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Il futuro della sharing economy passa dalle cooperative

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Se gli autisti di Uber invece di scioperare si auto-organizzassero come i fotografi del sito Stocky? Ecco come il platform cooperativism può cambiare davvero la vita dei freelance

Nel giro di pochi anni, il sogno di una “rivoluzione economica” basata sulla sharing economy si è trasformato nella on-demand economy. Da Couchsurfing a AirBnb, da BlaBlaCar a Uber: nelle differenze tra queste piattaforme c’è tutta la parabola che porta dall’immaginare un mondo in condivisione all’affrontare una realtà spesso fatta di assenza di diritti, bassi salari e cancellazione del welfare.

Ma siccome a ogni azione corrisponde una reazione, anche il sogno infranto della sharing economy ha dato vita alla nuova utopia del platform cooperativism, in cui alla logica della solidarietà che da sempre contraddistingue il cooperativismo si uniscono le opportunità della rete e di alcune tecnologie dalle potenzialità ancora in buona parte inesplorate.

“Si tende a considerare il platform cooperativism come una cosa di sinistra, ponendo l’accento sulle sue caratteristiche più vicine alla tradizione socialista, ma è una forma che attrae anche gli iper-liberisti.

È una realtà che supera la dicotomia destra-sinistra, perché sono cambiati i paradigmi e i meccanismi classici non si applicano più”, spiega Bertram Niessen, direttore di cheFare, una delle prime realtà in Italia a occuparsi del tema.

Fondamentalmente, l’obiettivo è quello di applicare alle piattaforme della sharing economy le logiche della auto-organizzazione. Pensate a come funzionerebbe Uber se tutti coloro i quali ne fanno parte fossero in cooperativa, condividendone valore, rischi, guadagni e avendo l’opportunità di decidere assieme la policy che regola la piattaforma (che è esattamente come funziona la start up La’zooz).

Facile a dirsi, più difficile a farsi. Soprattutto visto che, come sottolineato su CoExist, “Uber e AirBnb non sono diventate quello che sono grazie solo ai loro meriti, ma grazie anche a un ecosistema di investimenti ad alto rischio, incubatori, incentivi governativi e conferenze tech. (…) Il platform cooperativism ha bisogno di imprenditori che vogliano vedere la loro idea diventare un bene sostenibile, non solo un motore di profitti esponenziali e ricerca a tutti i costi della scalabilità”.

Le difficoltà non hanno però impedito a concrete realtà di platform cooperativism di sorgere e di provare a consolidarsi sul mercato. Uno dei casi più celebri è quello di Stocksy, un’agenzia fotografica basata su principi cooperativi fondata nel marzo 2013 da Brianna Wettlaufer e Bruce Livingstone.

stocky

Il concetto alla base è molto semplice: la cooperativa è gestita dagli stessi fotografi, che mantengono il 50% dei profitti generati dalla vendita dello foto e che, soprattutto, ricevono un dividendo dei guadagni alla fine di ogni anno. Con il risultato che, alla fine del 2015, Stocksy aveva redistribuito oltre 4 milioni di dollari in royalties ai suoi circa mille fotografi e raddoppiato il fatturato fino a 7,5 milioni di dollari.

“Il momento è quello giusto per andare nella direzione di una comunità solidale, in cui tutte le voci sono ascoltate e in cui un’equa distribuzione dei profitti consenta al maggior numero possibile di persone di beneficiarne, non solamente ai soliti pochi prescelti. Il platform cooperativism può diventare incredibilmente potente, capace anche di sfidare grandi corporation”, spiega a Wired Brianna Wettlaufer di Stocksy.

Più complesso e ancora in attesa di consolidarsi sul mercato è invece il caso di Fairmondo, fondata in Germania nel 2012 da Felix Weth, Anna Kress e Bastian Neumann e immediatamente soprannominata

“ l’alternativa cooperativa ad Amazon ed eBay ”

Un mercato online gestito in maniera solidale e che promuove (anche) società del commercio equo-solidale ed etico. Per fare un esempio, tra i prodotti più spinti in questo periodo c’è il nuovo Fairphone: “Il 2015 è stato un anno difficile, ma adesso ci siamo rafforzati e stiamo preparando l’espansione internazionale, con dei team che lavoreranno in Gran Bretagna e negli Stati Uniti“, ci racconta il fondatore della piattaforma, Felix Weth.

“Vogliamo essere parte del futuro di internet, in cui le piattaforme si organizzeranno in cooperative democratiche, trasparenti, possedute dagli utenti stessi. È un modello molto migliore di quello basato sulle grandi corporation e sulle startup rette dai soldi degli investitori”.

fairmondo

I soldi per lo sviluppo del software e l’espansione della piattaforma non vengono, per policy interna, dai venture capitalist, ma attraverso crowdfunding e grazie allo sforzo dei soci della cooperativa: “Le platform coop stanno avendo difficoltà a trovare finanziamenti in un ecosistema che andrebbe ripensato. Dobbiamo trovare soluzioni più innovative e più intelligenti, che portino risorse alle società che offrono il lavoro più utile alla società, non a quelle che estraggono il massimo del valore dalla società”, continua Felix Weth.

La strada, quindi, è ancora in salita. Senza contare le difficoltà a cui si va incontro necessariamente quando bisogna coordinare una proprietà distribuita e gestire gli affari in maniera cooperativa. Da questo punto di vista, però, un grosso aiuto potrebbe arrivare da una tecnologia che sembra davvero avere le potenzialità per cambiare il mondo del lavoro: blockchain, il meccanismo alla base dei Bitcoin.

blockchain

Un database distribuito, che sfrutta la tecnologia peer-to-peer, in cui chiunque può diventare un “nodo” del meccanismo scaricando l’apposito programma. Una sorta di libro contabile in cui sono registrate tutte le transazioni, che devono ricevere l’approvazione del 51% dei nodi. Il sistema di verifica distribuito permette quindi di saltare qualsiasi autorità centrale.

“Il platform cooperativism non dipende necessariamente dalla blockchain, ma le due cose vengono sempre più frequentemente associate per le possibilità che blockchain offre di automatizzare e certificare i passaggi necessari, aspetto che diventa decisivo in cooperative che magari hanno soci e attività in ogni angolo del mondo”, spiega il direttore di cheFare Bertram Niessen.

Una delle applicazioni più promettenti è quella degli smart contracts: contratti automatizzati sui quali, grazie alla blockchain, le clausole contrattuali (pagamenti, tempistiche, royalties ecc.) vengono automaticamente corrisposte. Ma ci sono applicazioni molto interessanti anche per il mondo dell’arte e della fotografia; nel caso dell’agenzia fotografica Stocksy, l’utilizzo della blockchain permetterebbe alle fotografie di portare con sé, in qualsiasi passaggio, tutte le informazioni necessarie: autore, prezzo, condizioni. Così, a ogni download, le royalties e i pagamenti previsti verrebbero immediatamente versati direttamente all’autore, senza più attese, controlli e soprattutto utilizzi pirata dell’opera stessa.

“Grazie alla blockchain si potrebbero risolvere molti dei problemi dell’arte digitale e della duplicazione delle opere, facendo in modo che tutti i dati importanti viaggino sempre con l’opera stessa”, prosegue il direttore di cheFare. Mentre Fairmondo, per ammissione dello stesso Felix Weith, sta seguendo con attenzione l’evoluzione di Etherium, una startup focalizzata sulle cripto-monete e gli smart contract.

La blockchain mostra già oggi le sue potenzialità per le realtà distribuite, com’è il caso del platform cooperativism. Ma per il futuro ci si può spingere ancora più in là e provare a immaginare fino a dove la decentralizzazione possa arrivare. Uber, Airbnb e anche servizi di crowdfunding come Kickstarter, in fondo, non sono altro che delle “directory glorificate” (come le chiamano su Backchannel); è possibile, grazie alla blockchain, immaginare un futuro in cui queste piattaforme diventino obsolete e in cui ognuno di noi condividerà i propri dati in maniera automatica e sicura e senza dover sottostare alle condizioni imposte da altri?

Siamo quasi nel regno della fantascienza, e probabilmente ci vorrà ancora parecchio tempo prima che tutto questo diventi realtà. Ma un futuro in cui i freelance potranno lavorare decidendo in autonomia le proprie condizioni e saltando ogni piattaforma di mediazione, oppure riunirsi in una cooperativa hi-tech in cui condividere rischi e opportunità, potrebbe non essere solo un’utopia.

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