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Così trasformiamo in sogni gli incubi delle periferie

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Botto&Bruno: a Torino i due artisti ridisegnano lo spazio della Fondazione Merz con installazioni di forte impatto emozionale tra macerie, silos e vecchi film.
I torinesi Gianfranco Botto e Roberta Bruno, che formano l’ormai inscindibile marchio artistico Botto&Bruno, hanno incominciato a lavorare insieme nel 1992 sviluppando nel tempo (con lineare coerenza, duro realismo e poetica visionarietà) una ricerca incentrata sulle periferie delle grandi città. È l’esplorazione di un mondo travolto dalle contraddizioni e dai problemi più gravi dello sviluppo economico e urbanistico della società contemporanea; una costellazione di luoghi marginali degradati, di rovine architettoniche abbandonate, di macerie e spazi vuoti, ma anche un’affascinante e melanconica realtà impregnata dalla memoria di esperienze lavorative e esistenziali, collettive e individuali, suggestivamente rivitalizzata dal progressivo dilagare della natura selvatica.

Tutto questo è stato magistralmente messo in scena anche nello spettacolare progetto ambientale, «Society you are a crazy breed» (Società, sei una razza folle) una sorta di paesaggio fotografico che coinvolge in modo totale tutto il vasto spazio interno della Fondazione Merz. «La fondazione – dice Gianfranco Botto – è un luogo ideale per il nostro lavoro. Siamo stati affascinati dal fatto che si trattasse di un edificio industriale, un’ex-centrale termica. Abbiamo subito pensato di far rinascere in qualche modo la visione di quello che poteva essere qualche elemento essenziale dell’identità passata. La prima idea è stata quella di riportare in vita una cisterna di cui si vedono le tracce nel cortile esterno. E questa è la prima grande installazione, un silos, con le sue pareti interne circolari ricoperte di immagini fotografiche che riproducono dei vecchi muri in rovina invasi da una vegetazione anarchica, un luogo di immaginazione onirica».

Le altre due strutture ambientali, pensate anch’esse come «ristori dell’anima», sono da un lato un massiccio pezzo di muro aggettante da cui fuoriescono fogli di carta e scritte che fluttuano sulle pareti come tracce di anonime esistenze; e dall’altro, una bassa costruzione, estensione dell’architettura esistente, che accoglie il Cinema Lancia, in omaggio al vecchio stabilimento automobilistico, di cui la centrale termica faceva parte. Nella saletta interna c’è la proiezione in loop del video Kid World. «Nei territori periferici all’esterno non ci sono presenze umane – dice Roberta Bruno – e per questo abbiamo voluto proporre questo video che è un collage di spezzoni di film dove sono protagonisti dei bambini. Sono tratti da I 400 colpi di Truffaut, da Kes di Ken Loach, e da Il pane e il vicolo di Kiarostami, tre registi che amiamo moltissimo. La presenza dei bambini nella solitudine di questi luoghi desolati e inquietanti sono anche un segno di speranza nel futuro. La tecnica del cut-up è analoga a quella che usiamo anche per realizzare i bozzetti dei nostri paesaggi urbani, che sono un montaggio di moltissime foto prese in luoghi diversi e combinate insieme per formare delle scene apparentemente realistiche, ma con prospettive un po’ falsate e destabilizzanti, che producono nelle immagini ingigantite, con tutti i particolari a fuoco, delle visioni sospese con effetti stranianti».
Il titolo della mostra (che è anche quello del paesaggio virtuale sulle pareti e i pavimenti) è una citazione dal brano musicale di Eddie Vedder, colonna sonora del film Into the Wild, è un appassionato monito contro le possibili folli derive della società, contro i rischi purtroppo molto concreti di disastri sociali e ecologici.
Nel lavoro di Botto&Bruno ci sono vari significativi riferimenti , tra cui in particolare all’antropologia delle rovine esplorata da Marc Augé (Rovine e macerie. Il senso del tempo) e alle considerazioni sul «terzo paesaggio» di Gilles Clement. «Con Clement – conclude Botto – condividiamo la fascinazione per i processi di riappropriazione di luoghi, angoli e interstizi urbani da parte di erbe e piante che crescono spontaneamente. Ci ha interessato un suo articolo su Cernobil, che parla della rigogliosa esplosione vegetale nei terreni devastati dalla contaminazione radioattiva».

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