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La grande ricucitura

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Rigenerare Corviale – Look beyond the present è il titolo del concorso internazionale bandito dall’Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale del Comune di Roma e finanziato dalla Regione Lazio, sottoscrivendo un protocollo d’intesa con l’Ordine degli architetti di Roma. Corviale, situato nell’undicesimo Municipio della Capitale, è un complesso residenziale di proprietà pubblica, progettato all’inizio degli anni Settanta da una squadra guidata dall’architetto Mario Fiorentino.

Una città lineare, che si estende per circa un chilometro, le cui prime abitazioni vennero assegnate nel decennio successivo alla progettazione e attualmente conta oltre seimila abitanti con una quota parte di occupazioni considerate abusive. Complessivamente si calcolano 1202 appartamenti e si prevede di ricavare 103 nuovi alloggi al quarto dei nove piani della struttura, originariamente destinato ai servizi.

Lo scorso dicembre l’architetta Laura Peretti, con lo Studio Insito che dirige, si è aggiudicata con un premio di centomila euro il bando, che richiedeva proposte per modificare il sistema degli spazi comuni del corpo principale del complesso edilizio, al fine di ottenere una nuova qualità urbana e spaziale. L’intento dichiarato è di assicurare una migliore vivibilità e sicurezza per gli abitanti di un luogo a lungo trascurato dalle istituzioni, alienato dall’altra città. La disponibilità di risorse per una prima fase di lavori è stata stanziata ed è pari a 7.2 milioni di euro. Il completamento dell’iter progettuale (fase preliminare, definitiva ed esecutiva) è previsto entro un anno e mezzo. Nell’ipotesi di Peretti saranno necessari circa sei anni per la concretizzazione di tutti gli interventi studiati. Il costo totale dell’opera di rammendo, di ricucitura topografica e valorizzazione dovrebbe attestarsi attorno ai venti milioni di euro.

Il progetto non riguarda gli alloggi, ma la viabilità e il recupero delle aree verdi; ripensa le connessioni urbane dell’edificio, le sue coperture introducendo criteri di efficienza energetica e avrà un contributo artistico di Mimmo Paladino. Il 7 settembre è stato effettuato il primo sopralluogo nell’area, per poi elaborare il disegno concettuale entro il termine dato del 18 novembre. La giuria internazionale, che ha valutato 45 progetti, ha premiato il gruppo Peretti con questa motivazione: «Affronta meglio i temi richiesti dal concorso, perché esprime la capacità di controllare alle varie scale la complessità, a livello paesaggistico, urbano, della circolazione interna all’edificio e dello spazio pubblico». La riqualificazione di Corviale è stata definita «la prima e più significativa sperimentazione di rigenerazione urbana delle periferie romane».

Peretti, qual è stata la sua esperienza di Corviale prima di approcciare il progetto?

«Molti anni fa da studentessa. Ci sono tornata, da abitante di Roma, perché insegnavo alla Cornell University e ci portavo i miei studenti. L’ho scoperto decisamente di più nel recente contatto diretto che all’epoca degli studi. Quando l’Ater ha bandito il concorso, prima di effettuare il sopralluogo collettivo, ero poco convinta. Poi sono venuta via con l’impressione opposta».

Quali sensazioni le destano la struttura, la sua storia e i suoi dolori?

«Lo percepivo come un edificio un po’ eroico per questa grande volontà di salvare l’agro romano. Era molto visibile l’intenzione dell’architetto di creare una diga architettonica ed è stata una cosa molto importante. È stato uno dei pochi momenti nella storia dell’architettura italiana in cui, al di fuori della dittatura, abbiamo avuto il compimento di un pensiero politico espresso e reso realtà. Stando a lungo lontana dalla città non ho vissuto il carico di sofferenza sociale concentratosi nell’area. Oggi ho trovato Corviale un luogo non degradato socialmente, con risorse vitali, che ha problemi comuni ad altre zone. C’è una storia di questo edificio che appartiene sicuramente al suo entrare nella città e diventare un pezzo di città vero. C’è una questione demografica, come nel resto del paese. L’invecchiamento può produrre un ripiegamento. Corviale è stato la risoluzione di un problema abitativo e sicuramente ne ha creati degli altri. È successo perfino a un edificio molto più semplice da gestire come l’Unité d’Habitation di Marsiglia. Ha patito un periodo di abbandono fortissimo e adesso ha il comitato degli inquilini; ed è motivo di orgoglio di tutta la gente che abita lì tenerlo nelle condizioni in cui venne progettato».

Perché tuttora anche a livello internazionale questo edificio attira simile attenzione?

«Dovremmo fare una mostra dal titolo Corviale e i suoi fratelli. Questa dimensione che a noi sembra gigantesca non è assolutamente una cosa incredibile: Vienna rossa, Mosca, la Francia stessa; ci sono tantissimi esempi di edifici con dimensioni addirittura più grandi di Corviale. È così famoso, intanto perché è un gran pezzo di architettura, al di là di tutti i difetti evidenziabili. Come per altri edifici di architetti è stato capito dopo molto tempo, come succede quando gli edifici non sono così sbagliati. Ci sono ovviamente degli errori, ma in un pezzo di città nuova è un po’ difficile non commetterne. È un’architettura fatta da un architetto molto bravo, ma è stata costruita un po’ fuori tempo massimo. La costruzione di Corviale è stata come un rigurgito di un’ideologia che era ormai alla fine. Altre utopie architettoniche di quel tipo in altri luoghi in Europa non sono state condotte a termine. È diventato l’icona di un periodo, la sua solidificazione, la rappresentazione non solo ideale. A Roma esistono altri chilometri».

Ritiene che la creatura di Fiorentino fosse già nata male e in che modo si cura dopo un lungo abbandono?

«Non è nato rotto, ma ideologicamente forzato. Penso che abbiamo rivelato alcune potenzialità di Corviale. Abbiamo lavorato su Corviale come struttura urbana e non edificio. Il concorso chiedeva, senza toccare le case, di mettere a posto quello che non funziona: il rapporto con la città e quello con il suolo, l’attacco a terra. Essendo un edificio costruito in maniera molto razionale con un sistema strutturale ripetitivo, non ha dunque un’articolazione strutturale tale per cui non si possa metterci le mani. Si pensava che l’edificio dovesse essere completamente autonomo, dovesse essere una città di per sé e che si esaurisse in sé e per sé».

Come definirebbe il vostro disegno d’intervento: rammendo, ricucitura topografica, rigenerazione urbana?

«È talmente un grande rammendo che è la ricucitura di un crinale tra città e campagna. La definizione più corretta credo sia una ricucitura topografica innanzitutto: riuscire a ritrovare l’identità del luogo quasi prima dell’insediamento. Qui il rapporto tra suolo ed edificio non è in armonia. Mi auguro che venga fatto, perché è vitale per Roma, per Corviale. Stiamo parlando comunque di un paese, perché settemila persone rappresentano un paese. Stiamo dando a persone che ora hanno solo un’abitazione dei servizi per i quali pagano le tasse. Un grosso progetto di rigenerazione è una grande opportunità per Roma. Oggi tutto quello che è vuoto, viene occupato, vige la legge del più forte. Lo spazio per la sopravvivenza è una cosa, quello per vivere un’altra».

Ha già sentito Renzo Piano?

«Sposo in pieno l’idea del rammendo fra parti di città che sono strappate. Il nostro mestiere è dover rispondere alla domanda: come facciamo la città? E oggi che la città c’è, non c’è bisogno di costruire inutilmente, soprattutto nelle periferie che spesso sono state costruite senza un pensiero organico. Detesto l’idea dell’archistar che arriva, fa il suo oggetto e poi se ne va. Costruire la città vera non significa cementificare; costruire una città vuol dire creare rapporti fra le parti. Utilizzare quello che abbiamo già e renderlo urbano nel senso della civitas, renderli luoghi. Visto che Corviale è un pezzo di periferia molto cospicua spero mi capiterà l’opportunità di parlarne con Piano».

In che cosa consiste la prima fase dei lavori?

«La road map significa seguire il principio di realtà dei finanziamenti. I primi interventi puntano alla razionalizzazione di tutti i corpi scala, perché c’è una situazione di disordine assurda, di astrusità e rigidità dei percorsi con cui oggi il residente deve fare i conti. Sulla percorribilità verticale attualmente non ci si può contare. Per ogni corpo scala ci sarà un nuovo ascensore a norma e un atrio di accesso. L’accesso al proprio appartamento è uno degli aspetti più importanti, ognuno desidera avere una sorta di percorso personalizzato e questo al Corviale non è consentito. Abbiamo allora provato a ricompartimentare questo chilometro di edificio in senso individuale, modificando la strada che corre parallela all’edificato e che impedisce un accesso personalizzato e la realizzazione di piazze o sistemi di variazione. Abbiamo interpretato il fondamentale criterio della permeabilità, richiesto dal bando di concorso, come la necessità di mettere a sistema questa situazione, restituendo senso individuale all’accesso all’appartamento. Riconsiderare la connessione urbana dal piano terra e il piano garage. Fare il primo spostamento della strada, via Poggio Verde, in modo di poter cominciare la piazza. La strada deve diventare un generatore di spazio. Riassumendo: riportare a terra gli ingressi, fare gli atri, le scale e la piazza. Poi andranno concretizzati criteri di efficienza energetica, copertura con pannelli solari, un piano di illuminazione, giardini pensili».

Ci spiega che cosa intende per piazza?

«La piazza è stata posizionata in corrispondenza del salto di quota, laddove c’era il punto più difficile da risolvere, il punto di discontinuità massima. Abbiamo pensato che è esattamente lì il punto in cui sia necessario intervenire in maniera importante, anche perché è il punto che potenzialmente può attaccare di più Corviale alla città. Questa piazza gradonata risolve lentamente tutto il salto di quota con delle scale, ma anche delle rampe, e rompe la linearità dell’edificio. È possibile per tutti percorrere la piazza in lunghezza, ci sembrava un’esigenza fondamentale, vitale. La piazza è un cuore. Oggi Corviale purtroppo è un corpo dove scorrono dentro delle lunghe arterie, ma non c’è il luogo dove questo pulsa».

Nella definizione di Fiorentino Corviale costituiva la testa di ponte tra campagna e città. Come dargli il respiro di un ambiente molto interessante tra la Riserva naturale della tenuta dei Massimi e la Valle dei Casali?

«L’idea della diga per la campagna, di questo limite invalicabile al costruito, era talmente ossessiva nella testa di Fiorentino che si è dimenticato di quello che c’era al di là. L’ha concepita in una maniera talmente ideologica che la campagna non esiste più a Corviale. La si vede solo dagli ultimi piani. Abbiamo progettato di riaprire un varco importante. Dove sorgerà la piazza ci sarà un passaggio che permette un’apertura cospicua, passando sotto Corviale e aprendosi verso la campagna in corrispondenza del teatro, dove prevediamo la demolizione di un edificio che sta lì. Vorremmo riuscire a far respirare di nuovo l’aria della campagna a questo edificio. Questa idea l’abbiamo portata anche davanti con lo spostamento della strada, che non sarà più rettilinea assecondando il verde. Anzi uno dei fondamentali su cui abbiamo lavorato è infatti la compenetrazione forte fra il basamento verde, sul quale Corviale poggia. E che non sia più un basamento fatto di asfalto. Adesso è semplicemente un’aiuola molto lunga, ma non è un verde che si possa utilizzare, non è uno spazio».

I servizi che immaginate produrranno occupazione? Il lavoro resta l’urgenza sociale.

«”Qui non abbiamo bisogno di spazi nuovi, ma soprattutto di spazi gestiti”, mi hanno detto. Sono previsti edifici di servizio come atelier, centro di ricerca agricolo, laboratori e negozi distribuiti in vari punti e anche una quota di orti urbani. La gestione sarà altrettanto importante. Non serve a niente realizzare un bellissimo luogo, se poi viene abbandonato, se non c’è una struttura di gestione organizzata e pensata prima. Questo non sta all’architettura, tuttavia certamente anche il problema della gestione va posto all’amministrazione. Abbiamo pensato a servizi di prossimità per stimolare un’occupazione per la gente che abita lì. È vero che nel passato la gestione dell’Ater è stata in molti frangenti uno sfacelo, però Corviale non è semplice e nel momento in cui diventa veramente la casa deve essere curata. Uno dei grandi difetti di Corviale è la gestione impersonale. Non abbiamo la pretesa irrealistica di risolvere tutto, ma di attivare, coinvolgere i cittadini».

A quanto ammontano i costi?

«Il concorso richiedeva i dettagli del preventivo di spesa, dunque che cosa s’intende fare con i 7.2 milioni di euro a disposizione per il primo intervento articolato su tutto l’edificio».

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(Figura 2. Assonometria notturna)

I fondi sono stati già stanziati?

«Sì».

Perché gli abitanti dovrebbero fidarsi? Non mancano loro ragioni storicizzate per lo scetticismo.

«Nutro fiducia, perché ho trovato seria la modalità in cui sono stati preparati i documenti del concorso con domande molto chiare. Ho pensato che questo potesse essere un concorso pulito ed è quello che è successo. Ho fiducia, perché da quando ho vinto il concorso tutte le persone a cui ne parlo, o mi domandano, hanno una fascinazione per questo edificio. Non mi ero mai resa conto che ci fosse questa affezione, che tocca anche le persone che ci abitano. Abbiamo già coinvolto Andrea Segre per un piccolo documentario, per raccogliere fin dall’inizio le voci e la storia di questo percorso».

Avete aperto un confronto con chi vive il luogo, ascoltato le loro necessità? Il senso di identità è radicato.

«So che la maggior parte degli abitanti di Corviale sono appunto sfiduciati, perché si sono sentiti abbandonati. Da architetta quello che posso fare è avere una grande attenzione nell’ascolto delle esigenze di tutti. È ovvio che nelle decisioni che saranno prese non tutti saranno contenti, però attivare un rapporto positivo con gli abitanti è fondamentale per come concepisco l’architettura. La qualità del concorso sta anche nella previsione della compartecipazione. Le domande poste dal concorso derivavano da una fase di ascolto. Ho cominciato, anche se non ho ancora firmato l’incarico ufficiale, per la seconda parte del progetto, perché penso che sia dirimente».

Che cosa si aspetta dalla politica?

«Il concorso è stato bandito da Ater e la Regione Lazio si è molto esposta. Il Presidente Zingaretti è andato a Corviale, si è impegnato, ha detto e so che ha un’attenzione particolare per il posto. Non posso che sperare che la politica mantenga quanto promesso. Sappiamo che in Italia non è molto comune, però Roma vive un momento particolare e bisogna ripartire. L’auspicio è che il processo continui come è cominciato. Il fatto che ci sia già uno stanziamento è una cosa molto buona. Ci vuole un controllo importante sulla costruzione. Tutti gli enti hanno l’obbligo della gara d’appalto. Il problema della gara è che sia pulita. Finora è stata una gara pulita, perché io non sono nemmeno di Roma. Non sono una persona che doveva vincere. Il progetto è stato votato da una giuria internazionale con sei voti favorevoli su sette con un bel distacco sul secondo. La politica può sorvegliare che le gare continuino a essere fatte in maniera pulita. Secondo me gli abitanti di Corviale possono fare qualcosa. Sono molti e contano elettoralmente. Gli abitanti di Corviale con tutte le proprie molteplici differenze dovrebbero cercare di formare una voce compatta».

Quali saranno i tempi presumibili per la realizzazione?

«È molto difficile stabilirli ora. Il concorso è la fase preliminare. Dovremmo firmare entro sei mesi il progetto definitivo, che serve per le concezioni edilizie, poche in questo progetto, e poi c’è la fase esecutiva. Dal definitivo all’esecutivo c’è un tempo che riguarda anche degli stanziamenti, la burocrazia, la conferenza dei servizi per spostare la strada, la volontà politica di chiudere questo progetto e condurlo in porto. Di lavoro nostro come architetti c’è almeno un anno e mezzo. Complessivamente prevedo sei, sette anni».

È una previsione ottimistica?

«Se la vedo bene, sì».

“A cento anni di distanza dal 1870 è ancora la stessa – dalla periferia al centro – la vera legge urbanistica di Roma: il massimo profitto attraverso ogni possibile rendita parassitaria”, scriveva Italo Insolera. In un quadro di emergenza abitativa, qual è il futuro delle case popolari?

«Affrontiamo una crescita commercialmente quasi incontrollabile per cui la città è diventata un mercato e questo è un fenomeno duro da cambiare. La pianificazione corre dietro a quello che avviene, cercando di tappare le falle. Non è nuovo nella storia di Roma, sì. Il patrimonio edilizio parassita non è denaro messo all’interno dell’economia che quindi crea movimento e risolve urgenze. Resta nelle tasche di chi ha la rendita. Ho lavorato molto sul tema delle case popolari. Recuperare una dimensione sociale del nostro lavoro credo sia una condizione di necessità. Il futuro delle case popolari? Cresce la percentuale dei sempre più poveri. Le case popolari sono tornate e torneranno a essere richieste; è inevitabile in una società sempre più diseguale. I costi sociali di non affrontare questi problemi sono altissimi. Oggi abbiamo degli strumenti di previsione di queste dinamiche molto più accurati rispetto a quelli di venti o trenta anni fa. Anche cinicamente, per una questione elettorale, ai governi conviene fare i conti prima per non pagare le conseguenze dopo».

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