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Badante di quartiere, un aiuto gratuito con lo “spirito del ballatoio”

Quartiere della Bovisasca, periferia nord ovest di Milano. L’80% vive in case popolari. Da due anni la Locanda di Gerico promuove questo progetto innovativo. Nei primi sette mesi del 2015 volontari e badanti di quartiere hanno svolto ben 3.168 ore di assistenza.
“Seguo una decina di persone. Quasi tutti anziani, ma anche di mezza età. Spesso basta una visita e si sentono già meglio”: Hana Ben Salem, tunisina in Italia da oltre un decennio, è una delle due badanti di quartiere della Bovisasca, 2.700 abitanti nella periferia nord ovest di Milano. L’80% vive in case popolari. Da due anni la Locanda di Gerico, associazione nata all’interno della parrocchia S.Filippo Neri, promuove questo progetto innovativo, che ha l’obiettivo di raggiungere quelle persone o famiglie in difficoltà che spesso non si rivolgono ai servizi sociali o non si fanno coinvolgere nelle attività proposte dalle altre associazioni del quartiere. Inoltre non tutti gli anziani hanno bisogno di un’assistenza continua: con le badanti di quartiere possono contare su un aiuto gratuito per qualche ora alla settimana. Hana e Maria Regina Barbone (l’altra badante di quartiere) non sono però sole nel loro lavoro. “Sono aiutate e supportate da una rete di circa 100 volontari – spiega Giuseppe Villa, vicepresidente della Locanda di Gerico -, che fanno parte della nostra associazione, delle Acli e della parrocchia. Sono persone che abitano nel quartiere. Vogliamo far riscoprire ‘lo spirito del ballatoio’, vale a dire che ciascuno è attento alle esigenze e ai bisogni dei propri vicini di casa o del condominio”.

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Nei primi sette mesi del 2015 volontari e badanti di quartiere hanno svolto ben 3.168 ore di assistenza: dalla visita a domicilio all’accompagnamento a visite specialistiche, dall’aiuto a fare la spesa alla pulizia della casa. “Il bisogno di fondo che hanno le persone è la compagnia – assicura Maria Regina -. A volte gli anziani mi chiamano perché non gli funziona qualcosa in casa, ma in realtà è perché si sentono soli”. Non sono solo gli anziani a soffrire di solitudine e abbandono. “Ci sono capitati casi di quarantenni che vivono in situazioni drammatiche – racconta Hana -. Spesso perché soffrono di depressione o sono malati”.

Il punto di forza delle badanti di quartiere è che alla Bovisasca ci vivono da anni. E ora tutti le conoscono. “All’inizio nelle case siamo entrate accompagnate dalle suore della parrocchia -ricorda Maria Regina-. Erano anziani o famiglie seguite già dalle religiose”. Ma ora capita che siano gli stessi abitanti del quartiere a fermare le badanti per segnalare casi di persone in difficoltà, che vengono poi aiutate dai volontari delle associazioni. “I servizi sociali e le istituzioni non possono fare tutto, c’è bisogno di creare nei quartieri una rete di solidarietà in cui sono gli stessi cittadini i protagonisti”, conclude Giuseppe Villa.

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Baratto solidale su facebook: così si aiutano le famiglie in difficoltà

Oggetti che non servono più “scambiati” con cibo, materiale per la scuola e altri oggetti per la Caritas: l’esperimento di Motta Di Livenza (Treviso). L’idea di Tiziana Bellina per continuare a fare volontariato: non potevo più andare al centro, ho cercato un modo per aiutare da casa

Un circuito di scambio solidale e centinaia di persone che lo alimentano, grazie a Facebook. Il meccanismo è lo stesso di tantissimi gruppi di regalo o scambio presenti sul social network: chi partecipa pubblica foto di oggetti di cui vuole disfarsi, e chi è interessato si fa vivo. Ma la differenza sta in uno speciale tipo di scambio proposto all’interno del gruppo: ad esempio un lampadario Tiffany per 12 euro di shampoo, un piattino in vetro satinato per un pacchetto di caffè, una gonnellina per 4 pacchi di farina, un portachiavi per 5 euro di detersivo per lavatrice, stivali in cambio di formaggini, scarpe Nike per pacchi di riso. I beni così scambiati vengono consegnati al Centro d’ascolto Caritas di Motta e da qui arrivano nelle mani di famiglie che faticano a procurarsi anche l’essenziale. L’idea è di Tiziana Bellina, uno degli amministratori del gruppo Facebook “Lo regalo o lo scambio se vieni a prenderlo” Motta/Oderzo e dintorni”, aperto ad ottobre 2014 con l’aiuto di alcune volontarie e il coinvolgimento della Caritas. “Ho avviato questo Gruppo – racconta – quando per motivi famigliari non potevo più andare a fare volontariato alla Caritas di Motta. Ho cercato un modo per continuare ad aiutare anche da casa, di sera o di notte, con il mio piccolo computer portatile”.

“Chiedo di volta in volta a Maria Secco, la coordinatrice del Centro, di cosa hanno bisogno – spiega – e in base alle sue necessità stabilisco il tipo di scambio sul gruppo Facebook. In vista del ritorno a scuola ho cominciato a chiedere quaderni e colori, perché sappiamo che a inizio settembre alcune famiglie verranno a domandarne”. Lo scambio, sottolinea Bellina, ha un valore pedagogico. Ma il vantaggio per chi si aggiudica un bene è anche la convenienza di trovare prezzi molto più bassi di un negozio. Oltre al “gusto del coinvolgimento diretto in un progetto di solidarietà”. Poi ci sono “i furbetti che fanno finta di fare beneficenza e mi portano cose rotte. – raccomnta Bellina – Io ringrazio comunque… e ogni tanto faccio un giro in discarica”.
Ora l’auspicio è che anche altri possano avviare gruppi analoghi: “Sarebbe una grande soddisfazione. L’idea non aspetta altro che di essere clonata!”

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Indovina chi viene a cena con VizEat

Aggiungi un posto a tavola, che c’è un host in più. Sono già mille e 700 gli iscritti alla piattaforma VizEat, che permette di organizzare eventi gastronomici a casa propria

Uno degli aspetti più affascinanti del viaggio è indubbiamente quello gastronomico: assaggiare i piatti tipici, scoprire le ricette della tradizione locale e trovare punti di incontro tra culture diverse, magari chiacchierando con una famiglia del posto, davanti a una bella cena casalinga.

Gli abitanti di un luogo sono l’anima della propria città e i custodi dei suoi segreti: conoscere le persone significa partecipare alla storia di un luogo e della sua cucina. Ed ecco che condividere un piatto assume un significato diverso, che non si limita alla pubblicazione della foto delle specialità assaggiate in vacanza: ora i social network salvaguardano il patrimonio della cultura gastronomica, dando alle persone la possibilità di conoscersi sedendo allo stesso tavolo. Aprendo una finestra sullo schermo del pc, si aprono le porte di casa in 55 paesi di tutto il mondo.

È il progetto di VizEat, piattaforma nata nel 2014 e in continua crescita, che sottolinea come a spingere una persona a viaggiare sia in primo luogo la curiosità e la voglia di sperimentare. Per assecondare e facilitare l’attitudine del viaggiatore a scoprire la realtà locale, VizEat ha radunato migliaia di utenti, da Parigi a Hong Kong, passando per Roma e Milano: una comunità di mille e 700 cittadini virtuali che abitano il mondo del mangiare senza frontiere. Solo in Italia ci sono già 400 host, distribuiti in alcune delle località più suggestive del Paese: Milano, Roma, Venezia e Napoli.
Creare un profilo su VizEat è semplice e gratuito: una volta iscritti, si propone un menu indicando il prezzo e la data dell’evento, che può essere una cena, un pranzo, un aperitivo o un brunch. L’ospite paga sul sito, e il giorno seguente VizEat invia la cifra al padrone di casa tramite carta di credito. Sul sito è possibile verificare l’identità di tutti i padroni di casa, a conferma del loro impegno e della loro serietà, e per evitare spiacevoli inconvenienti tutti gli utenti sono tutelati da un’assicurazione che copre i danni fino a 100 mila euro.
VizEat colleziona storie di luoghi e persone, contribuendo a diffondere un nuovo modo di viaggiare che può essere riassunto in una semplice frase: in tutto il mondo seduti intorno a una tavola.
www.vizeat.com

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Dal possesso alla condivisione: una rivoluzione silenziosa

Ricerca di nuovi valori, maggiore consapevolezza e crisi economica stanno facendo ”dilagare” la sharing economy. Siamo forse di fronte una rivoluzione e non ce ne siamo accorti?

Un fenomeno in costante crescita da qualche anno, condividere e valorizzare spazi, esperienze, mobilità, la casa, i prodotti agroalimentari, esperienze di business con l’aiuto della rete si sta rivelando una modalità per combattere la crisi e mutuare nuovi modelli. La sharing economy comporta una nuova organizzazione della domanda e dell’offerta, in cui le persone contano molto di più. In questa nuova economia non vale il modello tradizionale che vede la distinzione tra produttori e consumatori, ma si va definendo un modello peer in cui i differenti soggetti si mettono sullo stesso piano, si scambiano beni e servizi sulla base di reciproche promesse, che diventano penalità nel caso in cui non vengano mantenute. Sintetizzando, c’è la possibilità di utilizzare un bene senza doverlo necessariamente acquistare. Per molti studiosi, questo cambiamento di paradigma, mette in discussione consolidati modelli economici, in quanto, in molti casi, si passa dalla cultura del“possesso di beni e servizi all’accesso dei suddetti”.Per altri, questo piccolo e concreto motore alternativo di sicuro non soppianterà l’economia tradizionale, ma proponendo modelli complementari rispetto a quelli esistenti e coinvolgendo amministrazioni pubbliche, imprese tradizionali, nuovi business, comunità e singoli cittadini, potrà portare benefici sociali ed economici anche importanti.

Secondo una ricerca Ipsos ( 2014)commissionata da Airbnb (condivisone di case vacanza) e BlaBlaCar (condivisione di auto per viaggiare insieme e dividere le spese), si fotografa che in Italia 75% della popolazione ha sentito parlare di sharing economy e, tra coloro che conoscono questo fenomeno, il 67% lo identifica con beni e servizi, mentre il 21% lo associa a un vantaggio economico.L’immagine della sharing economy è positiva presso la maggior parte degli intervistati, con il 31% interessato a utilizzarla, un 11% che si dichiara già utilizzatore e solo il 27% che si è invece dimostrato negativamente orientato verso il fenomeno.

Interessante anche la parte relativa all’identikit dell’utente tipo è interessante: 18-34 anni, abita in Centro, Sud o Isoleed è laureato e di classe sociale alta e media. Un dato interessante: il tanto discusso ceto-medio borghese che riorganizza la propria vita e riflette sui propri bisogni, si parte dalla convenienza per approcciare a nuove soluzioni. Il potenziale risparmio è la molla che sta provocando questo cambiamento ma dimostra come alla base ci sia anche una scelta di tipo valoriale.

Soltanto dalla lettura di questi dati, inizia a diventare inverosimile pensare che questo fenomeno non continuerà a dilagare, fenomeno che mette in discussione il ruolo stesso di consumatore o utente. Consumatore o utente che entra in una delle fasi di produzione del bene o di erogazione del servizio: da consumatore a prosumer.

Se ne sta accorgendo anche la politica del “palazzo” e se ne sono accorte le amministrazioni più attente, a partire dall’amministrazione milanese che lo scorso dicembre ha approvato una delibera, unica in Italia, in cui si dichiara che “sussistano i presupposti per cui la città di Milano possa assumere un rilevante posizionamento a libello europeo nella definizione di misure e modelli per le shareable cities, per una città all’avanguardia in cui sorgono economie locali autosufficienti dove i vicini si conoscono e gli imprenditori innovatori trovano spazio, dove le aziende possono crescere e nuovi paradigmi di welfare sorgere, dove i giovani possono trovare concrete possibilità per il proprio futuro”.

Con questo atto, l’Amministrazione locale, quella di prossimità, si posiziona come uno snodo fondamentale in questo processo che ha molte valenze sociali mettendo al centro il concetto di “comunità” stesso. Comunità che si stanno ridefinendo sulla base dell’ innovazione tecnologica, dei cambiamenti climatici , dei flussi migratori , e dei processi di gentrificazione.

Per quanto riguarda la promozione e la regolamentazione di questo fenomeno, molto interesse si è verificato per le forme di sostegno e diffusione all’economia collaborativa, molta preoccupazione si riscontra su come prevedere l’intervento regolatorio, contemperando l’esigenza di non “soffocare” nuove forme di innovazione ma non lasciare nemmeno vuoti normativi nelle forme di tutela. Si attende e si chiede, quindi, un intervento legislativo lungimirante orientato a far crescere il settore, monitorando i livelli di qualità del servizio,fornendo risposte in termini di tassazione dei redditi da sharing economy, spesso di difficile misurazione, individuando la responsabilità legale di chi offre servizi, e ancora regolando le questioni inerenti la privacy e l’utilizzo dei dati, migliorando il sistema di gestione dei reclami. Questo è solo qualche esempio. Un intervento normativo importante in grado di favorire la concorrenza ed aumentare il sistema di garanzie. Il recente ed attuale caso Uber ( condivisione auto) attesta l’urgenza di questo intervento. Il rischio, nel passaggio da consumer a prosumer, è quello di non “condividere” un impianto di tutele (anche se incompleto) per il consumatore-utente conquistato negli ultimi decenni. Accanto al concetto di “sharing economy, è opportuno introdurre quello di “sharing rights”. Nuove sfide e nuovi impegni per i prossimi anni.

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La sharing economy rivoluziona il sociale

Accordi fra sharing e imprese sociali, ecco come influiscono sull’economia.

Sono 138 le piattaforme collaborative che operano in Italia, divise in 11 diversi ambiti tra i quali i più interessanti sono il crowdfunding (con il 30% delle piattaforme), i beni di consumo (20%) i trasporti (12%), il turismo (10%), il mondo del lavoro (9%). E’ quanto emerge da una ricerca curata da Collaboriamo.org. Ma soltanto l’11% dei servizi collaborativi – quelli cioè che mettono in contatto persone per scambiare e condividere beni – sono registrati come associazioni o imprese sociali. Infatti, sebbene siamo molti i punti in comune tra il terzo settore e le piattaforme di sharing, i due mondi comunicano appena. Eppure un incontro porterebbe degli enormi vantaggi a entrambe le parti. Stringendo degli accordi con le piattaforme collaborative, le imprese sociali potrebbero, per esempio, rinnovare i servizi esistenti.
Alcuni esempi: Tabbid, piattaforma che mette in contatto persone per eseguire piccoli lavoretti, ha promosso un accordo con una cooperativa per includere i detenuti all’interno della propria piattaforma. Timerepublik, banca del tempo digitale e Scambiacibo o Ifoodshare che promuovono lo scambio in eccedenza di cibo, permettono a servizi come il Banco Alimentare e le banche digitali di raggiungere un pubblico più ampio. Rete del Dono, piattaforma di crowdfunding per la raccolta di donazioni online a favore di progetti d’utilità sociale ideati e gestiti da organizzazioni non profit, permette, come gli altri servizi di questo tipo, di trovare nuove forme di sovvenzioni in un momento in cui le istituzioni non sono più in grado di erogare finanziamenti. SouthwarkCircle, piattaforma di incontro fra volontari e anziani o Bircle, servizio che mira a creare itinerari di viaggio accessibili attraverso guide costruite con la partecipazione dei cittadini, sono, invece, nuovi servizi sociali pensati già in ottica collaborativa.
In questo modo le imprese sociali, attraverso il modello di servizio proposto dalle piattaforme di sharing economy potrebbero recuperare il rapporto con i cittadini che nel tempo si è in parte perduto, trovare nuovi modelli di business, replicare su diversi territori il proprio servizio e rendere l’offerta personalizzata e facilmente raggiungibile. Dall’altra parte i servizi di sharing economy potrebbero trovare nel terzo settore un pubblico culturalmente già predisposto a condividere, e, soprattutto, nel modello di gestione tipico del non profit, la cooperativa, una tipologia giuridica più inclusiva, in grado di garantire una più giusta distribuzione degli utili tra membri e piattaforme.

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Con Uber, contro il mercato delle tribù

In questi anni il mercato è divenuto sempre più incontrollabile. Staccatosi da una dimensione tutta reale, fatta di luoghi, documenti cartacei e strumentazioni, s’è spostato su Internet ed esiste sotto forma d’app. Una legislazione arcaica e restrittiva come quella italiana, che tende a creare categorie entro le quali far agire il cittadino per tassarlo e regolamentarne l’azione, non riesce più a star al passo con quella forma di libero mercato fatta di collaborazioni e di condivisione, e che si svolge in una sorta di zona grigia, al limite con l’illegalità.

Finora avevano beneficiato tutti della zona grigia. I barbieri tagliavano i capelli a domicilio, rigorosamente in nero. Pensionati con abilità pratiche s’improvvisavano tuttofare e arrotondavano la pensione facendo riparazioni domestiche. Tassisti facevano pagare un po’ di più il turista straniero, con la connivenza di tutti i colleghi, o si offrivano di trasportare in giro carichi poco legali o signorine troppo procaci. Il tutto accadeva nell’ombra, col beneplacito delle autorità — impossibilitate a controllare tutti per ovvi motivi pratici — e con grande spirito di collaborazione tra i coinvolti. L’idea alla base di tutto era che bisognava mangiare tutti, e ha funzionato finché gli attori sul mercato sono rimasti sempre gli stessi.

> Uber e il neoluddismo di un Paese in fuga dalla realtà

Poi sono arrivate le app per smartphone, ed è arrivata sul mercato una generazione di disoccupati che sa usare benissimo Internet e ha bisogno di campare esattamente come tutti gli altri. Il problema di questa nuova generazione è che ha sfruttato la zona grigia in modo massiccio, industriale, sistematico, organizzandosi su Internet. Ne ha fatto non più una stradina dissestata per pochi, ma una grande via consolare lastricata per molti. Per tutti, anzi. Nascono così UberPOP, Airbnb, BlaBlaCar e tutti quei servizi che permettono a chiunque di divenire un fornitore di servizi.

La recente protesta dei tassisti contro UberPOP — l’ennesima — sembra ancor una volta dimostrare che i tassisti non vogliono la legalità totale nell’esercizio della loro professione: vogliono semplicemente che la concorrenza sia dichiarata illegale dalle autorità. La categoria dei tassisti pretende che vengano effettuati controlli sulle app, e non in modo generico sulla loro attività di trasporto pubblico. Un controllo generico metterebbe in pericolo la zona grigia nella quale molti di loro hanno sempre operato senza scatenare alcuna protesta. Di tanto in tanto, in passato, c’era qualche sciopero contro i tassisti abusivi, coloro che si fingevano tassisti senz’averne la licenza. Anche in quel caso, i tassisti regolari chiedevano alle forze dell’ordine e alle autorità di scacciare dal mercato la concorrenza sleale; ma non hanno mai chiesto di controllare quelli che, tra di loro, commettessero quelle piccole irregolarità che permettono a tutti di campare e sulle quali si tace di comune accordo. Eppure queste irregolarità, quando scoperte, danneggiano l’immagine dell’intera categoria: perché non ci sono state proteste? Come detto, le piccole irregolarità commesse nella zona grigia non intaccavano pesantemente l’intera categoria. Erano al massimo una rogna per quei pochi colleghi che operavano nelle stesse zone, ma in linea generale il mercato non ne usciva modificato.

> Uber non è illegale, ecco perché

Uber, invece, è giunto a modificare totalmente gli equilibri e ha trasformato la zona grigia non più in un rifugio temporaneo per pochi, ma nell’unica zona in cui operano centinaia di nuovi fornitori di servizi. Non c’è più l’abusivo che finge d’appartenere alla categoria privilegiata, ma c’è qualcuno che si tiene ben distante dalla categoria e che anzi offre i suoi servizi mascherandoli da semplice favore che viene poi ripagato da chi lo riceve. Un do ut des che ha la pretesa di restare fuori dall’àmbito commerciale e che giunge sul mercato come nuova forma di collaborazione tra cittadini/utenti. Una collaborazione organizzatissima, cui le categorie tradizionali non possono opporsi.

Per i tassisti, Uber è lo straniero che è venuto a rubare il lavoro, senza sottomettersi ai piccoli cartelli locali e a quelle leggi non scritte del «come si è sempre fatto». È un po’ come il medico giunto nel villaggio in cui il monopolio delle cure era in mano allo sciamano da secoli. Per quanto lo sciamano possa additare il nuovo giunto come servitore del demonio, è solo questione di tempo prima che gli utenti si rendano conto della maggior efficienza del medico e abbandonino il vecchio monopolista.

Il fenomeno della zona grigia non ha colpito solo i tassisti, sia chiaro. Ultimamente sono sempre più frequenti gli «home restaurant», servizi di ristorazione a domicilio. Dei perfetti sconosciuti s’incontrano a casa di un cuoco improvvisato, previo accordo, e mangiano esattamente come si farebbe al ristorante. Nulla impedisce, infatti, alle persone di ricevere gente in casa e d’offrirle un pranzo o una cena, e nulla impedisce ai convitati di pagare il cuoco per il servizio offerto. Dopotutto, è ciò che si fa spesso tra amici. In molte zone d’Europa, gli home restaurant si stanno organizzando in grossi network che controllano persino la qualità dei pasti offerti e garantiscono sui prezzi. Insomma, il fenomeno s’è esteso, facendo leva sull’impossibilità di controllare ogni ricevimento privato e sul diritto di ricevere in casa chiunque si desìderi, amico o straniero. In Italia c’è stata già qualche lieve protesta contro gli home restaurant, e probabilmente tra qualche anno assisteremo a uno sciopero nazionale dei ristoratori, che chiederanno al governo maggiori controlli sulle app che permettono l’incontro fra domanda e offerta di servizi di ristorazione a domicilio. Sosterranno che si tratta di una pratica abusiva che va sradicata, ma non pretenderanno mai che i controlli siano effettuati sui locali di tutti i ristoranti, per capire chi svolge la professione in locali abusivi o chi paga l’affitto in nero: questo sarebbe troppo. L’unica preoccupazione è scacciare la concorrenza con la legge.

> Uber è solo l’inizio

Uber non è semplicemente un’azienda in crescita: è un fenomeno. È il mercato del nostro secolo, di un mondo interconnesso che tenta di sfuggire ai lacci dello Stato e d’organizzarsi in tanti porti franchi nei quali l’aspetto volontaristico e la fiducia prevalgono sulle garanzie che lo Stato si arroga d’offrire. Opporsi a Uber sarebbe come opporsi all’invenzione della stampa con la sola motivazione che essa avrebbe tolto il lavoro ai copiatori di libri. Purtroppo o per fortuna, il progresso mieterà sempre delle vittime, ma a nessuno è vietato adeguarsi: semplicemente, fa più comodo protestare coi governi e chiedere di fermare il mondo per fare un favore a pochi.

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