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Periferie: le istituzioni, i diritti, la ‘sociologia’

Una mensa per le persone più povere, una novantina, e la cooperativa sociale per l’inserimento lavorativo di gente in difficoltà, con alle spalle storie di dipendenza o di carcere. Sono alcune anime del volontariato alla Magliana, di cui ci parla Giancarlo Gamba, da una vita impegnato in parrocchia: “Se creiamo comunità, anche il senso della legalità sarà più forte”.

Una realtà molto vivace è la scuola di italiano portata avanti nell’ambito delle attività dell’associazione In Senso Inverso, nata dieci anni fa, dove c’è anche un laboratorio di teatro impegnato a creare un prodotto culturale a vantaggio dell’intero quartiere. Il fondatore è Ugo Sestieri, per oltre trent’anni insegnante di matematica nelle scuole superiori, e autore di diversi romanzi, l’ultimo “Pantalassa” (Prospettiva editrice): “Abbiamo la media di 100-120 stranieri ogni anno, da tutti i Paesi del mondo. E’ nei fatti un vero e proprio centro di accoglienza, una situazione estremamente interessante. Anche il Tribunale ci manda dei ragazzi che sono agli arresti domiciliari. Con loro questa operazione funziona molto bene. Vengono a fare lezione anche le badanti e con loro le persone anziane di cui si prendono cura”. Si può dire che da voi c’è un buon livello di integrazione? “E’ complesso il discorso. A Magliana la gente di una certa età è più accogliente. Tra i giovani è già più difficile, ma questa è una tendenza che si registra ovunque. I giovani paradossalmente hanno paura non della diversità ma dell’uguaglianza. Hanno paura di diventare uguali a loro. Il problema è che l’Italia è stupenda nella fase della prima accoglienza, siamo forse all’avanguardia. Però questa è insufficiente”.

La lampada dei desideri è una associazione che offre ai diversamente abili progetti di inclusione. Hanno messo su una web radio, una casa editrice di libri per bambini, progetti contro il bullismo e perfino una banda musicale: la… banda della Magliana.

Accanto a questa effervescenza di progetti sociali, quale è livello di sicurezza percepito qui?: “Noi possiamo uscire la sera e non succede nulla – spiega il Presidente del Comitato di quartiere – non si registrano fatti significativi di pericolosità. Il mio cruccio è che purtroppo, pur nei loro ottimi risultati, non siamo mai riusciti a mettere in collegamento le realtà del volontariato e a farle diventare volano di occupazione anche per i tanti giovani immigrati per coinvolgerli in un senso di appartenenza. Quando cerco di parlare alle istituzioni del fatto che dovremmo cercare degli sbocchi lavorativi per loro, che sono diventati i nuovi ragazzi del muretto, inattivi, e anche facile preda di malavitosi senza scrupoli, mi rispondono: questa è sociologia, che c’entriamo noi?”.

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Periferie geografiche e sociali

Occuparsi di periferie e di degrado paesaggistico ed ambientale significa occuparsi della qualità della vita. E’ uno dei traguardi dell’obiettivo 11 dell’Agenda 2030
Ci sono anche le periferie nell’Agenda 2030. L’agenda 2030 è infatti un programma d’azione che guarda alle persone e, pertanto, agli ambienti in cui queste persone vivono e sviluppano le relazioni sociali. La città è dunque fondamentale e l’obiettivo 11 “Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili” è affascinante, oltre che importante.

Vedo la necessità di attivare in città cantieri di idee e di lavoro, operando con gli abitanti di tutte le fasce di età. Delineare il nuovo futuro delle città (nel 2030 si prevedono 41 megalopoli con oltre 10 milioni di abitanti) significa incidere sempre più sul mondo e contribuire così all’obiettivo fascinoso associato a tutta Agenda 2030, cioè “Trasformare il nostro mondo”.
Una visione d’insieme

Non riesco a vedere distaccati i 17 obiettivi e i 169 traguardi, che ho letto con profonda volontà di sapere cosa i grandi del mondo hanno pensato. Mi consola sapere che se solo si riuscisse a centrare alcuni di questi obiettivi, avremmo un mondo migliore in cui far attecchire gli altri, generando un processo catalizzatore verso il futuro. Come ricordato nell’Agenda 2030, “Gli obiettivi e i traguardi stimoleranno nei prossimi 15 anni interventi in aree di importanza cruciale per l’umanità e il pianeta”.

I grandi della Terra hanno scritto “Noi immaginiamo un mondo libero dalla povertà, dalla fame, dalla malattia e dalla mancanza, dove ogni vita possa prosperare… Un mondo dove gli insediamenti umani siano sicuri, resistenti e sostenibili e dove ci sia un accesso universale ad un’energia economicamente accessibile, affidabile e sostenibile”. Un obiettivo sicuramente difficile da raggiungere, ma lavorando dal basso e assumendo come sub-obiettivi i singoli traguardi individuali possiamo farcela.
Can our cities survive?

José Luis Sert ha affascinato tanti con un libro che ho letto oltre 30 anni fa: Can our cities survive (un volume pubblicato negli Stati Uniti nel 1942 e dedicato ai temi urbanistici emersi al Congresso Internazionale per l’Architettura Moderna del 1937). Un abbiccì dei problemi urbani, con la loro analisi, le loro soluzioni. Oggi assistiamo alla riproposizione di temi fondamentali: le città dovranno sopravvivere perché in loro è il futuro dell’umanità, in quanto in esse si concentrerà la popolazione mondiale.

Ecco perché i 10 traguardi dell’obiettivo 11 individuano precisi compiti a cui non possiamo sottrarci, e puntano, per quanto ci riguarda, a recuperare il ritardo sulla spesa di risorse ”pronte” e “spendibili” e rivenienti dall’Unione Europea. Fa rabbia osservare che la quasi totalità delle risorse da spendere nel triennio 2014-2016 sono ferme, utilizzate solo in minima parte per alimentare i costi di una macchina pubblica che fa spesa e non investimenti.
Partire prima del 2030: il primo traguardo

E quindi occorre partire “prima del 2030” e dare il via ai bandi per la rigenerazione di nuove città e quartieri degradati, per costruire nuovi alloggi “adeguati, sicuri e convenienti” e garantire “servizi di base e riqualificare i quartieri poveri”, come prevede il traguardo 1 dell’obiettivo 11. E per massimizzare i risultati della spesa occorre dare spazio alla progettualità vera, quella che nasce dal basso e con la gente (come dice il sociologo Giandomenico Amendola), e da cui possono poi nascere i singoli progetti affidati a tecnici scelti per qualità e competenza, realizzati poi da imprese individuate per vera capacità e con trasparenza.

Occorre innescare quel processo virtuoso che dalla progettualità conduce al progetto e poi alla realizzazione, con una profonda bonifica della macchina pubblica e politica che consenta di risparmiare quel 50% circa di risorse che si perdono in tangenti e sprechi.
Il secondo traguardo: trasporti a misura di persona

Un traguardo ambizioso è anche il secondo, quello che punta, entro il 2030, a “garantire a tutti l’accesso a un sistema di trasporti sicuro, conveniente, accessibile e sostenibile, migliorando la sicurezza delle strade, in particolar modo potenziando i trasporti pubblici, con particolare attenzione ai bisogni di coloro che sono più vulnerabili, donne, bambini, persone con invalidità e anziani”. E l’attenzione all’uomo è evidente leggendo gli altri traguardi, perché la città è il luogo principe dello sviluppo delle relazioni sociali ed in cui si esplica la costruzione del futuro, che passa anche da un’organizzazione della città inclusiva e sostenibile, che possa anche “potenziare gli sforzi per proteggere e salvaguardare il patrimonio culturale e naturale del mondo”.
Le periferie sociali: Leave no one behind

Ritorna poi, con i successivi traguardi, un’esplicita attenzione ai poveri e alle persone più vulnerabili, bambini, anziani, diversamente abili, donne, nonché attenzione all’impatto associato alle attività umane. Infatti, se nelle città si concentrerà la maggior parte delle persone, è dalle stesse che deve nascere una differente gestione dei rifiuti, dell’acqua, dell’energia. Anche questo rientra nel motto stesso dell’Agenda 2030, che esorta a non lasciare nessuno indietro: leave no one behind.
Periferia di Lucera: un “non luogo” da rivitalizzare

Ovviamente la città è parte di un più vasto territorio con cui entrare in sintonia sviluppando le relazioni con il contesto rurale in cui la stessa si inserisce, con un diverso rapporto città-campagna, rafforzando i legami con le aree periurbane e rurali, attraverso un rafforzamento della pianificazione. Tutto questo deve poi costituire best practice per consentirne l’esportazione e l’applicazione in altri contesti e nei paesi meno sviluppati, anche fornendo assistenza tecnica e finanziaria, nel costruire edifici sostenibili e resilienti utilizzando materiali locali.
Dalle periferie del degrado ambientale alla progettazione partecipata

L’errore che occorre evitare di commettere è comunque quello di vedere gli obiettivi (ed i traguardi agli stessi associati) staccati e non integrati fra loro attraverso relazioni dirette e/o indirette. È così, guardando già ai primi obiettivi, che si massimizzano i risultati, incidendo con la rigenerazione delle città sulla “Povertà zero”, sulla “Fame zero”, come anche su “Salute e benessere” associati alle nuove città. Occuparsi infatti di periferie e di degrado paesaggistico ed ambientale significa occuparsi della qualità della vita.

In un recente articolo su Ambient&Ambienti ho infatti ricordato che la periferia è emarginazione “quando abbiamo progettato le città senza cuore ed affetto, oppure quando siamo stati politici ed abbiamo pensato alle vie dei salotti dimenticando le vie in cui c’è anche la gente semplice. O quando da giornalisti abbiamo parlato delle periferie solo in senso negativo, tralasciando di raccontare quando la gente richiede aiuto, manifesta difficoltà, chiede case, acqua, fognatura, illuminazione, giochi, contenitori per favorire la presenza di vita attiva.”
Visioni di città e progettazione partecipata

Per questo abbiamo bisogno sempre più delle “visioni” di città (per vedere oltre, dove pochi vedono, e lasciarci guidare da queste) e dobbiamo parlare di progettualità attraverso una progettazione partecipata, ottenendo adesione e ricevendo quel conforto che giustifica la voglia di continuare a costruire le città del futuro, con i servizi che servono per generare ricchezza da distribuire a chi ne ha bisogno.
Il “diritto alla città”

E di città del futuro se ne è parlato nell’ottobre 2016 a Quito, dove 193 stati hanno sottoscritto la Nuova Agenda Urbana come atto fondamentale della conferenza Habitat III, un’agenda che presenta nuove e più ampie strategie per le città al fine di incidere su queste nei prossimi vent’anni. E così, tra città compatte e trasporti pubblici sostenibili, si guarda al futuro e alla prevenzione di nuove favelas, nuove megalopoli di decine di milioni di abitanti, in cui i valori umani e l’attenzione all’altro rischiano di scomparire per sempre.

Nell’Agenda Urbana si propongono 5 punti e numerosi sotto-punti e si parla per la prima volta di “diritto alla città” (right to the city): si parla insomma di città per la gente e non per l’economia e si richiama la necessità di una visione condivisa dei principi e impegni della nuova Agenda urbana. Entusiasmante è quanto scaturisce dall’ Agenda di Quito, letta in stretta connessione con Agenda 2030: le città e gli insediamenti umani devono essere per tutti, garantendo la città per tutti, la parità dei diritti, il diritto alla casa, sistemi sociali e civili funzionali, parità di genere, una mobilità urbana accessibile per tutti, una gestione delle catastrofi e la capacità di recupero.

Insomma da Agenda 2030 si legge una vision importante che merita una traduzione operativa che dipende da noi e dalla nostra capacità di tradurre in realtà le visioni: tutto ciò è necessario e non rinviabile, al fine di prevenire delle rivoluzioni.

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Periferie? Possono diventare la marcia in più dell’Italia

Mentre in Francia, Belgio o Germania è alalrme terrorismo, qui le dinamiche sono diverse. Le ragioni? «In Italia il rapporto periferie-centro è regolato da una sorta di flusso caotico, mentre nel centro d’Europa sono isole slegata e autonome rispetto al contorno urbano dentro cui si sviluppano fenomeni pericolosi e poco visibili. Da noi invece proprio le periferie, al netto di tutte le criticità e povertà, stanno diventando anche il luogo delle sperimentazioni più innovative che ci potrebbe dare un vantaggio competitivo decisivo». Dialogo con Mario Abis consulente del Piano città presso la Presidenza del Consiglio

Romamurales

Le periferie? «Sono molto più sexy del centro». Ne è convinto Mario Abis, presidente di Makno, docente allo Iulm di Milano e consulente del Piano città presso la Presidenza del Consiglio. Negli scorsi giorni nel capoluogo lombardo presso la Casa dell’Energia e dell’Ambiente Abis ha tenuto un incontro con alcuni giornalisti milanese sotto il titolo “La città che esclude: panorama europeo ed eccezioni italiane” all’interno di un workshop di formazione professionale (“Raccontare le periferie in città- Disagio e luoghi di inclusione). Questi i passaggi i passaggi più significativi.

Perché in Italia le periferie (finora) non sono state la culla del terrorismo?
«Per affrontare su questa domanda occorre comprendere le ragioni che hanno dato vita al terrorismo metropolitano in nazioni come la Francia, il Belgio o anche la Germania. Qual è la caratteristica più evidente di una qualsiasi delle periferie di una città del centro Europa? Senz’altro la separatezza. Si tratta di una precisa scelta prima politica e poi urbanistica che in città come Parigi o Marsiglia ha concepito la periferia come un bordo separato all’interno del quale si sono ricostruiti mondi chiusi e indipendenti. Ogni banlieue ha i suoi servizi, le sue scuole, i suoi ospedali e soprattutto non ci sono (o sono davvero pochi) mezzi pubblici che le colleghino al resto della città. È all’interno di questi microcosmi decontestualizzati, dentro questa separatezza che, per stare al caso della Francia, vivono 6,5 milioni di musulmani urbanizzati. Dentro quei fortino ovviamente qualsiasi progetto di inclusione sociale viene automaticamente marginalizzato e soffocato da una visione urbanistica così definitiva.

In città come Parigi o Marsiglia la periferia è stata concepita come un bordo separato all’interno del quale si sono ricostruiti mondi chiusi e indipendenti. Ogni banlieue ha i suoi servizi, le sue scuole, i suoi ospedali e soprattutto non ci sono (o sono davvero pochi) mezzi pubblici che le colleghino al resto della città

In Italia questo ordine monolitico e monocratico non si è mai realizzato. Da noi è difficile distinguere dove finisce il centro e inizia una periferia. Da noi per dirla con una parola non si capisce dov’è il bordo. Prendiamo Roma, da nord a sud ha ingressi alla città di una bruttezza devastante: sono territori spesso desolati, ma poco progettati e quindi “non verticali” caratterizzati da flussi e non da separatezza. Le periferie italiane in questo senso sono un unicum, hanno problemi gravi, ma diversi da quelli del Centro Europa. Il disordine che le caratterizza in un certo senso è una garanzia sociale. È un disordine protettivo, ma non isolato. Naturalmente è una generalizzazione, ma testimonia un dato comune. Un’altra caratteristica delle nostre periferie è il fatto che siano profondamente diverse una dall’altra, sono difficili da catalogare, ma sono presenti non solo ai margini dei grandi centri urbani, ma anche in città medie e piccole e perfino nei paesi di provincia. Anzi proprio le periferie dei centri più piccoli sono in un certo senso le più pericolose. Quelli in cui, penso per esempio al Veneto, si registrano fatti di sangue efferati anche a livello familiare. Le tipiche villette a schiera di quei panorami e di quelle periferie, se ci pensiamo bene condividono con le banlieue quel senso di isolamento e separatezza che invece non hanno le periferie caotiche delle grandi città italiane».
Abis e il suo gruppo di lavoro nelle prossime settimane presenteranno pubblicamente il Piano periferie. Ecco qualche anticipazione.
«I concetti chiave sono due: da una parte, ed è la conseguenza di quello che abbiamo detto fino ad ora, è il potenziamento delle infrastrutture e delle strutture in modo che il flusso centro-periferia sia intensificato; l’altro ancoraggio è invece il tema del rammendo di piccole strutture rilevanti per i territori: non dobbiamo costruire ex novo in Italia il 60% degli immobili sono vuoti, il grande sforzo sarà quello del ripensamento delle loro funzioni. In questo senso dotare le periferie di grandi parchi ben attrezzati che fungano da polmoni della città, la periferizzazione delle strutture sanitarie (pensiamo al caso di Milano con il polo dell’Humanitas a Rozzano) e il trasferimento di poli artistico/culturali (ancora Milano con la fondazione Prada) sono leve decisive. Aggiungo un dato. Milano, Londra, Seul, alcune città americane costituiscono la prova provata che per chi vuole sperimentare nel sociale e nella creatività urbana le periferie sono il contenitore migliore, il più sexy, perché offrono spazi e possibilità introvabili in altri contesti. Concludo con una postilla. In futuro la vera competizione non si farà a livello di Stati, che versano in una crisi profonda, ma di città. Di grandi città metropolitane, per meglio dire. Citta dai 10 milioni di abitanti in su, per intenderci.

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Occorre leggere il territorio, coinvolgere i cittadini

Sul degrado delle periferie il prof Stevan: “Occorre leggere il territorio, coinvolgere i cittadini”. Intervista esclusiva allo storico Preside di Architettura.
Oggi è spesso la violenza, la risposta al disagio, alla convivenza di etnie diverse, alla strisciante criminalità esistenti in alcuni luoghi decentrati che chiamiamo per facilità e per una forma di sintesi imperfetta, periferie. E le periferie ormai, nell’immaginario collettivo, sono diventate sinonimo di degrado ambientale e sociale, un male inevitabile, una realtà irreversibile: uno spazio urbano e umano, insomma, senza speranza. Si potrebbe dire: luoghi dell’ “assenza”, assenza di identità, di storia, di regole. Una parte di città in ombra, in cui spesso sono deficitari i servizi, la Bellezza, la manutenzione, il verde. Perchè? Di chi la colpa?

A queste domande risponde il prof Cesare Stevan, professore emerito di Architettura Sociale e Preside “storico” della Facoltà di Architettura e Società del Politecnico di Milano.

“Attualmente il problema delle periferie si può dire che sia un problema mal posto. Nell’era in cui è dominante il concetto di rete perde gran parte del suo tradizionale significato il rapporto tra il centro urbano e ciò che sta fuori di esso. E’ per questo motivo che, in generale, preferisco parlare di parti del territorio e della città. Il problema politico quindi non è il “dove” si situano, ma il “come” vengono gestite le varie parti di una città. Il degrado, così come una buona qualità urbana, si possono trovare dovunque, in centro come nelle cosiddette periferie. E’ opportuno superare una generalizzazione che tende sempre e comunque a parlare di “periferie”, aggiungendo d’ufficio il qualificativo “degradate”. Il degrado urbano denuncia sempre una evidente mancanza di capacità politica di gestire la cosa pubblica (il territorio, il patrimonio edilizio, i beni architettonici e ambientali) e una adeguata valorizzazione delle risorse, naturali, ma soprattutto umane di un territorio. Non facciamo d’ogni erba un fascio e analizziamo attentamente le diverse parti di una città considerando con realismo quello che sono e quello che potrebbero essere in un sistema ampio di relazioni. Limitiamo l’uso del termine periferia alle periferie storiche, frutto di esperienze lontane e bisognose di profondi rinnovamenti urbanistici, come è stato nella nostra città il caso delle grandi aree dismesse della Bovisa e della Bicocca. Riconosciamo inoltre l’impegno con cui l’urbanistica (moderna e contemporanea) da più di mezzo secolo ha proposto e sperimentato modelli organizzativi tesi a interpretare le trasformazioni culturali ed economiche che hanno via via mutato il contesto sociale delle nostre città. Così, mentre per il passato si può pensare che sia esistita una differenza sostanziale nel modello urbano tra ciò che veniva considerato il centro urbano e la gerarchia di valori (economici, di servizi e sociali) che ne conseguiva, oggi, e per il prossimo futuro, è utile attenersi a un concetto di rete in cui si può affermare che tutto può essere al tempo stesso “centro” e ” periferia ”. Un sistema a geometrie e centralità variabili. Centralità diversificate in base alle qualità che sanno esprimere e ai progetti di sviluppo che sanno definire. Milano presenta un quadro estremamente interessante di interventi di iniziativa pubblica e di privati, soprattutto per quanto riguarda l’edilizia residenziale, che va dai quartieri di edilizia economico popolare dei primi anni del ‘900 alle esperienze del villaggio dei giornalisti, a Milano San Felice e Milano 2. Abitare lontano dal centro della città non è sempre una condanna, può consentire una qualità della vita migliore, ove esista una classe politica attenta a una corretta gestione: adeguate dotazioni di servizi, collegamenti efficienti, controllo sociale e prevenzione/repressione a partire dalle piccole cose che riguardano il quotidiano di ciascuno degli abitanti. Il caso del quartiere Stadera è degenerato al punto di non ritorno in cui è oggi, perché per almeno trent’anni non si è fatto niente e sono prevalsi atteggiamenti improntati alla tolleranza di violazioni e violenze che non dovevano essere tollerate.

Ma oggi la periferia all’attenzione dei media gode di una pessima fama, la rappresentazione del degrado sociale e criminale. Quale l’origine?

“La fama negativa nasce dalla crisi della periferia storica, quella legata al modello di prima industrializzazione. Si costruivano case dormitorio per gli operai attorno alle fabbriche: nasce così con connotati negativi una “parte di città” priva di quella composizione sociale che rende culturalmente sollecitanti i rapporti tra i cittadini. Quartieri con edifici di scarsa qualità e sovraffollati. Un ambiente caratterizzato da forti tassi di inquinamento, privo di verde e di servizi. Nell’immaginario collettivo si è consolidata questa immagine delle periferie ed è estremamente difficile cancellarla. Anche quando con eccellenti interventi urbanistici si pensa di esserci riusciti, basta un nulla a richiamarla e a farla rivivere come immagine egemone: “la periferia degradata”. Oggi che le fabbriche si sono riallocate sul territorio, che abbiamo trovato una soluzione ai principali problemi creati dalle aree via via dismesse dal vecchio modello di sviluppo della città fabbrica, oggi per sconfiggere irrevocabilmente la fama negativa della periferia dobbiamo puntare su una visione politica di ampio respiro e su un patto sociale che metta al bando ogni speculazione di parte sulle condizioni delle periferie e delle parti degradate della città. Sembra predominante una volontà perversa di non gestire in positivo il quotidiano, di abbandonare, di dimenticare le condizioni di vita intollerabili di alcune parti di città, pensando che renda di più politicamente gestire il disagio o attendere l’occasione che giustifichi oggi anche interventi repressivi. La buona politica, invece, dovrebbe definire una strategia di intervento che parta da una conoscenza adeguata delle diverse situazioni ed evitando di fare di ogni erba un fascio, sappia definire tempi e priorità di un progetto di rinnovamento. Il tutto dovrebbe partire da un atteggiamento molto difficile nel nostro paese, quello che ha consentito qualche anno fa la rinascita di New York: “Tolleranza zero”. Ripristinare la legalità è l’inizio. E’ vero che le scritte sui muri, ad esempio, sono di gran lunga meno gravi di altre violenze che si attuano sulle persone o sulle cose, ma se permetti che i muri, le facciate degli edifici pubblici e delle scuole vengano imbrattate, senza alcun rispetto per gli altri e per l’architettura stessa avrai una ricaduta fortemente negativa sulla formazione e sui processi formativi degli alunni che guardano ogni mattina la loro scuola deturpata nella più totale indifferenza. Addio bellezza! “Tolleranza Zero” non è la soluzione, ma l’avvio di un processo di responsabilizzazione, che per avere successo deve partire contemporaneamente dall’alto e dal basso, coinvolgere i cittadini richiamandoli alla loro storia e sollecitando una loro identificazione con i luoghi dove vivono. I cittadini vanno sollecitati alla difesa del proprio quartiere, aiutati nell’opera di rinnovamento. Si smetta di considerare queste zone, tanto più se degradate, solo un bacino di voti.

Praticamente, nell’immediatezza, che cosa si può fare?

“E’ evidente che occorre prioritariamente ricostruire la storia di un quartiere, dare un’identità ai suoi cittadini. Non è una cosa semplice, soprattutto con un mix di abitanti spesso molto diversi, ma occorre ristabilire questa identità in cui riconoscersi e non tollerare ciò che è intollerabile. Non lasciar spazio a ricati o intimidazioni. Il ripristino della legalità è essenziale, anche con atti repressivi e apparentemente impopolari. Ma importante soprattutto è dare un futuro, definire scenari di sviluppo per il quartiere e per il miglioramento della vita dei suoi abitanti. E’ indispensabile fare un progetto che parte dal cercare i punti di forza, creare una gerarchia di interventi, identificare l’elemento di omogeneità dei cittadini, rifacendosi alla loro storia che sarà centrale nella ricostruzione della loro identità. Le risorse umane ci sono e sono le risorse da cui non si può prescindere. Si devono censire anche le risorse ambientali: rapporto tra parte edificata e verde, rete dei trasporti, restaurare eventuali strutture architettoniche degradate, per evidenziare le potenzialità della zona. La soluzione è saper leggere il territorio e avere una visione strategica del suo sviluppo, formulando in base a questa un progetto da rendere condiviso. Spesso le risorse disponibili sono di più di quelle necessarie. E’ evidente quindi che ci vuole impegno, tenacia e soprattutto la convinzione che il degrado non è ineluttabile e che anche quella parte di città che qualcuno definisce periferia può essere bella e rappresentare una nuova centralità. E ci vogliono idee, invenzioni, fantasia, impegno politico.”

Una lezione che impegna conoscenza e sensibilità, che insegna come non si possa generalizzare se si vuole avere rispetto dell’uomo, della sua identità, della sua storia.

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Sicurezza, al via a Roma gli Osservatori territoriali.

Ma nelle periferie regna il degrado
Il viaggio di Ofcs.report nei municipi abbandonati.
Sette Osservatori territoriali per la sicurezza a Roma. Il 9 gennaio scorso è stato firmato un protocollo tra Prefettura, Comune e forze dell’ordine per la durata di due anni. Da cosa deriva questo bisogno? Lo scorso ottobre nella capitale era stata dichiarata l’emergenza sicurezza: i vigili avevano ammesso di non poter stare dietro a tutte le segnalazioni di aggressioni, furti e violenze ricevute. Ma su quindici municipi, sono solo sette le zone individuate, e alcune coprono aree vastissime. Solo il centro ha il suo Osservatorio privilegiato. Le periferie si sentono abbandonate.

VIAGGIO NEL III MUNICIPIO DELLA CAPITALE: TRA DROGA, RISSE E DEGRADO
Siamo stati proprio in uno di quei municipi penalizzati, accorpati con un territorio dell’Osservatorio troppo grande per affrontare adeguatamente i bisogni del quartiere. Ecco il III Municipio, tra piazza Sempione e Mentana, con più di 200mila abitanti. Abbiamo appuntamento con il preside della scuola elementare di piazza Monte Baldo, la più frequentata dai bambini della zona. Tra gli schiamazzi degli ultimi studenti che escono di pomeriggio, il preside mostra due piani dell’istituto completamente abbandonati. Polvere, calcinacci, metalli sporgenti e una puzza di muffa dominante: “Questo spazio con il teatro doveva essere il punto di ritrovo del quartiere e invece è un pezzo di scuola di cui mi vergogno, ed è anche pericoloso quando qualche bambino passa di qua. Se non ci sono spazi condivisi, i ragazzi non sanno che fare e vedono solo il degrado come possibilità nel municipio”.

Sono le sei di pomeriggio quando usciamo. Le persone rientrano dal lavoro e alla fine di via Nomentana, nella piazza principale, la situazione sembra tranquilla tra un bar con i tavolini sulla strada e le luci di Natale ancora accese. Andiamo verso il mercato rionale, sono in molti a ricordare quando, anni fa, era il fiore all’occhiello di Montesacro. Adesso apre solo la mattina, forse, ma le porte non sono chiuse a chiave. Dentro due clochard si preparano per passare la notte sotto il tetto del mercato. Fuori, nel giardinetto, l’immondizia impedisce il passaggio. Fermiamo una signora con il bastone: “che ci fa qui da sola signorina?”. Incoraggiante.

Proseguiamo, fino a ritrovarci sotto il cavalcavia che gli abitanti del quartiere chiamano “Viadotto dei Presidenti”. Qui, nel 2015, un gruppo di cittadini aveva riconquistato un pezzo di periferia con il progetto “SottoilViadotto”, giovani architetti del gruppo finanziato da Renzo Piano, avevano dipinto e costruito una piazza da zero, coperta dal ponte. Adesso solo sacchi neri con dentro qualsiasi cosa. I pezzi di macchine e tutte le istallazioni che rendevano colorato il posto sono state distrutte, o al massimo usate come case occupate. E’ impressionante tornare solo 12 mesi dopo e vedere in lontananza un gruppo di ragazzi sui 20 anni intenti a drogarsi. Alle sette di sera, nella capitale. Suoniamo al citofono del palazzo più vicino al viadotto: “lì ci sono spesso risse”, spiegano i residenti. Qua è la periferia a essersi ripresa un pezzo buono per lo spaccio. Benvenuti in un quartiere di Roma, lontano dal centro.

PERCEZIONE DELLA SICUREZZA
Appena istituiti, gli Osservatori delle sei zone non centrali avranno già molto da lavorare. Ogni area ha le sue criticità, ma tutti i presidenti dei municipi accorpati nel protocollo degli Osservatori reclamano: “le periferie sono abbandonate”. Il III Municipio è solo un esempio, ma anche Giovanni Boccuzzi, presidente del V Municipio (Centocelle-Prenestino) ha sottolineato “Noi abbiamo 246mila abitanti, una città in pratica. Si tratta di uno strumento azzoppato, che non guarda ai veri problemi di Roma. E’ bello tenere pulito il centro storico, ma i cittadini che vivono in altre zone hanno quasi paura a uscire la sera. Non si può”.

“La percezione dei romani è di una città fragile e minacciata” si legge in una relazione della stessa sindaca Raggi. Una città dove non si vive bene, degradata e dove la giustizia non viene fatta rispettare, soprattutto in certi municipi, che sono poi grandi come una città media italiana. Nel 2015, sotto il Prefetto Gabrielli, con l’esperienza dei “Collegi” ci sono state le prove generali. Ora gli Osservatori esistono davvero. Segnalare criticità e degrado, vigilare in ore particolari se necessario, essere più vicini ai problemi di quartiere con interventi immediati: questi sono i compiti di ogni Osservatorio.

I PUNTI CALDI PER GLI OSSERVATORI
Il Viceprefetto aggiunto Giuseppe Licheri spiega che “L’Osservatorio è presieduto e coordinato da un dirigente della Prefettura, è composto anche dal direttore di ciascun municipio, dai dirigenti dei commissariati, con il compito anche di coordinare lo sviluppo tecnico–operativo delle determinazioni; dai comandanti dei Carabinieri, da un rappresentante della Guardia di Finanza; da personale di Roma Capitale e dai comandanti dei Gruppi di Polizia locale“. Anche le risorse economiche verranno messe in campo da tutte queste autorità.

Verrà data particolare attenzione a insediamenti abusivi, occupazioni di immobili, prostituzione, spaccio di stupefacenti, abuso di sostanze alcoliche e roghi tossici. Per qualcuno possono sembrare fenomeno lontani dalla realtà, ma sono all’ordine del giorno appena ci si allontana dal Colosseo. Quando si tratta di sicurezza sono tutti coinvolti, “Possono partecipare alle riunioni- continua il Viceprefetto – anche i responsabili amministrativi interessati alle tematiche. Un esempio: per interventi che riguardano i roghi tossici sono chiamati a partecipare anche rappresentanti del Gruppo Carabinieri Forestale. Anche i cittadini hanno un loro ruolo: nella fase operativa possono testimoniare o formare dei comitati appositi”.

Altre città sembrano interessate a prendere il modello degli Osservatori Territoriali per la sicurezza, ma forse prima vanno sperimentati bene i suoi risultati su Roma.

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La nuova ricetta delle periferie: tutti in chat per fermare ladri, buche e rifiuti

Si chiama “Sicurezza WhatsApp”, un quartiere in chat per dire no al degrado. Ladri, buche, cumuli di immondizia, scippi, roghi tossici. A Roma c’è Tor Sapienza, quadrante della periferia est, che da tempo sta cercando nuovi modi per combattere il degrado. “Abbiamo attivato il servizio da qualche giorno, ed è molto usato” spiega Roberto Torre del comitato di quartiere Tor Sapienza.

Lo stesso quartiere dove scoppiò la rivolta contro i migranti nel centro di accoglienza di viale Giorgio Morandi, lo stesso soffocato da anni dai roghi tossici che partono nei pressi del campo nomadi di via Salviati. E lo stesso dove è morta la ventenne cinese Yao Zhang, scippata nella stazione deserta di Tor Sapienza, travolta da un treno mentre tentava di inseguire i ladri. Ci provano ancora, dopo aver creato gruppi su Facebook, aver scritto decine di e-mail al municipio e al Comune. “Siamo abbandonati” l’eco delle parole dei residenti. Ora c’è questo numero (338.6105342) diffuso dal gruppo Fb del comitato di quartiere che invita “tutti i cittadini a memorizzare questo numero e ad inviare foto e segnalazioni sul territorio. Le segnalazioni saranno inoltrate dal Comitato a tutti gli uffici di competenza”.

Ci proveranno, ancora una volta, a sostituirsi al vuoto. Così come hanno fatto tempo fa i residenti delle Cinque Colline. Stavolta siamo a Roma sud, sulla Laurentina al confine con Pomezia. La loro battaglia contro gli incivili che lanciano sacchetti dell’immondizia a terra è stata vinta installando cartelli che avvisano: “Area sottoposta a videosorveglianza”. In attesa che qualcuno installi telecamere, sono i residenti a riprendere con gli smartphome chi abbandona immondizia. Seguono un vademecum condiviso con le forze per l’ordine. Anche loro, i residenti delle Cinque Colline, fanno ovviamente il “controllo del vicinato”.

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Periferie, Ater: “Condivido le lamentele sulla manutenzione”

“Ora si spaccia anche a mezzogiorno, non più solo di notte, eppure questo non viene raccontato abbastanza. Molti di coloro che sono ingaggiati dalla criminalità romana (immigrati) fanno molto più notizia in quanto stranieri che arrivano e non in quanto assoldati dalla malavita”. Così Adriana Goni Mazzitelli, antropologa, autrice della ricerca per l’Università Roma Tre ‘Vincere il confine’, frutto del lavoro di quasi cinque anni a Tor Sapienza. “Che qui la tensione nel 2014 fosse altissima, è verissimo. Ma se da un lato ci si è resi conto della consistenza della mafia di colletti bianchi in politica – precisa – dall’altra si dovrebbe parlare di più della mafia ordinaria legata ai traffici di droga, senza attendere che il pretesto per farlo sia lo straniero”.

Come ridare al territorio un vissuto quotidiano che lo renda abitabile e sicuro?

Mentre percorriamo i corridoi bui dei palazzoni di via Morandi, teatro delle rivolte di due anni fa, il prof. Carlo Cellammare, docente di Urbanistica a La Sapienza, esprime la desolazione per un progetto che si è rivelato fallimentare, quello che qui risale agli anni Settanta: edifici pensati in modo che dovessero essere autonomi dal resto del quartiere, isolati da un vialone difficilmente attraversabile, di fatto mai più dotati dei servizi ipotizzati all’origine. Eppure ci sono giovani che si danno da fare, tra cui Carlo Gori, regista, responsabile del Centro Culturale municipale Giorgio Morandi. Ci racconta che la maggior parte delle persone arrivate qui venivano dalle baracche del Quarticciolo e dalle aree limitrofe. Via via si sono stratificate altre persone, molte delle quali hanno occupato la spina centrale degli edifici e anche i sotterranei. Alcuni angoli evidenziano un’opera di salvaguardia e di decoro grazie al contributo volontario di alcune associazioni come la nostra, ma nella maggior parte di questi luoghi domina il degrado e l’abbandono. “Noi cerchiamo di fare più progettazione territoriale possibile”, spiega. “Con il gruppo teatrale funzioniamo molto bene. Proponiamo laboratori a cui partecipano i migranti, artisti veri. E’ un lavoro prezioso: loro non si stancano mai quando sono in un centro per immigrati, hanno quindi bisogno di impegni per avere una vita pressoché normale. Così dai loro dignità. E’ un mondo estremamente interessante”.

Se ci fosse maggiore e più costante manutenzione…

Raggiungiamo Giovanni Tamburino, Commissario Straordinario ATER (Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale), già magistrato, il quale condivide le lamentele degli inquilini: “E’ vero che è insufficiente. Io ho voluto indicare nelle linee guida ATER che la manutenzione fosse messa al primo posto per l’anno 2017. Abbiamo aumentato in bilancio di oltre il 30% la quota destinata a questo aspetto. Non sarà sufficiente ma credo che migliorerà la situazione. Vogliamo anche che ci sia un maggior controllo su come questi soldi sono spesi. Deve finire la storia che le aziende demandate alla manutenzione poi non la fanno o la fanno male. Bisogna che la facciano, bene e nei tempi”. E aggiunge l’auspicio “che la collaborazione tra Ater e Comune ci sia e sia piena ed efficace. Altrimenti si rischia di perdere tempo. Per esempio, man mano che recuperiamo gli alloggi, noi li rimettiamo a disposizione del Comune per nuovi ingressi. L’anno scorso circa 400. Ma le nuove assegnazioni sono tardive. C’è qualcosa che non funziona. Il fenomeno delle occupazioni abusive potrebbe così essere superato anche se resta molto complesso giacché persone senza scrupolo fanno commercio di queste case. E’ gravissimo questo e deve essere stroncato. Il fatto è che bisogna ritrovare il senso di una regola comune perché diversamente prevalgono forme di sopraffazione, di violenza e minaccia che ricadono sempre sul più debole. E’ un dato di verità che c’è una guerra tra poveri. Per quanto mi riguarda non è questione di pelle, italiano o non italiano. Io non faccio differenza. Sicuramente ci saranno degli immigrati che starebbero meglio nei loro paesi ma questo vale anche per tanti italiani che si comportano male. Quindi la vera distinzione che dobbiamo fare è tra chi vuole una società secondo le regole e chi non la vuole. Che ci abitino italiani o non italiani a me non interessa, è una enorme sciocchezza per me”.

E’ solo una questione di usare la Forza pubblica?

“L’intervento della forza pubblica alle volte non è possibile – sottolinea Tamburino a proposito delle richieste, che pure emergono da diversi abitanti, circa l’impiego più massiccio della Polizia, vista come paralizzata, a garanzia della sicurezza del territorio – perché le conseguenze sarebbero ingestibili. Chi ha il difficilissimo compito dell’ordine pubblico, in una città come Roma, si deve confrontare con gli effetti di una azione. Conosciamo per esempio circa un migliaio di appartamenti dove vi sono persone che non ne hanno il diritto, ma non si può procedere contro di loro in modo indiscriminato. Le conseguenze vanno preparate e vanno predisposte. Togliere delle persone quando non ci sono strutture alternative causerebbe problemi di ordine sociale. Si tratta purtroppo di situazioni insolubili. Procediamo per approssimazioni progressive”. E intanto annuncia la fase esecutiva della trasformazione del quarto piano di Corviale dove ci si avvia verso una riconfigurazione generale dando un centro a quel modulo abitativo, “il cui famigerato quarto piano non ha funzionato nemmeno per un giorno”. A fronte dell’impegno di tanti abitanti, e non, per creare socialità e integrazione in territori difficili come questo, forse manca un anello di congiunzione con le istituzioni, mancano sostegno e risorse. “Se mancano – conclude Tamburino – vanno cercate, costruite e pretese”.

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Le start up di successo? Nascono in periferia e sono fondate da donne

A Milano la maggior parte nasce per iniziativa di donne, under 35. Dalla ciclofficina con bar all’hamburgeria con carne di struzzo, la fantasia delle nuove imprenditrici non ha limiti. Dal 2012 al 2015 complessivamente in città sono nate 382 imprese e l’83% è ancora in attività. Danno lavoro a 706 soci e 1.222 dipendenti

Anche in periferia possono nascere start up di successo. I fratelli gemelli Veca, uno apicoltore e l’altro disegnatore, a Baggio hanno avviato un progetto di animazione nelle scuole sulla difesa della biodiversità, con tanto di “Ape canterina” che accompagna gli incontri con i bambini. Luca e Riccardo, ingegneri ma con una grande passione per la corsa, al Parco Nord hanno creato, insieme ad altri amici, la prima (e per ora unica) Runstation della città: “La42” un negozio in cui non solo si possono acquistare scarpette, tute o integratori, ma dove è anche possibile fare la doccia o lasciare in deposito oggetti di valore (dal cellulare al pc) prima di fare la solita corsetta durante la pausa pranzo o prima di cena. Sono due tra le 570 imprese e start up sorte dal 2012 a oggi a Milano. Alcune grazie a specifici bandi dedicati alle periferie. L’ultimo, chiamato “Startupper” e chiuso l’estate scorsa, ha messo a disposizione 1,5 milioni di euro: ne sono nate così 21 imprese di periferia. La maggior parte fondate da donne (16), under 35 e in possesso di laurea o diploma. Le nuove realtà che aprono sono sei in Corvetto, quattro a Villapizzone, tre in Lorenteggio e Giambellino, due in Barona e in Bicocca-Greco una a Morsenchio, a Bruzzano, in Bovisa e in Certosa. La fantasia dei novelli imprenditori va dalla produzione di pasta fresca a una moderna ciclofficina con annesso bar, passando da elementi d’arredo esterno realizzati in marmo a un’hamburgeria dove gustare sapori esotici come carne di canguro e struzzo, sino a uno studio specializzato nella realizzazione di spazi abitativi sostenibili, come giardini e orti urbani.

Secondo i dati del Comune, presentati oggi dall’assessora al Lavoro e Commercio Cristina Tajani, su 382 start up monitorate e sostenute attraverso gli otto incubatori d’impresa o con i diversi bandi dedicati come “Risorse in periferia”, “Tira su la clèr”, “Tra il dire e il fare” e “Agevola Credito”, l’83% è ancora attiva a 5 anni dalla nascita, quando il tasso di sopravvivenza nazionale è del 44%. Sono imprese che danno lavoro a 706 soci e 1.222 dipendenti. Dal 2012 al 2015 hanno fatturato circa 314 milioni di euro, mentre i finanziamenti ricevuti ammontavano a 7,1 milioni di euro. Questo vuol dire che ogni euro dato tramite bando ha generato circa 43 euro di fatturato. “I risultati raggiunti costituiscono la miglior cartina di tornasole per giudicare l’efficacia delle politiche attuate dall’Amministrazione”, ha sottolineato con un certo orgoglio l’assessora.

Tra le imprese sostenute in questi anni dal Comune ci sono anche quelle nate o che operano all’interno delle carceri milanesi. Ne è nato anche un consorzio, Vialedeimille, che raccoglie cinque cooperative con 100 persone -detenute o in misura alternativa- assunte e un fatturato di produzione di circa 1,5 milioni di euro in diversi campi d’intervento, dalla ristorazione alla meccanica, dall’artigianato alla botanica.

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La sfida di Made expo, rigenerare le città dalle periferie

Il salone internazionale dell’architettura e delle costruzioni che si terrà dall’8 all’11 marzo in Fiera Milano con 1.400 espositori punta sulla ripresa del mercato delle costruzioni. Quattro settori specialistici e un progetto per la riqualificazione urbana del futuro
La sfida dei prossimi anni per l’architettura e l’edilizia si chiama “rigenerazione urbana” e parte dalle periferie con l’obbiettivo di ridurre il consumo del suolo e riqualificare aree urbane con fabbricati spesso caratterizzati da scarsa qualità architettonica e costruttiva e spesso privi di requisiti antisismici.

Con attenzione, per quanto riguarda le politiche urbanistiche, alle aree di aggregazione, ai servizi e ai parchi con l’obbiettivo di riqualificare anche il capitale sociale delle periferie. E’ questa la parola d’ordine lanciata alla presentazione di Made expo, fiera internazionale dell’architettura, del design e dell’edilizia che si terra dall’8 all’11 marzo nei padiglioni di Fiera Milano. Un grande hub per il mondo dell’architettura e dell’edilizia.

Dibattito al quale hanno preso parte, oltre al presidente di Made Expo Roberto Snaidero, l’architetto Stefano Boeri, John Foot professore di Storia italiana all’Università di Bristol, Cristina Tajani assessore al Commercio del Comune di Milano, responsabile del progetto Sharing Cities.

“In Europa viviamo sempre di più in città diffuse, disperse e frammentate, i cui tessuti urbani aumentano ogni anno il proprio diametro, pur generando deserti al loro interno, città in cui centro e periferia sono parole dure e difficili da definire. Non perché non ci siano centri o non ci siano periferie, ma perché oggi, per i fenomeni demografici e di immigrazione, per la polivalenza di culture che abitano le nostre comunità urbane, la questione è diventata irriducibile a una semplice opposizione tra centro e periferia – ha spiegato Stefano Boeri -. Si stanno formando anticittà non contrapposte alla città ma che le erode dall’interno distruggendo il fare città”.

“In Italia abbiamo città dove questo tipo di periferia è nel cuore stesso della città: i Quartieri Spagnoli a Napoli così come il centro storico a Genova sono luoghi di sofferenza e di assenza di servizi o come via Gola, a Milano: vicino alla Darsena. Le politiche urbane – ha proseguito l’architetto Boeri – non possono semplicemente essere politiche che riducono le distanze centro-periferia o intervengono localmente per portare servizi. Occorre promuovere condizioni di urbanità, di intensità di scambi e relazioni. Si tratta di creare spazi di aggregazione, di cui le singole comunità possano appropriarsi e che possano gestire e spazi di interazione, dove le diverse comunità possano incontrarsi”.

“Le città e le società occidentali hanno attraversato profondi cambiamenti nell’ultima trentina d’anni. La fabbrica non è più il centro della vita urbana o economica.

– ha esordito il professor John Foot -. Gli immensi spazi che si sono liberati sono stati riempiti con nuovi progetti a destinazione mista, aree residenziali, centri commerciali, zone ricreative, musei, parchi. Questo cambiamento rivoluzionario ha inciso sul funzionamento della città, e quindi sul ruolo dell’architettura e dell’edilizia, oltre che del design. Adesso si lavora tutto il tempo, e la giornata è scandita da internet e dai social media. Non esiste un orario lavorativo: la vita – come l’orario di lavoro – è flessibile. Ritmi, tempi e griglia delle attività urbane non sono più quelli di uno spazio industriale. I luoghi del lavoro e del tempo libero sono mescolati tra loro, non più separati da muri, cancelli e divise da lavoro che fanno vedere a tutti qual è la nostra occupazione. Questi mutamenti sono stati accompagnati e spinti dalla globalizzazione che ha portato l’immigrazione di massa e spostamenti di popolazione in tutto il globo, coinvolgendo persone qualsiasi in cerca di lavoro, ma anche professionisti – architetti, designer, costruttori – che sono chiamati a trasportare altrove le loro capacità di innovazione e le loro competenze, in ambienti e culture diverse”. Per questo, ha spiegato ancora Foot, “dobbiamo andare oltre la retorica della periferia, la rapidità del cambiamento fa sì che la periferia di oggi possa diventare il centro di domani”.

“E’ un cambiamento epocale – ha spiegato l’assessore Cristina Tajani – dove cittadini, amministrazioni e progettisti dovranno collaborare in maniera sempre più stretta per favorire uno sviluppo territoriale attraverso l’ottica dell’innovazione. Essere una Smart City non significa puntare esclusivamente sulla tecnologia quale strumento per migliorare la qualità della vita dei cittadini ma soprattutto favorire la condivisione e l’innovazione. E’ un processo virtuoso che unito alla trasformazione di porzioni di città già urbanizzate come gli ex-scali ferroviari in aree di aggregazione, servizi e parchi urbani, ci proietterà nelle città del futuro. Ed è qui – ha concluso – che la Made expo gioca un ruolo da protagonista grazie alla sua capacità di attrarre innovazione e ricerca proponendo soluzioni e materiali che avranno un ruolo fondamentale in questo processo di trasformazione”.

“Questa edizione di Made expo – ha dice Roberto Snaidero – rappresenterà un fondamentale momento di confronto tra imprese e istituzioni per dare un contributo alla crescita economica e alla trasformazione del nostro Paese e delle nostre città. Grazie a un mix unico di innovazione e competenza la manifestazione presenta e mette a disposizione del mercato gli strumenti indispensabili per portare avanti questo ambizioso progetto. Anche quest’anno Made expo sarà un grande evento esperienziale, un luogo fisico dove scoprire, vedere, conoscere, toccare, decidere. Un grande evento in grado di spingere verso i mercati internazionali e far ripartire quelli nazionali. Grazie ai quattro Saloni tematici specializzati e al palinenseto di iniziative mirate, i visitatori potranno conoscere in anteprima materiali e soluzioni in un momento di inizio ripresa del mercato delle costruzioni che, secondo stime di Ance, nel 2017 registrerà un incremento dell’0,8% degli investimenti in edilizia”.

La fiera, con circa 1.400 espositori offre una visione multi-specializzata su materiali, sistemi costruttivi, serramenti, involucro, finiture e superfici. Quatto i Saloni.

Made costruzioni materiali (padiglioni 6-10) – Presenta soluzioni costruttive e tecnologie innovative, materiali performanti, attrezzature più all’avanguardia per un’edilizia sostenibile e sicura. In scena sistemi costruttivi e strutture in legno (di grande interesse per il boom delle case in legno), laterizio, calcestruzzo e acciaio, materiali, manufatti, prodotti performanti nei settori dell’impermeabilizzazione, isolamento, protezione, risanamento e rinforzo strutturale, colore e pitture, sistemi di misura, prova e controllo, soluzioni per il cantiere e per la sicurezza. Made involucro e serramenti (padiglioni 1-2-3-4) – Rappresenta tutta la filiera in tema di serramenti, tende, sistemi di oscuramento, protezione, involucro edilizio e coperture. Made interni e finiture (padiglioni 5-7) – Propone soluzioni ad alta qualità e prodotti innovativi per pavimenti, rivestimenti, porte, maniglie e accessori, controsoffittature, partizioni interne, pareti attrezzate, scale e finiture. Made software tecnologie e servizi (padiglione 10) – Mette in mostra le ultime novità in ambito software: dalla progettazione e calcolo strutturale alla progettazione architettonica ed ingegneristica, e del Bim. E poi stampanti 3D, realtà aumentata, tecnologie e servizi innovativi funzionali a progettare, costruire e gestire edifici ed ambienti.

Da segnalare infine Carousel for Life, il progetto che FederlegnoArredo ha deciso di lanciare a Made expo generato da una ricerca condotta sull’architettura per l’infanzia, finalizzato a orientare una nuova visione che definisca criteri qualitativi di progettualità e produzione, mettendo i bambini al centro del mondo.

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Periferie romane assediate dal disagio sociale e dalla criminalità organizzata.

In campo la Commissione d’inchiesta parlamentare e quella anti-mafia della Regione Lazio
Il tempo sembra essersi fermato nelle periferie romane. In queste ore sono iniziate le ‘ispezioni’ della Commissione parlamentare di inchiesta, che ha scoperto una condizione dei quartieri periferici romani ai limiti della sopportazione umana. A descrivere la situazione il presidente della speciale commissione, Andrea Causin che con queste parole ha descritto la situazione: “Le audizioni dei rappresentanti dei consorzi di autorecupero‎ delle periferie, delle associazioni per la rigenerazione urbana e dei comitati e associazioni degli abitanti dei Piani di Zona di Roma, sono un contributo prezioso per i lavori della commissione da me presieduta. Il dialogo e il confronto con chi ogni giorno vive i problemi e cerca soluzioni, è fondamentale ed imprescindibile”.

Il quadro che emerge a Roma è drammatico e preoccupante. Opere primarie mai completate e un miraggio la presenza di polizia e carabinieri

“Il quadro che emerge su Roma è drammatico e preoccupante. Opere di urbanizzazione primarie mai completate, piani di zona privi di rete elettrica, telefonica, del gas, e allacci fognari, con la conseguenza che i cittadini sono costretti in alcuni casi a pagare di tasca propria. In alcuni quartieri, come la Borghesiana e Tor Bella Monaca, la presenza delle forze dell’ordine è un miraggio, il tasso di abbandono scolastico è elevatissimo, vi è presenza di piazze dello spaccio aperte 24 ore al giorno‎, lotti di terreno dove sono state edificate abitazioni per residenza agevolata che tutt’oggi risultano di proprietà di società malavitose. Le denunce dei rappresentati dei comitati e degli abitanti dei Piani di Zona di Roma saranno parte integrante della relazione che la commissione periferie presenterà al Parlamento. Non solo. Trasmetteremo al sindaco di Roma, Virginia Raggi, al presidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti e alle istituzioni competenti, le relazioni dei comitati e delle associazioni ascoltate oggi”, conclude.

In Regione le audizioni del presidenti di IV e VI Municipio, quadranti ricchi di potenzialità ma assediati dalla criminalità

E mentre la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle periferie va avanti con il suo lavoro, stessa cosa fa quella antimafia della Regone Lazio. E’ cominciato infatti l’ascolto dei presidenti dei municipi di Roma, a partire da quelli che amministrano i territori menzionati dal capo della polizia, Franco Gabrielli, durante l’audizione in Commissione parlamentare sulle periferie. L’incontro con i presidenti del IV e del VI municipio, ha permesso alla Commissione di approfondire le problematiche di zone quali San Basilio, Tor Bella Monaca e Ponte di Nona. Quartieri difficili ma al contempo ricchi di potenzialità, dove il basso livello dei servizi si associa spesso alle piazze dello spaccio, alla delinquenza minorile, a un’aspettativa di vita inferiore rispetto agli altri quartieri”. E’ quanto afferma la vice presidente della Commissione regionale sulla criminalità e le infiltrazioni mafiose nel Lazio, Marta Bonafoni.
“Un’audizione necessaria, quindi, per ascoltare questi territori, ma anche per individuarne le criticità maggiori e per chiedere risposte a chi si trova adesso a governarli – prosegue Bonafoni – Ripartire dal sociale, dalla cultura, dalla rigenerazione urbana sono le parole d’ordine emerse nel corso dell’audizione, ma anche la necessità di non criminalizzare i territori e di valorizzarne le risorse migliori, le associazioni, i comitati e le realtà che più di ogni altro conoscono il quartiere in cui vivono. Recepire prima di tutto le loro istanze, dunque, a partire dal grido di allarme lanciato proprio oggi dai rappresentanti di consorzi di autorecupero delle periferie e dalle associazioni per la rigenerazione urbana della Capitale, che durante la seduta della Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni delle città e delle loro periferie hanno descritto una situazione di abbandono inquietante. A questo degrado e a questa solitudine vanno trovate risposte nella partecipazione e nell’inclusione, quali strumenti a disposizione delle istituzioni per ridurre quel divario tutt’oggi presente tra la politica e i bisogni delle periferie”.

Giordano (Cgil Regione Lazio): “Sempre più evidente nelle periferie lo sfilacciamento dei rapporti sociali”
“Dai recenti fatti di San Basilio e del Trullo, dove è stato negato a due famiglie immigrate l’accesso all’abitazione di edilizia popolare loro assegnata, alla nuova manifestazione di sabato scorso: il dibattito cittadino continua a riaccendersi sul tema della casa mostrando come sia stretta la connessione con il sistema del welfare romano, il razzismo, il disagio sociale delle periferie, l’aumento della disoccupazione in un contesto politico di maggioranza e opposizione inconcludente”. Così, in una nota, Roberto Giordano, segretario della Cgil regionale. “Non apparteniamo alla squadra dei detrattori a prescindere – continua -. Crediamo anzi che la politica debba essere sempre protagonista ma siamo preoccupati per il sempre più evidente sfilacciamento dei rapporti sociali. Discutere di casa significa discutere del destino della città, dei quartieri e dei suoi abitanti. Chi ha manifestato sabato abita da più di dieci anni nei Caat, con un patrimonio che tra Ater e Comune di Roma ammonta a circa 73mila appartamenti e che totalizza il 47% del mercato degli affitti della Capitale”. “Nel patrimonio pubblico – precisa – vi sono molte rendite di posizione che non possono più essere tollerate e che vanno affrontate in maniera sistemica. Se si applicasse il Dgr 18 della Regione Lazio sull’emergenza abitativa e il nuovo Piano sociale di Roma, in fase di avvio, analizzando le criticità esistenti, si potrebbe davvero affrontare l’emergenza abitativa. Una maggiore mobilità del patrimonio Erp, la riforma degli enti gestori, la costituzione di un osservatorio e di un’agenzia per la casa, la rimodulazione degli alloggi: tutto ciò consentirebbe di evitare un nuovo consumo di suolo e ulteriori speculazioni. Naturalmente per fare questo ci vuole una regia politica, una politica appunto che torni a essere protagonista”.

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