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Aubervilliers, le startup delle banlieue

Uber, sviluppatori, scuole: il futuro che nasce nei ghetti.
Superate le vetrine di boutique cinesi sull’avenue Pékin, la fila si riconosce da lontano. Non è difficile orientarsi nel Fashion Center di Aubervilliers, periferia Nord di Parigi. “Tutti sanno dov’è Uber” ci avverte al telefono Badia Berrada. La giovane responsabile comunicazione del gigante americano apre le porte del centro dove si svolge un incessante pellegrinaggio. Ogni settimana 4500 giovani vengono a bussare per trovare un lavoro. La maggior parte si sposta di appena qualche chilometro, vive nelle banlieue-ghetto della regione come Yanis, 24 anni, che sogna di essere presto alla guida della sua berlina nera. “Ho tanti amici driver – spiega – voglio provare anche io”.

Nel Paese del colbertismo, delle 35 ore, delle barricate alzate l’anno scorso contro il Jobs Act del governo socialista, ci sono ragazzi pronti a lavorare fino a 60 ore a settimana senza un padrone, senza contributi e per un reddito medio non garantito di 1700 euro. Uber è diventato il più grande reclutatore della zona. Ogni quattro nuovi posti di lavoro in tutta l’Ile de France, la regione parigina, uno è creato nel settore delle auto con conducente. “Dieci anni fa i giovani delle banlieue bruciavano le automobili per protestare, oggi sono al volante, portano la cravatta e sono servizievoli con i clienti” sintetizza Berrada facendo riferimento agli scontri che avevano incendiato le periferie nel 2005. La responsabile comunicazione di Uber fornisce un profilo tipo dei 17mila driver: più della metà ha meno di 35 anni, per il 55% si tratta di un primo lavoro, un altro 40% era iscritto sulle liste di disoccupazione.

Con due milioni di clienti, la Francia è uno dei mercati europei più importanti per Uber. Ironia del destino, il fondatore Travis Kalanick ha avuto l’intuizione di creare la sua piattaforma proprio durante un soggiorno nella capitale francese, dopo aver cercato invano un taxi. Nonostante il successo, la relazione tra Francia e Uber è tutt’altro che serena. La Ville Lumière è stata teatro di scontri e violenze dei tassisti contro gli autisti del gruppo americano. Dal 2009 sono state votate tra le polemiche ben quattro riforme per mettere più paletti alla licenza Vtc (voiture de transport avec chauffeur), l’equivalente del Ncc, noleggio auto con conducente. Da qualche mese è in corso l’ennesimo tentativo di mediazione del governo, stavolta dopo la protesta dei driver contro il calo delle tariffe.
La Francia della new econony riserva molte sorprese. A Parigi c’è un record di nuove imprese nelle nuove tecnologie, sono state lanciate piattaforme di successo come Blablacar, Vente-Privée, il motore di ricerca Qwant. La capitale è uno dei principali mercati per AirBnb e tra qualche settimana aprirà nel tredicesimo arrondissement Station F, il più grande incubatore al mondo di start-up, nuovo progetto avveniristico di Xavier Niel. L’imprenditore delle telecomunicazioni, che sbarcherà presto in Italia, ci aspetta rilassato, jeans e barba lunga. L’appuntamento è Porte de Clichy, non lontano da Aubervilliers, per visitare l’École 42. L’istituto che forma sviluppatori informatici è aperto sette giorni su sette, giorno e notte. Accoglie ragazzi senza pretendere requisiti. “Chiediamo solo nome e cognome, data di nascita. Quasi metà dei nostri alunni non ha la maturità” racconta Niel, che tre anni e mezzo fa ha investito 30 milioni nel progetto, senza sovvenzioni dello Stato. Oltre la metà degli alunni viene dalle banlieue più povere. Un quarto ha precedenti penali. “Offriamo una seconda chance. La scuola si svolge come un enorme gioco, davvero accessibile a tutti”. È un modello alternativo all’Ena, la scuola dell’élite francese? “Siamo un’altra cosa, evitiamo paragoni” risponde Niel diplomaticamente. Ogni anno 70mila persone tentano di iscriversi con i test online. Meno di un terzo è poi selezionato nei locali della scuola con esame continuativo davanti al computer, oltre quindici ore al giorno per un mese di fila. Nei corridoi si vedono materassi, panni stesi, ci sono docce a disposizione.Il nome in codice di quella che assomiglia a una prova estrema di resistenza psico-fisica è “La Piscine”. Meno di mille candidati restano a galla, prescelti per frequentare gratuitamente “42”, il numero che secondo un libro culto di Douglas Adams è la soluzione a qualsiasi domanda esistenziale. Gli alunni non hanno lezioni né professori, costruiscono da soli il proprio percorso interagendo dentro al sistema informatico. Frequentano come e quanto vogliono, si danno i voti gli uni con gli altri, e alla fine del corso non ricevono neppure un attestato. Non ce n’è bisogno. “Trovano lavoro già prima di finire la scuola” racconta il patron di Free che rappresenta un’eccezione nell’élite francese: ha solo la maturità, si è fatto da solo, non viene da nessuna aristocrazia industriale. “Quel che proponiamo – aggiunge – è atipico ma funziona, corrisponde a ciò che chiedono le imprese”. Una succursale è stata appena aperta nella Silicon Valley. L’École 42 è stata visitata da François Hollande, l’ex ministro Emmanuel Macron è venuto più volte. Niel, tra gli editori del giornale Le Monde , fa attenzione a non sbilanciarsi sul leader di En Marche: “La politica non può tutto – sostiene – è giusto che, a un certo punto, la società civile prenda l’iniziativa per cambiare il Paese”.

Molti politici non sanno come approcciarsi alla rivoluzione della new economy. Solo Macron – che alcuni hanno paragonato a Uber in politica – propone di riconoscere uno statuto per i lavoratori indipendenti e non inquadrati come driver, fattorini. “Sono proposte modeste, purtroppo Macron è molto più timido da candidato che da ministro” commenta Denis Jacquet, promotore insieme ad altri imprenditori del movimento dei Pigeons per far togliere al governo l’imposta sulla plusvalenza della vendita delle start-up. “C’è uno straordinario sfasamento tra una parte del Paese reale e la politica” commenta Jacquet nel suo ufficio, un gigantesco loft boulevard Haussmann da cui si vede tutta Parigi. “La Francia ha ancora un ottimo sistema di educazione, buone infrastrutture. È un Paese che crea talenti, ma molte energie restano bloccate”. La parola “digitale”, osserva, è assente da quasi tutti i programmi. “Nessuno cerca di fare chiarezza su dove ci sta portando la new economy: né sugli aspetti più inquietanti, proponendo soluzioni, né su quelli più positivi che possono portare benefici alla società. È disperante”.

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La Gig economy: il nuovo caporalato digitale

Spesso confuso con quello della condivisione, il modello del capitalismo delle piattaforme è tutto fuorché sharing economy. Uber, Foodora o Deliveroo promuovono un modello di precarizzazione totale noto come gig (che in inglese significa “lavoretto”) economy.

Quando diciamo economia della condivisione, diciamo qualcosa di preciso e specifico. Non diciamo, ad esempio, Uber. Non diciamo Foodora o Deliverroo, piattaforme che di collaborativo e di condiviso hanno ben poco. Quando parliamo di Uber, Foodora o Deliveroo parliamo, piuttosto, di gig economy. Ma che cos’è, allora, la gig economy? È un modello dove le prestazioni lavorative stabili sono azzerate e, di conseguenza, gli impiegati e i dipendenti a tempo indeterminato praticamente non esistono. Le prestazioni lavorative continuative sono un pallido ricordo di quando la classe operaia sognava il paradiso e quella creativa si illudeva di averlo raggiunto.

Non esistono più posti di lavoro – né a tempo determinato, né indeterminato – e l’offerta di prestazioni lavorative, prodotti o servizi avviene solo “on demand”, quando c’è richiesta. In sostanza, un caporalato digitale. L’espressione gig economy deriva dal termine inglese “gig”, lavoretto. Nel mondo dello spettacolo “gig” è il cachet. Il precario 4.0 è chiamato gig worker e il modello è quello dell’on-demand (economy), completamente disintermediata grazie a app e piattaforme digitali proprietarie.

Nella gig economy il mercato tra domanda e offerta è gestito online. Ma il “gestore” non è un arbitro imparziale e non innova: distrugge la cornice giuridica e il fondamento di ogni relazione e garanzia di lavoro. Un fenomeno, questo, che gli studiosi hanno già ribattezzato Plattform-Kapitalismus, capitalismo delle piattaforme, che attraverso app solo in apparenza neutrali mette in relazione soggetti che cercano e soggetti che offrono prestazioni temporanee di lavoro.

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Sharing economy, parte la discussione sulla legge: Airbnb sì, Uber no

Il testo composto da 12 articoli incardinato alle commissioni riunite Trasporti e Attività produttive. Antonio Palmieri, uno dei firmatari del provvedimento: «Puntiamo a ottenere un duplice vantaggio: da una parte ridurre l’evasione e l’elusione fiscale, dall’altra mettere un freno a fenomeni di concorrenza sleale».
Parte alla Camera nelle commissioni congiunte alle Commissioni riunite IX Trasporti e X Attività Produttive l’esame parlamentare dell’atto 3564 battezza “Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione” più nota come legge sulla sharing economy.

In Italia secondo uno studio di Collaboriamo.org e dell’università Cattolica le piattaforme collaborative nel 2015 sono 186 (+34,7 per cento rispetto al 2014) e, nota l’onorevole Antonio Palmieri (Forza Italia) secondo firmatario della proposta di legge e animatore dell’intergruppo per l’innovazione tecnologica, «ormai un quarto degli italiani si serve di questo genere di strumentazioni».

Antonio Palmieri: “vogliamo agevolare questo tipo di economia creando un meccanismo win-win sia per chi mette in condivisione, sia per chi fruisce del servizio», distinguendo in modo netto fra operatori professionali e chi invece utilizza la sharing economy come integrazione del reddito”

La norma ad oggi si compone di 12 articoli.
L’articolo 1 detta le finalità della legge, sostanzialmente favori l’economia della condivisione, mentre a delimitare il perimetro è il secondo articolo in cui dall’economia della condivisione sono escluse « piattaforme che operano intermediazione in favore di operatori professionali iscritti al registro delle imprese».

«L’obiettivo», spiega, Palmieri, «è quello di agevolare questo tipo di economia creando un meccanismo win-win sia per chi mette in condivisione, sia per chi fruisce del servizio», distinguendo in modo netto fra operatori professionali e chi invece utilizza la sharing economy come integrazione del reddito». Per questo all’articolo 5 si prevede un diverso trattamento a seconda del volume di affari: «…Ai redditi fino a 10.000 euro prodotti mediante le piattaforme digitali si applica un’imposta pari al 10 per cento. I redditi superiori a 10.000 euro sono cumulati con i redditi da lavoro dipendente o da lavoro autonomo e a essi si applica l’aliquota corrispondente.». «In questo modo», è ancora il deputato azzurro che parla, «favoriamo chi mette a disposizione una stanza, ma teniamo fuori gli affittacamere che magari si servono di piattaforme tipo Airbnb o servizi sul genere di Uber». Con questo filtro «dovremmo ottenere un duplice vantaggio: da una parte ridurre l’evasione e l’elusione fiscale, dall’altra mettere un freno a fenomeni di concorrenza sleale».

Infine altri due passaggi qualificanti del Pdl: le piattaforme della condivisione dovranno iscriversi a un Registro elettronico nazionale tenuto dall’ L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (articolo 3) e dovranno trasferire all’istat tutte le informazioni statistiche su utenti – naturalmente senza violare il diritto alla privacy – e fatturati (articolo 9) «in modo da costruire un quadro attendibile del peso economico della sharing economy in Italia», conclude Palmieri.

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Il futuro della sharing economy passa dalle cooperative

Se gli autisti di Uber invece di scioperare si auto-organizzassero come i fotografi del sito Stocky? Ecco come il platform cooperativism può cambiare davvero la vita dei freelance

Nel giro di pochi anni, il sogno di una “rivoluzione economica” basata sulla sharing economy si è trasformato nella on-demand economy. Da Couchsurfing a AirBnb, da BlaBlaCar a Uber: nelle differenze tra queste piattaforme c’è tutta la parabola che porta dall’immaginare un mondo in condivisione all’affrontare una realtà spesso fatta di assenza di diritti, bassi salari e cancellazione del welfare.

Ma siccome a ogni azione corrisponde una reazione, anche il sogno infranto della sharing economy ha dato vita alla nuova utopia del platform cooperativism, in cui alla logica della solidarietà che da sempre contraddistingue il cooperativismo si uniscono le opportunità della rete e di alcune tecnologie dalle potenzialità ancora in buona parte inesplorate.

“Si tende a considerare il platform cooperativism come una cosa di sinistra, ponendo l’accento sulle sue caratteristiche più vicine alla tradizione socialista, ma è una forma che attrae anche gli iper-liberisti.

È una realtà che supera la dicotomia destra-sinistra, perché sono cambiati i paradigmi e i meccanismi classici non si applicano più”, spiega Bertram Niessen, direttore di cheFare, una delle prime realtà in Italia a occuparsi del tema.

Fondamentalmente, l’obiettivo è quello di applicare alle piattaforme della sharing economy le logiche della auto-organizzazione. Pensate a come funzionerebbe Uber se tutti coloro i quali ne fanno parte fossero in cooperativa, condividendone valore, rischi, guadagni e avendo l’opportunità di decidere assieme la policy che regola la piattaforma (che è esattamente come funziona la start up La’zooz).

Facile a dirsi, più difficile a farsi. Soprattutto visto che, come sottolineato su CoExist, “Uber e AirBnb non sono diventate quello che sono grazie solo ai loro meriti, ma grazie anche a un ecosistema di investimenti ad alto rischio, incubatori, incentivi governativi e conferenze tech. (…) Il platform cooperativism ha bisogno di imprenditori che vogliano vedere la loro idea diventare un bene sostenibile, non solo un motore di profitti esponenziali e ricerca a tutti i costi della scalabilità”.

Le difficoltà non hanno però impedito a concrete realtà di platform cooperativism di sorgere e di provare a consolidarsi sul mercato. Uno dei casi più celebri è quello di Stocksy, un’agenzia fotografica basata su principi cooperativi fondata nel marzo 2013 da Brianna Wettlaufer e Bruce Livingstone.

stocky

Il concetto alla base è molto semplice: la cooperativa è gestita dagli stessi fotografi, che mantengono il 50% dei profitti generati dalla vendita dello foto e che, soprattutto, ricevono un dividendo dei guadagni alla fine di ogni anno. Con il risultato che, alla fine del 2015, Stocksy aveva redistribuito oltre 4 milioni di dollari in royalties ai suoi circa mille fotografi e raddoppiato il fatturato fino a 7,5 milioni di dollari.

“Il momento è quello giusto per andare nella direzione di una comunità solidale, in cui tutte le voci sono ascoltate e in cui un’equa distribuzione dei profitti consenta al maggior numero possibile di persone di beneficiarne, non solamente ai soliti pochi prescelti. Il platform cooperativism può diventare incredibilmente potente, capace anche di sfidare grandi corporation”, spiega a Wired Brianna Wettlaufer di Stocksy.

Più complesso e ancora in attesa di consolidarsi sul mercato è invece il caso di Fairmondo, fondata in Germania nel 2012 da Felix Weth, Anna Kress e Bastian Neumann e immediatamente soprannominata

“ l’alternativa cooperativa ad Amazon ed eBay ”

Un mercato online gestito in maniera solidale e che promuove (anche) società del commercio equo-solidale ed etico. Per fare un esempio, tra i prodotti più spinti in questo periodo c’è il nuovo Fairphone: “Il 2015 è stato un anno difficile, ma adesso ci siamo rafforzati e stiamo preparando l’espansione internazionale, con dei team che lavoreranno in Gran Bretagna e negli Stati Uniti“, ci racconta il fondatore della piattaforma, Felix Weth.

“Vogliamo essere parte del futuro di internet, in cui le piattaforme si organizzeranno in cooperative democratiche, trasparenti, possedute dagli utenti stessi. È un modello molto migliore di quello basato sulle grandi corporation e sulle startup rette dai soldi degli investitori”.

fairmondo

I soldi per lo sviluppo del software e l’espansione della piattaforma non vengono, per policy interna, dai venture capitalist, ma attraverso crowdfunding e grazie allo sforzo dei soci della cooperativa: “Le platform coop stanno avendo difficoltà a trovare finanziamenti in un ecosistema che andrebbe ripensato. Dobbiamo trovare soluzioni più innovative e più intelligenti, che portino risorse alle società che offrono il lavoro più utile alla società, non a quelle che estraggono il massimo del valore dalla società”, continua Felix Weth.

La strada, quindi, è ancora in salita. Senza contare le difficoltà a cui si va incontro necessariamente quando bisogna coordinare una proprietà distribuita e gestire gli affari in maniera cooperativa. Da questo punto di vista, però, un grosso aiuto potrebbe arrivare da una tecnologia che sembra davvero avere le potenzialità per cambiare il mondo del lavoro: blockchain, il meccanismo alla base dei Bitcoin.

blockchain

Un database distribuito, che sfrutta la tecnologia peer-to-peer, in cui chiunque può diventare un “nodo” del meccanismo scaricando l’apposito programma. Una sorta di libro contabile in cui sono registrate tutte le transazioni, che devono ricevere l’approvazione del 51% dei nodi. Il sistema di verifica distribuito permette quindi di saltare qualsiasi autorità centrale.

“Il platform cooperativism non dipende necessariamente dalla blockchain, ma le due cose vengono sempre più frequentemente associate per le possibilità che blockchain offre di automatizzare e certificare i passaggi necessari, aspetto che diventa decisivo in cooperative che magari hanno soci e attività in ogni angolo del mondo”, spiega il direttore di cheFare Bertram Niessen.

Una delle applicazioni più promettenti è quella degli smart contracts: contratti automatizzati sui quali, grazie alla blockchain, le clausole contrattuali (pagamenti, tempistiche, royalties ecc.) vengono automaticamente corrisposte. Ma ci sono applicazioni molto interessanti anche per il mondo dell’arte e della fotografia; nel caso dell’agenzia fotografica Stocksy, l’utilizzo della blockchain permetterebbe alle fotografie di portare con sé, in qualsiasi passaggio, tutte le informazioni necessarie: autore, prezzo, condizioni. Così, a ogni download, le royalties e i pagamenti previsti verrebbero immediatamente versati direttamente all’autore, senza più attese, controlli e soprattutto utilizzi pirata dell’opera stessa.

“Grazie alla blockchain si potrebbero risolvere molti dei problemi dell’arte digitale e della duplicazione delle opere, facendo in modo che tutti i dati importanti viaggino sempre con l’opera stessa”, prosegue il direttore di cheFare. Mentre Fairmondo, per ammissione dello stesso Felix Weith, sta seguendo con attenzione l’evoluzione di Etherium, una startup focalizzata sulle cripto-monete e gli smart contract.

La blockchain mostra già oggi le sue potenzialità per le realtà distribuite, com’è il caso del platform cooperativism. Ma per il futuro ci si può spingere ancora più in là e provare a immaginare fino a dove la decentralizzazione possa arrivare. Uber, Airbnb e anche servizi di crowdfunding come Kickstarter, in fondo, non sono altro che delle “directory glorificate” (come le chiamano su Backchannel); è possibile, grazie alla blockchain, immaginare un futuro in cui queste piattaforme diventino obsolete e in cui ognuno di noi condividerà i propri dati in maniera automatica e sicura e senza dover sottostare alle condizioni imposte da altri?

Siamo quasi nel regno della fantascienza, e probabilmente ci vorrà ancora parecchio tempo prima che tutto questo diventi realtà. Ma un futuro in cui i freelance potranno lavorare decidendo in autonomia le proprie condizioni e saltando ogni piattaforma di mediazione, oppure riunirsi in una cooperativa hi-tech in cui condividere rischi e opportunità, potrebbe non essere solo un’utopia.

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Tutto sull’ “ubercapitalismo”

Ecco i numeri della nuova “economia collaborativa”.
Il fenomeno più imponente di questa fase di “sboom” economico
Ultime notizie dall’ubercapitalismo. Airbnb vale 26 miliardi di dollari, ha raccolto fondi per 2,3 e occupa circa 500 dipendenti. Snapchat è quotata dagli analisti 26 miliardi, ne ha raccolti 1,2 e dà lavoro fisso a 400 individui. Uber, varrebbe tra i 40 e i 50 miliardi, ha trovato risorse per 6 miliardi e ha circa 500 salariati diretti (esclusi, per ora, gli autisti).
Sono cifre, ancora ballerine e un po’ oscure, soprattutto quelle relative alle persone, rilevate dall’Economist, che ha quantificato in 74 il numero delle start-up dei settori tecnologici che fanno parte di quei particolari ”unicorni” di successo, ovvero le aziende che quotano più di un miliardo. Valore totale (anche qui, presunto) di tutti gli animali mitologici, oltre 273 miliardi di dollari.
Marx aveva già a suo tempo trovato una definizione perfetta per questa rivoluzione digitale. Nel 1846, quando definì la società comunista. ”La possibilità di fare oggi una tale cosa e domani un’altra, di cacciare al mattino e di pescare nel pomeriggio, di praticare l’allevamento la sera e di fare della critica dopo i pasti. Tutto a proprio piacimento, senza essere pescatore, cacciatore o critico”. Sono passi scritti dal filosofo nella sua opera L’ideologia tedesca, quando certo non arrivava a preconizzare che col socialismo reale qualcuno tra milioni si sarebbe arricchito immensamente.
Eppure sembrano pensati oggi per definire il pianeta delle condivisioni, dove il capitalismo sembra ammantarsi di libertà, nell’attimo stesso in cui genera immensi profitti e un miliardo di utenti in un solo giorno si connettono a Facebook regalandogli sogni, desideri e identità.
È l’economia collaborativa, che si è materializzata decenni dopo la caduta del Muro e sembra aver creato spazi inimmaginabili per i consumatori e per la creazione di plusvalore: sì, proprio ”quel” Capitale, che continua comunque a dividere i fattori della produzione da chi li impiega.
Possibile che il neo comunismo sia nella Rete e nelle sue centinaia di applicazioni mobili, che cominciano a vivere molto bene sulle spalle dei giganti over the top? È questo il modello finale della nostra società, come professano il giovane economista Gaspard Koenig, o Maurice Levy, il primo a parlare di ‘ubercapitalismo’ al Financial Times, e prevedono negli Usa (entro il 2020 il 40% dei lavoratori sarà indipendente), ovvero un mondo in cui si affitta un’auto o una casa e si vende e si compra di tutto, diventando una volta proprietari di una rendita, un’altra ancora strumenti della stessa?
Il saldo finale ha il segno più o bisogna aspettare l’esito della rivoluzione, durante la quale cadono parecchi teste? In Francia, dove non manca lo spirito rivoluzionario ma si è anche tradizionalisti, a questi interrogativi non ci sono risposte certe ma si segue con attenzione il germogliare dei frutti della trasformazione digitale, si contano con stupore e ammirazione le decine di nuove aziende che fasciano come un vestito da sarto ogni cliente e tra dieci anni varranno come le blu chips dell’indice Cac di borsa, secondo Pwc.
Oggi, non raggiungono la capitalizzazione di Solvay. Si chiamano Blablacar, Ornicar, Ouicar, Drivy, Heetch, Boaterfly, Etaussi, KissKissBankBank, Indiegogo, Ulule, Lendingckub, Lecollectionist, DemanderJustice e altri ancora e ancora, in una teoria di sigle senza fine dagli scopi utili e banali allo stesso tempo, se la nostra società non avesse smesso di funzionare.
Solo aggiungendo ai tre big suddetti da 100 miliardi di dollari gli altri sette magnifici ”unicorni”, Palantir, Spacex, Pinterest, Dropbox, Wework, Theranos e Square, si arriva a oltre 80 miliardi di dollari di valutazione e non più di 10.000 addetti. Insomma, molto capitale e poco lavoro. Lo avesse immaginato il buon Karl si sarebbe strappato barba e baffi.
Ma i settori tradizionali, a cominciare da quello cruciale del turismo alberghiero, sono in subbuglio e preparano la controriforma, a cominciare proprio dal paese transalpino.
D’altronde negli anni dell’eurocrisi l’economia digitale è cresciuta il doppio di quella reale e non si dovrebbero preoccupare solo a Parigi (dopo gli Usa, primo mercato per Uber e Airbnb).
Il settimanale francese Le Point, in una lunga inchiesta di copertina sulla rivoluzione del capitalismo, ha piazzato una tabella su cui riflettere: un confronto tra AirBnb e Accor, il gigante dell’accoglienza. I numeri, più di ogni altra cosa, devono far riflettere, senza alcuno spirito tecnofobico.
Airbnb, come ricordato, ha un valore di 24 miliardi di dollari, un giro d’affari di 900 milioni, 130 milioni di perdite, 500 dipendenti, nessun immobile di proprietà ma vende un milione di stanze nel mondo, mentre Hilton, Marriot e Intercontinental ne fanno 700.000 ciascuna impiegando più di mezzo milione di persone. Ecco perché insidia Accor, che vale 10,4 miliardi di dollari, ha un giro d’affari di 5,4 miliardi, utili per 233 milioni, 180.000 occupati e 495.072 camere in 3.792 paesi.
In teoria non dovrebbe esserci match, ma la crescita dell’ospitalità alternativa è esponenziale, a cominciare dalla città più visitata al mondo e da New York (rispettivamente 11% e 17% del mercato totale). Se cresce l’unicorno dell’affitto in proprio, se la condivisione si sostituisce al commercio, ai servizi, alle banche, agli avvocati, che fine faranno le decine di migliaia di posti di lavoro tradizionali, potranno davvero dirsi sostituite dai nuovi prosumers di beni e servizi (consumatori e produttori allo stesso tempo) o avrà ragione chi, come Hillary Clinton, ha parlato a questo proposito di nuovo ”precariato”?
Sono tutte domande scomode, forse ormai anche retrò, che occorre però porsi senza preconcetti. Il cambiamento epocale che stiamo vivendo quasi inconsapevoli in questo sboom senza fine deve in qualche modo essere sostenuto e allo stesso tempo governato, proprio per evitare che le prossime start-up siano soffocate nella culla da chi ha preso il dominio del web e si è fatto mercato.

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Con Uber, contro il mercato delle tribù

In questi anni il mercato è divenuto sempre più incontrollabile. Staccatosi da una dimensione tutta reale, fatta di luoghi, documenti cartacei e strumentazioni, s’è spostato su Internet ed esiste sotto forma d’app. Una legislazione arcaica e restrittiva come quella italiana, che tende a creare categorie entro le quali far agire il cittadino per tassarlo e regolamentarne l’azione, non riesce più a star al passo con quella forma di libero mercato fatta di collaborazioni e di condivisione, e che si svolge in una sorta di zona grigia, al limite con l’illegalità.

Finora avevano beneficiato tutti della zona grigia. I barbieri tagliavano i capelli a domicilio, rigorosamente in nero. Pensionati con abilità pratiche s’improvvisavano tuttofare e arrotondavano la pensione facendo riparazioni domestiche. Tassisti facevano pagare un po’ di più il turista straniero, con la connivenza di tutti i colleghi, o si offrivano di trasportare in giro carichi poco legali o signorine troppo procaci. Il tutto accadeva nell’ombra, col beneplacito delle autorità — impossibilitate a controllare tutti per ovvi motivi pratici — e con grande spirito di collaborazione tra i coinvolti. L’idea alla base di tutto era che bisognava mangiare tutti, e ha funzionato finché gli attori sul mercato sono rimasti sempre gli stessi.

> Uber e il neoluddismo di un Paese in fuga dalla realtà

Poi sono arrivate le app per smartphone, ed è arrivata sul mercato una generazione di disoccupati che sa usare benissimo Internet e ha bisogno di campare esattamente come tutti gli altri. Il problema di questa nuova generazione è che ha sfruttato la zona grigia in modo massiccio, industriale, sistematico, organizzandosi su Internet. Ne ha fatto non più una stradina dissestata per pochi, ma una grande via consolare lastricata per molti. Per tutti, anzi. Nascono così UberPOP, Airbnb, BlaBlaCar e tutti quei servizi che permettono a chiunque di divenire un fornitore di servizi.

La recente protesta dei tassisti contro UberPOP — l’ennesima — sembra ancor una volta dimostrare che i tassisti non vogliono la legalità totale nell’esercizio della loro professione: vogliono semplicemente che la concorrenza sia dichiarata illegale dalle autorità. La categoria dei tassisti pretende che vengano effettuati controlli sulle app, e non in modo generico sulla loro attività di trasporto pubblico. Un controllo generico metterebbe in pericolo la zona grigia nella quale molti di loro hanno sempre operato senza scatenare alcuna protesta. Di tanto in tanto, in passato, c’era qualche sciopero contro i tassisti abusivi, coloro che si fingevano tassisti senz’averne la licenza. Anche in quel caso, i tassisti regolari chiedevano alle forze dell’ordine e alle autorità di scacciare dal mercato la concorrenza sleale; ma non hanno mai chiesto di controllare quelli che, tra di loro, commettessero quelle piccole irregolarità che permettono a tutti di campare e sulle quali si tace di comune accordo. Eppure queste irregolarità, quando scoperte, danneggiano l’immagine dell’intera categoria: perché non ci sono state proteste? Come detto, le piccole irregolarità commesse nella zona grigia non intaccavano pesantemente l’intera categoria. Erano al massimo una rogna per quei pochi colleghi che operavano nelle stesse zone, ma in linea generale il mercato non ne usciva modificato.

> Uber non è illegale, ecco perché

Uber, invece, è giunto a modificare totalmente gli equilibri e ha trasformato la zona grigia non più in un rifugio temporaneo per pochi, ma nell’unica zona in cui operano centinaia di nuovi fornitori di servizi. Non c’è più l’abusivo che finge d’appartenere alla categoria privilegiata, ma c’è qualcuno che si tiene ben distante dalla categoria e che anzi offre i suoi servizi mascherandoli da semplice favore che viene poi ripagato da chi lo riceve. Un do ut des che ha la pretesa di restare fuori dall’àmbito commerciale e che giunge sul mercato come nuova forma di collaborazione tra cittadini/utenti. Una collaborazione organizzatissima, cui le categorie tradizionali non possono opporsi.

Per i tassisti, Uber è lo straniero che è venuto a rubare il lavoro, senza sottomettersi ai piccoli cartelli locali e a quelle leggi non scritte del «come si è sempre fatto». È un po’ come il medico giunto nel villaggio in cui il monopolio delle cure era in mano allo sciamano da secoli. Per quanto lo sciamano possa additare il nuovo giunto come servitore del demonio, è solo questione di tempo prima che gli utenti si rendano conto della maggior efficienza del medico e abbandonino il vecchio monopolista.

Il fenomeno della zona grigia non ha colpito solo i tassisti, sia chiaro. Ultimamente sono sempre più frequenti gli «home restaurant», servizi di ristorazione a domicilio. Dei perfetti sconosciuti s’incontrano a casa di un cuoco improvvisato, previo accordo, e mangiano esattamente come si farebbe al ristorante. Nulla impedisce, infatti, alle persone di ricevere gente in casa e d’offrirle un pranzo o una cena, e nulla impedisce ai convitati di pagare il cuoco per il servizio offerto. Dopotutto, è ciò che si fa spesso tra amici. In molte zone d’Europa, gli home restaurant si stanno organizzando in grossi network che controllano persino la qualità dei pasti offerti e garantiscono sui prezzi. Insomma, il fenomeno s’è esteso, facendo leva sull’impossibilità di controllare ogni ricevimento privato e sul diritto di ricevere in casa chiunque si desìderi, amico o straniero. In Italia c’è stata già qualche lieve protesta contro gli home restaurant, e probabilmente tra qualche anno assisteremo a uno sciopero nazionale dei ristoratori, che chiederanno al governo maggiori controlli sulle app che permettono l’incontro fra domanda e offerta di servizi di ristorazione a domicilio. Sosterranno che si tratta di una pratica abusiva che va sradicata, ma non pretenderanno mai che i controlli siano effettuati sui locali di tutti i ristoranti, per capire chi svolge la professione in locali abusivi o chi paga l’affitto in nero: questo sarebbe troppo. L’unica preoccupazione è scacciare la concorrenza con la legge.

> Uber è solo l’inizio

Uber non è semplicemente un’azienda in crescita: è un fenomeno. È il mercato del nostro secolo, di un mondo interconnesso che tenta di sfuggire ai lacci dello Stato e d’organizzarsi in tanti porti franchi nei quali l’aspetto volontaristico e la fiducia prevalgono sulle garanzie che lo Stato si arroga d’offrire. Opporsi a Uber sarebbe come opporsi all’invenzione della stampa con la sola motivazione che essa avrebbe tolto il lavoro ai copiatori di libri. Purtroppo o per fortuna, il progresso mieterà sempre delle vittime, ma a nessuno è vietato adeguarsi: semplicemente, fa più comodo protestare coi governi e chiedere di fermare il mondo per fare un favore a pochi.

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