il platform cooperativism può diventare incredibilmente potente, capace anche di sfidare grandi corporation”, spiega a Wired Brianna Wettlaufer di Stocksy.

Più complesso e ancora in attesa di consolidarsi sul mercato è invece il caso di Fairmondo, fondata in Germania nel 2012 da Felix Weth, Anna Kress e Bastian Neumann e immediatamente soprannominata

“ l’alternativa cooperativa ad Amazon ed eBay ”

Un mercato online gestito in maniera solidale e che promuove (anche) società del commercio equo-solidale ed etico. Per fare un esempio, tra i prodotti più spinti in questo periodo c’è il nuovo Fairphone: “Il 2015 è stato un anno difficile, ma adesso ci siamo rafforzati e stiamo preparando l’espansione internazionale, con dei team che lavoreranno in Gran Bretagna e negli Stati Uniti“, ci racconta il fondatore della piattaforma, Felix Weth.

“Vogliamo essere parte del futuro di internet, in cui le piattaforme si organizzeranno in cooperative democratiche, trasparenti, possedute dagli utenti stessi. È un modello molto migliore di quello basato sulle grandi corporation e sulle startup rette dai soldi degli investitori”.

fairmondo

I soldi per lo sviluppo del software e l’espansione della piattaforma non vengono, per policy interna, dai venture capitalist, ma attraverso crowdfunding e grazie allo sforzo dei soci della cooperativa: “Le platform coop stanno avendo difficoltà a trovare finanziamenti in un ecosistema che andrebbe ripensato. Dobbiamo trovare soluzioni più innovative e più intelligenti, che portino risorse alle società che offrono il lavoro più utile alla società, non a quelle che estraggono il massimo del valore dalla società”, continua Felix Weth.

La strada, quindi, è ancora in salita. Senza contare le difficoltà a cui si va incontro necessariamente quando bisogna coordinare una proprietà distribuita e gestire gli affari in maniera cooperativa. Da questo punto di vista, però, un grosso aiuto potrebbe arrivare da una tecnologia che sembra davvero avere le potenzialità per cambiare il mondo del lavoro: blockchain, il meccanismo alla base dei Bitcoin.

blockchain

Un database distribuito, che sfrutta la tecnologia peer-to-peer, in cui chiunque può diventare un “nodo” del meccanismo scaricando l’apposito programma. Una sorta di libro contabile in cui sono registrate tutte le transazioni, che devono ricevere l’approvazione del 51% dei nodi. Il sistema di verifica distribuito permette quindi di saltare qualsiasi autorità centrale.

“Il platform cooperativism non dipende necessariamente dalla blockchain, ma le due cose vengono sempre più frequentemente associate per le possibilità che blockchain offre di automatizzare e certificare i passaggi necessari, aspetto che diventa decisivo in cooperative che magari hanno soci e attività in ogni angolo del mondo”, spiega il direttore di cheFare Bertram Niessen.

Una delle applicazioni più promettenti è quella degli smart contracts: contratti automatizzati sui quali, grazie alla blockchain, le clausole contrattuali (pagamenti, tempistiche, royalties ecc.) vengono automaticamente corrisposte. Ma ci sono applicazioni molto interessanti anche per il mondo dell’arte e della fotografia; nel caso dell’agenzia fotografica Stocksy, l’utilizzo della blockchain permetterebbe alle fotografie di portare con sé, in qualsiasi passaggio, tutte le informazioni necessarie: autore, prezzo, condizioni. Così, a ogni download, le royalties e i pagamenti previsti verrebbero immediatamente versati direttamente all’autore, senza più attese, controlli e soprattutto utilizzi pirata dell’opera stessa.

“Grazie alla blockchain si potrebbero risolvere molti dei problemi dell’arte digitale e della duplicazione delle opere, facendo in modo che tutti i dati importanti viaggino sempre con l’opera stessa”, prosegue il direttore di cheFare. Mentre Fairmondo, per ammissione dello stesso Felix Weith, sta seguendo con attenzione l’evoluzione di Etherium, una startup focalizzata sulle cripto-monete e gli smart contract.

La blockchain mostra già oggi le sue potenzialità per le realtà distribuite, com’è il caso del platform cooperativism. Ma per il futuro ci si può spingere ancora più in là e provare a immaginare fino a dove la decentralizzazione possa arrivare. Uber, Airbnb e anche servizi di crowdfunding come Kickstarter, in fondo, non sono altro che delle “directory glorificate” (come le chiamano su Backchannel); è possibile, grazie alla blockchain, immaginare un futuro in cui queste piattaforme diventino obsolete e in cui ognuno di noi condividerà i propri dati in maniera automatica e sicura e senza dover sottostare alle condizioni imposte da altri?

Siamo quasi nel regno della fantascienza, e probabilmente ci vorrà ancora parecchio tempo prima che tutto questo diventi realtà. Ma un futuro in cui i freelance potranno lavorare decidendo in autonomia le proprie condizioni e saltando ogni piattaforma di mediazione, oppure riunirsi in una cooperativa hi-tech in cui condividere rischi e opportunità, potrebbe non essere solo un’utopia.

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