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Nomadland

Val la pena esser soli?

di Chloé Zhao. Con Frances McDormand, David Strathairn, Linda May, Charlene Swankie, USA 2020

Fern (McDormand), vedova e senza figli, è rimasta nel piccolo centro di Empire, pieno di ricordi della sua vita serena accanto al marito Bo, anche quando l’attività del cartongesso che dava lavoro alla comunità si è esaurita. Quando non rimane più nessuno se non l’anziano guardiano Gay (Gay DeForest), sale sul suo van che ha attrezzato come un piccolo camper e parte. La sua pensione è insufficiente anche per la sua vita di quasi vagabonda e lei deve integrarla con lavori saltuari, talora facendo l’operaia stagionale ad Amazon. Qui fa amicizia con Linda (May) che le parla di Nomadland, un’area dedicata a quelli come loro, fondata da Bob Wells (se stesso) dove i nomadi a quattro ruote possono parcheggiare senza rischio di essere scacciati dai guardiani e condividere il poco che hanno con gli altri. Nel campo conosce l’anziana e gentile Swankie (Swankie) e il bel Dave (Strathairn), con il quale forse potrebbe nascere un sentimento. Regala anche un accendino al giovane biker Derek (Derek Endres), nomade per scelta. Swankie le chiede di aiutarla ad alleggerire il proprio van perché sta per partire per l’Alaska: ha una malattia terminale e vuole tornare a vedere le rondini che nidificano in una parete di roccia su un fiume. Dave la fa arrabbiare perché, nel maldestro tentativo di aiutarla, le rompe i piatti che erano il suo solo ricordo di famiglia; quando però lui si ammala lei lo accudisce, preparandogli il brodo di pollo Campbell. Poco dopo lui trova lavoro in un grill e fa assumere anche lei. Non fanno nient’altro che lavorare e, la sera, andare a bere ed a ballare un po’ ma stanno bene insieme. Un giorno arriva al lavoro Cat (Cat Clifford), il figlio di Dave che gli comunica che sta per nascergli un figlio e vorrebbe che lui tornasse a casa. Lui – che si sente in colpa per essere stato sempre assente – accetta e invita Fern ad andare a trovarli. Dopo un po’, lei si decide e lo trova sereno con la famiglia ed il nipotino; tutti la accolgono affettuosamente e Dave, dopo qualche giorno, le chiede di rimanere. Lei è tentata ma il mattino dopo saluta e va via. Anche la benestante sorella (Emily Jade Foley) – dalla quale è andata per prendere in prestito i soldi che le servono per riparare il vetusto van – le chiede di restare ma lei non ce la fa. Swankie le manda un filmato che testimonia come, prima di morire, abbia potuto rivedere la nascita dei rondinini e Bob le confessa di aver scelto quella vita dopo la morte del figlio quattordicenne e di essere convinto che, nel cammino della vita, prima o poi, vivi e morti amati sono destinati ad incontrarsi. Fern torna nella sua vecchia casa di Empire e, come pacificata, gode di nuovo del bel panorama che si vede dal retro.

Il vagabondo ha sempre avuto uno spazio speciale nell’immaginario artistico: possiamo  citare per la pittura Caravaggio, Goya e Bruegel ma rimanendo, al cinema ed alla narrativa (Nomadland è tratto dall’omonimo racconto/inchiesta di Jessica Bruder), gli esempi non mancano: da Chaplin a Stanlio e Ollio, a Jerry Lewis, a Fernadel, da Totò a Macario il trump (figlio del tenero clown Augusto della tradizione circense) è stato al centro di molte delle loro caratterizzazioni. Non è improbabile che dietro quest’idea del buffo, tenero, talora tragicamente triste vagabondo ci sia l’antico retaggio del Carro dei Comici, la sconquassata carovana che portava gli attori nelle piazze e nelle corti di tutto il mondo. La letteratura picaresca spagnola si basa su poveri cristi che girano in cerca di qualcosa da mangiare ed un tetto provvisorio e quasi un secolo fa G.B.Shaw scoprì e fece editare la deliziosa Autobiografia di un vagabondo di William H.Davies, che racconta le sue peripezie e i trucchi di un vero senzatetto-  tra la fine dell’800 e il primo ‘900 – per sopravvivere (dal rubare le torte che le massaie mettevano in finestra a raffreddare al farsi arrestare per piccoli reati per stare al caldo). Somerset Maugham ne La luna e sei soldi racconta la vita errabonda di Paul Gaugin, alcuni dei 49 racconti di Hemingway danno un senso di rito iniziatico al vagabondare del giovane alter-ego dello scrittore, mentre i protagonisti di Furore di Steinbeck (e del successivo film di John Ford) sono operai e contadini americani in marcia con le famiglie per la crisi occupazionale degli anni ’30.  In Italia son anche usciti alcuni gialli con protagonista un vagabondo, Tre Soldi di Giuseppe Ciabattini. Molte opera della beat generation hanno al centro il girovagare degli autori in cerca di qualcosa: se stessi (il Kerouac di Sulla strada, I vagabondi del Dharma, Big Sur) o una nuova droga (Le lettere dallo Yage di William Burroughs e Allen Ginsberg). Al cinema infine – oltre ai comici già citati – vanno ricordati l’astuto clochard di Michel Simon in Boudu salvato dalle acque (Jean Renoir, 1932), lo smemorato George Wilson de L’inverno ti farà tornare (Henry Colpi, 1961), il leonino Lee Marvin de L’imperatore del nord (Robert Aldrich, 1973) e la ribelle Sandrine Bonnaire di Senza tetto né legge (Agnes Varda, 1985). Per qualche verso la Fern di McDormand/Zhao ha punti di contatto con il film della Varda ma l’animo del racconto è molto più nuovo di quanto non appaia ad una prima lettura: i protagonisti di Nomadland sono mossi, tutti chi più chi meno, da un lutto – reale o introiettato – non elaborato. Nel vederlo mi sono venuti in mente i versi di Lavorare stanca di Pavese: “Val la pena esser solo/ per essere sempre più solo?”; ecco, il film risponde: il prezzo del non essere solo (l’abbandono, la perdita, la mancanza) è più alto dei sacrifici della marginalità della solitudine. In questo la criticata scena dell’attacco di diarrea espletato in secchio è tutt’altro che gratuita: è spesso dura e sgradevole la vita da nomadi ma i dolori che ci fa lasciare alle spalle sono più insopportabili. Il film, come è noto, ha vinto il Leone a Venezia e i tre Oscar più importanti (Film, regia, protagonista) e senza la McDormand, che ha preso i diritti del libro, lo ha prodotto ed interpretato, affidandone – con coraggioso intuito – la regia alla non celeberrima ma perfetta per questo soggetto Chloé Zhao, non avrebbe visto la luce. Va detto che lei è, come al solito, bravissima attrice ma viene talora messa in ombra dalla umanissima naturalità dei veri nomadi che sono la stragrande maggioranza del cast, altra bella intuizione di un film di grande profondità.

Antonio Ferraro

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