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Cibo ed eros

Milano, Olio Officina Food Festival Palazzo delle Stelline. Il tema trainante dell’edizione 2015: l'olio alimenta l’eros. Un focus tutto improntato sui sensi

Edouard Manet: "Colazione sull'erba"

Edouard Manet: “Colazione sull’erba”

Il rapporto tra noi e il cibo e quello tra noi e gli altri, attraverso il cibo, hanno a che fare con l’eros. Il mangiare e il sesso hanno molte cose in comune. Entrambi sono sempre una mediazione tra natura e cultura e costituiscono elementi di fondo delle strutture sociali e delle regole che informano la convivenza umana. È per questo che il mangiare e il sesso rientrano nella sfera del “sacro”.

Il concetto di “sacro” precede quello di “religioso” e di “divino”. Non vanno confusi. Il sacro attiene a quegli aspetti metaumani che più occorrono quando due o più persone vivono insieme, pena il trasformarsi delle loro relazioni in rapporti mercificati, utilitaristici, pena la perdita della dimensione utopica. Senza il sacro l’uomo perde quello che, più umanamente, è umano.

L’idea di sacro richiama la cultura del frumento e del pane; dell’olivo e dell’olio; della vite e del vino. Si tratta di prodotti che in passato scarseggiavano e non erano accessibili a tutti i ceti sociali. La loro produzione, preparazione e consumo erano accompagnati da gesti, preghiere, formule, riti di propiziazione e ringraziamento. Appartenevano a quell’universo in cui ogni bene era necessario. E pertanto niente andava smarrito, perduto, gettato, sprecato. L’equilibrio produttivo e alimentare, la qualità della vita, la mentalità delle persone, ancora in un recente passato, risultavano strettamente legati alla bizzarria del clima, all’alternarsi di periodi di siccità e periodi di piogge torrentizie. Dal mattino alla sera, i contadini interrogavano il cielo, le nuvole, le nebbie, le stelle; osservavano attentamente la natura e gli animali che, coi loro movimenti e comportamenti, annunciavano pioggia, temporali, cattivo tempo. Tali modalità di vita del mondo rurale, lungi dal favorire atteggiamenti autoreferenziali e autarchici, si accompagnavano sempre ad un’apertura verso il mondo della ricerca scientifica e della tecnica e ad una predisposizione agli scambi tra i popoli.

La nascita dell’agricoltura

Sembra che siano state le donne a favorire, dieci mila anni fa, il passaggio dal nomadismo e dall’economia predatoria all’assetto stanziale e all’economia agricola, quando per prime sperimentarono la coltivazione del grano, dell’olivo e della vite, che richiedeva un’applicazione che durava quasi un intero anno in un medesimo luogo. E così inventarono il pane, l’olio e il vino per sostituire e integrare il cibo proveniente dall’attività pastorale-venatoria. Lo fecero per conciliare meglio i loro tempi di lavoro e di cura prima e dopo le gravidanze e contribuirono, in modo determinante, alla nascita dell’agricoltura.

Frapponendo tra sé e il cibo riti di macellazione, tecniche di cottura, maestria di miscelazioni, arte della presentazione dei piatti, del cibo e del vino, la donna e l’uomo cessarono di essere divoratori. Abbandonando l’atteggiamento dell’animale cacciatore che mangia la sua preda, la donna e l’uomo assunsero quello di chi crea un rapporto con il cibo. Si realizzò così la rivoluzione neolitica che costituì la prima rivoluzione agricola. Poi arriverà, tra il 1600 e il 1700 della nostra era, la seconda rivoluzione agricola e, infine, la recente rivoluzione verde. Una lunga traversata dall’invenzione della pratica agricola, dei miti, dei riti, dei numeri, della scrittura, alle attuali sperimentazioni degli organismi geneticamente modificati. Dalle democrazie assembleari delle proto-città e delle città-stato alla odierna “società aperta”.

L’eclisse del sacro

Le attuali società del benessere appaiono afflitte da una grigia mediocrità e da una piatta, monotona ripetitività. Stanchezza, usura psicologica e solitudine sono i mali del tempo presente. L’innovazione si riduce alla mera transizione dello stesso allo stesso. La forza delle differenze è vanificata. La creatività langue. L’etica della responsabilità è stata accantonata. Il rapporto tra le persone si è inaridito. Non è più un rapporto umano; è solo utilitaristico. Tra le varie forme di reciprocità prevalgono quelle distruttive (conflitti, guerre, vendette, ritorsioni) su quelle generative (confidenza, fiducia, cooperazione, sviluppo civile, mercato, mutualità, amicizia, amore).

Il sacro sembra eclissato da una molteplicità di fattori. Le filosofie irrazionaliste e autodistruttive, reinterpretando il mito della guerra dell’Armageddon, sono prevalse sulle idee dell’illuminismo e hanno contribuito a costituire le basi teoriche dei totalitarismi del novecento e del terrorismo islamico odierno. La liberazione dei rapporti sessuali, che si è manifestata al suo apice negli anni sessanta, ha costituito una tappa fondamentale nella conquista di una maggiore autodeterminazione. Tuttavia, si è molto intrecciata con l’affermazione di una mentalità utilitaristica e un atteggiamento competitivo e predatorio. Sia gli uomini che le donne spesso utilizzano la sessualità come strumento di negoziazione, di ricatto e di competizione. E quando non serve a questi fini, ci si rinchiude nei rapporti virtuali favoriti da internet. Perfino i rapporti tra le persone sono stati fagocitati nella sfera dell’efficienza. E dunque sono tenuti a livelli minimi fino all’evanescenza. Quando ci si incontra è da maleducati toccarsi, abbracciarsi, guardarsi negli occhi. Senza fini utilitaristici è da perdigiorno mangiare insieme e darsi del tempo. E così non mangiamo più insieme agli altri ma da soli, tristemente seduti davanti al bancone di un bar o del tavolo di un ristorante, gli occhi calamitati sul giornale per non guardare il cibo che si divora. E quelle volte che ceniamo in famiglia, spesso lasciamo il televisore e il computer accesi. “Per restare collegati con il mondo” è la giustificazione. Ma il motivo vero è che non abbiamo voglia di parlare nemmeno coi nostri congiunti.

Come ne usciamo?

Le società del benessere hanno modificato i nostri comportamenti e un’ inquietudine pervade le nostre vite. Una forte domanda di senso, a cui non sappiamo rispondere, ci afferra le viscere. Una nostalgia di “totalmente altro”. Un bisogno di trovarci in “luoghi totalmente diversi”. Una fame di eternità oltre l’effimero e l’inconcludenza. Questa domanda di senso altro non è che la ricerca del sacro.

Per recuperare la dimensione del sacro e rivitalizzare, in questo modo, i legami comunitari, gli individui dovrebbero imparare a vivere positivamente la sessualità. Si tratta di improntare i rapporti con gli altri più alla trasparenza e meno all’utilità, ove il gioco degli interessi prevale. C’è in noi un desiderio dell’altro come altro. Più esattamente di un altro come me, che mi è simile e compagno, che mi completa, ma soprattutto che vale non perché serve a me, ma per sé. Che quindi non posso mai ridurre a me – lo tratterei come cosa e lo perderei – ma che posso raggiungere solo nella sua libertà. L’amore non è – né può mai essere – possesso, ma è reciprocità positiva e perciò confidenza e fiducia. Ma per amare così è necessario contenere la prepotenza, la ricerca dell’utilità, comprendere che o si cresce insieme o qualsiasi accrescimento è solo apparenza, è solo un simulacro della potenza, in effetti un fallimento.

Così dovrà ristabilirsi il nostro rapporto con il cibo. L’uomo è un essere che ha fame e tutto il mondo esterno è il suo cibo. Noi dobbiamo mangiare per vivere, dobbiamo assumere il mondo e trasformarlo nella nostra carne e nel nostro sangue. L’uomo è quel che mangia e il mondo è la sua tavola universale. Ma cosa fa di un “tavolo” una “tavola”? Innanzitutto il fatto di incontrarsi guardandosi in faccia, comunicando con il volto la gioia, la fatica, la sofferenza, la speranza che ciascuno porta dentro di sé e desidera condividere. Il pasto è come il sesso: o è parlato oppure è aggressività; o è contemplato e ordinato oppure è animalesco; o è esercizio in cui si tiene conto degli altri oppure è cosificato e svilito; o è trasfigurato in modo estatico oppure è condannato alla monotonia e alla banalità. Prima di toccare il cibo dovremmo chiederci: “Da dove viene? Chi ha coltivato questi frutti? Chi li ha procurati con il suo lavoro? Chi li ha cucinati?”. Parlando del cibo lo assaporiamo e, con amore e in comunione con altri, lo facciamo diventare parte di noi. Il sacro – cioè la nostra umanizzazione – si riacquista e si espande aprendoci ad una sessualità e convivialità gioiose, fondate sulla fraternità delle relazioni.

 

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