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INVITO > Percorso della memoria in Municipio

PERCORSO DELLA MEMORIA, INCONTRO CON PIERO TERRACINA

Il 27 gennaio prossimo ricorrerà il 70° anniversario del giorno in cui le truppe alleate aprirono i cancelli di Auschwitz, mostrando al mondo l’orrore dell’Olocausto. Non possiamo permettere che la barbarie e la disumanità di quanto accaduto cada nella dimenticanza, dobbiamo fare in modo che si continui a parlare ed a ricordare quelle terribili atrocità, soprattutto con il passare degli anni e la progressiva scomparsa dei testimoni diretti di quella tragedia. Per questo, anche quest’anno, abbiamo organizzato un incontro, che si terrà venerdì 16 gennaio alle 10 al Teatro India (locandina allegata), tra gli studenti delle nostre scuole e Piero Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz dove era stato deportato dopo il rastrellamento del Ghetto di Roma. “La memoria non è il ricordo. Il ricordo si esaurisce con la persona che lo conserva. La memoria, invece, è un filo rosso che unisce il passato con il futuro. La memoria proietta il passato nel futuro, per mantenerlo vivo” ha detto Terracina ai ragazzi presenti lo scorso anno. Con l’incontro del 16 gennaio vogliamo contribuire a rendere forte e saldo quel filo rosso.

Percorso-della-memoria-locandina




Fondi per le politiche sociali nella legge di stabilità

Pubblicata la Legge n. 190 del 23 dicembre 2014 (legge di stabilità per il 2015).
Lo stanziamento del fondo nazionale per le politiche sociali viene incrementato di 300 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2015. Analogamente viene incrementato lo stanziamento del fondo per le non autosufficienze‚ anche per sostenere interventi in favore delle persone affette da sclerosi laterale amiotrofica (SLA)‚ con 400 milioni di euro per l’anno 2015 e di 250 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2016.
A decorrere dal 1º gennaio 2015 vengono trasferite alcune risorse in un fondo per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati.
Previsto anche uno stanziamento di 250 milioni di euro dedicato al mantenimento della social card. Viene inoltre istituito un fondo con una dotazione di 112 milioni di euro per il 2015‚ da destinare a interventi in favore della famiglia‚ includendo lo sviluppo dei servizi socio–educativi per la prima infanzia.
Il fondo per le politiche della famiglia viene incrementato di 5 milioni di euro dal 2015 al fine di sostenere le adozioni internazionali.
Una quota delle risorse destinate al finanziamento del Servizio sanitario nazionale (50 milioni di euro)‚ a decorrere dal 2015 sarà destinata alla prevenzione e alla cura delle patologie connesse alla dipendenza da gioco d’azzardo. Si prevede la sperimentazione di modalità di controllo dei soggetti a rischio‚ mediante l’adozione di software che durante il gioco comunichino al giocatore messaggi di allerta. L’Osservatorio appositamente istituito per queste problematiche‚ trasferito al Ministero della Salute‚ sarà rideterminato nella sua composizione (con successivo decreto)‚ assicurando la presenza di esperti anche delle associazioni operanti nel settore.
Per quanto concerne gli aiuti umanitari e le organizzazioni impegnate in tale attività‚ viene stabilito che i beni‚ destinati ad essere trasportati o spediti fuori dell’Unione Europea in attuazione di finalità umanitarie‚ saranno acquistabili senza applicazione dell’IVA (un successivo decreto definirà le modalità di applicazione di questa nuova norma agevolativa).
Il 5 per mille viene confermato e reso stabile‚ sia per il 2015 che per gli anni successivi. Al fine di assicurare trasparenza ed efficacia nell’utilizzazione di tali risorse‚ con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri saranno definite le modalità di redazione e pubblicazione del rendiconto da parte dell’ente beneficiario. Previste sanzioni in caso di violazioni. Per la liquidazione della quota del 5 per mille del 2015 viene autorizzata la spesa di 500 milioni di euro.
Per la riforma del terzo settore‚ dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale viene autorizzata la spesa di 50 milioni di euro per l’anno 2015‚ di 140 milioni di euro per l’anno 2016 e di 190 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2017.
Viene‚ infine‚ stabilito un innalzamento del limite massimo nella detraibilità delle donazioni in denaro effettuate a favore delle ONLUS. Dal 2015 infatti sarà possibile la detrazione del 26% (per le persone fisiche) e del 2% (per le imprese) fino ad un limite massimo annuo di 30.000 euro‚ anziché i precedenti 2.065 euro. Viene infatti modificato il Testo Unico delle Imposte sui Redditi sia per quanto riguarda le disposizioni sulle detrazioni IRPEF‚ per le persone fisiche‚ che le detrazioni sull’IRES‚ relativamente a persone giuridiche e imprese. È confermato che‚ ai fini della detraibilità‚ il versamento dell’erogazione va effettuato tramite banca‚ ufficio postale o altri sistemi di versamento tracciabili (carte di debito‚ di credito‚ prepagate‚ assegno: non è applicabile‚ quindi‚ per le erogazioni in denaro contante).

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Jihad di periferia

periferieCe l’hanno raccontato in lungo e in largo, come la biografia degli autori degli attentati di Parigi sia inscindibile dall’ambiente della banlieu. E del resto da qualche anno, con notevole puntualità e regolarità, che siano i saccheggi dei negozi perbene a Londra, o le manifestazioni surreali tra le villette e i fast food di Ferguson, o qualche comportamento oltre i limiti della demenza dalle nostre parti italiane, non si manca mai di collegare un certo tipo di spazi ad alcuni problemi. Il collegamento però deve essere preso molto alla lontana, non perché non esista, e non sia per certi versi diretto, ma perché ha bisogno di una serie fin troppo lunga di precisazioni e contestualizzazioni. Infatti se solo ci pensiamo un istante, la nostra testa quando evoca quelle arterie commerciali britanniche, ai parcheggi del suburbio americano, a certe nostre distese di prati spelacchiati tra palazzi razionalisti, ricostruisce spazi diversissimi, chiamandoli nello stesso modo. E dicendoci in modo piuttosto chiaro, che se hanno qualcosa indubbiamente in comune, non si tratta delle forme fisiche.

Hanno tutte la capacità di produrre quel genere di disagio che spesso sfocia, seguendo un canale o l’altro, nelle psicopatologie violente e senza sbocco non autoreferenziale. Che siano i saccheggi e gli incendi di negozi per rubacchiare stupidaggini da consumi infantili, o urlanti confuse spesso autolesionistiche manifestazioni contro tutto e contro tutti, o addirittura di innescare l’altrettanto confusa conflittualità estrema che poi sfocia nella criminalità organizzata o nelle varie forme di terrorismo, a seconda del caso che fa incontrare i disagiati con questo o quel maître à penser. Questo plasmare cervellini particolarmente fragili è un carattere delle periferie che, evidentemente non proporzionale alla distanza tra gli edifici, agli standard a parcheggio o verde, allo stato di manutenzione delle tubature, o degli spazi comuni. Ovvero tutti quegli aspetti che, attraverso processi partecipativi o meno, con assemblee nelle scuole, urla di casalinghe, riunioni pensose al centro civico, affrontano i vari cosiddetti piani per le periferie, puntualmente focalizzati nel risolvere tutto ciò che evidentemente, almeno così da solo, non produce affatto disagio.

Del resto basta a volte spostarsi di qualche centinaio di metri, nel medesimo quartiere, per scoprire che il disagio pare svaporato per miracolo, pur restando immersi nei medesimi spazi fisici, tipi di edifici, strade, verde. A volte esiste qualche indizio abbastanza chiaro almeno a indicare un percorso di riflessione: come le case in proprietà anziché in affitto, ad esempio, che secondo molto pensiero conservatore sono sinonimo di identità e stabilità, delle famiglie e degli individui. Oppure l’epoca di costruzione e tipo di occupazione dei fabbricati, o presenza o meno di attività economiche. In qualche pianterreno. Altre volte neppure un indizio labile del genere, salvo la constatazione che in un posto c’è il disagio, nell’altro no, e che di sicuro gli spazi fisici sono identici. Ma una cosa è certa: quegli spazi, da soli, non cambiano nulla. E chissà che quest’ultima traumatizzante esperienza, di pochissimi balordi psicopatici terroristi, che si sono maturati tutto il loro disadattamento nel brodo di coltura del periferia, non convinca qualcuno di importante. Non lo convinca sul serio a piantarla per sempre, ogni qual volta succede qualche manifestazione di disagio nelle periferie, ad uscirsene con la solita pensata: chiamiamo un bravo architetto!

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Urbanizziamoci il cervello

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La maggioranza delle persone prima o poi nella vita ha pensato di avere un figlio, e la maggioranza di queste persone poi l’ha anche avuto, e pure altri. Tutti, salvo qualche raro essere sfigato dalla mente contorta, per questo loro bambino hanno immaginato il più roseo e splendente futuro, ricco, comodo, stimolante, pieno di prospettive. Adesso facciamo rewind e poi subito restart. Letto in modo appena lievemente diverso, quanto sopra suona: la maggioranza delle persone promuove attivamente e consapevolmente la crescita di popolazione, e il suo insediamento in luoghi adeguatamente attrezzati per quanto riguarda l’abitazione, il lavoro, i servizi. Tutta la faccenda è detta urbanizzazione del pianeta, da alcuni anni riguarda oltre il 50% dell’umanità, e ai ritmi attuali sull’arco di un paio di generazioni scarse arriveremo all’80%. Fine dei dati inoppugnabili. Poi ci sono le opinioni, e lì iniziano i guai.

Perché ci sono tanti tipi di cose diverse con la caratteristica di contesto urbano, così diverse che tanta gente ti sbotta: “io in città? Mai, piuttosto la morte”. Mentre sta già da un paio di generazioni felicemente e guazzante dentro a un’area metropolitana statistica, giusto con veduta su un campo di mais davanti al vialetto del garage a confondere le idee. Città sono ovviamente e inoppugnabilmente certe altissime densità edilizie soprattutto asiatiche, coi vistosi grattacieli, o i volumi terziari curtain wall disabitati di notte delle downtown americane e europee. Città sono le baraccopoli sterminate che spesso cingono proprio l’emergenza brillante degli stessi grattacieli. Città, infine, è anche lo sprawl suburbano o esurbano a bassissima densità, con popolazione sparsa ma totalmente priva di rapporti diretti o indiretti con le campagne, spesso per nulla coltivate, dentro cui si trova, anche qui con una curiosa sfalsatura temporale. Perché la casetta magari conquistata coi risparmi di una vita, nel quartierino denominato Salici Piangenti (perché ci stavano i salici una volta, poi appunto sepolti sotto il quartiere) la si può godere solo per dormirci, o riposarsi nei fine settimana. Il resto del tempo si passa altrove, in un altro pezzo della stessa grande città, dove sono gli uffici, o il centro commerciale, o il complesso scolastico integrato.

Il famoso 50% o meno di umanità ancora residente nelle campagne, quella effettiva quota di popolazione rurale, non ha nulla da spartire con l’elegante signora che va “in villa” sgommando nervosa dal parcheggio dell’ufficio la sera. Si tratta in stragrande maggioranza di poveracci al limite della fame, ammucchiati in villaggi privi di servizi essenziali, dalla corrente elettrica all’acqua potabile, che vivono una vita grama e appena possibile si incamminano verso le mille luci della più vicina città, sperando di migliorare la propria situazione. Insomma, come si dice, siamo tutti sulla stessa barca, e la cosa migliore da farsi è riconoscerlo senza troppe storie, ed evitare di ribaltarla con movimenti bruschi. Diconsi movimenti bruschi, ad esempio, gli impatti ambientali determinati dalle nostre attività individuali e collettive, spostarsi, consumare, lavorare, studiare, tutto può avere impronte ecologiche variabili a seconda di come lo si fa. Una cosa è certa: la cosiddetta civiltà dei consumi, così com’è cresciuta almeno per tutta la seconda perte del ‘900, non è un modello riproducibile ed estendibile nel futuro a tutti coloro che sinora ne sono stati esclusi.

L’innovazione urbana è lo spirito che ha animato tantissime ricerche tematiche interdisciplinari, soprattutto rivolte agli strumenti conoscitivi e applicativi che di solito ci vengono propinati dalla stampa sotto l’etichetta smart city, ma che a monte richiedono personalissime innovazioni di cervello, che sommate e ricomposte si fanno poi sociali, politiche, di comportamento e stile di vita, traducendosi in vere trasformazioni ed evoluzioni. Riflettiamo un istante su un fenomeno abbastanza recente e che sta cambiando rapidamente le nostre città: il car-sharing. Fenomeno complesso, che si può leggere per esempio anche a partire da una forte spinta culturale alla condivisione, per cui l’auto un tempo segno di posizione sociale, sorta di prolungamento della famiglia, della casa, dell’individuo, perde tutte queste caratteristiche per trasformarsi in altro. Cambia il modo di produrla e concepirla, potenzialmente il suo rapporto con le fonti energetiche, cambia l’interazione con gli spazi urbani (strade, parcheggi, abitazioni, posti di lavoro, rete commerciale) e si condizionano sul medio periodo anche produzione e manutenzione di questi spazi. Cambia infine anche il rapporto con le tecnologie esterne e le altre modalità di spostamento: se l’auto privata non interagiva o interagiva poco con la pubblica amministrazione, le reti immateriali, il sistema pedonale, ciclabile, dei mezzi pubblici, il car sharing invece si integra perfettamente.

E questo esempio, piccolo e molto a portata di mano, si può estendere e sovrapporre poi a tanti altri aspetti, ad esempio l’intreccio (il grande ed esiziale intreccio) fra ambiente, energia, alimentazione, urbanizzazione, cambiamento climatico. In cui ad esempio risulta importante chiarire davvero quale modello insediativo vogliamo perseguire: il cosiddetto chilometro zero rappresenta solo un fenomeno alla moda, buono per alimentare qualche segmento di mercato? Oppure le riflessioni sull’autonomia alimentare, le infrastrutture verdi, l’agricoltura urbana, la convivenza di elementi naturali e artificiali, hanno davvero un respiro strategico? Infine: stiamo ragionando solo da una prospettiva di paesi ricchi, in grado di costruirsi futuri desiderabili e apparentemente ragionevoli, solo basandosi sul presupposto di un asservimento di fatto di altre aree del pianeta, su cui scaricare ogni diseconomia? Anche queste questioni sociali, sia ampie che di più immediata comprensione come l’organizzazione delle famiglie (e ad esempio delle abitazioni) alla fine rinviano a un mutamento di paradigma personale, soggettivo, volontario, ma tale da riuscire poi a ricomporre un panorama davvero ampio, e a volte sorprendente nella sua capacità di intrecciare temi apparentemente distanti.

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Non solo sfratti

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I sindaci delle grandi città invocano il blocco di 50 mila sfratti esecutivi in metropoli con appartamenti vuoti. Il caso Roma. L’abusivismo edilizio diffuso e legalizzato senza una idea di città a misura di persona. Analisi per una via di uscita nell’intervista a Carlo Cellamare. Prima della prossima rivolta

Passate le feste, le grandi città si ritrovano con l’emergenza sfratti da affrontare visto che il governo Renzi ha scelto di non procedere all’ennesimo blocco ma l’emergenza abitativa in metropoli piene di case disabitate resta una grave anomalia da analizzare in maniera adeguata per trovare una soluzione. Ne abbiamo iniziato a parlare il 2 gennaio con l’urbanista Carlo Cellamare, docente alla facoltà di ingegneria presso l’università La Sapienza di Roma, con una panoramica delle periferie estese che, tolto il centro storico e alcuni quartieri privilegiati, sono, di fatto, la città di Roma oggi. Un problema incancrenito che è destinato ad emergere solo davanti alle improvvise reazioni rabbiose come quella scatenatasi a Tor Sapienza nel novembre del 2014, poco prima dell’affiorare, con le inchieste della magistratura, del sistema criminale diffuso nella Capitale. Torniamo al dialogo aperto con il professor Cellamare.

Il caos quotidiano delle periferie non sembra frutto del caso. Quale modello di sviluppo si è affermato, di fatto, a Roma?

«Siamo davanti ad uno sviluppo insediativo storicamente caratterizzato dalla speculazione edilizia e che non ha guardato in faccia a niente e a nessuno, né ai territori né alle persone che vi vivono. Si tratta di una espansione che non ha attrezzato le nuove aree insediate dei livelli adeguati di servizi e di urbanità, e quindi di qualità della vita. Per questo, molta parte della città si è dovuta autorganizzare per sopperire alle carenze delle politiche pubbliche. Valga da esempio, emblematico di questo sviluppo sconsiderato, l’enorme fenomeno dell’abusivismo edilizio, tra i più imponenti d’Italia, assolutamente incredibile se si considera Roma come la capitale di uno dei Paesi occidentali più ricchi al mondo; un fenomeno in calo ma mai cessato».

Si può quantificare questo abusivismo?

«Ben il 37 per cento del tessuto urbano residenziale è di origine abusiva e ben il 40 per cento della popolazione vive in aree nate come abusive! Aree “di origine abusiva” e “nate come abusive” perché i tre condoni edilizi le hanno rese ora tutte le legali (o in via di legalizzazione). Si tratta di aree legalizzate, ma che sono ben lontane da standard accettabili di urbanità; e che forse non li raggiungeranno mai perché – per come sono nate – è proprio difficile trovare il modo di inserire i servizi, le aree verdi, gli spazi pubblici, le aree commerciali, anche solo i parcheggi e i marciapiedi. Senza contare i costi esorbitanti di un loro recupero che non sono proprio disponibili alle casse pubbliche. Anche solo pensare all’organizzazione di un servizio di trasporto pubblico, in aree a così bassa densità, appare allo stesso tempo totalmente inefficiente e totalmente in perdita. Il risultato è una città col consumo di suolo tra i più alti d’Italia, ma anche – cosa ancor più grave – col consumo di suolo pro-capite tra i più alti d’Italia».

Cosa dire riguardi alle ultime amministrazioni cittadine?

«Gli anni veltroniani, come noto, e come denunciammo, da urbanisti e non solo, discutendo il cosiddetto “modello Roma”, piuttosto che recuperare le periferie, hanno acuito i problemi. Il tentativo di realizzare grandi opere attraverso la svendita di pezzi della città è stato avviato in quegli anni ed è stato fallimentare. L’amministrazione Alemanno si è poi inserita in quella strada aperta, e ha fatto precipitare la situazione, soltanto arginata in alcuni limitati casi dalle molte mobilitazioni locali. Abbiamo assistito (in linea peraltro con il mainstream mondiale di questa fase del neoliberismo avanzato) alla totale mercificazione della città, di cui è difficile recuperare le macerie che ne sono derivate e che ha approfondito il solco tra le diverse parti della città e la distanza tra le aree disagiate ed il resto della capitale».

Quali conseguenze da questa frattura della città?

«La politica delle centralità non ha riqualificato le periferie e ha favorito un orientamento alla commercializzazione. Anche dal punto di vista produttivo e del lavoro è un continuo orientamento su economie “avventizie” e non strutturali, che depredano risorse e non attivano processi socio-economici strutturali che abbiano una solida prospettiva. Analogamente il centro è diventato un distretto del turismo e del commercio dove la residenzialità è ridotta sempre più ai margini».

Con quali conseguenze per la popolazione?

«Quello che è cambiato in questi ultimi anni è proprio l’ulteriore spostamento della popolazione sia a livello territoriale (oltre Roma – ndr -vedi prima parte dell’intervista), ma anche dentro il comune di Roma. Più del 20 per cento della popolazione romana vive oggi fuori del Grande Raccordo Anulare, che inanella ormai le centralità e le polarità di riferimento a Roma. E mentre la popolazione dentro il GRA si assesta o diminuisce, aumenta quella oltre il GRA di oltre il 23 per cento negli ultimi dieci anni.

Ma quello che cambia maggiormente è il progressivo vuoto non solo politico, ma anche istituzionale che caratterizza le periferie e le aree del maggior disagio. È venuta meno la mediazione politica, ma anche la presenza istituzionale proprio nei luoghi più difficili, che non hanno più un interlocutore e si devono “barcamenare” dentro le sacche di disagio, generando quello stato di rabbia che si scarica sui capri espiatori degli immigrati o dei rom e su cui soffiano colpevolmente gli interessi politici di parte.

L’assenza delle istituzioni in queste realtà pone un serio problema strutturale, un problema di cittadinanza. L’interrogativo è, cioè, se gli abitanti di queste aree e di queste periferie possono ancora considerarsi cittadini».

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Lettera ai miei amici di facebook

facebookErodoto “Le storie”: Ciro: “Fino ad ora, non ho mai temuto uomini che hanno al centro della loro città un luogo stabilito nel quale si radunano per ingannarsi a vicenda con giuramenti.”
Ricordare questa differenza primigenia tra l’occidente e l’oriente ci ridà la dimensione della partita in corso e ce la ridà plasticamente nel momento in cui in quel “centro della loro città” oggi, a Parigi, “si radunano” per non “ingannarsi” ma per affermare la nostra differenza, la nostra civiltà, la nostra Repubblica europea, occidentale, libera, eguale, fraterna.
E che tutto ciò sia sostanza quotidiana mi fa venire in mente quante volte ho litigato nel “centro della…città” virtuale, l’agorà di facebook, con i miei amici dando un senso alla nostra libertà di litigare di avere idee diverse e di non diventare per questo nemici.




Periferie, se la politica delega le archistar

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«Il “progetto di rammendo” di Renzo Piano, pur originale e privo di sensazionalismi, non basta a risolvere la questione sociale. Dimenticate da tutti, perfino da urbanisti e sociologi, le diseguaglianze sono il vero motore delle rivolte». Il manifesto, 6 gennaio 2015

Ces­sato l’allarme, la “que­stione peri­fe­rie” torna nel cono d’ombra dei media come fosse stata un feno­meno iso­lato e pas­seg­gero, un capric­cio di una parte della città delusa e abban­do­nata. Ora c’è il “pro­getto di ram­mendo” affi­dato a Renzo Piano e al suo gruppo di lavoro G124, e così la poli­tica passa volen­tieri la mano (meglio sarebbe dire la palla) all’architettura e all’urbanistica, rinun­ciando al suo ruolo guida.

È invece utile non sot­to­va­lu­tare quanto è suc­cesso nelle nostre peri­fe­rie (e quello che potrebbe ancora acca­dere) ricor­dando le parole di una lunga inter­vi­sta a Fou­cault («spa­zio, sapere e potere») a chi gli chie­deva quale fosse il ruolo dell’urbanistica e dell’architettura nella società moderna: «All’inizio del XVII secolo si smette di con­ce­pire la città come un luogo pri­vi­le­giato, come un’eccezione all’interno di un ter­ri­to­rio costi­tuito da campi, fore­ste e strade. D’ora in poi le città, con i pro­blemi che sol­le­vano e le con­fi­gu­ra­zioni par­ti­co­lari che assu­mono, ser­vono da modelli per una razio­na­lità di governo che verrà appli­cata all’insieme del territorio».

E del resto lo stesso Renzo Piano con­ferma come «il grande pro­getto del nostro Paese sia quello delle peri­fe­rie: la città del futuro, la città che sarà, quella che lasce­remo in ere­dità ai nostri figli. Sono ric­che di uma­nità, qui si trova l’energia e qui abi­tano i gio­vani cari­chi di spe­ranze e voglia di cam­biare».

Tut­ta­via incal­zato dai suoi allievi che gli chie­dono se certi pro­getti archi­tet­to­nici pos­sono rap­pre­sen­tare delle forze di libe­ra­zione o, al con­tra­rio, delle forze di resi­stenza, Fou­cault risponde: «La libertà è una pra­tica. Dun­que può sem­pre esi­stere in effetti un certo numero di pro­getti che ten­dono a modi­fi­care deter­mi­nate costri­zioni, ad ammor­bi­dirle, o anche ad infran­gerle, ma nes­suno di tali pro­getti, sem­pli­ce­mente per pro­pria natura, può garan­tire che la gente sarà auto­ma­ti­ca­mente più libera».

Il con­tri­buto di Renzo Piano al pro­blema delle peri­fe­rie, sia pure mosso da buoni pro­po­siti, ha il punto debole (non impu­ta­bile a lui) nell’affrontare la que­stione solo nella dire­zione dell’architettura e dell’urbanistica: «Si deve inten­si­fi­care la città, costruire sul costruito, sanare le ferite aperte. Di certo non biso­gna costruire nuove peri­fe­rie oltre a quelle esi­stenti: devono diven­tare città ma senza espan­dersi a mac­chia d’olio, vanno ricu­cite e fer­ti­liz­zate con strut­ture pubbliche.È neces­sa­rio met­tere un limite a que­sto tipo di cre­scita, non pos­siamo più per­met­terci altre peri­fe­rie remote, anche per ragioni eco­no­mi­che». Su que­sta que­stione, nel pro­ce­dere dell’intervista, Fou­cault si esprime con molta deter­mi­na­zione: «Penso che l’architettura (e l’urbanistica, ndr) possa pro­durre, e pro­duca, degli effetti posi­tivi quando le inten­zioni libe­ra­to­rie dell’architetto coin­ci­dono con la pra­tica reale delle per­sone nell’esercizio delle loro libertà».

Ora biso­gna rico­no­scere che Renzo Piano è uno dei più bravi archi­tetti ita­liani per cul­tura, serietà e pro­fes­sio­na­lità, ma ha ragione Ema­nuele Picardo ad affer­mare su que­sto stesso gior­nale (il mani­fe­sto del 30/12/2014) che: «Affron­tare la peri­fe­ria solo con lo sguardo dell’architetto è un pec­cato ori­gi­nale che ne impe­di­sce una let­tura com­plessa e arti­co­lata».

E qui è neces­sa­rio resti­tuire di nuovo la parola a Fou­cault: «L’esercizio della libertà non è del tutto insen­si­bile alla distri­bu­zione degli spazi, ma esso può fun­zio­nare sol­tanto dove si dà una certa con­ver­genza; se vi è diver­genza o distor­sione l’effetto pro­dotto è imme­dia­ta­mente con­tra­rio a quello ricer­cato». Que­sto è quello che è acca­duto al pro­getto rutel­liano delle «cento piazze». Alcune di esse, come a San Basi­lio hanno avuto un certo suc­cesso; altre, come al Quar­tic­ciolo, stanno per essere sman­tel­late per­ché gli abi­tanti le sen­tono estra­nee e vogliono ritor­nare alla piazza che c’era negli anni ’50.

Dun­que un pro­getto architettonico-urbanistico o viene con­ce­pito e rea­liz­zato diret­ta­mente (e auto­ri­ta­ria­mente) dal Prin­cipe, oppure, in epoca moderna, non può che sca­tu­rire (sia pure con l’autonomia neces­sa­ria) all’interno di una cor­nice poli­tica che detta una pro­pria visione della società, una poli­tica intesa come media­zione di inte­ressi in gioco, inter­pre­ta­zione dei biso­gni, espli­citi o meno, degli abi­tanti che quei luo­ghi li abi­tano e li attra­ver­sano quo­ti­dia­na­mente. Se la poli­tica delega in toto la solu­zione dei pro­blemi sociali all’architettura e all’urbanistica, il pro­getto che ne con­se­gue risulta monco, affi­dato al libero arbi­trio (ed estro) del suo Pro­get­ti­sta che viene gra­vato di un com­pito impro­prio e improbo, ovvero quello di risol­vere que­stioni sociali che non gli com­pe­tono diret­ta­mente, il che facil­mente dege­nera in opere auto­ce­le­bra­tive che a Roma, per fare un esem­pio, si chia­mano la “Nuvola” o lo “Sta­dio del nuoto” (e rimane solo da spe­rare che tra di esse non com­paia infine anche il nuovo sta­dio della Roma a Tor di Valle).

È vero che il “pro­getto di ram­mendo” di Piano ha una sen­si­bi­lità diversa e si rivolge ai quar­tieri peri­fe­rici senza cer­care effetti sor­pren­denti né sen­sa­zio­na­li­smi e uti­liz­zando poche risorse (poco più dello sti­pen­dio di sena­tore a vita messo a dispo­si­zione da Piano), ma è la cor­nice poli­tica che manca, ciò che a suo tempo dava senso alle geniali ini­zia­tive di Nico­lini nello sce­na­rio poli­tico impo­stato da Petro­selli. Per­ché a fronte di tante dema­go­gie popu­li­ste biso­gna pur affer­mare e difen­dere l’autonomia delle scelte pro­get­tuali — archi­tet­to­ni­che o urba­ni­sti­che — che mai deb­bono essere pie­gate al volere dei poteri domi­nanti quale che siano, come avve­niva già nel Rinascimento.

Una delle prin­ci­pali con­di­zioni che distin­gue le attuali peri­fe­rie da quelle degli anni ’50 e ’60 è la cre­scita pro­gres­siva delle disu­gua­glianze sociali. Anche nelle prime peri­fe­rie urbane, la causa del degrado nasceva dalle con­di­zioni di povertà ma, all’epoca, c’era l’attesa e la quasi cer­tezza che lo svi­luppo e il benes­sere prima o poi, avrebbe rag­giunto tutti gli strati sociali. Que­ste con­di­zioni di povertà sono diven­tate ora strut­tu­rali, cro­ni­che, fisi­che, esi­sten­ziali, tra­sfor­mate in con­di­zioni di mise­ria, senza che si abbia più la per­ce­zione che esse pos­sano miglio­rare, in un qua­dro sociale imbar­ba­rito dove pre­vale il morbo indi­vi­dua­li­sta del «spe­riamo che io me la cavo».

E al tempo stesso la que­stione sociale al cen­tro di tante e famose opere let­te­ra­rie dell’800 e della prima metà del ’900, da Zola a Stein­beck, da Bal­zac ad Hugo, come affer­mava qual­che giorno fa Alberto Asor Rosa su La Repub­blica, «non vive più nelle coscienze delle per­sone. La per­ce­zione e la con­danna delle disu­gua­glianze sociali è stata respinta ai mar­gini, non inte­ressa». La stessa sorte capita agli urba­ni­sti, ai socio­logi, agli antro­po­logi per i quali la que­stione delle disu­gua­glianze in quanto sud­di­vi­sione della società tra chi pos­siede molto e chi non pos­siede niente, si con­suma e si dis­solve nella ricerca di impro­po­ni­bili solu­zioni specialistiche.
Per­fino i gio­vani ricer­ca­tori la aggi­rano: anche loro inda­gano casi par­ti­co­lari, seg­men­ta­zioni sociali, quasi che que­sti fos­sero iso­la­bili dal con­te­sto sociale più gene­rale. Ci si occupa di rifu­giati, pro­fu­ghi, Rom, bar­boni, occu­panti di case, sto­rie iso­late di vicende per­so­nali. È come se que­sta società si fosse fatta distratta, avesse rimosso il tema del con­flitto sociale e non tenesse più in conto di quello che Sti­glitz chiama il prezzo della disu­gua­glianza, il vero motore delle rivolte. Se il mondo diventa sem­pre più duale e la peri­fe­ria rap­pre­senta quel 99% di chi non pos­siede niente che asse­dia le comu­nità blin­date di quel l’1% che pos­siede tutto, la solu­zione può essere solo quella di cam­biare dire­zione, e politica

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2015: tocca alle periferie

periferie

Forse è fin troppo facile pronosticare un 2015 dove saranno le periferie a “dettare l’agenda” delle politiche e degli interventi in campo economico, sociale e culturale. Si possono scomodare importanti archistar come Renzo Piano – che ha dato seguito al suo fortunato articolo di qualche tempo fa dando vita a un progetto dedicato al “rammendo delle periferie” – e come Carlo Ratti che in un recente intervento sul Corriere della Sera preconizza una “primavera urbana” dove i contesti periferici ribolliranno non solo di proteste ma di progettualità crowdsourced. Se poi scomodiamo addirittura Papa Francesco che indica la periferia come metafora esistenziale e come concreto ambito di missione, il gioco è (o sembra) fatto.

Si sta creando un nuovo paradigma per una miriade di progettualità che fanno leva sul lavoro comunitario (sottovalutato) e sulle nuove tecnologie relazionali (sopravvalutate). La disponibilità di una cornice comune è cruciale per alimentare le politiche e per accelerare i processi, come dimostra anche il libro di Giovanni Campagnoli dedicato ai modelli di business per startup sociali e culturali che rigenerano edifici e spazi situati spesso in contesti periferici grazie a iniziative di interesse collettivo. E’ forse questo il più potente antidoto alla rappresentazione della periferia come luogo semplicemente degradato riconoscendolo invece come motore di cambiamento.

Se il processo è chiaro nella sua direzione, sono ben più complesse le implicazioni che derivano da quello che con un ossimoro si potrebbe definire “centralismo periferico”. Non è solo una questione urbanistica e di asset materiali. Il lavoro sulle periferie riguarda anche le organizzazioni e le persone. Per le prime la sfida è sostenere processi di mutamento interno a partire da progettualità marginali (periferiche appunto) in grado di generare cambiamento per infusione di pratiche piuttosto che impegnarsi in “duelli epici” con core business che il cambiamento tendono, nel peggiore dei casi, a rincularlo. Per le persone serve invece una specie di “brain training” per il pensiero laterale, quello che alimenta la creatività e l’innovazione, sia a livello individuale che, soprattutto di gruppo. Sono infatti i gruppi di lavoro che possono riconoscere e alimentare ciò che sta ai margini, tra le “varie ed eventuali”, trasformandoli in innovazioni di sistema.

Tutte cose complicate. Ma almeno per qualche ora possiamo ancora dedicarci ai buoni propositi…

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An architet returns to Italy

The architect Renzo Piano has offices in Genoa, where he grew up; in Paris, where he currently lives; and in New York, where he is perhaps best known for having designed the Times Building, on Eighth Avenue. Piano spends a lot of time in New York—among his current projects is the new Columbia University campus that’s going up in West Harlem— and he was in the city when he got a call, a year and a half ago, from Italy’s President, Giorgio Napolitano. Napolitano wanted to appoint Piano a “senator for life.” The job comes with a salary and a vote in the Italian Senate, and since it’s “for life” there are no pesky reëlection campaigns. Was Piano interested? He was taken aback.
“For some funny reason, you don’t understand that you are aging,” Piano said the other day, in Rome. “So when President Napolitano called me, I said, ‘But I’m too young!’ And he laughed over the phone, and he said, ‘No, you are not too young.’ ”
Piano, who is seventy-seven, was sitting in his Senate office in the Palazzo Giustiniani, around the corner from the Pantheon. The room is almost entirely taken up by a large round table, and its walls are covered with drawings and plans. As soon as Piano became a senator, he handed over the office, along with his government salary, to six much younger architects and asked them to come up with ways to improve the periferie—the often run-down neighborhoods that ring Rome and Italy’s other major cities. The six were about to present their first year’s worth of work to the public, which was why Piano was in the capital.
“In the nineteen-sixties and seventies, the big challenge—in Europe certainly, but everywhere—was to establish as a principle that historic centers have to be preserved,” he went on. “But in the twothousands—probably for the next three, four, five decades—the real challenge is to transform the periphery. If we fail in doing this, it will be a real tragedy.”
Much as recent immigrants in France are shunted to the banlieues, in Italy they are pushed into the periferie. As immigration to Europe has soared, so, too, have tensions; in November, riot police were dispatched to Tor Sapienza, a neighborhood on the eastern edge of Rome, after residents attacked an immigrant center there. “The periphery is always accompanied by an adjective that is negative,” Piano said. “But the truth is the energy is there; the desire for change is there. There is always, even in the most difficult periphery, something good, and that is what you have to find, to bring up.”
In the early nineteen-seventies, Piano and his partner at the time, Richard Rogers, designed the Centre Georges Pompidou, in Paris. The building, with its inside-out construction, has been called “one of the most radical” of the twentieth century, and it transformed ideas about what a museum could be. Piano believes in the power of museums and libraries and concert halls. “They become places where people share values, where they stay together,” he said. “And this is what I call the civic role of architecture.”
Rome is full of what might be called un-civic architecture: projects that were started but not completed, like a halffinished sports complex that resembles a giant spinnaker; or completed and then abandoned, like the bicycle-sharing stations that dot the sidewalks but have no bikes. One of the projects Piano’s team came up with would use the space under an empty viaduct. The viaduct was supposed to improve tram service to the northeastern rim of the city, but the trams never arrived. Piano shrugged: “Typical.” Two of his young architects had drawn up plans to convert the viaduct into a sort of upside-down High Line, with a park running beneath. Only a tiny part of the project had been completed, but “in one year it’s not bad,” Piano said. He recalled his own years studying architecture, in the early-nineteen-sixties in Milan. He and his fellow-students were occupying the university, “so that was my job in the night,” he said. “And in the day I was working in a nice office.”
“The real point for students like me was to change the world,” he said. “It was a kind of mad, insane, but great utopia. And I think it’s good to grow up like this, because you grow with this idea that never leaves you, so when you are seventy-seven you still feel like a kid and this is what you want to do.”

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Spazi vuoti rianimati dalle startup sociali

Erano le ciminiere a delineare, nell’Ottocento, il profilo delle città. Oggi sono i palazzi e i capannoni, simboli del mix tra terziario e manifatturiero. Nell’economia della conoscenza quali saranno i luoghi che disegneranno il profilo del futuro? Per scoprirlo basta seguire le tracce dei luoghi dell’innovazione e della creatività, come i fablab, i coworking, gli incubatori, i luoghi culturali come le esposizioni d’arte, co-housing, nuove residenze d’artista, luoghi di nuovo welfare. Queste attività stanno trovando una nuova casa nei tanti luoghi abbandonati disseminati per l’Italia. All’insegna della sostenibilità.

Il paese dispone di un patrimonio di oltre sei milioni di beni inutilizzati o sottoutilizzati (significa più di due volte la città di Roma) tra abitazioni ed altri immobili pubblici, parapubblici e privati, come ex fabbriche e capannoni industriali dismessi, ex-scuole, asili, oratori e opere ecclesiastiche chiuse, cinema e teatri dismessi, monasteri abbandonati, spazi di proprietà delle società di Mutuo Soccorso e delle Cooperative Case del Popolo, Cantine Sociali, colonie, spazi comunali chiusi (sedi di quartiere ed altri spazi di proprietà quali lasciti), beni confiscati alla mafia, “paesi fantasma”. E la lista dell’Italia lasciata andare a se stessa è lunghissima.

È proprio in questi luoghi marginali, in questi residui della storia che si stanno scrivendo pezzetti di futuro, fatto di innovazioni, micro-impresa e talenti creativi, accompagnata sempre dall’entusiasmo delle comunità. «Non è la grande industria, l’infrastruttura che in altre epoche cambiava i destini di un paese. Si tratta di nuove nicchie di mercato, magari piccole e locali, ma che funzionano» spiega Giovanni Campagnoli, che ha raccolto le migliori best practice sul sito www.riusiamolitalia.it. Ne emerge un’Italia in fermento, con luoghi marginali che tornano a rinascere grazie soprattutto alla spinta di giovani. Non si tratta solo di presidi sociali sul territorio ma di vere e proprie attività economiche nell’ambito del welfare, dell’educazione, del turismo, della green economy. «I giovani mettono in campo piani di sostenibilità economica con startup sociali e culturali – aggiunge Campagnoli, autore del libro Riusiamo l’Italia (edito da Il Sole 24 Ore) –. Puntano alla diversificazione delle entrate, dipendono sempre meno da enti pubblici e sono più autonomi, grazie alla raccolta fondi, alle fondazioni ex bancarie, alla partecipazione a bandi». Così ad esempio a Rovereto lo spazio giovani Smart Lab, gestito da un’associazione di promozione sociale, nei primi sei mesi di avvio ha oltre 3.200 soci, l’80% under 35, occupandosi di programmazione musicale, artistica, incubatore di imprese, spazi co-working, sale prove, culture giovanili (generando un fatturato previsto, per questo primo anno, di circa 250mila euro).

«Questi spazi sono veri e propri “beni comuni” – scrive Campagnoli nel libro – che possono rappresentare una piccola, ma significativa misura “anticiclica”, perché producono occupazione giovanile, risorse economiche, socialità, cultura, aggregazione, sviluppo locale». Campagnoli, che lavora da anni nel sociale ed è di formazione bocconiana, ha anche calcolato l’impatto sull’occupazione: l’intervento anche solo sull’1 per mille degli immobili indurrebbe la creazione di 73mila posti di lavoro, con un contributo al calo dell’occupazione del 4,8 per cento. La stima potrebbe certamente crescere laddove il pubblico agisca da facilitatore. E proprio con questa consapevolezza il Comune di Bologna ha approvato a febbraio di quest’anno il «Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani». Altri 15 Comuni lo hanno adottato e un’altra cinquantina ci stanno lavorando. Perché il problema maggiore è come risolvere alcuni ostacoli, anche burocratici, come per esempio l’assunzione di responsabilità.

Cosa succede se qualche genitore si fa male mentre sistema la scuola del figlio il sabato? Il regolamento scioglie questo e altri nodi riuscendo così a dare applicazione concreta al principio di sussidiarietà. «Di fatto il regolamento libera risorse – spiega Gregorio Arena, docente di Diritto amministrativo all’Università di Trento e presidente di Labsus, che ha lavorato due anni col Comune per il regolamento –. E permette un salto culturale per cui agli occhi dello Stato i cittadini diventano portatori di capacità, di risorse, non più oggetto di bisogni da soddisfare». E a Bologna da due anni il Comune offre gratis gli spazi abbandonati nei quartieri. Sono un centinaio di palazzi e 1.200 aree di edilizia pubblica concessi a costo zero o a bassi canoni per far ripartire l’aggregazione e l’economia.

Anche lo Stato, a livello centrale, si muove. L’anno scorso il ministero della Difesa ha annunciato la concessione gratuita di 700 tra caserme, depositi, fortificazioni, bunker, terreni e rifugi alpini. La formula prescelta dovrebbe essere la valorizzazione d’onore con una concessione gratuita per dieci anni a chi presenterà un adeguato progetto. Il ministero conferma l’intenzione di dare seguito all’annuncio, con iniziative nei primi mesi del 2015.

 

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