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Il condominio di strada

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Ovvero la reinvenzione di comunità che si autoregolano

Il Progetto Condominio di Strada promosso da UNIAT e UPPI segna una discontinuità nel modo di fare rappresentanza nel campo dell’abitare. Da una tutela dei diritti dei proprietari di immobili e degli inquilini, esercitati individualmente, si passa alla rappresentanza e tutela dei cittadini che intendono espletare i diritti e i doveri nel campo dell’abitare, sia come individui che come formazioni sociali e comunità di persone. E le due Associazioni predispongono un’offerta efficiente, ordinata ed economica di servizi per supportare la capacità dei cittadini di autoregolarsi per gestire una serie di problematiche che riguardano la loro vita quotidiana, il condominio, il fronte strada e le aree pubbliche adiacenti ai caseggiati.

L’associazionismo nel settore dei servizi per la casa si sviluppa dopo la prima guerra mondiale coi programmi iniziali di edilizia popolare volti ad agevolare la proprietà familiare della casa. Nelle grandi città esistevano già le prime associazioni di proprietari di immobili. Quella di Milano è fondata nel 1893 e raccoglie tra i suoi membri i principali esponenti del notabilato locale, giocando un ruolo determinante nelle dinamiche politiche cittadine. Agisce anche a livello nazionale come gruppo di pressione nell’ambito della Federazione delle associazioni dei proprietari di case. Il soffocamento dell’associazione operato dal regime fascista, che la ingloba nelle proprie strutture corporative, trasformandola prima nell’Associazione fascista della proprietà edilizia (1928) e successivamente nel Sindacato fascista dei proprietari di fabbricati (1934), testimonia il peso raggiunto negli anni da questo sodalizio.

Nel secondo dopoguerra, la Federazione risorge come Confedilizia (1945). A Bologna nasce nel 1948 l’Associazione sindacale dei piccoli proprietari immobiliari per iniziativa di un gruppo di lavoratori e di pensionati, cui presto si uniscono giovani carichi di entusiasmo, che abitano nei quartieri di Levante e di S. Viola. Un fermento associativo e un’atmosfera da “sottosuolo” sociale che rimbalzano nell’Assemblea costituente. La quale ne recepisce le istanze nell’art. 47 della Costituzione:  “…(La Repubblica) favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione…”. È il frutto di una comunanza di interessi tra gli inquilini delle classi inferiori e i grandi proprietari, i primi desiderosi di acquistare una casa propria, i secondi per disfarsi di un patrimonio non più remunerativo per la tassazione più elevata e il blocco dei canoni. Anche quando, negli anni settanta, nasceranno dai movimenti e dalle consulte per la casa le attuali associazioni di inquilini, il sistema della rappresentanza resterà rigidamente ancorato ad un approccio di tipo “sindacale”, teso cioè a presidiare esclusivamente l’evoluzione delle politiche per la casa e la gestione dei rapporti contrattuali tra proprietari e inquilini. L’offerta di ulteriori servizi richiesti dai cittadini, nell’ambito del settore privato dei servizi per la casa, si svilupperà sulla base di modelli costosi e non aperti alla partecipazione e alla condivisione.

In tale contesto, l’iniziativa di UPPI e UNIAT ha l’ambizione di superare tali limiti offrendo un modello di servizi efficiente, sicuro, meno costoso, soprattutto aperto alla partecipazione dei residenti per la gestione delle strade delle città, riorganizzando le regole di civile convivenza aldilà del tornaconto personale e del mutuo vantaggio.

La libertà di ciascuno di noi non è solo limitata da quella altrui, è anche costruita grazie a quella degli altri. Per essere libero di vivere devo poter comprare del pane e mi serve anche un panettiere che lo produca. Questa evidenza, troppo trascurata, s’impone ancora in modo più impellente con la globalizzazione e con la crescita dell’interdipendenza degli uomini in un pianeta di dimensioni limitate. E poiché la libertà di ognuno si costruisce grazie a quella altrui, ogni persona deve partecipare alla costruzione della libertà degli altri.

Se si accetta sul piano etico l’esistenza di un legame inscindibile tra diritti e doveri, si può ritenere che il diritto alle libertà individuali ha come corrispettivo il dovere di fraternità, cioè l’attenzione consapevole di un individuo nei confronti delle libertà individuali dell’altro, con l’intenzione altrettanto consapevole di difenderle e accrescerle. In tale ottica, la fraternità si potrebbe definire come il dovere della libertà.

Sia le libertà individuali che la fraternità acquisiscono il loro pieno valore e la loro piena utilità solo se associati ad una introspezione personale da parte dell’individuo. Con la riflessione l’individuo autodetermina, in modo pragmatico, sia i limiti delle proprie libertà individuali che i limiti del dovere di fraternità che gli è proprio, bilanciandoli. Da tale equilibrio nasce la responsabilità, la cui natura ed entità ciascun individuo autodetermina liberamente, confrontandole coi punti di vista degli altri. E dal confronto continuo e sistematico tra le persone e i gruppi sulla natura e l’entità della responsabilità che gli individui assumono personalmente scaturisce un probabile sistema di riduzione delle ingiustizie e delle disuguaglianze in modo pragmatico, cioè fondato sull’analisi delle situazioni di fatto. Il dovere di fraternità è, dunque, accompagnato sempre da un percorso razionale di introspezione individuale e collettivo e – senza necessariamente attendersi atti di reciprocità e senza far leva sui sentimenti e sulle emozioni – produce beni relazionali, responsabilità individuale e giustizia sociale.

Le democrazie contemporanee riconoscono e tutelano il diritto fondamentale dei cittadini a disporre di una casa non come un diritto a se stante ma in modo strettamente collegato alla tutela di altri diritti umani. Nell’art. 2 della Costituzione italiana si riconoscono i diritti umani, sia quelli che si esercitano individualmente, sia quelli che si realizzano nella socievolezza, cioè nelle relazioni interpersonali, fondate sul reciproco riconoscimento dei rispettivi bisogni, e nelle formazioni sociali dove gli individui sviluppano la propria personalità. E nel medesimo articolo sono prescritti i doveri di solidarietà politica, sociale ed economica, come elementi imprescindibili dai diritti, necessari entrambi a garantire la convivenza civile.

La collocazione del principio di solidarietà in tale contesto non è privo di significato. Esso è inserito in connessione con il principio personalista: lo sviluppo di ogni singola persona è il fine ultimo dell’organizzazione sociale. E tuttavia l’attuazione di tale principio va ottenuta non solo mediante i diritti dell’individuo, considerato in quanto singola persona o formazione sociale, ma anche mediante i doveri di solidarietà, dei quali “la Repubblica… richiede l’adempimento”. In altre parole, le persone sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca e doverosa solidarietà.

Va, inoltre, considerata la qualificazione che connota la solidarietà nella Costituzione. Non è solo politica e sociale ma anche economica. E anche questa caratterizzazione non è priva di conseguenze nell’assetto sociale del Paese. Nell’economia di mercato, qual è quella esistente in Italia, la Costituzione prescrive i doveri di solidarietà economica. Sicché, la competizione, che caratterizza l’economia di mercato, e la solidarietà economica non sono posti in alternativa, bensì in modo complementare: l’economia deve essere competitiva e, al tempo stesso, solidale. Il principio di solidarietà nella nostra Carta costituzionale non è, dunque, assimilabile al “principio di restituzione” o “principio filantropico”, che vige negli Stati Uniti; non è obbligazione morale, ma si inscrive nei doveri di cittadinanza. In Italia la solidarietà è un dovere, il cui adempimento va conseguito mediante ordinamenti e regole. L’idea che la sorregge è che tutte le persone godono di un nucleo di diritti fondamentali ed è un dovere basilare della società (istituzioni, società civile e singoli cittadini) rispettare e sostenere tali diritti. Per poter espletare tale dovere, anche le comunità di cittadini devono darsi ordinamenti e regole e svolgere attività di interesse generale.

Individuare nel condominio una comunità di persone che amplia in modo autonomo e condiviso il ventaglio  dei propri compiti e servizi d’interesse collettivo significa abbandonare sia la visione individualista che quella statalista del diritto alla casa e favorire un approccio relazionale, collaborativo, fraternizzante, di vicinato, di comunità. Si tratta di promuovere tra i proprietari di immobili e gli inquilini la capacità di esercitare il diritto di autoregolazione e autorganizzazione per la gestione di una serie di problematiche che riguardano i condomini, il fronte strada e le aree pubbliche adiacenti ai caseggiati in cui essi vivono senza attendere che tale diritto sia concesso dallo Stato.  Un diritto siffatto è da sempre appartenuto agli individui e alle comunità di persone e adesso occorre rivitalizzarlo in forme nuove e con nuovi contenuti.

Il condominio e la legge

La parola condominio deriva dal latino medievale condominium (con = insieme e dominium = possesso) che significa: “diritto di possesso esercitato insieme con altri”.  Il condominio è una forma di comunione forzosa, necessaria e permanente, cioè imposta dalla legge al verificarsi di determinati presupposti: il primo è che vi siano due o più unità immobiliari nello stesso edificio; l’altro presupposto è la necessaria correlazione tra diritto di proprietà esclusiva e diritti (e obblighi) sulle parti comuni. Il principio generale che informa le norme sul condominio è quello di solidarietà, garantito dall’articolo 2 della Costituzione, che impone un costante equilibrio tra i diritti inviolabili dell’uomo (compresa la libertà economica e la tutela della proprietà privata), sia come singolo sia nelle formazioni sociali, e i doveri inderogabili di solidarietà (compresi i doveri reciproci dei partecipanti alla comunione).

Il condominio ha un inquadramento giuridico molto particolare. Può nascere anche senza un formale atto costitutivo. Appena il costruttore proprietario vende a terzi una porzione di fabbricato suscettibile di uso autonomo, si profila una situazione di condominio. Si tratta, dunque, di uno stato di diritto dipendente da uno stato di fatto puramente naturale, che non scaturisce dalla volontà dei partecipanti ma dalla situazione dei luoghi.

È significativo che quando fu approvato il Codice Civile venisse respinta la proposta del relatore Rossi della Commissione di studio per il progetto del terzo libro di introdurre una disposizione di questo tipo: “A ciascuno dei condomini spetta il diritto di proprietà sulla quota rispettiva, mentre alla collettività dei condomini spetta il diritto di proprietà sull’intero fabbricato. La collettività dei condomini si considera ente distinto dalle persone dei singoli condomini”. La bocciatura di questa norma fece mancare nella legislazione un esplicito legame del condominio alla proprietà collettiva. Non c’è dunque la possibilità di assimilare questa forma di possedere ai domini collettivi, i cui enti, benché non siano proprietari dei beni comuni, sono rappresentanti della collettività e titolari di poteri amministrativi. In Italia esiste una lunga tradizione di questi enti riguardanti i terreni coltivati e i boschi, le cui reliquie si conservano ancora oggi in quasi tutte le regioni. In base alla normativa vigente, il condominio sembrerebbe estraneo a questa forma di possesso.

Anche in occasione del dibattito sulla riforma del condominio del 2012 è riaffiorato il confronto tra la tesi collettivista (la proprietà condominiale intesa come proprietà collettiva) e quella individualista (rigorosamente ancorata alle prerogative proprietarie dei singoli condomini) ed è stata confermata la scelta di non configurare il condominio come un ente autonomo di gestione, nonostante il favore accordato dalla giurisprudenza a questa soluzione. Molte pronunce della Cassazione individuano, infatti, nel condominio un tertium genus, non identificabile né con la persona fisica né con la persona giuridica,  quanto piuttosto con la collettività organizzata, con la persona giuridica collettiva. Ma nel dibattito parlamentare è stato affermato senza mezzi termini che la proprietà condominiale non è assimilabile alla proprietà collettiva. E il motivo è che la proprietà condominiale viene ancora ritenuta una modalità di possedere non finalizzata all’interesse generale. È questa anche la ragione addotta per non conferire al condominio una personalità giuridica.

In breve, la maggioranza del Parlamento non ha voluto fare aperture in questo senso e riconoscere, dunque, al condominio la funzione di espletare compiti e attività di interesse collettivo così come avviene in altri paesi occidentali. Negli Stati Uniti, 57 milioni di americani vivono in comunità autoregolate, in gran parte dei casi organizzate come grandi condomini. La loro legge è un regolamento contrattuale, approvato da tutti. Da noi, invece, il baricentro della vita condominiale non è il regolamento stabilito in modo condiviso dai condomini ma un complesso di norme calate dall’alto che riguardano aspetti minuti della vita delle persone. Un’impostazione che risente dell’epoca (statalismo e accentramento) in cui questa fu concepita e varata per la prima volta (1935 e 1942) e che il timido e neghittoso legislatore del 2012 non se l’è sentita di innovare favorendo l’autonoma capacità dei privati di operare nell’interesse collettivo.

A distanza ormai di due anni dall’entrata in vigore della “riformicchia”, le controversie nei condomini sono cresciute e il contrasto alla morosità, alimentata anche dalla crisi economica, non produce effetti perché mancano competenze adeguate nel dirimere le liti. Per non incorrere in responsabilità introdotte dirigisticamente dal legislatore, gli amministratori sono diventati più rapidi nell’avviare le azioni di recupero del credito nei confronti dei condomini morosi. Con la conseguenza di aggiungere l’aggravio delle spese legali ai bilanci familiari già in condizioni di estrema difficoltà.  C’è poi un ritardo enorme nella digitalizzazione del rapporto tra condòmini e condominio: poche realtà dispongono di un sito internet e rarissimi sono i casi in cui i condòmini possono accedere direttamente, con funzioni di mera consultazione, all’home banking del conto corrente condominiale, cosa che permetterebbe maggiore trasparenza e maggiore partecipazione alla vita del condominio.  Sono tutti problemi che si possono affrontare seriamente solo organizzando un modello efficiente e condiviso di servizi che vada oltre le mere prescrizioni normative.

Prove di sussidiarietà orizzontale

Tra le azioni urgenti per il rilancio dell’edilizia, cui è dedicato il decreto “Sblocca Italia”, figura un articolo rubricato “Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio”. Si tratta di una norma con la quale si consente ai comuni di affidare a cittadini singoli o associati determinati interventi aventi ad oggetto la cura di aree ed edifici pubblici.  Questi soggetti  beneficiano di alcuni sgravi fiscali inerenti le attività da essi realizzate. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. I benefici fiscali sono concessi prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute. È facoltà dei comuni allargare l’elenco ad altri interventi realizzati dalle comunità di cittadini ritenute di interesse generale.

Questa norma fa seguito ad un’altra disposizione del 2013 che prevede la possibilità per i comuni di affidare la gestione di aree verdi o di determinati edifici di origine rurale ai cittadini residenti nei relativi comprensori mediante procedure di evidenza pubblica, in forma ristretta, senza pubblicazione del bando di gara. Condizione per la partecipazione a tali procedure, tuttavia, era la costituzione da parte dei cittadini di un consorzio del comprensorio che raggiungesse almeno i due terzi della proprietà della corrispondente lottizzazione. Pur commendevole nella finalità, la norma in questione sembra subire i limiti di un approccio segnatamente urbanistico che finisce per restringerne sensibilmente l’applicazione concreta.

Da questo punto di vista, lo “Sblocca Italia” compie una scelta diversa che apre ad una serie diversificata di formazioni sociali, sebbene non rinunci ad incentivare il ricorso, da parte delle comunità di cittadini, a “forme associative stabili e giuridicamente riconosciute”, cui viene accordata priorità nel riconoscimento delle agevolazioni fiscali. Tale scelta sembra riprendere quella contenuta in una norma del 2008 che si riferiva a “gruppi di cittadini organizzati”, i quali, secondo tale norma, possono presentare microprogetti di arredo urbano e di realizzazione di opere di interesse locale senz’oneri per l’ente, ottenendo così una detrazione dall’imposta sul reddito delle spese da essi sostenute.

L’insieme di queste norme costituisce un’indicazione per le amministrazioni comunali rispetto ad una diversa politica di valorizzazione per via partecipativa degli spazi pubblici e uno strumento normativo utile a fornire supporto ad iniziative di questa natura. Prende finalmente corpo quel principio di sussidiarietà orizzontale previsto dall’art. 118, ultimo comma della nostra Costituzione. E l’orientamento sembra essere quello di riconoscere prioritariamente soggetti privati di natura associativa che svolgono attività e interventi di interesse generale.

Su questa scia, anche il condominio può diventare un soggetto capace di andare oltre quanto previsto dalle norme vigenti e assolvere una serie di compiti di interesse collettivo a beneficio dei proprietari di case, degli inquilini e in generale delle comunità locali.

L’idea che dovrebbe guidare tali iniziative è l’innovazione nel suo significato più ampio che non comprende solo la tecnologia e va ben oltre il risultato dell’attività di ricerca. L’innovazione è tale perché viene attuata e trova corrispondenza nella pratica produttiva. Essa non riguarda solo la sfera tecnologica ma tutte le fasi del processo produttivo, nonché il contesto interno ed esterno nel quale si realizza e coinvolge anche gruppi di attività come la formazione professionale, i servizi tecnici di supporto, la consulenza. L’ulteriore elemento che caratterizza attualmente l’innovazione è la consapevolezza che l’evento ideativo e la sua trasformazione in innovazione non proviene soltanto dal mondo della ricerca e della sperimentazione. L’innovazione non è dunque solo un fatto tecnico, un metodo rigido che determina il successo di un’idea, di un’intuizione, di una proposta, è piuttosto il frutto di un’attitudine mentale, di una predisposizione psicologica che va alimentata con la ricerca, il confronto, lo scambio di più punti di vista.

L’innovazione diventa innovazione sociale, cioè un nuovo modo di organizzare l’attività umana, dove le potenzialità della vita vengono messe all’opera in un impegno di natura etica. Si tratta di quella innovazione che vuole rispondere a bisogni emergenti delle persone attraverso nuovi schemi di azione e nuove forme di collaborazione tra diversi soggetti. E descrive l’intero processo attraverso il quale vengono individuate nuove risposte ai bisogni sociali con l’obiettivo di migliorare il benessere collettivo.

Il Progetto “Condominio di Strada” come innovazione sociale

Lo Sportello di Strada

La realizzazione del Progetto Condominio di Strada è un’innovazione sociale perché presuppone un mutamento di mentalità e di abitudini negli individui, nella società civile e nella pubblica amministrazione; un mutamento di comportamenti che si può ottenere gradualmente solo con la creazione di fiducia, la condivisione, la formazione e la sperimentazione di nuovi servizi. La prima azione da avviare è quella di razionalizzare la presenza di amministratori competenti di condominio. L’amministratore è scelto dalle assemblee condominiali. Se più assemblee condominiali si raccordano tra loro,  ci potrà essere un solo amministratore al servizio di una via o di un quartiere, inteso come insieme di abitazioni e infrastrutture costituenti l’unità minima di urbanizzazione. Un amministratore che abbia competenze pluridisciplinari: non solo  nell’ambito tecnico-giuridico, per poter acquisire la natura fattuale dei problemi pratici e poi interpretare e applicare le norme, ma anche in quello della mediazione culturale, della mediazione di comunità e della negoziazione per poter prevenire e risolvere le divergenze tra condomini di diversa cultura e formazione, etnia, età e per fornire servizi primari e complementari agli edifici in modo corretto, trasparente, puntuale ed economico. Un amministratore che interpreti il proprio ruolo come conciliatore, negoziatore e animatore sociale per assumersi la responsabilità nella mediazione dei conflitti e individuare nuove opportunità da proporre ai condomini volte a contrastare i pregiudizi, le diffidenze, l’isolamento e il disagio abitativo, a risolvere le divergenze senza necessariamente ricorrere al giudice, a ridurre i costi di qualsiasi tipo, a puntare al risultato al di là del mero ordine contabile e a migliorare la sicurezza e la qualità della vita degli individui e delle famiglie. Un amministratore che sappia collegarsi con il contesto sociale e amministrativo in cui svolge la sua attività. Si tratta di conoscere l’articolazione decentrata della pubblica amministrazione, della rete associativa del Terzo Settore, dei servizi erogati dalle organizzazioni di categoria, dei servizi di prossimità resi disponibili dalla autorità preposte all’ordine pubblico e alla sicurezza.

Tali competenze scientifiche e tecniche e capacità psico-attitudinali si acquisiscono sia con un’adeguata formazione che con una pratica riflessiva, inserita in processi di autoapprendimento collettivo promossi da UPPI e UNIAT impegnati a sviluppare modelli di servizi di alto livello. In questo modo si potrà stabilire un rapporto quotidiano, diretto, faccia a faccia, fondato sulla fiducia e la stima professionale, tra i cittadini residenti e coloro che sono nominati dalle assemblee condominiali non solo per amministrare quanto previsto dalle normative ma anche per badare ad altre esigenze.

La partecipazione alla costituzione di Smart community

L’ufficio dell’amministratore diventa così uno Sportello di Strada, collegato ad una équipe di specialisti,  dove chiedere chiarimenti sui problemi condominiali, ottenere la lettura dei riparti millesimali, far confluire la domanda di nuovi servizi ed essere protagonisti, in quanto cittadini residenti organizzati, alla costituzione di smart community mediante la piena e congiunta utilizzazione dell’intelligenza connettiva, la capacità creativa, la risorsa partecipativa e il legame solidale comunitario.  La dotazione di un sito internet permette di accompagnare processi partecipativi, di elaborare e diffondere prontuari per facilitare la comunicazione e vademecum per favorire la civile convivenza e l’interculturalità, di semplificare norme e procedure,  di rendere trasparenti i contratti di manutenzione e dei processi di affidamento, di curare l’albo dei fornitori dei servizi: artigiani, imprese, ditte; tutte del quartiere per ottenere una riduzione dei costi e dei tempi d’intervento. Lo Sportello di Strada cura anche la connessione ai servizi digitali informatici, internet e radio televisivi degli immobili migliorando la capacità ricettiva e riducendo i costi.

La creazione di attività innovative

Diventando il centro di aggregazione e di confluenza dei bisogni dei cittadini che non trovano risposte efficaci da parte dei servizi erogati dal pubblico o dal mercato – così com’è organizzato attualmente – o che addirittura non trovano alcuna risposta, lo Sportello di strada potrà favorire la nascita di attività innovative o di rafforzare e riorganizzare attività già presenti nel territorio:

  1. servizi agli anziani non autosufficienti (ricerca badanti, creazione di orti sociali, ecc.);
  2. servizi all’infanzia (ricerca baby-sitter, allestimento di asili nido – Tagesmutter gestiti da una mamma nel proprio appartamento, creazione di agrinidi, ecc.);
  3. servizi educativi (accompagnamento e ritiro dalla scuola e dai luoghi delle attività sportive, insegnamento lingua italiana agli immigrati, ripetizioni per studenti in difficoltà, percorsi di educazione-formazione-lavoro di minori in difficoltà presso fattorie sociali, ecc.);
  4. servizi per le persone svantaggiate (inserimento socio-lavorativo e attività terapeutico-riabilitative in fattorie sociali, ecc.);
  5. organizzazione della banca del tempo tra volontari ed eventuali operatori a contratto;
  6. servizi comuni di lavanderia e stireria in aree condominiali, per ridurre le spese e i costi ecologici;
  7. creazione di spazi condominiali attrezzati per il gioco dei bambini, per la produzione fai da te (falegnameria, ceramica, conserve, ecc.), per l’organizzazione di concerti e spettacoli;
  8. servizi per i nostri «amici a quattro zampe» (dog-sitter, gestione di aree ludiche per cani all’interno di aree verdi pubbliche, private o collettive, ecc.).

L’inverdimento del grigio urbano bonificato

Molti comuni hanno già predisposto dei regolamenti per fruire delle aree verdi. Le iniziative si possono sviluppare anche in aree private per iniziativa dei proprietari o di affittuari. La stessa cosa vale per gli orti sociali che possono nascere in aree verdi pubbliche, private o collettive. Si tratta di favorire la nascita di vere e proprie imprese di servizi per fare in modo che i cittadini ricevano servizi efficienti a costi contenuti non solo in aree aperte ma anche all’interno delle proprie abitazioni, terrazzi o sui tetti. Catturando CO2 e le emissioni nocive nell’aria, gli orti sui tetti delle case non fanno solo bene all’ambiente e al benessere psicofisico delle persone coinvolte, ma favoriscono anche la biodiversità animale, in quanto gli uccelli possono tornare a nidificare tra i giardini pensili. Inoltre, essi hanno un effetto isolante perché assorbono i rumori del traffico e d’estate riducono il calore di diversi gradi, apportando risparmi notevoli sulle bollette energetiche. Con una legge recente anche lo Stato italiano sta supportando gli orti sui tetti: essi sono stati, infatti, inclusi nella lista degli interventi di riqualificazione energetica per i quali è prevista una detrazione fiscale del 65%. L’attività dei tetti “verdi” viene studiata con grande interesse anche nelle Università italiane. È il caso del Centro Studi Agricoltura Urbana e Biodiversità dell’Università di Bologna che, recentemente, ha pubblicato la ricerca Exploring the production capacity of rooftop gardens in urban agriculture con la quale si è stabilito come più di due terzi degli ortaggi consumati dai bolognesi potrebbero arrivare dai tetti della città. Se tutto lo spazio disponibile nelle case e nei palazzi fosse impiegato per la creazione di orti urbani, infatti, si potrebbero produrre circa 12.500 tonnellate di ortaggi. Lo studio, per la sua importanza, è stato pubblicato anche dalla rivista Science and Evironment Policy della Direzione Generale Ambiente della Commissione Europea.

Anche l’Università del Molise, in collaborazione con l’Associazione italiana verde pensile, è impegnata su tali progetti come a Corviale, un grande condominio pubblico lungo un chilometro che guarda all’Agro Romano. Un progetto di bonifica del grigio (del cemento) da ricoprire con il verde dell’orto senza terra ma in serra idroponica, per l’assorbimento di calore, polveri sottili e acque piovane. L’idea portante – creata da Stefano Panunzi e la sua équipe scientifica – è che “gli alloggi dovranno implementare terminali di sistemi produttivi/riproduttivi alimentati direttamente dai cicli di consumo e di scarto ospitati quotidianamente dall’edificio. Le infrastrutture fisiche, quelle impiantistiche, gli involucri e i vuoti occupabili e inutilizzati, dovranno essere messi a sistema fra di loro per attuare ecosistemi primari e secondari basati sull’economia circolare a km zero, alla scala del condominio residenziale e delle sue aggregazioni di isolato e distretto locale. Il conseguente minor aggravio delle infrastrutture urbane centrali dovrà generare immediate compensazioni fiscali e semplificazioni procedurali autorizzative e certificatorie. La diffusione e l’efficientamento dell’ecosistema digitale nell’ecosistema urbano dovranno incidere concretamente nel più generale ecosistema spazio-temporale quotidiano dell’abitante, aumentando la sua dotazione e la disponibilità di spazio e di tempo per l’affermazione dei propri diritti nel lavoro tradizionale e innovativo e nell’accesso alle risorse relazionali pregiate (salute, istruzione, cultura)”.

La costruzione di reti di economia civile

La creazione di orti sociali sollecita la nascita di farmer market e di gruppi di acquisto solidali (Gas) in collaborazione con produttori agricoli locali. Anche in questo caso si tratta di collegarsi alle reti solidali che stanno nascendo per inserire il condominio di strada nei loro sistemi con l’accortezza di creare sinergie coi negozi specializzati del fresco e del bio. Occorre diffondere e favorire lo spirito di collaborazione e di reciprocità, evitando che le iniziative muoiano per via di una competizione spinta.  Tra le reti solidali da incoraggiare ci sono anche quelle tra agricolture civili e ristorazione collettiva, mediante la sperimentazione di nuovi modelli di welfare nell’ambito del gusto riflessivo, per usare la felice espressione coniata, alcuni anni fa, da Elena Battaglini rileggendo e connettendo la lezione sociologica di Antony Giddens con quella della tradizione gastronomica mediterranea; un gusto rivolto al futuro, potremmo anche dire; un gusto dinamico, inteso come la dimensione corporea, sensoriale e cognitiva dell’individuo capace di scegliere (o di rifiutare) modalità, luoghi e prodotti di consumo nella mutevolezza dell’agire quotidiano; di interagire con il “rischio costruito”, esprimendo con la propria scelta la fiducia (o la sfiducia) in un’azienda produttrice; di associare le sensazioni concesse dall’esperienza della relazione con un alimento o una bevanda alle motivazioni ideali che possono indurre a sostenere determinati progetti imprenditoriali socialmente responsabili.

Altro settore d’intervento riguarda la creatività, a partire dal graffitismo che ha assunto il carattere di una vera e propria produzione artistica (arte di strada) per decorare le pareti di palazzi o muri di cinta. Nell’ambito della memorialistica della Resistenza, si va diffondendo l’uso di incidere sui mattoni dei marciapiedi  delle loro abitazioni il nome dei martiri; un uso che si può collegare ai percorsi storici presenti nei quartieri.

Un altro campo di attività è la creazione di reti per:

  1. gli interventi urgenti di manutenzione domestica;
  2. la gestione dei rifiuti;
  3. l’organizzazione del riciclo e del riuso dei beni domestici non utilizzati;
  4. la pianificazione di soluzioni di efficienza energetica per gli immobili.

Un ulteriore ambito di attività è l’intermediazione immobiliare mediante la creazione di servizi di assistenza centralizzata per contratti di locazione,  di servizi di notariato per rogiti, mutui e usufrutto e di una banca dati a sostegno di compravendite e locazione in affitto, per utenti pubblici e privati.

Un nuovo ambito d’iniziativa è la tutela dei cittadini e delle imprese che vengono vessati dalle banche e dalla pubblica amministrazione finanziaria e hanno bisogno di aiuto. Si tratta di favorire l’educazione finanziaria delle imprese e delle famiglie per la tutela da ogni forma di sopruso da parte di operatori speculativi e di promuovere solidarietà verso le vittime del reato di usura.

Infine, lo Sportello di Strada potrà sperimentare forme di gestione concordata con l’amministrazione comunale della messa in posa e rifacimento delle opere infrastrutturali: gas, luce, acqua, telefono, asfaltatura strade, rifacimento marciapiedi e riqualificazione delle aree verdi e sportive.

Le forme originarie dell’abitare nel Mediterraneo

Il Condominio di Strada è un progetto che si può considerare come reinvenzione di una tradizione. Infatti, le forme dell’abitare nel Mediterraneo, dall’antichità fino alle soglie della società industriale, hanno sempre avuto un carattere collettivo. In quest’area del mondo non si vive mai in un luogo da soli, ma in gruppo, quali che siano le dimensioni e la ricchezza di quest’ultimo. Un migliaio di uomini che vivano poveramente del lavoro della terra e dello scambio dei suoi prodotti è sufficiente, nel Mediterraneo, a costituire una città. Anche un borgo modesto si presenta come un microcosmo urbano, nel quale tutta la vita sociale è organizzata in funzione del gruppo.

Sono rimasti disperatamente vuoti i villaggi di colonizzazione creati con la riforma agraria nel cuore della Sicilia e della Basilicata interna al fine di strappare i contadini dalle agro-città, simbolo della forza d’inerzia del latifondo, e di legarli alle terre loro distribuite. Non basta una casa in mezzo ai campi per fare un podere.

La moderna urbanistica è nata nel Mediterraneo, nella Grecia del V secolo, con Ippodamo da Mileto, inventore delle piante a scacchiera. Sia i greci che i romani portavano dovunque arrivavano il proprio modello urbanistico. Lo spazio pubblico della città, dove l’uomo è tenuto ad apparire, fruisce di una duplice definizione. L’una lo differenzia rispetto alla casa, luogo del riposo e del sonno, ma spazio chiuso, privato, femminile, difeso e da difendere; l’altra rispetto al “paese piatto”, al “paese vuoto” della campagna, spazio aperto, ma luogo del lavoro e della natura. Esso si impone come lo spazio dell’azione senza lavoro: luogo del rituale e della festa, del gesto e dello spettacolo, dei piaceri e dei giochi.

Il vero centro sociale è situato nella piazza dove sfocia tutta la circolazione confusa e caotica delle viuzze. Una piazza per ogni quartiere, per ogni comunità etnica o religiosa; una piazza per ogni funzione, dal mercato al culto, all’assemblea; una piazza dalle dimensioni di una strada – un “corso” – lungo la quale si allineano le case dei ricchi e le botteghe di lusso e dove sfilano processioni e cortei; a ogni piazza, infine, la sua coloritura, aristocratica o popolare. Anche nel più piccolo borgo, è sempre sufficiente uno spazio, anche di modeste proporzioni, vicino alla chiesa o al municipio, con un caffè e qualche albero e un po’ d’ombra, perché gli uomini vi si ritrovino tra loro e diano vita alla piazza.

Scrive il grande storico Fernand Braudel: “Molto più che al clima, alla geologia e al rilievo il Mediterraneo deve la propria unità a una rete di città e di borghi precocemente costituita e notevolmente tenace: è intorno ad essa che si è formato lo spazio mediterraneo, che ne è animato e ne riceve vita. Non sono le città a nascere dalla campagna: è la campagna a nascere dalle città, che è appena sufficiente ad alimentare”. Attraverso le città si proietta sul territorio un modello di organizzazione sociale e attraverso le reti di città e di borghi i mercati si ampliano e, coi mercati, l’idea stessa di vicinato supera ogni frontiera.

L’idea di vicinato ha a che fare con la reciprocità. Nel senso comune “avere rapporti di buon vicinato” significa stabilire una reciprocità di diritti e doveri tra persone che abitano terre o case contigue. Lo attesta la consuetudine millenaria della prestarella o aiutarella, molto diffusa nelle comunità rurali. Nel poema Le Opere e i Giorni, Esiodo esorta gli agricoltori a coltivare i doveri di vicinato: “Fatti ben misurare dal vicino ciò che ti occorre, e restituiscigli la stessa misura e anche di più, se lo puoi, avendone in futuro ancora bisogno, tu lo ritrovi pronto”.

La parola territorio deriva dal latino terrae torus, “letto di terra”, e originariamente stava a significare quella porzione di terra della quale gli antichi popoli si appropriavano, attraverso la delimitazione di confini. L’espressione latina fines regere, “tracciare il confine”, voleva dire porre la regola (da regere, “mantenere”) dell’appartenenza (da appartenere, “far parte di”) ad una comunità umana di una porzione dei terreni allora disponibili; voleva dire, in altri termini, che su quello spazio di terra si instaurava il primo rapporto giuridico di appartenenza collettiva della terra stessa ad una comunità umana. Dunque, nella storia di Roma l’istituto della proprietà collettiva ha preceduto quello della proprietà privata.

Nell’antica Roma esisteva l’insula che era un caseggiato di quattro o cinque piani, divisi in tanti appartamenti, piccoli e grandi. Un epigramma di Marziale dedicato a Novio (I, LXXXVI) ci dice quanto fosse difficile incontrarsi coi vicini di casa in un condominio antico, ieri come oggi, anche se si abitava nell’appartamento accanto: “È mio vicino e con la mano / Si può toccare Novio dalle mie finestre. / Chi non mi invidia e non mi reputa / beato ad ogni ora, potendo io / godere di un compagno così intimo? / Ma per me è lontano quanto Terenziano / che ora amministra Siene sul Nilo. / Non riesco a cenarci e nemmeno a vederlo, /  non posso sentirlo, in tutta Roma non c’è / chi mi sia così distante e così accanto. / C’è da emigrare più lontano io o lui. /  Vicino o coinquilino sia di Novio, / chiunque non ha voglia di vedere Novio” (Traduzione di Miro Gabriele). Anche nelle città antiche c’erano, dunque, gli stessi problemi di oggi: sovraffollamento, incomunicabilità, invisibilità in mezzo alla massa. E i problemi si risolvevano dotandosi di regole comuni.

È con il risorgere delle città in epoca medievale, dopo la decadenza dell’impero romano, che il condominio incomincia a chiamarsi con questo nome. Lo storico Carlo M. Cipolla racconta una vicenda accaduta nella Firenze del ‘600 che ci fa comprendere il peso delle clausole contrattuali tra proprietari e conduttori e delle regole condominiali nel determinare le condizioni igienico-sanitarie delle città. A Firenze, come altrove, per la raccolta dei rifiuti gli edifici d’abitazione disponevano in genere di pozzi neri. I “votapozzi”, dietro compenso, si occupavano di vuotare i pozzi neri e le cantine quando la cosa era necessaria. Il contenuto veniva suddiviso in due parti: quello buono per concimare veniva venduto ai contadini e agli ortolani; quello non buono per i campi coltivati, detto “acquastrone”, veniva gettato nell’Arno. Ma ad un certo punto i proprietari e i contadini si resero conto che era possibile far a meno dell’intermediazione dei votapozzi. Il contadino stesso incominciò a vuotare il pozzo nero o la cantina: così il proprietario risparmiava la spesa del votapozzi e il contadino in compenso della sua fatica si teneva la materia buona per concimare senza dover sborsare soldi e gettava nel fiume l’acquastrone. Maggiormente apprezzati erano i pozzi dei quartieri più poveri, dove le materie fecali non erano inondate dall’acqua e quindi conservavano una maggiore percentuale di azoto. Tuttavia, venne a mancare l’alta professionalità dei votapozzi e l’acquastrone buttato in malo modo nell’Arno incominciò a creare forti malumori tra gli “ecologi” del tempo. E presto arrivarono molte segnalazioni all’Amministrazione. La quale si vide costretta a decretare che i pozzi e le cantine dovevano essere vuotati  solo dai votapozzi. E questi vennero impegnati,  sotto pene gravissime per ogni contravvenzione, a portare i rifiuti ad appositi scaricatori e buche fuori le mura della città. I votapozzi andavano pagati dai proprietari ma costoro si erano abituati, grazie all’opera dei contadini, ad essere sgravati della spesa della vuotatura dei pozzi neri e delle cantine. Quando entrò in vigore la nuova normativa, molti proprietari presero il vezzo di includere nei contratti di locazione che la spesa  per il vuotamento dei pozzi fosse a carico dell’affittuario. Molti degli inquilini però erano poveri e non avevano i mezzi per pagare questa spesa. E così incominciarono a lasciare i pozzi neri e le cantine ricolmi di liquami. Presto il cattivo odore allarmò le autorità cittadine. Le quali, dopo molti sopralluoghi, si resero conto che l’obbligo di svuotare i pozzi, fino a quando sarebbe stato oneroso, molti lo avrebbero disatteso. E decisero, pertanto, di levare gli scaricatori e di lasciare liberi i proprietari e gli affittuari di concordare coi contadini il vuotamento dei pozzi. Il rischio della peste fu così evitato. La pratica durerà fino all’Ottocento, quando l’arrivo dei concimi chimici renderà superfluo l’utilizzo dei liquami urbani in agricoltura. Si spezza così il plurisecolare circolo virtuoso tra città e campagna, formato in successione e ripetutamente prima dalle fasi della produzione e del consumo dei prodotti agricoli e poi dalle fasi del trasporto di rifiuti e deiezioni umane dalle aree urbane in quelle rurali e del loro riutilizzo in agricoltura. E solo allora sarà il condominio a ripartire le spese per il vuotamento dei pozzi neri in attesa di più efficienti reti fognanti dinamiche.

L’evoluzione delle forme dell’abitare

La vita economica e sociale delle città in età pre-industriale e pre-metropolitana è contrassegnata dalla mescolanza di aspetti urbani e aspetti rurali. La vita degli individui è interamente regolata dalla comunità, la Gemeinschaft, di cui parla il sociologo Ferdinand Tönnies. Tutto rientra nello spazio pubblico. Le relazioni tra gli individui sono emotive e immediate, piene e aperte, solidali e reciproche. Sono orientate da regole consuetudinarie definite dalla comunità.

Il passaggio dall’urbanesimo preindustriale a quello industriale ha aperto la strada alla deruralizzazione totale dell’ambiente cittadino. Alla Gemeinschaft (comunità) subentra la Gesellschaft, che per Tönnies è la società basata su relazioni artificiali e convenzionali e in cui gli individui s’impegnano solo parzialmente nei rapporti emotivi. Il moderno urbanesimo industriale si afferma all’insegna della convinzione che l’avvento della società industriale rappresenti, nell’evoluzione dei sistemi economico-produttivi, una tappa conclusiva e irreversibile, e che in virtù delle enormi potenzialità tecnologiche dell’industria il mondo urbano possa vivere ed espandersi prescindendo da ogni rapporto con l’ambiente rurale. In tale contesto, lo Stato assolutista assorbe ogni potere normativo espropriando la comunità della sua funzione primaria di autoregolamentarsi. Assecondano tale processo la Riforma protestante e il Concilio di Trento che introducono la preghiera personale e silenziosa e attenuano il valore di quella comunitaria. Inoltre, l’alfabetizzazione e le tecniche di stampa si propagano e finalmente si può leggere anche individualmente.

Lo sviluppo della città metropolitana e della grande fabbrica, come due facce della stessa medaglia, ha portato alla morte dello spazio pubblico e al rinchiudersi progressivo degli individui nella sfera privata. Secondo il sociologo Richard Sennett, questo cambiamento ha avuto una lunga gestazione dal declino dell’Ancien régime in poi. L’idea del “privato” sembra richiamare la casa come luogo nostro per eccellenza, preposto all’intimità, uno spazio del sé, che si intende come ricco, pieno del senso della persona. In realtà, il significato della parola – “esser privo” – non suona affatto come pienezza ma prende il nome da una mancanza. Cosa manca nel privato? Evidentemente lo sguardo dell’altro, il collettivo, il fragore del pubblico. La parola racchiude, dunque, le tracce di una sottrazione, come se il terreno del sé fosse stato separato da altri spazi e con fatica conquistato.

In tale clima, nasce l’idea hobbesiana di “Stato sociale” come preoccupazione del Sovrano assoluto – raffigurato dalla figura mitologica del Leviatano – che opera per il benessere della popolazione. Thomas Hobbes (1588-1679) teorizza che in origine lo “stato di natura” dell’uomo è “homo homini lupus” (“un lupo per l’altro uomo”) e che, per non soccombere in una guerra fratricida, fra gli uomini si deve stipulare un contratto al fine di delegare il potere a una autorità, il Leviatano, al quale conferire il monopolio della forza (fisica e legale), e di altri poteri ancora, ove necessari, così da garantire le libertà individuali e la pace sociale, in breve il benessere di tutti. Sulla base di questa teoria, si è successivamente sostenuto che l’utilitarismo degli individui genera problemi di sicurezza (conflitti sociali) che possono essere risolti solo attraverso un contratto (che ha due momenti: un pactum unionis e un pactum subjectionis) in cui ciascuno aliena le proprie prerogative ad un Potere che decide le regole per tutti, assicurando le libertà proprietarie di tutti alla sola condizione che ciascuno non leda le libertà altrui. Col tempo, il Leviatano si trasforma nella “Repubblica” di marca giacobina. Tutti i vari modelli di Stato sociale, fino a quelli recenti di tipo keynesiano-beveridgiano o parsonsiano, assumono una visione antropologica di tipo materialistico, utilitaristico e individualistico e presuppongono che gli individui, come sudditi o cittadini, si sottomettano ad un Potere politico che detta la norma valevole per tutti.

Lo Stato sociale edificato in Italia nel secondo dopoguerra ha assunto caratteri del tutto peculiari. La pesante eredità del fascismo e l’adattamento alla “guerra fredda” tra gli Stati Uniti e i paesi alleati, da una parte, e l’Unione Sovietica e i paesi satelliti, dall’altra, hanno interagito per fare in modo che il residuo spazio pubblico della comunità venisse occupato dalle organizzazioni della sinistra marxista e dei cattolici democratici in una logica di appartenenza competitiva. A questa condizione si aggiunge un altro elemento non meno grave. Da noi i doveri costituzionali di solidarietà non sono ripartiti tra Stato, corpi intermedi e cittadini – come si sarebbe dovuto fare – ma sono stati assunti quasi completamente nelle politiche pubbliche in una logica statalista, burocratizzata e centralistica. I pubblici poteri si fanno essi stessi produttori di beni e servizi mediante attività economiche non dissimili da quelle dei privati (partecipazioni statali, nazionalizzazioni, consorzi bancari, ecc.); le riforme socio-economiche come l’agricoltura, l’istruzione e la sanità sono gestite essenzialmente da enti pubblici (enti di riforma, aziende sanitarie locali, distretti scolastici, ecc.); i servizi sociali vengono pensati di tipo centralistico e risarcitorio, cioè per i soggetti svantaggiati e per i poveri; il riequilibrio territoriale viene affidato alla Cassa per il Mezzogiorno; il regionalismo viene attuato come articolazione dello Stato unitario per ridistribuire le provvidenze pubbliche. La Dc e la sinistra  hanno assolto ad un ruolo di mediazione tra i cittadini e lo Stato, trasformando la residua comunità tradizionale in una sorta di convivenza tra “separati in casa”. Le forme di aggregazione e di associazionismo, costruite nel tempo, hanno fatto riferimento essenzialmente alle due “chiese politiche” che sono rimaste in piedi anche quando non ci sono state più le ragioni ideologiche e geopolitiche che motivassero in qualche modo la loro esistenza. Una situazione che si è ulteriormente complicata con le recenti ondate migratorie: nei quartieri delle nostre città, insieme a gruppi di immigrati si sono aggiunti nuovi movimenti politici transnazionali e nuove religioni con la conseguenza che le “chiese” si sono moltiplicate.

Dal punto di vista urbanistico, l’idea guida dello sviluppo metropolitano è che i nuovi quartieri debbano essere abitati da un’unica classe, mentre nel vecchio centro cittadino i ricchi debbano vivere separati dai poveri. Questa concezione ha dato origine allo sviluppo urbano “monofunzionale”, secondo il quale ogni parte della città ha una funzione specifica. Interi isolati sono esclusivamente residenziali, mentre i servizi per le famiglie  (centri comunitari, parchi, centri commerciali, ospedali, ecc.) sono situati altrove. Lo spazio non si definisce dai confini – dentro/fuori alla/dalla polis come per la dimensione fondativa della città premoderna – ma dalla specializzazione interna dello spazio urbano. Tale differenziazione impone i suoi criteri anche sulla regolazione del tempo della vita sociale.

Tali processi sono accompagnati da fenomeni contraddittori e paradossali come la vicenda degli orti urbani. Già nella seconda metà dell’ottocento, i processi migratori delle campagne verso le città sono accompagnati dalla reinvenzione della tradizione degli orti negli interstizi dei grandi complessi edilizi urbani; una tradizione che costituisce la modalità con cui i contadini diventati operai restano legati in qualche modo alla loro cultura originaria ed evitano gli effetti alienanti della vita di fabbrica. Spesso sono i condomìni a promuoverli sull’onda dei mitici jardins ouvriers organizzati dall’abate Lemire in Francia e lo fanno per soddisfare un bisogno di comunità che la vita urbana tende a sfaldare.

Presto ci si accorge che stabilire l’immutabilità dell’uso dello spazio a prescindere da chi lo utilizza, è razionale solo in termini d’investimento iniziale. Alla lunga i costi umani sono enormi. Sicché, lentamente e spontaneamente ogni spazio specializzato per funzioni, ogni interstizio o confluenza tende a reinventarsi come spazio  plurifunzionale in contraddizione con le rigidità dello Stato sociale. In sostanza, nonostante l’eclisse della comunità, gli individui continuano a cercare relazioni comunitarie, le quali assumono forme intimistiche, affettive, motivazionali e psicologiche, e – in mancanza di regole comunitarie condivise – tendono inevitabilmente ad autodistruggersi. Senza barriere, confini, distacco reciproco – gli elementi di fondo delle convenzioni e delle regole  –  gli individui diventano distruttivi. E questo non già perché la natura umana sia malvagia (come pensava Hobbes), ma perché gli effetti della cultura urbana e industriale portano al fratricidio qualora la base dei rapporti sociali non sia la regola comunitaria condivisa, bensì semplicemente l’aggregazione per appartenenze familiari, amicali, etniche, religiose, ideologiche e motivazionali. Tönnies rimpiangeva la fine della Gemeinschaft, ma riteneva che fosse “romanticismo sociale” credere in una sua rinascita. Della comunità tradizionale, così come essa si configurava concretamente, non bisognerebbe, invece, nutrire alcuna nostalgia poiché presentava alcuni connotati inaccettabili, a partire dalla forte gerarchizzazione dei rapporti sociali. Ma la sua reinvenzione in forme adatte all’attuale sensibilità civile è da auspicare per costruire un equilibrato rapporto tra comunità che recupera la sua capacità di organizzarsi e autoregolarsi e sistema politico e istituzionale.

Nel frattempo, lo Stato sociale entra in una crisi profonda. Nonostante i gravi limiti con cui esso era stato edificato nel secondo dopoguerra nel nostro paese, quel modello ha rappresentato un esperimento di economia mista (pubblico-privata), tra i più estesi del mondo occidentale, che ha permesso una rapida ricostruzione dopo i disastri della guerra e un principio – benché parziale – di modernizzazione delle strutture fondamentali del paese. Ma, negli anni settanta, la crisi fiscale, la commistione pubblico-privata e l’eclisse della comunità ad opera delle “chiese politiche” hanno prodotto un’inarrestabile degenerazione, i cui segni più evidenti sono la crisi del sistema politico e i livelli vertiginosi raggiunti dal debito pubblico. E sono così riemerse, come un fiume carsico, e si reinventano regole comunitarie di reciprocità e mutuo aiuto, come dimostrano le continue attenzioni alle vicende delle terre collettive, la creazione di economie civili, la diffusione delle banche del tempo e di antiche consuetudini come il baratto.

Le forme dell’abitare della città post-fordista e post-metropolitana sono caratterizzate dal riemergere del bisogno di campagna nelle aree urbane che trova soddisfazione con la diffusione del fenomeno delle villettopoli e la reinvenzione dell’agricoltura di servizi che dapprima affianca e sempre più oggi tende a prevalere sul modello produttivistico (che si è imposto dagli anni trenta del novecento quando la preoccupazione principale dei paesi occidentali è stata quella dell’autosufficienza alimentare). Così prendono forma progetti che prevedono di rivitalizzare le aziende agricole che ancora sopravvivono nelle aree urbane e destinare alle agricolture civili e relazionali parti delle aree industriali e commerciali dismesse o dei complessi residenziali da rinnovare. E in tale evoluzione si reinventa di nuovo la tradizione degli orti di città come saldatura e cerniera di territori plurifunzionali. Le agricolture civili s’incrociano con il Terzo Settore e danno vita a modelli di welfare produttivo: nasce l’agricoltura sociale come attuazione del principio di sussidiarietà. In sostanza, le granitiche certezze sociologiche e urbanistiche che hanno assecondato e guidato l’espansione della città industriale moderna si rivelano infondate. E la crisi urbana si manifesta impietosamente con il processo di decremento demografico dovuto alla fuga dalla città e con il delinearsi di un continuum urbano-rurale da cui emerge un’agricoltura che produce beni relazionali inclusivi, legami comunitari e civili. Alle fattorie sociali si aggiungono, negli ultimi tempi, i farmer’s market, i gruppi di acquisto solidale e  le forniture di mense collettive con prodotti locali. E si creano inedite sinergie di tali economie coi percorsi turistici, culturali, archeologici e ambientali nelle aree protette.

Questo fenomeno, definito dagli studiosi “rurbanizzazione,” vede l’entrata in scena di una particolare tipologia di consumatore che vuol essere partecipe del progetto con cui si crea il prodotto agricolo e non semplicemente spettatore passivo nel teatro del marketing; vuole, in sostanza, essere un co-protagonista che interagisce con il produttore. Egli non si limita ad informarsi sui diversi prodotti, guardare l’etichetta e acquistare passivamente il bene in qualunque punto vendita. Vuole invece partecipare attivamente al rapporto di scambio dopo essersi aggregato, anche informalmente, in gruppi di acquisto o in comunità di cibo, le cui esperienze pioneristiche nascono tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta. Queste forme civili di agricoltura, con istanze ed esperienze diversificate, si candidano a promuovere modelli di welfare produttivo e ad assumere un ruolo di cerniera e di saldatura di territori in cui sono sempre più evidenti le confluenze e le intersezioni. E in tale quadro si aprono ai condomini nuove opportunità di iniziativa per svolgere servizi di interesse collettivo a beneficio delle comunità locali, reinventando una tradizione partecipativa di vicinato e di promozione sociale che si è mantenuta solo in alcune realtà.

La grande crisi economica e finanziaria

Con la globalizzazione, la costruzione dell’Unione europea, la conclusione del ciclo fordista dell’economia e la nuova rivoluzione tecnologica, le modalità con cui lo Stato ha esplicato i doveri di solidarietà si sono frantumate e non ci sono più le condizioni per ripristinarle nelle vecchie forme. La nostra società versa, dunque, in una condizione in cui non pare esserci alcun barlume solidaristico nell’intervento pubblico e tale stato di cose si è adesso aggravato con la recente crisi economica e finanziaria. Emergono sempre più le nuove forme di povertà. Si tratta a volte di una povertà percepita, indotta dalla paura di arretrare nella scala sociale. Spesso sono forme di povertà dovute alla mancanza di prospettive per superare la povertà stessa, a orizzonti che progressivamente si chiudono sempre di più.

Rivitalizzare lo spirito comunitario in tali condizioni è diventato più difficile perché le appartenenze particolaristiche si sono frantumate e prevalgono sui vincoli di appartenenza di tipo territoriale. E la difficoltà a ricostruire legami sociali fraterni e doveri solidaristici è strumentalizzata politicamente dai populismi e dagli amministratori delle città che cavalcano in modo spregiudicato il disagio urbano, drammatizzando il disordine che deriva dall’atomizzazione delle funzioni e dalla distruzione dello spazio pubblico, adottando metodi manipolatori e costruendo messaggi eticamente inaccettabili.

In mancanza di veri e propri programmi urbani per la sicurezza che poggino su interventi co-progettati dalle amministrazioni pubbliche e le comunità di cittadini,  si utilizza  il modello esplicativo della “finestra rotta” come un supporto giustificativo alla strategia della “tolleranza zero” ai fini dell’organizzazione del consenso sociale. Una finestra rotta di un edificio se non prontamente riparata determinerebbe la vandalizzazione di un’altra finestra; una cabina telefonica danneggiata inviterebbe a distruggerne altre, e così via. Insomma, il degrado produrrebbe degrado e l’azione vandalica si diffonderebbe rapidamente rendendo ben presto quel territorio inospitale, pericoloso e insicuro.

Ma tale modello esplicativo della genesi e diffusione dell’insicurezza nella città si è rivelato scientificamente erroneo: se è possibile verificare che una cabina telefonica vandalizzata favorisce la distruzione di altre, non è possibile trovare convincente verifica che la presenza di edifici abbandonati con le finestre rotte e altre forme di degrado definisca un territorio urbano insicuro o più insicuro di altri. Il diffondersi del degrado urbano non ha effetti di moltiplicatore sui livelli di sicurezza oggettiva. La strategia della “tolleranza zero” che si è voluta ricavare da questo modello è servita solo a enfatizzare la paura del contatto con la miseria e coi diversi, ma è del tutto inefficace per affrontare il degrado urbano.

Con l’aumento della disoccupazione soprattutto giovanile, le città rischiano di esplodere. I figli e i nipoti di coloro che migrarono dalle campagne centro-meridionali del paese nelle aree urbane, stanno sviluppando un loro modo peculiare di vivere la crisi. Essi stanno subendo un arretramento dei livelli di benessere fino a rasentare la soglia di povertà. La condizione di profonda incertezza rispetto al futuro fa sì che queste persone sviluppino una tipica avversione verso i deboli: non perché c’è in loro il senso del nemico, ma per paura di cadere nello stesso livello. Allora, attraverso l’aggressione al nero, al nordafricano, al bengalese, si stabilisce  una distanza rispetto al pericolo di una contaminazione da contatto. È la reazione a questo rischio e a quello di cadere al loro stesso livello. L’avversione contro il più debole è, poi, il bisogno di sfogare le frustrazioni che provengono dalle sfere della società in cui non si può arrivare, calpestando coloro che stanno sotto: creando, cioè, dei capri espiatori. Un rancore verso l’alto che si sfoga verso il basso. È una distorta ricerca di dignità. Su questi sentimenti fanno leva i movimenti populisti per incanalare la violenza verso gli immigrati e la protesta verso le istituzioni considerate le principali responsabili dell’afflusso di stranieri nei quartieri multietnici della città. E nel vuoto che si è creato tra istituzioni e cittadini si sono incuneate nuove mafie che vedono interagire gruppi criminali, spezzoni di pubblica amministrazione e di terzo settore e movimenti xenofobi nella gestione di servizi sociali verso gli ultimi.

Per affrontare seriamente l’insicurezza urbana – come ci insegna Maurizio Fiasco – bisogna incominciare a sperimentare nuove modalità di intervento che poggino su strategie definite in modo razionale e con un approccio interdisciplinare e assumano, come dato strutturale di cui tener conto concretamente: l’emotività delle persone e delle comunità, la percezione dell’insicurezza (processo psichico che elabora e connota simbolicamente le impressioni della realtà ricevute attraverso gli organi di senso), la paura personale di essere vittime di un atto criminale (fear of crime), la preoccupazione sociale per la criminalità che minaccia l’ordine sociale e il “mondo giusto” (concern abourt crime). In tale ambito, la promozione della coesione di vicinato e della sussidiarietà tra le comunità di cittadini può svolgere sia una funzione di pressione verso le amministrazioni pubbliche perché si dotino di programmi efficaci, sia un’azione propedeutica a strategie pubbliche da implementare in percorsi partecipativi dal basso, sia una qualche difesa preventiva di ulteriore erosione del capitale sociale nei quartieri urbani.  In questo modo, si soddisfa il bisogno avvertito in modo latente tra i residenti delle città di una relazione tranquillizzante tra la domanda soggettiva di sicurezza e il servizio dell’offerta di sicurezza.

Lo sviluppo locale a partire dai quartieri delle città

Gli strumenti utilizzati finora dalle amministrazioni comunali non permettono più di programmare, pianificare e gestire le città-territorio per affrontare i diversi problemi. Occorrerebbero percorsi di progettazione ad alta risoluzione capaci di mobilitare le comunità locali, cioè i soggetti e i gruppi che le compongono, senza più separarli per categorie. Anche i luoghi dell’abitare non sono più spazi chiusi, ma ogni edificio o spazio tende a trasformarsi in luogo polivalente, inglobando diverse funzioni nel legarsi ad altri edifici e ad altri spazi.

Per ricostituire le comunità-territorio e per fare in modo che queste possano meglio cogliere le opportunità della globalizzazione, bisognerebbe accompagnarle nell’acquisire una chiara percezione di sé, per fare in modo che gli scambi culturali ed economici con altre comunità-territorio del mondo globale siano reciprocamente arricchenti e improntati ad una relazionalità collaborativa. Le arti e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione possono alimentare la capacità delle reti locali di costruire in modo creativo la propria immagine e di riscoprire il Genius loci come processo culturale di autocoscienza e di apertura agli altri.

Reinventare le tradizioni diventa un’esigenza non comprimibile perché esse danno continuità e forma alla vita. C’è un nesso stretto fra tradizione e cambiamento. Per evitare, però, che a caratterizzare le tradizioni restino solo i riti e i simboli specifici, in un vuoto di visione che si chiude al mondo, bisognerebbe inventarle, da un lato aperte al confronto con altre tradizioni o modi di fare le cose e, dall’altro, disposte a lasciarsi trasmettere e consegnare alle generazioni future perché le possano conservare. Del resto, le radici linguistiche della parola “tradizione” sono antiche e risalgono al termine latino tradere, che significa “trasmettere”, “dare qualcosa a qualcuno perché la custodisca”. E così, se le tradizioni si reinventano continuamente e si aprono all’interazione con le altre tradizioni e con le generazioni future, anche l’identità – cioè la percezione di sé – non dovrà mai essere statica ma creata e ricreata in modo molto più attivo e multiforme di prima. Si dovrà ripartire dal territorio nella sua pluridimensionalità dal locale al globale, dalla percezione del passato a quella del futuro. E si dovranno costruire le multiformi identità che ne deriveranno, tutte mutevoli e in continua evoluzione. Identità caleidoscopiche e paritarie, impastate di memoria e creatività, capaci di non blindarsi dinanzi allo straniero. Capaci di riconoscersi negli altri, visti non come minacce ma risorse, non buchi neri ma specchi necessari, a loro modo positivi. Capaci di recuperare e rivitalizzare il senso di fraternità primordiale proprio delle comunità rurali, lo spirito di dialogo che ha preceduto il monologo, il valore dell’ospitalità che è più antica di ogni frontiera.

A livello locale non ci sono istituzioni, né organizzazioni politiche e sociali, che svolgono un’azione costante di lettura dei bisogni sociali dei cittadini. Bisognerebbe, pertanto, strutturare alcuni strumenti d’indagine (semplici e gestibili con risorse modeste) per osservare e accertare tali bisogni in ambiti che si ipotizzano come più significativi. Dall’osservazione e verifica dei bisogni occorrerebbe poi trarre una serie di indicazioni e alternative possibili da tradurre sia in domanda di decisioni politiche (da rivolgere ai partiti e alle istituzioni), sia in domanda strutturata di beni e servizi a cui far corrispondere un’offerta (da promuovere e organizzare). Lo scopo delle attività dovrebbe essere quello di supportare progetti territoriali al fine di promuovere: la partecipazione, la coesione, lo sviluppo locale, la legalità e l’integrazione. Si tratta di far crescere le persone, la qualità umana dei singoli mediante l’aumento della buona occupazione e della relazionalità.

Di primaria importanza è l’utilizzo integrato territoriale dei Fondi strutturali e di investimento europei 2014-2020 al fine di introdurre percorsi innovativi di sviluppo locale. La prima risorsa che dovrebbe essere messa a valore è la condivisione delle informazioni. Si tratta di individuare strumenti che permettano ai soggetti economici e sociali delle comunità-territorio di avere il massimo delle informazioni relative agli ambiti in cui operano. E di favorire la collaborazione in modo tale che i buoni progetti siano messi in comune senza il timore che qualcuno li rubi, senza gelosie e con l’idea che insieme si potranno realizzare progetti migliori. In tale contesto comunitario e collaborativo, il Progetto Condominio di Strada potrà trovare una sua più rapida ed efficace concretizzazione.

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