1

Lo specchio costa 3 ore

Al Mercato di Piazza Grande si paga in volontariato.
Dal 14 maggio ogni fine settimana c’è #socialweekend: un centinaio di mobili recuperati da Piazza Grande grazie al progetto “Cambia il finale” di Hera e Last Minute Market potranno essere acquistati in cambio di volontariato. Grazie al Mercato, l’associazione ha dato lavoro a 11 persone svantaggiate.
“Uno specchio può costare tre ore, una camera da letto cinque. Ma il tempo è indicativo, ognuno dona quello che può”. Alessandro Tortelli, presidente dell’associazione Amici di Piazza Grande, spiega così il #socialweekend, la nuova iniziativa del Mercato di Piazza Grande realizzata in collaborazione con Last Minute Market ed Hera. Obiettivo? Vendere mobili e oggetti in cambio di ore di volontariato. Ogni fine settimana i visitatori potranno scegliere i pezzi contrassegnati dal bollino #socialweekend e, dopo aver lasciato i dati necessari per essere ricontattati e un’indicazione di massima circa la disponibilità a donare il proprio tempo a Piazza Grande, potranno portarli via senza pagare. “Ognuno potrà scegliere in base alle sue attitudini o competenze di dedicare un po’ del suo tempo a una delle attività che l’associazione porta avanti a favore delle persone senza dimora, come l’unità mobile, la scuola per i senzatetto o le attività per i migranti – spiega Tortelli – Il nostro obiettivo è evitare che mobili ancora in buone condizioni finiscano in discarica. È la nostra versione del ‘Black Friday’ solo che lo sconto diventa volontariato”.

Piazza Grande è una delle 19 onlus coinvolte nel progetto “Cambia il finale” promosso da Hera in collaborazione con Last Minute Market nei comuni in cui è presente la multiutility da Rimini a Modena. “Il progetto è innovativo – spiega Barbara Sentimenti della direzione ambientale di Hera – I cittadini possono donare beni ingombranti prima che si trasformino in rifiuto rispondendo a un obiettivo ambientale perché in questo modo alimentano il riuso. Poi ci sono i risvolti sociali, con questo progetto si sostengono le attività delle onlus che ritirano i beni presso i cittadini e si sostiene l’inserimento di persone svantaggiate nelle stesse”. I cittadini possono chiedere il ritiro chiamando il numero verde di Hera, “i nostri operatori sono formati per dare come prima indicazione la possibilità di donare i beni che sono ancora in buone condizioni”, oppure possono chiamare direttamente l’associazione che poi si occuperà del ritiro. Nel 2015 con il progetto “Cambia il finale” sono state ritirate 714 tonnellate di materiale, per circa 94 mila pezzi. Da quanto è attivo il progetto (marzo 2014) sono 1.200 le tonnellate di materiale recuperate. “Il gruppo crede molto in questo progetto e intende portarlo avanti anche nel 2016”, conclude Sentimenti.

Grazie al progetto “Cambia il finale” nel 2015 Piazza Grande ha registrato 1.373 contatti telefonici e ha ritirato materiale per oltre 100 tonnellate. I mobili raccolti sono stati utilizzati per arredare 93 appartamenti destinati ad accogliere persone senza dimora (a oggi sono 87 gli adulti e circa 66 le famiglie inserite) e per allestire lo spazio espositivo del Mercato di Piazza Grande. “Obiettivo del Mercato è arredare casa per chi non ce l’ha, dare un lavoro a chi non ce l’ha o l’ha perso e ridurre lo spreco – spiega Tortelli – Grazie alle vendite di mobili e oggetti del Mercato l’associazione ha dato lavoro a 11 persone svantaggiate”. Da dicembre a oggi sono circa 2 mila le persone che hanno visitato il mercato e sono diventati clienti-donatori.

link all’articolo




This map contains places within Rome that value the sharing of resources


Ad ottobre 2013 si è svolta una giornata di incontro, dove si è cercato di inserire in una mappa i luoghi della condivisione a Roma: coworking, hackerspaces, parchi pubblici, biblioteche, carsharing, bikesharing, orti sociali, etc.




Teiuto la piattaforma di social e-learning

La startup Appsolut Studio, formata da quattro studenti dell’Università di Bologna, ha lanciato un servizio gratuito che mette in contatto tutor e apprendisti e permette di tenere lezioni in streaming anche a più persone contemporaneamente in discipline che vanno dalla fotografia all’economia aziendale .
Prendere ripetizioni di inglese o fotografia, imparare a suonare la chitarra o il pianoforte, anche se l’insegnante sta a 200 chilometri di distanza. E tutto gratuitamente per i tutor. L’idea di una piattaforma di social learning online che metta in contatto tutor e “apprendisti” è venuta a Appsolut Studio, un gruppo di quattro universitari dell’Alma Mater di Bologna tra i 20 e i 24 anni: Marcello Violini, Christian Filippetti, Lorenzo Nargiso (studenti di informatica per il management) e Federico Giuggioloni (studente di informatica).

“Teiuto” – così si chiama la piattaforma – dà la possibilità a chiunque abbia una conoscenza in una disciplina, di mettersi in “vetrina” e guadagnare da subito sfruttando le proprie doti. Le lezioni si svolgono in videoconferenza e il tutor può aggiungere una cerchia di allievi, organizzare un calendario, comunicare con gli studenti usando un servizio di messaggistica interna. Basta cliccare su https://teiuto.com, registrarsi come studente o tutor, selezionare la materia di interesse e la città e mettersi in contatto con l’insegnante scelto.

“Dei pagamenti non ci occupiamo noi altrimenti questo implicherebbe dei costi per noi e quindi per gli utenti, invece la gratuità è uno dei nostri punti forti, insieme alla qualità degli strumenti che mettiamo a disposizione” spiega Marcello Violini. “Lasciamo quindi che la questione economica se la gestiscano tra loro. Per ora noi non ci gaudagniamo niente, anzi… mettendo a disposizione anche lo streaming dei dati ci rimettiamo. Contiamo di monetizzare in futuro, senza però che costi un euro ai nostri iscritti. Per ora, a soli 3 giorni dal lancio contiamo già 450 iscritti tra tutor e ‘apprendisti’, solo grazie alla diffusione virale via social network. Con oltre mille materie tra cui scegliere, vorremmo diventare una community per la conoscenza”.

link all’articolo




La biblioteca delle cose

Gli spazi nei quali mettere in comune utensili, saperi e tempo stanno emergendo un po’ ovunque nel mondo. Si tratta in primo luogo di luoghi comunitari di creatività. Ecco come nascono e come funzionano.
In media i trapani elettrici vengono usati per soli tredici minuti nella loro durata di vita. Chiaramente non è necessario che ciascuno ne possegga una e in primo luogo spesso sono troppo cari per molti da comprare, comportando inoltre molta creatività non sfruttata e una enorme quantità di spreco di denaro. E il trapano non è l’unico oggetto a raccogliere costosamente polvere sugli scaffali.

Per contrastare questo curioso mix di iper-rifornimento e sotto-disponibilità, le esperienze di condivisione di utensili (tool-sharing libraries) stanno emergendo un po’ ovunque nel mondo. Queste realtà concedono ai loro membri di accedere a un’ampia gamma di utensili per un costo nettamente inferiore a quello pagato per l’acquisto individuale e possono divenire veri e propri centri comunitari creativi.

Uscendo da una cabina di polizia stile Dr. Who vicina al porto cittadino, la Edinburgh Tool Library va avanti dagli inizi del 2015 e ora conta 1.200 utensili, 180 membri e cresce molto in fretta. Abbiamo raggiunto il suo fondatore, Chris Hellawell, per scoprire come trasformare una vasca da bagno in un pezzo di arredamento, lavorando per attirare giovani padri insieme ai loro figli e quant’altro ha contribuito al successo della “biblioteca” di utensili.

too

Perché un’esperienza di condivisione di utensili? Perché gli utensili si rivela adatti per un’iniziativa del genere?

Si possono evidenziare diversi aspetti. C’è un aspetto umano basilare nell’utilizzo di utensili per fare le cose più efficientemente o qualcosa che non potresti fare senza di essi, quell’impulso creativo che tutti noi abbiamo. Come esseri umani, vogliamo realizzare cose.

Vi è anche un importante aspetto psicologico, quel senso di benessere, salute e conquista correlato all’atto creativo. Penso che culturalmente ci stiamo allontanando da esso. La cultura in Occidente è molto più incentrata sui consumi – possedere e avere cose – piuttosto che sull’idea di condivisione. L’istinto ci porta ad andare e comprare un prodotto piuttosto che dire “Come posso realizzarlo da me?”.

L’atto di fare è veramente terapeutico, e se puoi offrire alle persone questo processo senza che gli costi una fortuna, allora ne beneficeranno sia sul piano dei risultati concreti, rendendo le loro abitazioni più belle, che in termini di benessere mentale.
È importante che la gente abbia facile accesso a questi utensili, proprio in virtù di quel senso di conquista che deriva dalla capacità di fare. Una delle grandi cose della condivisione degli utensili è che molto spesso le persone vengono a prenderli in prestito perché in realtà non sanno bene cosa vogliono realizzare o perché necessitano di un particolare strumento che non hanno mai utilizzato prima.

Per quanto riguarda la questione prezzo: la media delle famiglie inglesi spende ogni anno 110 sterline in attrezzi, mentre noi chiediamo un pagamento annuale di 20 sterline ma, se sei disoccupato o persona a basso reddito, puoi pagare in base alle disponibilità.
Abbiamo avuto una artista che ha usato i nostri utensili per realizzare un set di tre pezzi di arredamento da giardino ricavato da un vecchio bagno. Ha preso in prestito una molatrice angolare, che non aveva mai utilizzato prima, e ha sezionato una vasca per realizzare un sofà.

Ora la sta usando per vendere il suo lavoro e la sta portando con sé in giro nei festival del paese. Non le sarebbe mai venuto in mente di fare una cosa simile: in pochi si metterebbero a comprare un arnese così grande come una molatrice angolare solo per provare.

Che tipologia di persone sono i vostri soci?

Penso vi sia un’equa ripartizione tra coloro che sono interessati al discorso della sostenibilità e le persone a basso reddito, che vengono per risparmiare. Dal punto di vista della campagna ambientalista, è molto interessante perché quelle persone solitamente poco sensibili alle tradizionali campagne di riciclo, vengono comunque da noi per risparmiare soldi e perché non possono andare e comprare queste cose.

E cosa ha spinto te a farlo?

Ho studiato scienze ambientali e silvicultura, ma ho sempre lavorato per molti enti di beneficienza che si occupavano di disoccupazione e disabilità, aiutando le persone che non avevano le stesse opportunità degli altri. Così, dal mio punto di vista, sono contento di avere la possibilità di unire le due cose.

Come funziona la struttura dell’organizzazione?

Al momento, io faccio la maggior parte del lavoro, ma vorrei farla crescere in modo da renderla autosufficiente. Abbiamo cinque soci in consiglio: un presidente, un tesoriere, un segretario e abbiamo appena eletto uno dei nostri soci come tramite per veicolare gli interessi dei soci.

Incluso il consiglio d’amministrazione, vi sono circa dodici volontari che offrono il loro aiuto il sabato. Altri volontari sono tra i soci che vengono per aiutare quando collaboriamo con i gruppi delle varie comunità. Recentemente, abbiamo lavorato con uno di questi che ha costruito una wiki-house – una casa per una comunità open-source – e il progetto è stato realizzato con l’aiuto di alcuni nostri volontari e dei nostri utensili.

Come si svolgono normalmente?

Principalmente online. Una volta a settimana, il sabato mattina, affittiamo una cabina di polizia, che sarebbe il nostro punto ritiro e consegna. Le persone possono venire per registrarsi e versare la quota associativa, a seconda di quanto puoi permetterti. Gli spieghiamo le regole e così possono accedere al nostro database online. Se, ad esempio, vogliono una molatrice angolare, fanno una ricerca e gli appare quante ne abbiamo a disposizione; a quel punto loro posso richiederla e, se nessun altro l’ha prenotata, io confermo la richiesta. A quel punto il sabato la consegno alla cabina di polizia, il che vuol dire che tutto quello che dobbiamo fare è portare gli attrezzi solo una volta la settimana.
Attualmente abbiamo 180 membri. A questi livelli non abbiamo bisogno di avere qualcuno in sede tutti i giorni e questo si adatta alle esigenze delle persone perché la maggior parte preferisce dedicare il weekend a lavorare ai propri progetti. Questo programma settimanale, inoltre, fornisce alle persone una scadenza per i loro progetti, cosa estremamente utile. A molti piacciono le biblioteche dove si sa che è necessario finire un libro entro una certa data; allo stesso modo le persone tendono a completare le loro cose perché devono restituire gli utensili in una settimana. Spesso ci dicono che se avessero avuto quegli utensili di proprietà, ci avrebbero impiegato tre o quattro mesi, fino a farsi passare la voglia di farlo. Penso che abbiamo salvato un bel po’ di relazioni!

Vi sono altri in Edimburgo che vorrebbero fare lo stesso? Il vostro è un modello che chiunque può copiare?

Come impresa sociale, abbiamo comunque bisogno di generare economie e pertanto abbiamo qualcuno che si occupa di fundraising e del modello che utilizziamo. Voglio dimostrare che questo modello funziona e, se noi riusciamo ad avere un colpo di fortuna, non vuol dire che sia così per tutti, per cui dobbiamo dimostrare che non si tratta di un caso fortuito.

Attualmente siamo l’unica realtà del genere in Gran Bretagna e questo ci dà molto prestigio e visibilità, ma se qualcun altro dovesse aprirne uno in un’altra parte del paese, probabilmente non avrebbe la stessa visibilità e questo potrebbe diminuire il successo. Io vorrei che altri adottassero lo stesso modello, ma voglio che noi continuiamo a fare le cose per primi. Stiamo sviluppando uno schema di occupabilità basato sul rapporto tutor-allievo che pensiamo rappresenti una novità assoluta nel settore. Speriamo poi di riuscire a condividerlo con le altre esperienze di condivisione di utensili, molti dei quali sono in Nord America.

Ve ne sono circa ottanta in Canada e negli Stati Uniti – tutti con diverse strutture, dimensioni e capacità, dai capanni a enormi magazzini – quello che è interessante è che si può adattare alle esigenze locali. Possono persino essere fatti all’interno di nuovi insediamenti residenziali. Se costruisci un nuovo insieme di appartamenti, ha senso che ciascuno che vi abita abbia il proprio trapano o non sarebbe meglio mettere un armadietto così che li si può condividere?

Sei molto coinvolto anche in molti progetti locali come Dads Rock.

Dads Rock è un ente di beneficienza che lavora per far avvicinare di più i padri ai figli, attraverso il gioco e la qualità del tempo speso insieme. Nel progetto con cui noi abbiamo collaborato, i padri erano giovani che sono diventati genitori all’età di quindici o sedici anni. I giovani a quell’età spesso attraversano periodi di grande caos e questo potrebbe riflettersi anche sulle relazioni con i figli. Per cui il nostro progetto era quello di realizzare con loro una biciclettina per bambini: l’idea era che fosse qualcosa che potessero seguire fino in fondo perché stavano costruendo qualcosa per i loro figli.
La bicicletta è un regalo classico da fare ai bambini, ma questa volta sono stati i loro papà a costruirla per loro. Molti papà hanno personalizzato le biciclette in base agli interessi dei loro figli, una era in stile Harley-Davidson, un’altra era in stile motocross e a tema Minions.

Il progetto è durato otto-dieci settimane e, con il passare del tempo, potevi vederli presentarsi a ciascun incontro un po’ più cresciuti e alti della volta scorsa. È diventato il punto di riferimento della loro settimana: un vero e proprio senso di scansione del tempo, di ordine e attenzione. Quando il progetto è finito, hanno detto che non erano pronti per vederlo finire e per questo ora stanno lavorando per organizzare un weekend residenziale per fare qualcosa a beneficio della comunità in cui vivono.

Ciò che temo rispetto a questi progetti a breve termine come questo, è cosa accade dopo. I tuoi programmi per il futuro della tua esperienza sono collegati a questo?

Si. Vogliamo trasformarlo in un in un workshop in cui possiamo creare uno spazio dove i giovani possano venire ogni settimana, dove si sviluppano progetti aperti in cui siano le persone a stabilire il programma, dove si pratica il mutuo aiuto e dove non vi sia alcun giudizio.

La condivisione degli utensili è una passione ambientalista ma anche sociale. Voglio evitare che i giovani disoccupati siano trascurati, quando invece possiamo affiancargli persone che possano formarli.

Voglio far incontrare formatori e tirocinanti e dimostrare che si può tratte un mutuo beneficio da tale incontro. Vi sono più di 80.000 persone sopra i sessantacinque anni in Scozia che si sentono soli per la gran parte del tempo. Vogliamo creare un programma tutor-tirocinante in cui quelli con esperienza, i tutor più anziani con una formazione nel commercio e che sono a rischio esclusione e isolamento, possano lavorare fianco a fianco con i giovani tirocinanti, che devono affrontare i cambiamenti per riuscire a ottenere un lavoro. Insieme potrebbero catalogare e prendersi cura degli utensili, mostrare come utilizzarli e gestire parte dell’accoglienza del workshop.

Una volta acquisita sufficiente fiducia con il lavoro e capacità dimostrabili, possiamo lavorare insieme ai tirocinanti per scrivere il loro curriculum e aiutarli a trovare lavoro.

link all’articolo




Tutto sull’ “ubercapitalismo”

Ecco i numeri della nuova “economia collaborativa”.
Il fenomeno più imponente di questa fase di “sboom” economico
Ultime notizie dall’ubercapitalismo. Airbnb vale 26 miliardi di dollari, ha raccolto fondi per 2,3 e occupa circa 500 dipendenti. Snapchat è quotata dagli analisti 26 miliardi, ne ha raccolti 1,2 e dà lavoro fisso a 400 individui. Uber, varrebbe tra i 40 e i 50 miliardi, ha trovato risorse per 6 miliardi e ha circa 500 salariati diretti (esclusi, per ora, gli autisti).
Sono cifre, ancora ballerine e un po’ oscure, soprattutto quelle relative alle persone, rilevate dall’Economist, che ha quantificato in 74 il numero delle start-up dei settori tecnologici che fanno parte di quei particolari ”unicorni” di successo, ovvero le aziende che quotano più di un miliardo. Valore totale (anche qui, presunto) di tutti gli animali mitologici, oltre 273 miliardi di dollari.
Marx aveva già a suo tempo trovato una definizione perfetta per questa rivoluzione digitale. Nel 1846, quando definì la società comunista. ”La possibilità di fare oggi una tale cosa e domani un’altra, di cacciare al mattino e di pescare nel pomeriggio, di praticare l’allevamento la sera e di fare della critica dopo i pasti. Tutto a proprio piacimento, senza essere pescatore, cacciatore o critico”. Sono passi scritti dal filosofo nella sua opera L’ideologia tedesca, quando certo non arrivava a preconizzare che col socialismo reale qualcuno tra milioni si sarebbe arricchito immensamente.
Eppure sembrano pensati oggi per definire il pianeta delle condivisioni, dove il capitalismo sembra ammantarsi di libertà, nell’attimo stesso in cui genera immensi profitti e un miliardo di utenti in un solo giorno si connettono a Facebook regalandogli sogni, desideri e identità.
È l’economia collaborativa, che si è materializzata decenni dopo la caduta del Muro e sembra aver creato spazi inimmaginabili per i consumatori e per la creazione di plusvalore: sì, proprio ”quel” Capitale, che continua comunque a dividere i fattori della produzione da chi li impiega.
Possibile che il neo comunismo sia nella Rete e nelle sue centinaia di applicazioni mobili, che cominciano a vivere molto bene sulle spalle dei giganti over the top? È questo il modello finale della nostra società, come professano il giovane economista Gaspard Koenig, o Maurice Levy, il primo a parlare di ‘ubercapitalismo’ al Financial Times, e prevedono negli Usa (entro il 2020 il 40% dei lavoratori sarà indipendente), ovvero un mondo in cui si affitta un’auto o una casa e si vende e si compra di tutto, diventando una volta proprietari di una rendita, un’altra ancora strumenti della stessa?
Il saldo finale ha il segno più o bisogna aspettare l’esito della rivoluzione, durante la quale cadono parecchi teste? In Francia, dove non manca lo spirito rivoluzionario ma si è anche tradizionalisti, a questi interrogativi non ci sono risposte certe ma si segue con attenzione il germogliare dei frutti della trasformazione digitale, si contano con stupore e ammirazione le decine di nuove aziende che fasciano come un vestito da sarto ogni cliente e tra dieci anni varranno come le blu chips dell’indice Cac di borsa, secondo Pwc.
Oggi, non raggiungono la capitalizzazione di Solvay. Si chiamano Blablacar, Ornicar, Ouicar, Drivy, Heetch, Boaterfly, Etaussi, KissKissBankBank, Indiegogo, Ulule, Lendingckub, Lecollectionist, DemanderJustice e altri ancora e ancora, in una teoria di sigle senza fine dagli scopi utili e banali allo stesso tempo, se la nostra società non avesse smesso di funzionare.
Solo aggiungendo ai tre big suddetti da 100 miliardi di dollari gli altri sette magnifici ”unicorni”, Palantir, Spacex, Pinterest, Dropbox, Wework, Theranos e Square, si arriva a oltre 80 miliardi di dollari di valutazione e non più di 10.000 addetti. Insomma, molto capitale e poco lavoro. Lo avesse immaginato il buon Karl si sarebbe strappato barba e baffi.
Ma i settori tradizionali, a cominciare da quello cruciale del turismo alberghiero, sono in subbuglio e preparano la controriforma, a cominciare proprio dal paese transalpino.
D’altronde negli anni dell’eurocrisi l’economia digitale è cresciuta il doppio di quella reale e non si dovrebbero preoccupare solo a Parigi (dopo gli Usa, primo mercato per Uber e Airbnb).
Il settimanale francese Le Point, in una lunga inchiesta di copertina sulla rivoluzione del capitalismo, ha piazzato una tabella su cui riflettere: un confronto tra AirBnb e Accor, il gigante dell’accoglienza. I numeri, più di ogni altra cosa, devono far riflettere, senza alcuno spirito tecnofobico.
Airbnb, come ricordato, ha un valore di 24 miliardi di dollari, un giro d’affari di 900 milioni, 130 milioni di perdite, 500 dipendenti, nessun immobile di proprietà ma vende un milione di stanze nel mondo, mentre Hilton, Marriot e Intercontinental ne fanno 700.000 ciascuna impiegando più di mezzo milione di persone. Ecco perché insidia Accor, che vale 10,4 miliardi di dollari, ha un giro d’affari di 5,4 miliardi, utili per 233 milioni, 180.000 occupati e 495.072 camere in 3.792 paesi.
In teoria non dovrebbe esserci match, ma la crescita dell’ospitalità alternativa è esponenziale, a cominciare dalla città più visitata al mondo e da New York (rispettivamente 11% e 17% del mercato totale). Se cresce l’unicorno dell’affitto in proprio, se la condivisione si sostituisce al commercio, ai servizi, alle banche, agli avvocati, che fine faranno le decine di migliaia di posti di lavoro tradizionali, potranno davvero dirsi sostituite dai nuovi prosumers di beni e servizi (consumatori e produttori allo stesso tempo) o avrà ragione chi, come Hillary Clinton, ha parlato a questo proposito di nuovo ”precariato”?
Sono tutte domande scomode, forse ormai anche retrò, che occorre però porsi senza preconcetti. Il cambiamento epocale che stiamo vivendo quasi inconsapevoli in questo sboom senza fine deve in qualche modo essere sostenuto e allo stesso tempo governato, proprio per evitare che le prossime start-up siano soffocate nella culla da chi ha preso il dominio del web e si è fatto mercato.

link all’articolo




Condividere e collaborare a Roma

È nato a Roma un “Coordinamento di realtà collaborative” per collegare in rete le molte esperienze nate in città negli ultimi anni – tra coworking, fablab, riciclo, agricoltura urbana e sociale, welfare comunitario e digital social innovation -, e di dare fiato e gambe a un ecosistema collaborativo di soggetti paritari capace di trattenere nei territori il valore della produzione sociale. Il coordinamento ha già fissato per il week end del 9 e 10 gennaio 2016 un laboratorio di coprogettazione urbana, per immaginare insieme le risposte collettive che è possibile dare in uno dei momenti più drammatici per questa città.
Sono bastate poche affollate riunioni per capire che la strada è lunga e irta di ostacoli, ma non si tornerà indietro. Semplicemente perché tutti sono decisi a percorrerla, ognuno con le sue motivazioni. Parliamo infatti di gente diversa, con storie, culture politiche, professioni e obiettivi diversi, giovani e meno giovani, poveri e meno poveri, militanti e non, precari e non.
Ma di chi stiamo parlando?… Difficile trovare una definizione univoca, dipende dal punto di vista con cui li si osserva. Toni Negri direbbe che sono una forma embrionale di soggettivizzazione della moltitudine, o più puntualmente di cognitariato che si autorganizza per sostituire la logica della cooperazione sociale alla legge del valore. Jeremy Rifkin li chiamerebbe “change makers”, ovvero le legioni di “prosumers” che stanno traghettando il sistema mondo verso la terza rivoluzione industriale: una radicale trasformazione fondata su collaborazione, autoproduzione, indipendenza energetica e sistemi intelligenti, tra big data e internet delle cose, che sta determinando il passaggio epocale da un regime centralizzato, gerarchico e appropriativo di gestione delle risorse e della conoscenza a un regime collaborativo, orizzontale e aperto.
Come correttivo alla visione deterministica e tecno-ottimista di Rifkin, il guru del peer-to-peer Michel Bauwens darebbe una definizione più sfumata, che problematizza la soggettività nell’era del Web interattivo, mettendoci di fronte all’evidenza che le tecnologie in quanto tali hanno in sé stesse sviluppi possibili diametrali. Da un lato verso un’enfasi della centralizzazione appropriativa, dell’approccio estrattivo alle risorse e del controllo sociale esasperato, dall’altro verso un sistema di cooperazione aperto e orizzontale nella dimensione dei commons. Perché il tema del futuro non è se vincerà la collaborazione, ma è quale collaborazione vincerà, e cioè chi controllerà il valore generato dalla produzione sociale. Bauwens innestando il tema della collaborazione in quello dei commons restituisce una dimensione territoriale e politica a questa transizione epocale, e nomina con acutezza le soggettività che stanno giocando la partita: dal capitalismo netarchico degli imperi virtuali, tra Google, Amazon, Facebook, alle comunità resilienti, alle reti dei commons “glocal”, cioè coloro che organizzano localmente una condivisione globale di risorse.
E a Roma cosa succede? Le strutture che praticano questa nuova economia del fare collaborativo producendo commons e relazioni paritarie, cioé il variegato popolo della collaborazione e della condivisione, si stanno mettendo in rete con tante e diverse finalità, ma con una consapevolezza condivisa di essere uno degli attori che si giocherà la difficile partita del futuro. E lo stanno facendo in una fase difficilissima, nella quale i territori sono sempre più abbandonati a loro stessi da un potere che si ritrae dalla dimensione locale, si ricentralizza e si verticalizza.
Dall’anno scorso hanno cominciato a ragionare su come condividere saperi e strumenti, su come generare collaborazione diffusa, su come interagire con le istituzioni sollecitandole a praticare l’innovazione, su come ci si possa organizzare per offrire alla città un welfare collaborativo in maniera sistematica e generalizzata. E recentemente si sono unite in un “Coordinamento di realtà collaborative”, che ha già fissato per il week end del 9 e 10 gennaio 2016 un laboratorio di coprogettazione urbana, per disegnare insieme le risposte collettive da dare in uno dei momenti più drammatici per questa città. In un momento in cui sembrano prevalere soltanto le articolazioni complementari della crisi di sistema: nuove povertà, autoritarismo, austerity, criminalità ed esclusione sociale.
Il primo obiettivo è condividere saperi e pratiche tra le diverse esperienze collaborative e i diversi mondi della cooperazione, nei terreni più diversi. Dal coworking ai fablab, dal mutualismo alla cittadinanza attiva, dalla filiera corta all’open source. E ci sono già alcuni nodi di questa rete che si collocano nella frontiera della sperimentazione, modellizzando le pratiche e intrecciando i diversi contesti collaborativi. Emblematico il caso di Officine Zero, fabbrica recuperata che coniuga l’organizzazione mutualistica del lavoro precario, il coworking, le officine creative di riciclo e il fablab, ma su cui incombe la minaccia di un’asta fallimentare che vorrebbe spazzare via l’esperienza per una valorizzazione immobiliare.
Il coordinamento si è riunito il primo dicembre presso i “laboratori creativi multifunzionali” de “il terzo spazio”, nome evocativo di quel “third space” coniato dall’urbanista americano Edward Soja per indicare gli spazi liberati dalle determinazioni del capitale globale, dove un nuovo immaginario plasma nuove relazioni e accoglie le differenze. E loro s’insediano proprio in una spazialità drammatica, quella di Tor Sapienza, dove il terzo settore non è riuscito a colmare i vuoti delle istituzioni e ad arginare le manifestazioni delle comunità del rancore. E il “terzo spazio” indica la exit strategy: tenere insieme la “cura” e l’“operosità”, per dirla con Aldo Bonomi, hanno creato un ibrido tra un centro sociale e un laboratorio scientifico che coniuga robotica, biohackers, corsi di formazione, scuola popolare e attività per l’infanzia, in una logica di fusione di sociale, cultura, formazione e ricerca.
E non senza significato il coordinamento ha deciso di radunarsi in questo spazio esattamente un anno dopo le note tensioni territoriali con i centri di accoglienza all’immigrazione, perché “il terzo spazio” nasce proprio come risposta a quei giorni drammatici, frutto di una concertazione tra alcune realtà già attive a Tor Sapienza e gli spazi collaborativi di Garbatella, il coworking Millepiani e il FabLab Roma Makers, che dalla loro fondazione sperimentano fruttuosamente lo stare in rete sul territorio. Prese singolarmente queste realtà sembrano solo piccoli “semi di futuro”, ma tenuti insieme a tanti altri nel neonato coordinamento possono aspirare a quello che Alberto Magnaghi definirebbe “progetto locale”. Tra le tante realtà ci sono i coworking che praticano la sharing economy e che diventano hub su scala urbana connettendo saperi e produzioni collaborative territoriali, facendo da incubatori per start-up, orientamento al lavoro, centrali di progettazione e formazione.
In pratica sostituendosi alle istituzioni. E poi i FabLab che stanno diffondendo il verbo e la pratica dell’autoproduzione e della collaborazione open con un’attenta opera di mediazione tra mondi diversi, dalla scuola alle officine di quartiere, alle istituzioni, alla media e grande impresa. E ancora i gruppi e le associazioni che lavorano sui commons immateriali, dall’open source alla digital social innovation, alle infrastrutture cognitive che sotto forma di piattaforme indipendenti configurano nuovi e rivoluzionari geosocial, mappature collaborative che si fanno deposito di conoscenze territoriali e strumento di attivazione di reti. E infine reti intere di recente formazione che aspirano a sovvertire il ciclo di riproduzione agro-alimentare della città, tra agricoltura urbana e sociale, gas, orti condivisi, così come le reti della conoscenza a cui si collegano realtà “business oriented”, che cercano di gettare un ponte tra società e capitale per fare in modo che l’economia si misuri anche in termini di sostenibilità sociale e ambientale.

Sono molte le realtà, e non è necessario nominarle, perché come ogni vera rete collaborativa esse credono nel soggetto anonimo, plurimo, molteplice, acefalo, realmente democratico. Non saranno mai all’ombra del “corpo” del leader, perché rifuggono istintivamente l’organizzazione piramidale, fintamente rappresentativa, di fatto autoritaria. Credono nel qui e ora, nelle relazioni tra pari che praticano, in modi di esistenza concreti e in modi di azione reali. Non saranno mai un brand, una forma chiusa che produce identificazioni immaginarie, perché una vera soggettivazione si realizza nella relazione reale e non nei dispositivi autosufficenti. Con Nicolas Bourriaud sostengono “gruppo contro massa, vicinato contro propaganda, low tech contro high tech, tattile contro visivo”.
A fronte delle mancate risposte della politica della rappresentanza, emerge così una nuova possibilità, quella di comunità di pratiche collaborative che si collocano tra reti digitali e territori, tra globale e locale, contendendo lo spazio ambivalente e conflittuale della sharing economy. Da un lato il modello della collaborazione dominata dal codice proprietario, che estrae valore dalla produzione sociale fondata sulla figura atomizzata del prosumer. Dall’altro il modello di un ecosistema collaborativo che su una base territoriale cerca di trattenere il valore nei territori, per fondare un modo diverso di produrre e stare insieme, generando benessere diffuso, conoscenza condivisa, coesione sociale e sostenibilità ambientale. Perché è uno spettro? Perché è invisibile e potente. Perché è potente? Perché è una soggettivazione basata sul fare e sul desiderio, non solo sulla mancanza e sul bisogno. Perché non solo rivendica diritti, ma li pratica. E fa ora sistema costruendo (e non teorizzando) quel mondo dei commons inteso come matrice di un modello alternativo di economia e di società.

link all’articolo




MyFoody, la startup che ha già salvato 80 chili di cibo

Prodotti in scadenza o con difetti estetici vengono venduti sulla piattaforma web a prezzi ribassati. L’idea di quattro under 30 italiani.
Ottanta chili di cibo “salvato” dalla spazzatura, e 320 chilogrammi di anidride carbonica in meno. Sono i risultati di quasi due mesi di attività di MyFoody, una delle startup dell’incubatore Alimenta sviluppato dalla fondazione del Parco tecnologico padano. La piattaforma, lanciata il 20 maggio dal ventisettenne Francesco Giberti, sembra un normale sito di e-commerce. Ma in vendita c’è un prodotto speciale: il cibo vicino alla data di scadenza, con difetti di packaging o in eccedenza, che i supermercati rifilerebbero nella pattumiera. E che invece, tramite MyFoody, può essere venduto a prezzi ribassati e quindi recuperato.
L’idea nasce nel 2012 quando Francesco, allora studente di giurisprudenza per un periodo di studio in Belgio, compra un pacco di biscotti bio e una volta tornato a casa si accorge che la scadenza è imminente. Si chiede se è giusto comprare a prezzo pieno un prodotto che ha una vita minore rispetto agli altri. Da lì comincia le sue ricerche. Scopre che i numeri italiani sono sconcertanti: nella distribuzione alimentare si buttano ogni anno 277mila tonnellate di cibo ancora commestibile. Un grosso danno ambientale, visto che ogni chilo di cibo sprecato equivale, secondo i calcoli di Wwf , a quattro chilogrammi di anidride carbonica emessa nell’ambiente. Solo 8,5% delle eccedenze viene recuperato e donato dalle associazioni non profit, il restante 91,5% finisce con gli altri rifiuti.
Nella distribuzione alimentare si buttano ogni anno 277mila tonnellate di cibo ancora commestibile. Ogni chilo sprecato equivale a quattro di anidride carbonica emessa nell’ambiente
Il 20 maggio, dopo un periodo di accelerazione nell’Impact Hub di Firenze, viene lanciata la piattaforma (per il momento ancora in versione beta) con in coinvolgimento di 13 punti vendita di Milano, tra catene, market indipendenti e negozi bio. La squadra è composta da quattro ragazzi, tutti under 30: oltre a Francesco, che nel frattempo si è laureato, ci sono Luca Masseretti, laureato in economia, Esmeralda Colombo, laureata anche lei in giurisprudenza, e Stefano Rolla, con una laurea in architettura.
Il funzionamento di MyFoody è semplice. Il punto vendita carica sulla piattaforma i prodotti a rischio spreco. Il cliente, una volta consultata la piattaforma, si reca nel punto vendita e compra i prodotti a prezzi più bassi di quelli di mercato. «I prodotti a rischio sono di tre tipi», spiega Francesco Giberti. «Ci sono i prodotti vicini alla scadenza che vengono tolti dagli scaffali, ma che hanno ancora da due a dieci giorni di vita utile». Lo scatolame, addirittura, viene rimosso dagli scaffali anche venti giorni prima della scadenza. Per policy aziendale, i clienti non devono imbattersi in scadenze ravvicinate. Poi ci sono «i prodotti con difetti estetici, come lo scatolame ammaccato o la frutta e la verdura rovinate all’esterno e i prodotti overstock acquistati dai negozi in quantità superiori rispetto ai reali bisogni che rimangono in magazzino».
Il punto vendita carica sulla piattaforma i prodotti a rischio spreco. Il cliente, una volta consultata la piattaforma, si reca nel punto vendita e compra i prodotti a prezzi più bassi di quelli di mercato
Anziché finire nella pattumiera, questi cibi vengono venduti sulla piattaforma MyFoody a prezzi scontati. Per i prodotti vicini alla scadenza viene anche indicato il numero di giorni utili che restano. Lo sconto aumenta con l’avvicinarsi della scadenza. Ai venditori viene fornito un kit, con un dispositivo a forma di pistola che rende molto semplice il caricamento dei prodotti sulla piattaforma. Per i punti vendita non c’è quindi un impiego di tempo eccessivo e si riesce a ottenere un guadagno da prodotti che invece avrebbero fruttato zero. Il guadagno per MyFoody è in percentuale sul venduto, dal 10 al 15% in base alla grandezza del punto vendita, più un canone d’uso del dispositivo per caricare i prodotti.
«La nostra sfida», spiega Francesco, «è che la grande distribuzione possa creare valore per se stessa ma anche per gli utenti a livello sociale». Quando fa la spesa, l’utente sa in tempo reale quanto risparmia in termini economici e quanta anidride carbonica ha risparmiato. Prendiamo ad esempio una barretta di cioccolato fondente che ha ancora 18 giorni di vita utile: il prezzo è scontato del 30 per cento, il risparmio equivale a 1,15 euro, mentre l’anidride carbonica risparmiata è di 400 grammi. «Recuperare i prodotti per donarli per i punti vendita rappresenta un costo», dice Francesco. «Né si ha alcun vantaggio a livello fiscale ed economico». Per questo le donazioni sono ancora ferme all’8,5 per cento. Con MyFoody, invece, il prodotto può essere venduto ancora. E il negozio ci guadagna. Dopo la fase beta, che terminerà a settembre, a MyFoody fanno progetti in grande. Sono in fase accordi con nomi noti della grande distribuzione organizzata, e da Milano promettono di spostarsi da ottobre anche in altre città. Il risparmio è garantito.

link all’articolo




Slow, sharing, low cost, dalla bici al bus

Lo stile di vita ci influenza anche negli spostamenti. Tutto lo ‘sharing’ cui stiamo assistendo in maniera esponenziale da qualche tempo a questa parte anche in Italia, seppure più lentamente che nel resto d’Europa, è testimonianza di come la pensiamo in termini di mobilità e non solo relativamente ai costi: bike sharing, scooter sharing e car pooling (Enjoj e Car2Go i principali competitor) innanzitutto. Con-divisione e scambio di qualcosa è ormai un modello che si sta affermando, vale per gli appartamenti (couchsurfing o home exchange, per citare due portali noti), come per gli acquisti alimentari dai produttori (i Gas che festeggiano i loro primi venti anni). Certo il tema risparmio soldi è trainante, ma non basta a spiegare il fenomeno sharing che è basato su nuova socializzazione – sì nel tempo delle solitudini da iperconnessione c’è anche questo altrimenti perchè saliresti in macchina con uno sconosciuto per dividere le spese come avviene con BlaBlaCar? – e su altri ritmi, decisamente meno nevrotici del passato. Ecco che ‘slow’ si affianca al low cost.

BlaBlaCar, è una community di passaggi in auto con oltre 20 milioni di utenti verificati. Il conducente riduce le spese di viaggio (fino al 75 per cento sul costo di benzina e pedaggio) non viaggiando da solo e offrendo un posto da passeggero che a sua volta spende una decina di euro o poco più per tratti come ad esempio Milano-Bologna, magari prenotando online, e facendo nuove amicizie. E il successo di megabus.com, la compagnia scozzese di autobus, da poco arrivata anche in Italia, è molto più affine al concetto di mobilità slow, condivisa più che al low cost vero e proprio. Altrimenti perchè usare il pullmann anzichè l’aereo allo stesso costo, in entrambi i casi stracciato? Più che a Ryanair, Megabus.com sta a BlaBlaCar. Ci si sposta a bassissimo costo e non necessariamente per mancanza di soldi con il bus che ti porta in giro per l’Italia, o a Londra o a Parigi a prezzi stracciati, con tanta gente accanto da conoscere e con tante ore di viaggio da condividere.

Negli Stati Uniti, in Canada, e nel resto d’Europa è un trend consolidato: da sei anni le vendite di biglietti dei pullman hanno avuto un’impennata. Mentre in Italia la spinta è stata data dall’arrivo della compagnia scozzese che nella prima settimana ha venduto ben 30.000 biglietti. Gli autobus, ci sarebbe da dire, tornano di moda. Una volta venivano utilizzati per viaggiare dalla provincia alla città, oggi invece sono di nuovo in auge per viaggiare da città a città o tra un Paese e l’altro a prezzi economici e con tutti i comfort: autobus a due piani nuovi e comodi, con wi-fi, prese elettriche e toilette.

I servizi megabus.com sono molto popolari non solo tra studenti ma anche tra famiglie alla ricerca di soluzioni di viaggio economiche avendo tempo a disposizione. Creano domanda e nuovi viaggiatori, come già fatto anni fa dalle compagnie aeree low cost: con biglietti al prezzo di una tazzina di caffè si prende in considerazione l’idea di partire per un fine settimana o qualche giorno in più anche se non era un programma. Perché non organizzare un weekend se il viaggio costa pochissimi euro? Non solo Italia, ma anche qualche meta estera come Lione, Parigi e Lille. O è possibile visitare Londra e dintorni. L’idea poi, come ai tempi della vecchia cara interrail ferroviaria, è di immaginare una vacanza “on the road” toccando diverse mete: dalla Liguria alla Campania, passando per la Toscana e magari per Roma.

link all’articolo




Il documentario che viaggia con il baratto

Unlearning è il documentario di una famiglia Genovese (mamma, papà e bimba di 6 anni) che ha lasciato per sei mesi la città (casa e lavoro) alla ricerca di una vita più a misura d’uomo.
Un viaggio per scoprire un’Italia di uomini, donne e bambini che, all’omologazione, hanno risposto facendo della propria esistenza un inno alla diversità per aprirsi al cambiamento.

Usando il baratto e la sharing economy, hanno spesso, in tre, 600 euro in sei mesi.
E lo raccontano in un appassionante documentario di 74′
Prodotto dal basso (gli utenti hanno comprato il documentario in anteprima su internet per coprire le spese tecniche di realizzazione) e in crowdsourcing (durante la lavorazione sono state organizzate proiezioni dove gli spettatori hanno partecipato alla realizzazione del “taglio finale”) Unlearning è finalmente pronto e sarà proiettato in oltre 50 città italiane, un calendario che si va a estendere di giorno in giorno: infatti il documentario non si può comprare.
L’unico modo di vederlo è invitare gli autori presso il proprio cinema / associazione / teatro (ma anche piazza, salotto, cantina!) per barattare con loro la visione di Unlearning ed un un incontro di presentazione con una cena e una notte di ospitalità (seguendo la formula del couchsurfing).

Un esperimento per distribuire un film usando i metodi più antichi (il baratto e l’ospitalità) con le moderne tecnologie (i social media).

Per saperne di più, scoprire il progetto e le date

Unlearning è un invito gentile alla disobbedienza, una proposta per tutte le famiglie stanche della propria vita ripetitiva che da sempre si chiedono se un’altra vita è possibile.

link al sito




Il paese che ha aperto le sue cucine

A Borgo Tricase 10 mamme lavorano al primo ristorante diffuso d’Italia. Si compra un ticket e si gira di casa in casa a ritirare il piatto. Le prime due cene sono state un successo

“Lu porto” in dialetto salentino significa porto. Anche il Borgo Tricase è un porto. Un rione del comune di Tricase, in provincia di Lecce, dove vivono poco più di 250 persone. Nel piccolo borgo marinaro, però, si pensa in grande. «Nell’ottobre del 2014 c’è venuta l’idea», racconta Eleonora Bianchi, 31 anni, lombarda di nascita ma pugliese d’adozione. «Volevamo rivalutare il borgo di Tricase, volevamo questa rinascita anche per il porto. La maniera più facile per farlo era coinvolgere gli abitanti con le loro attività culinarie».

Così nasce “Le mamme del Borgo”, un ristorante “diffuso” dove dieci mamme che abitano il borgo aprono la loro cucina ai turisti. Eleonora Bianchi questo “ristorante” l’ha pensato insieme ad altri tre amici Mattia Sansò, Agnese Dell’Abate e Giuseppe Ferrarese; stanno trasformare le attività culinarie tipiche del paese in una vera e propria attrattiva. «Le prime due cene le abbiamo organizzate a giugno e ad agosto dell’estate appena passata», racconta Eleonora. «Inizialmente avevamo pensato ad un home restaurant, ma poi visto che nel borgo c’è spazio ci siamo detti che sarebbe stato ancora più bello creare un ristorante comunitario all’aperto, dove le mamme cucinano per tante persone». Attualmente le mamma che hanno aderito sono dieci. Nelle prime due cene pilota organizzate hanno partecipato circa 200 persone a sera.

«Abbiamo fatto stampare dei ticket, il prezzo è di 15 euro a biglietto. Con ogni ticket si ha diritto ad un pasto completo. Tutto il borgo viene mappato, e ogni mamma che partecipa si impegna a preparare un piatto tipico del posto. Si parte dall’antipasto e il cliente sa a quale “mamma” rivolgersi. Non si mangia nella casa della signora, ma è lei che ti aspetta sulla porta per offrirti il piatto».

Tolte le spese dei fornitori, poi i ricavi si dividono tra le mamme e gli organizzatori della serata.

«Una volta dimostrato che il progetto può funzionare», continua Eleonora, «l’obiettivo per l’anno prossimo è di organizzare cene a scadenza settimanale. Vogliamo stampare massimo 300 ticket per serata perché abbiamo pensato ad un sempre menù diverso dove ogni sera si possono trovare prodotti freschi e tipici del posto, a chilometro zero. Così possiamo mantenere alta la qualità ed evitare lo spreco alimentare».

I fondatori de “Le mamma del Borgo” hanno anche un altro obiettivo: rendere il progetto replicabile negli altri borghi o nei piccoli comuni italiani. Perché come spiega Eleonora «è importantissimo per la nostra generazione mettersi in gioco ma soprattutto è importante differenziare il lavoro e creare nuove attività economiche anche nelle realtà più piccole».

link all’articolo