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Il caso Giambellino, la nuova etica delle periferie

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Il Comune ha presentato un progetto impegnativo, ma i 4 mila abitanti del quartiere meriterebbero qualcosa di più: l‘impianto urbanistico del 1938 è esausto: bisognerebbe avere il coraggio di cancellarlo e di andare oltre il make-up stilistico di Maurizio De Caro shadow 2 3 2 Una nuova stagione per l’architettura sociale. Da oltre trent’anni il problema più spinoso nel restyling delle nostre città sono le famigerate periferie. Nate per insediare classi deboli nelle condizioni di passaggio dall’economia rurale a quella urbana, sono diventate, in mancanza decennale di manutenzione, monumenti desueti di una cultura dell’abitare ai limiti della dignità. Nonostante questa consolidata valutazione culturale, estetica e urbanistica, Milano ha sempre fatto un’enorme fatica a sostituire «pezzi di se stessa» altamente degradati, come se dovesse mantenere una memoria negativa di un’idea abitativa da neorealismo (e in effetti molti film sono stati girati in quei cortili). Le cause sono molte, e non soltanto economiche, ma anche di natura ideologica, concettuale o di semplice sottovalutazione del problema. Il quartiere Giambellino ad esempio non è un quartiere, è un mondo a parte; dai tardi anni 50 è stato abitato e attraversato dal Cerutti a Vallanzasca, dai fondatori delle Brigate Rosse a Battisti (Lucio), Berlusconi, Abatantuono e Gaber. Eliminate le contaminazioni romantiche potremmo considerarlo come possibile momento di elaborazione di una nuova etica urbana. La sfida è entusiasmante, il Comune ha presentato un progetto impegnativo e articolato, mentre Renzo Piano elaborava le sue pregnanti riflessioni col G124 (Giambellino 124). Ma ci permettiamo di far osservare che questi 4.000 abitanti meriterebbero qualcosa di più di un quartiere nuovo. L’impianto urbanistico del 1938 è a dir poco esausto, bisogna avere il coraggio politico di cancellarlo, andando oltre il make-up stilistico presentato recentemente. Un ambito urbano che è sempre stato rimosso dalle amministrazioni, un’enclave sociale marginale, addirittura misterioso, leggendario nella sua complessità umana. Guardare al Giambellino del futuro è come ricominciare a tessere la trama nuova della città, piuttosto che rammendarla, darne una visione originale e compatibile con le nuove esigenze abitative. Quel pezzo di passato può avere un cuore digitale e deve ambire a una luminosità progettuale come a dimostrare che là dove c’erano «gli ultimi» può nascere e consolidarsi un’idea nuova di residenzialità esente da retorica pauperista. Uno dei luoghi deputati a veder crescere la Milano del terzo millennio, più umana e contemporanea, perché finalmente la periferia possa diventare semplicemente città. Proviamoci.] Il caso Giambellino
La nuova etica delle periferie
Il Comune ha presentato un progetto impegnativo, ma i 4 mila abitanti del quartiere meriterebbero qualcosa di più: l‘impianto urbanistico del 1938 è esausto: bisognerebbe avere il coraggio di cancellarlo e di andare oltre il make-up stilistico.

Una nuova stagione per l’architettura sociale. Da oltre trent’anni il problema più spinoso nel restyling delle nostre città sono le famigerate periferie. Nate per insediare classi deboli nelle condizioni di passaggio dall’economia rurale a quella urbana, sono diventate, in mancanza decennale di manutenzione, monumenti desueti di una cultura dell’abitare ai limiti della dignità. Nonostante questa consolidata valutazione culturale, estetica e urbanistica, Milano ha sempre fatto un’enorme fatica a sostituire «pezzi di se stessa» altamente degradati, come se dovesse mantenere una memoria negativa di un’idea abitativa da neorealismo (e in effetti molti film sono stati girati in quei cortili). Le cause sono molte, e non soltanto economiche, ma anche di natura ideologica, concettuale o di semplice sottovalutazione del problema.

Il quartiere Giambellino ad esempio non è un quartiere, è un mondo a parte; dai tardi anni 50 è stato abitato e attraversato dal Cerutti a Vallanzasca, dai fondatori delle Brigate Rosse a Battisti (Lucio), Berlusconi, Abatantuono e Gaber. Eliminate le contaminazioni romantiche potremmo considerarlo come possibile momento di elaborazione di una nuova etica urbana. La sfida è entusiasmante, il Comune ha presentato un progetto impegnativo e articolato, mentre Renzo Piano elaborava le sue pregnanti riflessioni col G124 (Giambellino 124). Ma ci permettiamo di far osservare che questi 4.000 abitanti meriterebbero qualcosa di più di un quartiere nuovo. L’impianto urbanistico del 1938 è a dir poco esausto, bisogna avere il coraggio politico di cancellarlo, andando oltre il make-up stilistico presentato recentemente.

Un ambito urbano che è sempre stato rimosso dalle amministrazioni, un’enclave sociale marginale, addirittura misterioso, leggendario nella sua complessità umana. Guardare al Giambellino del futuro è come ricominciare a tessere la trama nuova della città, piuttosto che rammendarla, darne una visione originale e compatibile con le nuove esigenze abitative. Quel pezzo di passato può avere un cuore digitale e deve ambire a una luminosità progettuale come a dimostrare che là dove c’erano «gli ultimi» può nascere e consolidarsi un’idea nuova di residenzialità esente da retorica pauperista. Uno dei luoghi deputati a veder crescere la Milano del terzo millennio, più umana e contemporanea, perché finalmente la periferia possa diventare semplicemente città. Proviamoci.

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