1

EUROPA, ultima chiamata

È, questo, il tempo di una ‘tempesta perfetta’. Il 2016 e il 2017 saranno ricordati, nella storia dell’Europa unita, come il biennio della grande scommessa.

Il 23 giugno 2016, i popoli del Regno Unito (ancora oggi mentre scriviamo sono membri del Parlamento dell’Unione) – dividendosi tra loro (Inghilterra e Galles, per uscire; Irlanda e Scozia per restare) – hanno votato, in un referendum consultivo con risicata maggioranza di uscire dall’Unione europea; il 2 ottobre lo stato membro – Ungheria – ha votato, in un referendum consultivo, contro la Decisione del Consiglio dell’Unione per la ripartizione di quote di profughi e migranti, sbarcati sul territorio dell’Unione; da ottobre 2016, lo Stato membro – Polonia – è sotto procedura da parte della Unione, per infrazione ai principi inerenti allo Stato di diritto (art. 6 del TUE); il 4 dicembre 2016, il Paese membro – Austria – ripete la elezione diretta del presidente della repubblica, avendo come favorito un esponente (Norbert Hofer) dichiaratamente populista; il 15 marzo 2017, lo Stato membro – Olanda – procederà alle elezioni politiche, avendo in testa come favorito il ‘partito della libertà’ di Geert Wilders, favorevole all’uscita dell’Olanda dalla Unione; il 23 aprile (primo turno) e il 7 maggio (secondo turno), lo Stato membro – Francia – procederà alle elezioni del presidente della repubblica, con in testa nei sondaggi Marine Le Pen, favorevole all’uscita della Francia dall’euro; tra agosto e ottobre 2017, lo Stato membro – Germania – procederà alle elezioni politiche, la cancelliera Angela Merkel è contrastata dal neo partito populista Afd (Alternative fur Deutschland), che erode consensi soprattutto ai due partiti CDU-CSU del suo elettorato.

(il Tempo d’Europa)

‘Diario europeo’ giunge alla sua ultima tappa di “questo tempo” di Europa.

Ha preso le mosse da uno choc industriale (i software montati su alcuni modelli Volkswagen per adulterare la misura dei livelli di inquinamento stabiliti nell’Unione) emerso nel settembre 2015 e si è incamminato nei giorni e mesi del “tempo” di questa Europa Unita, imperfetta ed incompleta. Mai avrebbe immaginato a quali altri più scioccanti eventi andava incontro (dal terrorismo nelle sue piazze, nei suoi teatri e chiese, alla sospensione di Schengen), fino all’elezione del presidente degli Stati Uniti d’America – 8 novembre 2016 – gli Stati Uniti d’America – USA – di un ricco costruttore, Donald Trump, un esponente populista, anche in contrasto con il partito repubblicano di riferimento.

Via via, confrontandoci con la durezza delle sfide e la fragilità della “Unione” – sospesi tra la duplice cruciale eventualità di un tempo tra intervallo o durata – erano sempre due le domande che facevano da guida al nostro faticoso percorso: da una parte: “che tempo è, il tempo che non ha futuro?”; dall’altra: “ per chi suona la campana?”.

Memori delle “eredità culturali, religiose ed umanistiche” dell’Europa, alle quali si sono “ispirati” (Preambolo al Trattato) i capi di Stato e di governo dei Paesi europei firmatari del Trattato sull’Unione europea, ’Diario’ vuole lasciarsi istruire da una di quelle eredità: le parole di Paolo di Tarso, nella prima Lettera ai Corinzi (scritta in greco) dove, riflettendo sul suo tempo (il tempo a lui presente) e sulle sfide poste alla sua generazione, Paolo scrive: “ò kairòs (il tempo di ora, il tempo opportuno) synestalménos estìn (si contrae, comincia ad accorciarsi)”. In profondità, quella parola greca sta ad indicare il comportamento del felino che si contrae sulle zampe prima di spiccare il salto che lo porterà a raggiungere il suo obiettivo (la preda). Dovrebbe trattarsi, quindi, di una buona notizia: nel senso di un tempo pieno di contraddizioni e responsabilità, che ti mette urgenza e ti trasmette un permanente stato di allerta e una tensione massima, e/ma ti proietta verso un esito positivo. Sai che puoi fallire e sai anche che devi affrettarti.

Con questo sentimento, abbiamo titolato questa ultima tappa di ‘Diario’: “Europa, ultima chiamata”.

Sessanta anni fa: il 25 marzo 1957, a Roma, venivano siglati i “Trattati di Roma”. Fra pochi mesi, dunque, si concludono (i primi?) 60 anni di Storia dell’Europa libera ed unita. Si concluderanno a Roma, con l’auspicio – di ‘Diario’ e dei suoi lettori e sue lettrici – che non siano celebrazioni vuote e/o rituali. Ma una ripartenza.

(Il Trattato che istituisce la Comunità economica europea (TCEE) è il trattato internazionale che ha istituito la CEE. È stato firmato il 25 marzo 1957 insieme al Trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica (TCEEA); insieme, sono detti “Trattati di Roma”. Insieme al trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) firmato a Parigi il 18 aprile del 1951, i Trattati di Roma rappresentano il momento costitutivo della Comunità europea, che con il Trattato di Maastricht, febbraio 1992, prenderà il nome di Unione Europea).

(la sfida cruciale: non si può amare un mercato unico)

“Mai come oggi quella che pure porta il nome di “Unione” sperimenta il rischio della scissione, senza che le opposizioni che la solcano riescano a saldarsi in una relazione significativa. Tutt’altro che rapportarsi nella loro differenza, la sue parti appaiono disperse in una molteplicità irrelata che non ha neanche la forza costituente del conflitto. La separazione non riguarda soltanto i Paesi, ma qualcosa di più profondo che attiene alla motivazione stessa dello stare insieme. È come se la realtà dell’Europa si distaccasse drasticamente dalla sua ragione, schiacciandosi sul suo nudo dato geografico” (Roberto Esposito, Da fuori-una filosofia per l’Europa, citato).

La generazione, nata appena dopo la seconda guerra fratricida tra europei, vive questo tempo del “rischio della scissione” e del “conflitto senza una sua forza costituente”; la Costruzione europea fin qui realizzata, imperfetta e incompiuta – nei pilastri fondanti una vera e propria integrazione europea culturale, economica, sociale, politica – resta un patrimonio disponibile per le future generazioni, ma a rischio. Nuove spinte centrifughe e distruttive emergono in uno scenario di pericolosa stasi della prospettiva e di appannamento della strategia comune. È ora di reagire. “Non si può amare un Mercato Unico” (Jacques Délors). È il compito della nuova generazione di europei ed europee nata mentre il muro della divisione dentro l’Europa, crollava a Berlino; e non solo a vantaggio della città e dello stato tedesco.

Tutto è ancora possibile. Dal 9 maggio 1950 (discorso di Robert Schuman) al 2017, il percorso unitario ha compiuto soltanto sessantasette anni di vita; dai “Trattati di Roma” ci separano sessanta anni; dal 9 novembre 1989/3 ottobre 1990 (caduta del muro di Berlino e riunificazione della Germania), la nuova fase del percorso unitario ha compiuto soltanto 28/27 anni di storia.

Tra contraddizioni nuove e più antichi nodi irrisolti, il tempo del processo unitario, fino ad ora compiuto, non è, storicamente, un tempo enorme. Ciò che è nuovo sta nella portata del cambiamento dei contesti globali e della loro velocità, nel quale il processo unitario ora deve evolvere. Qui sta la sfida. Inedita e per molti versi drammatica.

(la incompiuta democrazia europea e il nuovo patto costituente)

Con un crescendo via via intenso e con forme diversamente urticanti, nei diversi Paesi membri è tornato a manifestarsi la “questione nazionale”; insieme ad una diversificata – in certi casi inattesa e stupefacente, per la sua inadeguatezza e sfrontatezza – declinazione della “questione democratica”.

È noto che “lo stato nazionale è la principale innovazione istituzionale dell’Europa, accanto al capitalismo di mercato e all’universalità di ricerca; nell’esperienza storica della modernità europea rappresenta l’incarnazione dell’autorità politica e il principale fattore di strutturazione della società, al cui interno sono state affrontate le grandi questioni della libertà individuale, della giustizia sociale, della risoluzione non violenta dei conflitti” (cfr. A. Cavalli-A. Martinelli, “La società europea”, il Mulino, 2015). Si tratta di una realtà storica ed antropologica, ineliminabile: nelle culture e nelle identità europee, infatti, “l’ideologia nazionalista possiede una grande forza emotiva, sviluppa identità collettive e movimenti politici, miranti a promuovere la sovranità, l’unità, l’autonomia di coloro che vivono in un territorio dato, sono legati da una cultura politica distintiva e condividono un insieme di fini comuni” (ivi).

E’ necessario, pertanto, tenere insieme due acquisizioni: a) nazione e nazionalismo incorporano anche elementi premoderni, ma sono e restano forme ed espressioni della modernità; b) gli stati nazionali non sono (forse come sbrigativamente si pensava) in via di sparizione, ma certamente sono impari – come tali – a confrontarsi, per garantire ai suoi cittadini la libertà (anche in vista di una forma e della sostanza di una democrazia sovranazionale) con la crescente e permanente interdipendenza globale, da una parte, e la contestuale tendenza alle segmentazioni identitarie localistiche, dall’altra. Questa fase della integrazione europea (sia quella realizzata prima del 1989-1990; sia quella successiva a quello choc storico e strategico, le cui conseguenze sono ancora in atto) non è riuscito ad assumere il dato storico del nazionalismo (se non come contrasto alle sue manifestazioni più estreme: le guerre intra europee; contrasto, però, che non è riuscito ad estendersi all’azione tesa a rimettere nell’alveo democratico le violazioni allo Stato di diritto, dentro l’Unione, nel cui ambito alcuni Stati membri teorizzano e praticano una cosiddetta “democrazia illiberale”) e andare oltre il semplice stigmatizzarlo, inglobandolo nel suo processo di integrazione e trasformandolo in una energia per una appartenenza più ampia, riconoscibile di fronte al mondo esterno. È, dunque, a questo livello che bisogna produrre una decisa innovazione politico-strategica: cambiando in profondità il modello di governance dell’Unione, perché la “logica funzionalista e i meccanismi politici del passato – metodo intergovernativo – non sono più sufficienti”. Abbiamo pensato (ed ancora oggi spesso si pensa) che il passaggio dalle “democrazie degli Stati nazionali” alla “Democrazia europea”, fosse automatico e spontaneo (bastava trasportalo al livello sovranazionale, attraverso un “Trattato” e formule di ingegneria organizzativo-istituzionale: Il Trattato di Lisbona, è stato l’ultimo generoso tentativo in questo senso). Non è così. Drammaticamente non è stato così e per troppo tempo abbiamo tardato a rendercene conto. E siamo ancora lì. La Democrazia Europea (dove il termine non è un semplice aggettivo), certamente, non potrà che essere fondata sugli stessi principi dello “Stato di diritto” della Storia d’Europa, ma le sue dinamiche, le sue prassi, le forme istituzionali e di modello decisionale dovranno essere inventate e sperimentate. Il tutto deve essere espressione giuridica di una sostanziale “Società europea”. Questa ultima, rappresenta ed è la costruzione più difficile e mai definitiva; alla cui base sta una articolata e complessa infrastruttura vitale dei sistemi educativi e della formazione della coscienza civile. Tutto questo non è stata, fino ad ora, la prima pre-occupazione del processo di costruzione dell’Unità europea. Bisogna prenderne coscienza e avviare rapidamente percorsi di cambiamento.

I soggetti fondanti questa Europa Libera e Unita, sono due: i Popoli e gli Stati. Come ai tempi del primo costituzionalismo europeo del XIX secolo, i due Soggetti fondatori devono attuare una sorta di “rivoluzione democratica”. All’epoca, i parlamenti nominati dal sovrano si ribellarono al Re.

Il Parlamento dei popoli europei – distinguendosi dagli Stati – deve riprendersi in prima persona la iniziativa legislativa. Gli Stati nazionali – distinguendosi dai Popoli – potranno e dovranno ritrovarsi in una “Camera degli Stati membri” nella quale esercitare in permanenza (non più con/nei “vertici” periodici e/ o episodici) la loro specifica funzione di co-fondatori della Unione. Realizzando nei fatti e coram populis che la “autodeterminazione democratica significa che i destinatari di leggi cogenti ne sono al tempo stesso gli autori” (J.Habermas). Insieme – Popoli e Stati daranno la “Fiducia” ad un Esecutivo-Governo dell’Unione (attuale Commissione). I Parlamenti nazionali saranno ad un tempo “antenne” per il parlamento dell’Unione e “prosecuzione sovranazionale” della democrazia dei popoli-stati (non più mondi separati, non più teatri di parti diverse in commedia). In questo scenario di piena legittimazione democratica, una urganza speciale deve essere assicurata al completamento della Unione economica e monetaria: la zona euro. “L’esigenza fondamentale è di restituire chiarezza e fiducia all’assetto istituzionale dell’area euro, dal momento che sappiamo che quello attale è incompleto”( Mario Draghi, citato in “Diario” del 10 luglio 2016).

Una ripartenza storica, dunque (il modo degno di celebrare, meditando, i 60 anni dei Trattati fondanti) – un nuovo Patto Europeo Costituente – per dare la risposta democratica alla crescente delegittimazione circolare: tra Governi nazionali- Istituzioni comunitarie europee- movimenti antidemocratici nazionalistici. E’ urgente e strategico, infatti, arrestare: da una parte la deriva da parte di Stati- nazioni che si chiamano fuori dalle solenni decisioni del (attuale) “Consiglio” (secondo la logica di una “unione à la carte”, come nel caso della ripartizione di immigrati nei diversi territori dell’Unione), segando così il ramo dell’albero comune su cui si sta seduti; dall’altra prosciugando lo stagno dove nascono e prolificano le pulsioni populiste, che – senza mandato democratico – mirano ad espropriare i Popoli d’Europa della sovranità democratica nel/del Parlamento dell’Unione.

(interlocutrice del mondo)

Una Unione fragile e già indebolita dalla crisi finanziaria ed economica, e quindi sociale, si è svegliata, incerta e preoccupata, alla notizia del cambiamento socio-culturale-politico-strategico e di governo negli Stati Uniti d’America. Pur prescindendo dai seri problemi di ordine valoriale e dei diritti, lo choc rivela che l’Unione non è attrezzata a governare fenomeni di rilevanza strategica internazionale (con le loro specifiche conseguenze sui sistemi istituzionali e politici comunitari e nelle società degli Stati e Paesi membri). Forse con una certa enfasi è stato affermato che “ Per la prima volta, da sessant’anni, l’Europa dovrà camminare con le sue gambe” (Sergio Fabbrini, “Usa isolazionisti, Ue senza politica”, Il Sole 24 ore, 13 novembre 2016); ma l’analisi è ben impostata e convincente: “il punto è che questo ordine liberale internazionale (il complesso delle organizzazioni mondiali, ivi enumerate) ha reso possibile l’avvio e il consolidamento del processo di integrazione europea. Gli anti-americani che popolano le piazze europee (e il talk-shw televisivi) continuano a non rendersi conto che l’Europa pacificata è stata resa possibile dall’America vittoriosa. Senza la diffusione della democrazia, l’apertura dei commerci, la definizione di regole sovranazionali, gli stati europei non avrebbero potuto avviarsi sul percorso dell’integrazione. L’integrazione europea è stata certamente voluta da statisti come De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman, ma è stata però resa possibile dalla sicurezza che gli americani le hanno fornito. Naturalmente – aggiunge Fabbrini- quello americano è stato un sostegno giustificato da una visione ma anche da interessi”.

‘Diario europeo’ ha già affrontato le problematiche relative al “posto di Europa nel mondo” (vedasi Diario del 27 novembre 2015 e del 14 marzo 2016), e averlo fatto in momenti meno scioccanti di quelli che si profilano ora, rinvia alla visione dell’urgenza del “tempo d’Europa” in cui ‘Diario’ si colloca. Dalle vicende ora incombenti emerge anche una sorta di “kairòs” (tempo opportuno) per fare scelte – o almeno avviarle – che fino ad ora (contrarietà ed opposizione del Regno Unito e anche di Stati come la Polonia e altri membri Nato) sono state impedite: “insomma, la sottrazione ancorché parziale dell’impegno americano costringerà – bon gré, mal gré – i governi dell’Unione a riaffrontare il progetto di quella Comunità Europea della Difesa che il parlamento francese bloccò nel 1954 e che neppure con i successivi Trattati di Roma del 1957 si tentò di riaprire” (Massimo Riva, L’Unione dopo Trump, la Repubblica 15 novembre 2016). Pertanto, dopo una non breve riflessione – qualche mese di conciliaboli e confronti – lunedì scorso,14 novembre, il Consiglio dei ministri della difesa e i ministri degli esteri dei 27 Stati membri, a Bruxelles (mentre e nonostante i festeggiamenti e anche le visite fatti in America da parte dei capi di governo di molti Paesi membri dell’est europeo e, contraddittoriamente, in forza di qualche paura in più di Polonia e di Ungheria a motivo delle simpatie del sig. Trump verso il sig. Putin) hanno approvato le proposte presentate dall’Alto rappresentate della politica estera e la sicurezza della UE, Federica Mogherini, già al vertice informale di Bratislava, che saranno definitivamente sottoposto al Consiglio europeo di dicembre (e successivamente (!) al Parlamento europeo). La creazione di una struttura centrale di pianificazione (non ancora uno Stato Maggiore europeo), il coordinamento delle attività di ricerca e sviluppo dell’industria militare e la messa in comune di assetti su questioni strategiche come l’intelligence, la copertura satellitare e l’uso dei droni sono le parti più rilevanti del pacchetto.

A sessant’anni dai Trattati di Roma, questa fotografia d’insieme sulla integrazione europea deve farci riflettere e deve muovere il pensiero e l’azione di questa Unione. ‘Diario’ ricorrerà alla lettura e analisi di un alto funzionario nelle Istituzioni della Unione europea, in tanti anni di carriera e professionalità, per dare i connotati di massima della situazione; scrive Enzo Moavero Milanesi:“ Un altro snodo è costituito dalla precaria situazione dell’UE: l’originario disegno lungimirante si sta sfarinando e non tiene il passo di un mondo radicalmente mutato da rivoluzione tecnologica, globalizzazione, crisi economica e finanziaria, massicci flussi migratori, terrorismo. I meccanismi decisionali arrugginiti e, soprattutto, si rivelano fatali la disaffezione dei cittadini e la litigiosità fra i leader. Perso l’animo collaborativo dei fondatori, alcuni protagonisti attuali privilegiano gli interessi nazionali alla costruzione del consenso su quello comune; ci sono fratture così profonde da determinare opzioni drastiche, come la Brexit. Ormai, gli USA si trovano di fronte questa Unione Europea, e da qui nascono interrogativi nodali” (in “ L’impatto del fattore Trump sui fragili equilibri della Ue”, in “ Corriere della sera”, 14 novembre 2016).

La disaffezione dei cittadini alla quale Moavero fa riferimento è registrata e misurata da Eurobarometro (primavera 2016): il 55% dei cittadini dei 28 Paesi dichiara di non avere fiducia nella Ue, contro il 33 che si mostra fiducioso; solo il 17 % ritiene che l’Unione stia andando nella giusta direzione (con una diminuzione del 6% rispetto all’anno precedente); Inoltre, soprattutto in Italia, si affievolisce il senso di appartenenza: il 49% si sente europeo, mentre un altro 49% è di parere opposto (cfr. Nando Pagnoncelli, Scenari, Corriere della sera 15 novembre 2016, per gli opportuni approfondimenti). Noi siamo certi che Eurobarometro è ben letto e molto noto anche a Bruxelles (se non altro perché è un sondaggio finanziato con il bilancio europeo e, dunque, possiamo ritenere che ai suoi “numeri/messaggi”, J.C. Junker, presidente di turno della Commissione europea, non riserverà parole stizzite e colorite, alle quali ci sta abituando).

Questi “scenari” sollecita ‘Diario’ a rinviare i lettori e le lettrici alle numerose e specifiche analisi e proposte relative al welfare europeo e a pezzi di esso che – da subito – sarebbe possibile realizzare a livello europeo: presa in carico della disoccupazione da crisi aziendali o di settori della industria e dei servizi già europeizzati nella loro configurazione di mercato unico interno; ed anche la messa in comune di un “piano di emergenza contro la precarietà e nuove povertà”).

Una “chiamata” specialissima va a Europa dai paesi e dalle persone colpite da un terremoto devastante. “Quei borghi sono Europa”, titolava molto opportunamente Corriere della sera, il 27 ottobre 2016. “Un’Italia che smotta, cade a pezzi, e che ha bisogno di anni e anni di cure, di ricerca, di quel lavorio che Matteo Renzi ha battezzato “Casa Italia” ed è , deve essere, il punto di rinascita e di messa in salvo di un patrimonio urbanistico, di un assetto idrogeologico del quale per decenni non ci siamo preoccupati. Non è faccenda di zero virgola qualcosa, quella che andiamo a raccontare a Bruxelles. E’ una realtà estrema che ci mette alla prova, come quella della migrazioni che ci attraversano, premono sulla nostra coste, e fanno dell’Italia (e della Grecia) terra europea dai confini che è impossibile proteggere. L’Europa, di fronte a tutto questo, non può chiudere gli occhi. Non può far finta di nulla. Perché Europa siamo noi, perché le nostre città e i nostri borghi medievali che più sono a rischio in queste ore, vivono nella cultura europea, fanno parte della crescita e della identità dei cittadini di parigi, di Berlino, di Madrid. Perché i ragazzi d’Europa non capirebbero, domani, il dolore della nostra gente lasciata sola” (Goffredo Buccini, in Corriere della sera). Tra i paesi colpiti c’è Norcia, dove è nato Benedetto, poi santo della chiesa cattolica e protettore d’Europa. “Succisa virescit – tagliata ricresce”, recita il motto dei benedettini. E può ben essere anche il motto della durata del sogno europeo.

É facile immaginare il grande ed efficace risultato, anche in termini di simpatia e rinnovata fiducia sul valore dell’Europa libera e unita – al di là della buona letteratura europeista – che avrebbe questa solidarietà e convergenza europea. E’ sempre la prossimità alle vicende delle persone, alla loro umanità, ai destini dei cittadini e delle cittadine d’Europa che fa la differenza. Allo strabismo degli Stati e al cinismo di componenti delle società europee, soltanto più Europa, più integrazione, anche nelle forme delle cooperazioni rafforzate , potrà offrire subito una supplenza , che poi si rivelerà creatrice di quel tempo d’Europa che da intervallo si tramuterà in durata.




Europa, chi sei?

eur_temp_flg

Europa, non è una ‘espressione geografica’. Europa “ è ”: storie, culture, popoli, appartenenze; al plurale e plurali.
Neppure è “una unità naturale: antropologicamente è un miscuglio di razze, e l’uomo europeo rappresenta una unità piuttosto sociale che razziale. L’Europa ha avuto inizio: essa è il risultato di una storia della libertà (oltre che della necessità) di uomini concreti. Quella dell’Europa è dunque una vicenda aperta soprattutto per la sua fisionomia storico-politica. Questa mutevolezza ha finito con l’incidere sulla sua identità, sulla sua coscienza. Essa si è identificata essenzialmente come modo di essere, come forma di civiltà. Una sorta di abito civile, giuridico, culturale, estetico, spirituale. L’Europa si è pensata come individualità storico-morale”( R. Prodi, “Postfazione”, in: “Europa laica e puzzle religioso”, 2005).
Il Preambolo del Trattato sull’Unione europea afferma: (gli Stati membri) “ ispirandosi alle eredità culturali, religiose ed umanistiche dell’Europa” (…).
Diario europeo condivide la sobrietà con cui il “Preambolo” si esprime. Su queste basi, le generazioni di europei, ogni giorno, costruiscono (possono e devono) l’edificio della democrazia e dello Stato di diritto.
Ispirarsi a delle “eredita” culturali, molteplici e diversificate di per se stesse, comporta il rispetto di esse e il riconoscimento di ciascuna di essa, come “eredita” per l’oggi, con la quale misurarsi, con libertà e creatività. Essere soggetto di cultura è una componente della dignità umana. Anche sostituirla, superarla con un’altra forma di cultura è un riconoscerla. Assumendosi il carico e l’incarico di trovare il modo di tenere insieme delle alterità. Per includere e non escludere. Chiamiamo “cultura umana” ogni configurazione, sociale e storica di inclusione. A questa visione, Europa appartiene. A questa Europa noi apparteniamo. Questa è l’Europa che vogliamo.
Le religioni rientrano, in parte, nell’ambito delle culture; in parte ne sono distinte, come sentimenti e fedi specifiche; e che, ugualmente, possono dare luogo, a loro volta – mescolandosi ad altre espressioni della ricerca intellettuale degli uomini e delle donne nel corso della storia: le arti, la letteratura, la poesia, le filosofie, le scienze, le tecnologie – a cultura e a culture. Le religioni costituiscono, dunque, una realtà composita: culturale e trans-culturale. Storicamente, in Europa, costituiscono, già nel loro specifico ambito, una realtà molteplice e plurale. Nelle storia dell’Europa sono state anche causa e strumento di conflitti e guerre. Ispirarsi, nella libertà, alle eredità religiose, molteplici e diversificate, comporta, quindi, il rispetto di esse e della loro molteplicità; considerarle “eredità” per l’oggi sostanzia concretamente questo rispetto e implica la libertà di assumerle come eredità o non assumerle affatto.
L’umanesimo è innanzitutto un sentimento di empatia e simpatia per l’umanità: considerandone i limiti, le speranze, le aspirazioni, i sogni, le realizzazioni, le sconfitte e le tragedie.
La tradizione umanistica si basa – prima di ogni elaborazione filosofica e letteraria, anche questa preziosa eredità – su questo difficile equilibrio: essere contemporaneamente consapevoli della grandezza dell’uomo e dei suoi limiti e confini.
Sia la grandezza sia il limite appartengono alle eredita umanistiche dell’Europa. Le realizzazioni dell’una e dell’altro insieme fanno l’umanesimo europeo. L’assolutizzazione di una sola componente – grandezza o limite – apre la strada o ai fondamentalismi o alle banalizzazioni. Anche questi sono componenti della storia di Europa. Nell’Europa che vogliamo, noi rigettiamo ambedue queste derive.
***
Nel dibattito quotidiano – veloce, troppo veloce, sovrabbondante, sbrigativo, appassionato e approssimato (e a volte distorto e anche spiacevole) – “l’ispirazione” affermata nel Trattato viene sintetizzato con il termine: “valori”. Sintetizzato e anche ghettizzato in questa parolina magica, il dibattito – che vorrebbe essere includente, forse proprio per questa sua tendenza all’unico e al totale – rischia, invece, di essere respingente. Come un pugno nello stomaco o una mano che tappa la bocca e spegne il pensiero.
“Una società dotata di un retroterra culturale empirico-pragmatico, molto sensibile alla transazione commerciale e in genere alle negoziazioni, al bargaining, come metodo per raggiungere, attraverso interstiziali aggiustamenti, decisioni politiche e sociali importanti, ma anche quelle non decisive, come l’apertura di un’autostrada o lo smaltimento della spazzatura, sembra da qualche tempo ossessionata dai ‘Valori’. ‘Valori’ è una parola equivoca. Andrebbe accuratamente evitata oppure decifrata ed espressa nelle sue valenze ogniqualvolta venga usata. La tendenza ad eternizzare i propri valori contro valori degli altri appare invincibile. Di fatto altro non è che la proiezione di sé sugli altri e contro gli altri: per difesa e per offesa (F. Ferrarotti, La religione dissacrante, EDB, 2013).
Consapevole di questo rischio, noi vogliamo esplicitare subito che “valore”, per noi, è sinonimo di “ consapevolezze” e “responsabilità”: con-sapevolezze e abilità a rispondere. E decliniamo, senza infingimenti e senza nasconderci, questo approccio di pensiero e di vita, nell’ appartenenza a Europa.
Queste tre parole (consapevolezza, responsabilità, appartenenza) ci ricordano con più immediatezza la presenza e l’esistenza dell’altro da me : di valori e di eredità molteplici. Quindi: altre consapevolezze, altre responsabilità, altre appartenenze. Queste tre parole obbligano differenti mondi ad una consapevole limitatezza/relatività dei rispettivi valori e appartenenze. Questa è Europa. Questa è, in nuce, la identità europea.
Questo approccio non è una resa (tanto meno una sottomissione ) ad ogni vento e/o ad ogni avventura (culturale, di pensiero, di religione e di fedi, di ideologia). E’ , al contrario, un terreno – il solo terreno universalmente generatore di frutti – per coltivare impegno e memoria, progetto e eredità. Nell’unica modalità possibile e accettabile, nel modo umano.
Cosa significa, dunque, essere europei? Europa può rifarsi ad una sua specifica identità culturale? La ‘Storia’ ci ha consegnato un processo multiforme: trasformazioni e innovazioni, fratture e snodi critici. Anche il concetto di “modernità” rinvia allo sviluppo di “modernità multiple”. La sintesi di “Europa come luogo” ed “Europa come contenuto” ha suggerito agli storici e agli antropologi un approccio alla identità europea come “secondarietà culturale” (Rémi Brague), che spinge e sostanzia una identità impastata di “unità attraverso la diversità”. Dunque: cosa abbiamo ereditato? Chi abbiamo ereditato? Abbiamo ereditato la complessità. Abbiamo avuto in affidamento la molteplicità. Su queste basi, abbiamo radicato la libertà e le libertà, specchio delle nostre alterità.
“Diario europeo” esprime, pertanto, il convincimento che “la concezione dell’identità culturale intesa come campo delle differenze, rivela un alto grado di validità per il mondo moderno” (Clifford Geertz) e costituisce il cuore del carattere europeo.
*****
Questa profondità della visione ci impegna alla difesa di questa eredità ed alla sua promozione; nella consapevolezza che questa duplice azione esige – come precondizione- lo sviluppo e l’approfondimento della visione stessa e dei suoi principi, fino a farne un vero e proprio “programma culturale europeo permanente”, per conseguire:
– una prospettiva più lucida del processo/percorso di integrazione europea;
– una promozione strutturata dei principi sui quali è basata lo stare insieme dei Paesi e dei popoli d’Europa: come vero e proprio “programma culturale” e un modo nuovo di “raccontare l’Europa” unita;
– la messa in comune degli strumenti della sicurezza e della promozione dei principi che sono a base dell’ethos comune europeo.
Non per chiudersi, ma per restare e divenire, sempre di più, consapevoli: aperti, riconoscibili, affidabili. Europa, dunque, come storia e processo di una consapevole relatività culturale ed etica: la responsabile consapevolezza dell’autonomia dell’umano e della autosufficienza conoscitiva e regolativa della realtà dell’uomo e del mondo. Dunque: Laicità e Democrazia; il primato della Legge; il Limite come scelta consapevole.
Assumiamo, pertanto, una duplice “lezione”, che ci impegna ad una Società aperta e all’Unità nella diversità:
– il monito del grande europeo, Immanuel Kant (1795) : “la finitezza geografica della nostra terra impone ai suoi abitanti un principio di ospitalità universale, che riconosca all’altro il diritto di non essere trattato come nemico”.
– la lezione del grande maestro di storia europea, Jacques Le Goff (1991): “Ma quante Europe esistono? E vero che la storia ne ha abbozzate molte . E’ alla luce della storia che occorre esaminare le differenze che ne risultano, le opposizioni, le frontiere, le discordanze e procedere con prudenza e per tappe alla realizzazione della unita europea vera, profonda . Ciò che viene dimostrato dalla storia dell’Europa e che i peggiori nemici dell’Europa sono i nazionalismi. Ebbene, quà e là ancora si trovano febbri nazionalistiche e una volta di più, se queste non cedono il posto a sentimenti nazionali e a un amor di patria compatibili con una costruzione europea, una volta di più Europa sarà campo di affrontamenti nazionali e una preda per le avventure politiche e la violenza. Europei, aprite i vostri libri di storia e non ripetete gli errori del passato.”
Il “Trattato sull’Unione europea” delinea, con la sobrietà e la freddezza tipiche di un testo giuridico, i caratteri fondamentale della “Integrazione europea”, attraverso le norme che riguardano: l’adesione all’Unione, la permanenza nell’Unione e l’uscita dall’Unione:
• L’adesione all’Unione , con l’articolo 49, delinea la qualità della membership nei termini di una Intesa tra le diverse Istituzioni , europee e nazionali, impressionante per la sua coralità (ed anche troppo poco noto o dimenticato). Si evince che diventare membro dell’Unione non è un atto burocratico; implica l’assunzione di “valori” (non generici ma precisi: quelli enumerati nell’art.2), insieme all’impegno su due elementi esplicitamente richiamati: “rispetto” e “promozione” di quegli stessi valori. Tutte le Istituzioni europee sono coinvolte nel processo di adesione di un nuovo Stato membro e le Istituzioni nazionali di ciascuno Stato membro sono corresponsabili, e anche il popolo dello Stato richiedente attraverso il Parlamento nazionale. Interviene un ‘accordo’ esplicito tra lo Stato richiedente e gli altri Stati membri, i quali si pronunciano uno per uno, attraverso la Istituzione nazionale che la sua Costituzione indica ( parlamento o governo).
• La permanenza nell’Unione si basa sui seguenti fondamenti : “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini” (articolo 2).
• L’uscita dall’Unione, con l’articolo 50, è prevista con un linguaggio che denota una concezione che l’ Unione Europea ha di se stessa, improntata a: Scelta, Opportunità, Libertà; non una prigione, ma neppure una mera, altalenante, consorteria di tipo commerciale.
La intensa liturgia laica, prevista dal Trattato per l’adesione all’Unione e i principi che fondano la permanenza nell’Unione, non rappresentano, e non sono, il prodotto di una fredda secolarizzazione di fondamenti valoriali provenienti o presi in prestito da altri mondi, bensì il risultato di dinamiche ereditarie culturali, umanistiche e religiose propriamente europee: anche intrise di lotte, conflitti, sangue e conquiste.
Forse quel sobrio, e persino arido, affresco risulta poco noto, a causa della sua scarsa promozione e conoscenza nelle Società nazionali, nei Sistemi educativi dei Paesi membri e nel Racconto che oggi Europa fa di se stessa.
“Noi pensiamo che il problema dell’Europa non sia né economico né politico ma di storytelling. Non abbiamo una buona storia da raccontare e quindi ci incartiamo su problemi politici, economici, burocratici. E invece l’Europa nasce con una storia fantastica: diverse comunità che si sono macellate per secoli decidono, in tempi brevissimi, di diventare un unico organismo, facendo una scelta per la pace straordinaria, che coinvolge i confini, la moneta, la convivenza. E’ una storia che ha funzionato molto bene per la fondazione. (…) Eppure questa storia dall’imprinting così forte è finita nel disamore…”(Alessandro Baricco, scrittore: fondatore e preside della “Scuola Holden” di Torino). E’ urgente invertire questa rotta. Questa è – deve essere – la emergenza più alta di questa Unione.
***
Tutto è ancora possibile. Dal 9 maggio 1950 (discorso di Robert Schuman) al 2017, il percorso unitario ha compiuto soltanto sessantasette anni di vita; dal 9 novembre 1989 / 3 ottobre 1990 (caduta del muro di Berlino& riunificazione della Germania), il percorso unitario ha compiuto soltanto 28/27 anni di storia. Tra contraddizioni nuove e più antichi nodi irrisolti, il tempo del processo unitario, fino ad ora compiuto, non è, storicamente, un tempo enorme. Ciò che è nuovo sta nella portata del cambiamento dei contesti globali e della loro velocità, nel quale il processo unitario ora deve evolvere. Qui sta la sfida. Inedita e per molti versi drammatica.
All’inizio del progetto di “Costituzione per l’Europa”, i costituenti europei – il 20 giugno del 2003 – avevano depositato queste parole di Tucidide: “La nostra Costituzione si chiama democrazia perché il potere non e nelle mani di pochi, ma dei più”.
I frutti di queste immarcescibili radici non sono ancora tutti disponibili.
La responsabilità della generazione, contemporanea agli albori della costruzione europea, è stata grande ed è ancora rilevante; pari alla certezza che il cammino compiuto è troppo limitato e che ora sta vivendo una stasi pericolosa. Dobbiamo affidare questa duplice consapevolezza non alla evocazione della solidarietà, bensì al dovere della convergenza: tra gli Stati, tra i Sistemi Paese, tra i Popoli d’Europa.
Diversi e uniti. Per scelta. Come azione e non come destino. Con responsabilità verso le rispettive storie e tradizioni: “Desideriamo intensificare la solidarietà tra i loro popoli rispettando la storia, la cultura e le tradizioni”, per portarle nel futuro dei popoli d’Europa.
Oggi, c’è anche un’altra operazione culturale e politica da compiere: il passaggio generazionale del “testimone”. La generazione, nata appena dopo la seconda guerra tra europei, deve effettuare una sorta di consegna di questa “Costruzione europea”, imperfetta e incompiuta – nei pilastri fondanti una vera e propria integrazione europea culturale, economica, sociale, politica – alla generazione che stava, letteralmente, nascendo, mentre il muro di Berlino crollava.
Ovunque il cantiere è aperto, in nessun punto il processo è concluso. Ed ora, nuove spinte centrifughe e distruttive emergono in uno scenario di pericolosa stasi della prospettiva e di appannamento della strategia comune. E’ ora di reagire. E’ il compito della nuova generazione di europei ed europee.
****
Non è un compito facile. Abbiamo bisogno di recuperare un tempo, enorme, di distrazione nella conoscenza e consapevolezza della evoluzione e trasformazione delle società dei Paesi membri e della non cura dei rispettivi tessuti democratici, con le specificità storiche e sociologiche nelle due parti dell’Europa orientale e occidentale. L’attuale modello istituzionale, peraltro, che affida la responsabilità del monitoraggio del rispetto dello Stato di diritto e del procedimento democratico negli Stati membri alla Commissione europea, non favorisce una iniziativa adeguata, con l’autorevolezza necessaria, tra la fermezza sulla sostanza dei principi previsti nei Trattati (e accettati con l’adesione!) e il rispetto dei sentimenti (“intensificare la solidarietà tra i loro popoli rispettandone la storia, la cultura e le tradizioni” – Preambolo del T.U.E.) dei popoli europei. A tal fine sarebbe auspicabile che fosse il Parlamento europeo (“composto dai rappresentanti dei cittadini dell’Unione” – art. 14/2) la istituzione preposta al monitoraggio del “rispetto” dei valori di cui all’art.2 e dell’impegno a “promuoverli” –cfr. art. 49) e alle conseguenti procedure di intervento; anche in considerazione del virtuoso partenariato con “i Parlamenti nazionali (che) contribuiscono attivamente al buon funzionamento dell’Unione” (art. 12).
Con un crescendo via via intenso e con forme diversamente urticanti, nei diversi Paesi membri è tornato a manifestarsi la “questione nazionale”; insieme ad una diversificata – in certi casi inattesa e stupefacente, per la sua inadeguatezza – declinazione della “questione democratica”.
E’ noto che “lo stato nazionale è la principale innovazione istituzionale dell’Europa, accanto al capitalismo di mercato e all’universalità di ricerca; nell’esperienza storica della modernità europea rappresenta l’incarnazione dell’autorità politica e il principale fattore di strutturazione della società, al cui interno sono state affrontate le grandi questioni della libertà individuale, della giustizia sociale, della risoluzione non violenta dei conflitti” (cfr. A. Cavalli-A. Martinelli, “La società europea”, il Mulino, 2015). Si tratta di una realtà storica ed antropologica, ineliminabile: nelle culture e nelle identità europee, infatti, “l’ideologia nazionalista possiede una grande forza emotiva, sviluppa identità collettive e movimenti ppolitici, miranti a promuovere la sovranità, l’unità, l’autonomia di coloro che vivono in un territorio dato, sono legati da una cultura politica distintiva e condividono un insieme di fini comuni” (ivi).
E’ necessario, pertanto, tenere insieme tre acquisizioni: a) nazione e nazionalismo incorporano anche elementi premoderni, ma sono e restano forme ed espressioni della modernità; b) gli stati nazionali non sono (forse come sbrigativamente si pensava) in via di sparizione, ma certamente sono impari – come tali – a confrontarsi (anche dal punto di vista della forma e sostanza di una democrazia sovranazionale) con la crescente e permanete interdipendenza globale, da una parte, e la contestuale tendenza alle segmentazioni identitarie localistiche, dall’altra; c) questa fase della integrazione europea (sia quella realizzata prima del 1989-1990; sia quella successiva) non ha dimostrato di saper assumere il dato storico del nazionalismo (se non come contrasto efficace alle sue manifestazioni più estreme: le guerre intra europee; contrasto che oggi non riesce ad estendersi all’urgente azione tesa a rimettere nell’alveo democratico le violazioni allo Stato di diritto) e andare oltre il semplice stigmatizzarlo, inglobandolo nel suo processo di integrazione e trasformandolo in un valore per una appartenenza più ampia, riconoscibile di fronte al mondo. E’, dunque, a questo livello che bisogna produrre una decisa innovazione: cambiando in profondità il modello di governance dell’Unione, perché la “logica funzionalista e i meccanismi politici del passato non sono più sufficienti”.
“Diario europeo” assume e incoraggia l’inizio di un cambio di passo riscontrabile nell’azione del Consiglio Affari Generali della UE, che ha cominciato ad affrontare il tema dello Stato di diritto all’interno dell’Unione; e condivide pienamente la proposta dell’Italia di tenere un dibattito regolare, volta a volta su un tema specifico legato allo Stato di diritto, insieme con un dibattito annuale, tra pari, all’interno del Consiglio Affari Generali, non più declinato per specifici aspetti, bensì sulla situazione generale dello Stato di diritto di 4 o 5 paesi diversi ogni anno: scelti perché ritenuti prioritari per le loro specifiche buone prassi o anche per le loro criticità in materia di Stato di diritto.
C’è, dunque, un lavoro enorme da condurre per rivitalizzare l’insieme del pensiero europeo a fondamento della democrazia europea. Alle esigenze – da più parti enunciate – di costruire risposte al “malessere dei nostri sistemi politici, privati di una preziosa risorsa simbolica” (Roberto Esposito) o in quanto calati in “ un mondo secolarizzato privo di riserve nascoste” ( Biagio de Giovanni), soltanto una ricerca, di lunga lena, potrà risultare idonea, senza sconti e senza derive, mobilitando tutte “le eredità culturali, religiose ed umanistiche dell’Europa” (Preambolo TUE); tutte in ricerca, con umiltà, pari dignità e uguale determinazione.




Sintomi di fallimento, per una ‘famiglia’ sull’orlo di una crisi di nervi

“Sintomo” viene definito dal Dizionario della lingua italiana: “segno o indizio di un fatto, suscettibile di rivelarsi in forma più esplicita”. L’approdo, quindi, non è inevitabile e neppure automatico, però presenta caratteri di probabilità.

Prendiamo tre di questi “segni-indizi”, a titolo meramente esemplificativo:

• nel 2015 il Consiglio con voto a maggioranza ( il cui profilo giuridico-istituzionale è: “Il Consiglio esercita, congiuntamente al Parlamento europeo, la funzione legislativa e la funzione di bilancio”, art. 16 del Trattato sull’Unione europea) decide il ricollocamento nei diversi Paesi membri di 160 mila immigrati dall’Italia e dalla Grecia. Questa “decisione-norma” non viene ancora applicata, a seguito della esplicita “disobbedienza” della quasi totalità dei membri dell’Unione (recentemente la Germania ha deciso – “bontà sua” – di riceverne una parte);

• Il 23 giugno 2016, il paese membro dell’Unione – Regno Unito – tiene un referendum consultivo (nessun obbligo di farlo derivava dalle sue leggi: soltanto una libera ed autonoma volontà dell’allora capo del governo David Cameron) sulla permanenza o l’uscita dall’Unione europea. Il 24 mattina tutto il mondo ed anche tutti i popoli dell’Unione europea conoscono i risultati del referendum popolare: uscire. Il Trattato afferma: “Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo” (art. 50). Ad oggi (99 giorni da quel 23 giugno) il Regno Unito (il suo governo/esecutivo o il suo Parlamento: aspetto che non riguarda né l’Unione, né i 27 Paesi membri) si rifiuta di “notificare” qualcosa che è molto di più di una “intenzione”.

• Domenica prossima 2 ottobre 2016, il Paese membro dell’Unione – Ungheria- terrà un referendum popolare per rispondere a questo quesito: “Volete autorizzare l’Unione europea a decidere il ricollocamento in Ungheria di cittadini non ungheresi senza l’approvazione del parlamento ungherese?” (come sempre, Viktor Orbàn fa da testuggine anti europea, per conto del gruppo di Visegrad : Slovacchia, Polonia, Ceka, Ungheria, che – sia detto per inciso- vogliono i fondi europei per lo sviluppo, ma non i rifugiati che fuggono dalle guerre).

L’allarme che, questa volta, “Diario” intende lanciare è, da una parte, di tipo giuridico-istituzionale, dall’altra strategico-politico. Si va configurando, infatti (oltre ai profili politici ed etici a cui ciascuna di queste violazioni rinvia in modo specifico) uno “stato di fatto” in cui il Trattato (la più alta base giuridica dello stare insieme), le Istituzioni dell’Unione, numerosi Stati membri e relativi popoli vengono messi di fronte al “fatto compiuto”. Senza che venga attuato immediatamente e solennemente dinanzi alla pubblica opinione alcuna misura a difesa e salvaguardia della “legalità” e del “Diritto” europei (dell’Unione). Qualunque Stato o Democrazia al mondo non potrebbe resistere e sussistere a lungo in una situazione di permanente ed arrogante violazione del “Diritto”, all’interno del suo territorio. Perché dovrebbe riuscirci questa Unione europea? “Diario” ricorda che alle violazioni di natura e rischio democratico molto meno incisive, quali le indebite concessioni di aiuti di stato o la errata erogazione di finanziamenti, ecc. scatta immediatamente la procedura finalizzata sia al recupero delle somme, sia alla penalizzazione aggiuntiva.

Non accade la stessa cosa in merito a fenomeni assai più rilevanti.
Ad un anno dalla Decisione comunitaria sul ricollocamento (entro il settembre 2017) di 160 mila persone, sono soltanto 5.651 i profughi trasferiti (4.455 dalla Grecia, 1.196 dall’Italia). Ecco le cifre – assolutamente eloquenti dei Paesi membri che hanno accolto profughi dall’Italia: Finlandia (260); Francia (231); Portogallo (183); Olanda (178); Germania (20); Lussemburgo (20); (Belgio (29); Bulgaria, Polonia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lituania, e Slovacchia non hanno accolto nessun profugo. (Come si diceva sopra: la Germania, ora, si è impegnata a ricevere 500 profughi al mese; e il Belgio 100 profughi al mese). In termini di “legalità” la Commissione ricorda che: “i Paesi membri hanno l’obbligo legale a ricollocare”; che: “la Legge Ue non è opzionale, ciò che gli Stati hanno deciso assieme deve essere applicato”; che:“la Commissione si riserva comunque di intraprendere azioni legali”.

E’ in questo contesto che uno Stato membro – l’Ungheria – domenica 2 ottobre, ricorre ad un referendum popolare. Cosa è: una sfida? A chi: a tutti gli altri Stati membri e all’Unione in quanto tale? Alcuni analisti cin informano di un recente dossier del Servizio Studi del Senato italiano rileva che nella Costituzione della Ungheria si esclude il ricorso al referendum su “ogni obbligazione derivante da trattati internazionali”; ciononostante la Corte suprema e la Corte costituzionale ungheresi (recentemente riformate dal governo Orbàn) hanno ammesso il quesito.
Ecco cosa accade sotto il cielo dell’Unione!

Scrive il professor Pietro Manzini (ordinario di Diritto dell’Unione europea presso l’università di Bologna), a proposito del referendum ungherese: “ il referendum è illegale perché viola il principio di supremazia del diritto europeo sulle leggi nazionali, uno dei fondamenti logici, prima ancora che giuridici, dell’Unione. Essa è stata riconosciuta dalla Corte di giustizia sin dal 1964 ed è consacrata nei trattati che l’Ungheria – e in particolare il suo parlamento – ha accettato senza riserve al momento dell’adesione” (avvenuta, peraltro seguendo la lettera dell’art. 49, che i lettori e le lettrici hanno avuto modo di conoscere nei precedenti “Diari”). Pietro Manzini sottolinea anche un secondo profilo della violazione, quello basato sul “principio di solidarietà”: è quello stesso principio in forza del quale, l’Ungheria può (ha persino il “diritto”) ricevere i fondi europei -costituiti con le risorse di tutti gli altri Stati membri (e i loro cittadini contribuenti). Se quei principi vengono intaccati, dovrebbero decadere anche i frutti della solidarietà allo sviluppo e al progresso sociale ed economico dei cittadini ungheresi. “Non è la prima volta che uno Stato infrange gli impegni presi con la sua adesione all’Unione europea – aggiunge Manzini – ma la violazione dell’Ungheria è inedita e molto più pericolosa delle precedenti perché, per la prima volta, è perpetrata deliberatamente e mediante un referendum popolare” (ivi, “l’Unità”, 28 settembre 2016). Non risulta che siano incorso procedure ed atti finalizzati ad impedire o contrastare tale violazione; nessuna pubblica manifestazione di contrarietà è stata espressa nel cosiddetto vertice di Bratislava; dove il signor Orbàn – capo del governo ungherese- ha regolarmente partecipato alla foto (ricordo!?) a conclusione della riunione/vertice. Scioccamente si ritiene che non avendo il referendum alcuna conseguenza giuridica – se non la conferma del rifiuto già in atto al ricevimento della quota regolamentare di immigrati (attualmente detiene soltanto 1.294 rifugiati su quasi 10 milioni di abitanti) – il silenzio delle Istituzioni dell’Unione e delle cancellerie degli Stati membri è sopportabile o ammissibile? Ma è proprio in questa supposizione e in questo approccio che si manifesta precisamente il “sintomo” (cfr. la definizione, da Dizionario di lingua italiana sopra riportata), e se ne costruiscono le premesse, del fallimento della Unione europea come entità giuridica e politica. Non sono “questioni di lana caprina”. Al contrario: se vengono meno – in punta di diritto o nella pratica – questi elementi del “Diritto europeo”, questa Unione resta soltanto uno “spazio economico e di mercato”. E’, appunto, la visione di un numero importante (anche se non maggioritario ora che il Regno Unito ha espresso la “intenzione” di uscire) di Stati membri: tra essi il gruppo di Visegrad.

Un altro “sintomo” riguarda la mancata notifica da parte del Regno Unito della “intenzione” di uscire dall’Unione, nel “lontano” 23 giugno, novantanove giorni fa.

Dopo il cosiddetto “vertice” di Bratislava nel quale non si è fatto – formalmente e pubblicamente cenno alla questione del Brexit e della incredibile incuranza del regno Unito all’applicazione dell’art. 50 – lo scorso 27 settembre si è tenuta, sempre a Bratislava ( in quanto capitale dello Stato membro che detiene fino a dicembre la presidenza semestrale, di turno, della U.E.) una riunione del “Consiglio” ( informale) dei ministri della Difesa dei Paesi membri dell’Unione. Una riunione – seppure informale – del Consiglio, di grande importanza ( un giorno, se le “rose fioriranno”, questa data sarà ricordata come una data storica!) nella quale sono state presentate, ufficialmente e finalmente, quattro proposte di riforma di strumenti della Difesa e della Sicurezza nell’Unione europea: una da parte dell’Alto rappresentate dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini; un’altra del ministro italiano Roberta Pirotti; un’altra del ministro tedesco Ursula von del Leyen; un’altra del ministro francese Jean-Yves Le Drian. Presente alla riunione (in quanto nessuna “Notifica” è stata ancora fatta relativamente all’uscita dall’Unione, quindi nel pieno delle sue funzioni e dei suoi “diritti” di membro dell’Unione!), il ministro inglese Michael Fallon ha manifestato una forte opposizione alla proposta: nonostante la evidente circostanza che tali politiche riguarderanno, in ogni caso, il processo di integrazione della UE, successivo al Brexit. Ecco svelato che la mancata “notifica” non è un mero fatto burocratico: infatti, il Ministro di un Paese membro che ha già deciso di uscire dall’Unione e che – non rispettando il Trattato vigente – si rifiuta di effettuare la comunicazione formale di tale volontà, può partecipare ed intervenire nelle riunioni dei membri ed operare esplicitamente in contrasto con le strategie dell’Unione, suscitando ed appoggiando le perplessità, le incertezze, i tentennamenti dei membri attuali di questa Europa unita (soprattutto degli Stati membri dell’Europa dell’Est). Egli diventa – di fatto – un agente di disintegrazione. E tutto ciò dovrebbe essere ritenuto “normale”? Tutto ciò, mentre nei vicini Paesi balcanici cresce, in queste ore, una tensione interna preoccupante, che richiede dalla Unione europea attenzione e iniziativa politica, tesa a farsi, da una parte, interlocutrice delle aspirazioni europeiste dei Paesi di quell’area che da tempo le manifestano, dall’altra un agente strategico di rasserenamento delle tensioni interne all’area. Da quei martoriati territori, giunge, in questi giorni, all’Unione europea una richiesta di attenzione che sarebbe grave ignorare; le proposte presentate e condivise da Italia, Germania, Francia ed altri a Bratislava vanno nella direzione anche della stabilizzazione della vicina area balcanica. Nello stesso tempo danno una risposta forte a tutti i popoli degli Stati membri che manifestano preoccupazioni proprio in materia di Sicurezza e controllo delle frontiere esterne. Sulle cui “paure e ansietà”, la Gran Bretagna – dopo il suo referendum – dovrebbe avere almeno la decenza del rispetto e del non-intevento.

E’ triste – che altro aggettivo usare?- costatare che quella opinione pubblica che all’indomani della riunione inconcludente di Bratislava esprimeva meraviglia e critiche a fronte della dura reazione del presidente del Consiglio italiano, sorvoli o giri la testa dall’altra parte, davanti a queste manifestazioni “sintomatiche” della Disintegrazione europea in atto. E’ necessario, al contrario, alzare l’asticella della vigilanza e dell’allerta: la salvezza di questa Unione Europea sta nella capacità di cogliere i sintomi del grande rischio, di farlo in tempo utile; di non ripetere – drammaticamente – la vicenda dei “sonnambuli” alla vigilia del grande conflitto del 1914, che ‘Diario’ ha spesso evocato. “Condividere le iniziative per far vivere meglio i cittadini europei e per difendere la loro sicurezza, sul doppio versante dell’immigrazione e della lotta al terrorismo, è una necessità immediata” (cfr. Paolo Lepri, “La ‘Repubblica europea’ che rischia di crollare”, in: Corriere della sera, 29 settembre 2016). Il fatto nuovo – di cui pare che non ci si renda conto – è che la risposta a queste necessità europee “non può più essere il risultato lento, sempre insoddisfacente, di uno sforzo di unità elaborato. Le grandi emergenze vanno affrontate in modo bipartisan a livello politico, utilizzando le forze responsabili residue” (ivi). Il giornalista – per anni corrispondente del “Corriere della sera” a Berlino – sottolinea la “novità” di una Cancelliera tedesca che, davanti al suo Paese, ha espresso (all’indomani della sconfitta elettorale nel Land di Berlino), con inatteso candore, “il desiderio di riportare indietro le lancette dell’orologio, per affrontare in modo più organizzato la crisi dei rifugiati e mettere meglio a punto le politiche di accoglienza e di integrazione dei dannati della terra che stanno cambiando tutto quello che vediamo attorno a noi”.

Su quali e quante altre emergenze (non più tali, in quanto da tempo nell’agenda istituzionale e di governo della Unione e dei suoi Stati membri!) bisognerà desiderare di riavvolgere il nastro della storia, con la consapevolezza di non poterlo fare?
Intervenendo alla Commissione economica del Parlamento europeo, il presidente della Banca centrale ha ancora una volta sottolineato che “senza completare il progetto europeo la nostra Unione rimane vulnerabile”. Ed entrando – con la consueta asciuttezza e andando anche oltre la sua specifica missione – nel merito dell’agenda europea, ha aggiunto: “tre sono le linee d’azione urgenti che l’Unione deve seguire: la prima è intervenire con nuovi progetti in materia di immigrazione, sicurezza e difesa, per andare incontro alle preoccupazioni dei cittadini; la seconda è ripristinare la fiducia tra i Paesi in materia di conti pubblici (“esiste una asimmetria nelle regole di bilancio europee: mentre ai paesi che non hanno margini è vietato usare lo spazio che non hanno, i paesi che hanno margini non sono costretti ad usare questo spazio”); la terza è il completamento dei progetti di integrazione già avviati, a cominciare dall’Unione bancaria e dal mercato unico dei capitali”. E successivamente – il 28 settembre, a Berlino – affrontando a muso duro i parlamentari tedeschi (a porte chiuse), Draghi ha sottolineato che: “ se una banca presenta una minaccia sistemica per la zona euro, questo non può essere a causa dei bassi tassi di interesse ma di altre ragioni”. Il riferimento così esplicito, autorevolissimo e grave, in quanto fatto in una sede parlamentare dal presidente della Banca centrale europea che ha anche il compito della vigilanza sulle Banche europee, alla Deutsche Bank (le cui gravissime difficoltà, gli incauti parlamentari tedeschi avevano tentato di attribuire la causa alla politica monetaria espansiva della BCE) dovrebbe essere un monito anche per il (cosiddetto) “ministro delle Finanze più potente d’Europa”, Wolfgang Schauble. (Mentre questo “Diario” va on line giunge notizia delle reiterate gravi difficoltà del secondo gruppo bancario tedesco – Commerzbank – già salvato dal Tesoro di Berlino nel 2007 con una iniezione di 18 miliardi di euro, diventandone azionista, come ancora oggi con il 15%).

Più volte, “Diario europeo” (insieme ai suoi lettori e alle sue lettrici) si è domandato: “Per chi suona la campana”? Lettrici, lettori e Diario conoscono le parole – serie, impegnative, anche inquietanti – con le quali il poeta continua, ammonendoci tutti: “ Non mandare a chiedere per chi suona la campana, essa suona per te”.




Un’Europa che non può tornare indietro e non riesce ad andare avanti

Diario europeo assume, nel titolo odierno, una espressione di Roberto Napoletano (“Domenica”, il sole 24 ore, 18 settembre) nel suo ‘Memorandum’, in cui commenta la “Lectio” di Mario Draghi al Teatro sociale di Trento, in occasione del premio “Alcide De Gasperi-Costruttori d’Europa”, conferitogli il 13 settembre scorso. La sintesi di Napoletano è la fotografia dell’Unione europea, a Bratislava.

Dopo la “riunione” (Diario si impegna da oggi a non usare più termini quali “vertice” o “summit”, per non incorrere in plateali errori di forma e di sostanza!) di Bratislava, venerdì 16 settembre – sulla cui ‘agenda’ nel precedente intervento ci eravamo lungamente impegnati – invece di una puntuale e dettagliata analisi (che rinviamo ad un ‘diario’ successivo) desideriamo offrire alla riflessione dei lettori e delle lettrici la parte conclusiva della “Lectio” di Mario Draghi. Pronunciata, due giorni prima della riunione di Bratislava, ci si poteva augurare potesse costituire una ulteriore spinta alla costruzione di una nuova agenda dell’integrazione europea, la cui responsabilità politica sta sulle spalle dei capi di stato e di governo del 27 Paesi membri. Non pare, invece, che gli attuali dirigenti dei Paesi membri abbiano avuto il tempo di leggere e meditare le parole del presidente della Banca centrale europea.

“L’Europa può ancora essere la risposta?

La domanda è semplice ma fondamentale: lavorare insieme è ancora il modo migliore per superare le nuove sfide che ci troviamo a fronteggiare?

Per varie ragioni, la risposta è un sì senza condizioni. Se le sfide hanno portata continentale, agire esclusivamente sul piano nazionale non basta. Se hanno respiro mondiale, è la collaborazione tra i suoi membri che rende forte la voce europea.
Il recente negoziato sul cambiamento climatico sia di esempio. La questione globale può essere affrontata solo attraverso politiche coordinate a livello internazionale. La massa critica di un’Europa che parla con una voce sola ha condotto a risultati ben oltre la portata dei singoli paesi. Solo la spinta esercitata dai paesi europei che hanno presentato un fronte comune ha permesso il successo della conferenza sul clima di Parigi. Solo l’esistenza dell’Unione Europea ha permesso la costruzione di questo fronte comune.
In un mondo in cui la tecnologia riduce le barriere fisiche, l’Europa esercita la sua influenza anche in altri modi. La capacità dell’Europa, con il suo mercato di 500 milioni di consumatori, di imporre il riconoscimento dei diritti di proprietà a livello mondiale o il rispetto dei diritti alla riservatezza in Internet è ovviamente superiore a ciò che un qualsiasi Stato membro potrebbe sperare di ottenere da solo.

La sovranità nazionale rimane per molti aspetti l’elemento fondamentale del governo di un paese. Ma per ciò che riguarda le sfide che trascendono i suoi confini, l’unico modo di preservare la sovranità nazionale, cioè di far sentire la voce dei propri cittadini nel contesto mondiale, è per noi europei condividerla nell’Unione Europea che ha funzionato da moltiplicatore della nostra forza nazionale.

Quanto alle risposte che possono essere date soltanto a livello sovranazionale, dovremmo adottare lo stesso metodo che ha permesso a De Gasperi e ai suoi contemporanei di assicurare la legittimazione delle proprie azioni: concentrarsi sugli interventi che portano risultati tangibili e immediatamente riconoscibili.

Tali interventi sono di due ordini.

Il primo consiste nel portare a termine le iniziative già in corso, perché fermarsi a metà del cammino è la scelta più pericolosa. Avremmo sottratto agli Stati nazionali parte dei loro poteri senza creare a livello dell’Unione la capacità di offrire ai cittadini almeno lo stesso grado di sicurezza.

Un autentico mercato unico può restare a lungo libero ed equo solo se tutti i soggetti che vi partecipano sottostanno alle stesse leggi e regole e hanno accesso a sistemi giudiziari che le applichino in maniera uniforme. Il libero mercato non è anarchia; è una costruzione politica che richiede istituzioni comuni in grado di preservare la libertà e l’equità fra i suoi membri. Se tali istituzioni mancheranno o non funzioneranno adeguatamente, si finirà per ripristinare i confini allo scopo di rispondere al bisogno di sicurezza dei cittadini.

Pertanto, per salvaguardare una società aperta occorre portare fino in fondo il mercato unico.

Ciò che rende oggi questa urgenza diversa dal passato è l’attenzione che dovremo porre agli aspetti redistributivi dell’integrazione, verso coloro che più ne hanno pagato il prezzo. Non credo ci saranno grandi progressi su questo fronte e più in generale sul fronte dell’apertura dei mercati e della concorrenza se l’Europa non saprà ascoltare l’appello delle vittime in società costruite sul perseguimento della ricchezza e del potere; se l’Europa, oltre che catalizzatrice dell’integrazione e arbitra delle sue regole non divenga anche moderatrice dei suoi risultati. È un ruolo che oggi spetta agli stati nazionali, che spesso però non hanno le forze per attuarlo con pienezza. È un compito che non è ancora definito a livello europeo ma che risponde alle caratteristiche delineate da De Gasperi: completa l’azione degli Stati nazionali, legittima l’azione europea. Le recenti discussioni in materia di equità della tassazione, e quelle su un fondo europeo di assicurazione contro la disoccupazione, su fondi per la riqualificazione professionale e su altri progetti con la stessa impronta ideale vanno in questa direzione.

Ma poiché l’Europa deve intervenire solo laddove i governi nazionali non sono in grado di agire individualmente, la risposta deve provenire in primo luogo dal livello nazionale. Occorrono politiche che mettano in moto la crescita, riducano la disoccupazione e aumentino le opportunità individuali, offrendo nel contempo il livello essenziale di protezione dei più deboli.

In secondo luogo, se e quando avvieremo nuovi progetti comuni in Europa, questi dovranno obbedire agli stessi criteri che hanno reso possibile il successo di settant’anni fa: dovranno poggiare sul consenso che l’intervento è effettivamente necessario; dovranno essere complementari all’azione dei governi; dovranno essere visibilmente connessi ai timori immediati dei cittadini; dovranno riguardare inequivocabilmente settori di portata europea o globale.

Se si applicano questi criteri, in molti settori il coinvolgimento dell’Europa non risulta necessario. Ma lo è invece in altri ambiti di chiara importanza, in cui le iniziative europee sono non solo legittime ma anche essenziali. Tra questi oggi rientrano, in particolare, i settori dell’immigrazione, della sicurezza e della difesa.

Entrambi gli ordini di interventi sono fondamentali, poiché le divisioni interne irrisolte, che riguardano ad esempio il completamento dell’UEM, rischiano di distrarci dalle nuove sfide emerse sul piano geopolitico, economico e ambientale. È un pericolo reale nell’Europa di oggi, che non ci possiamo permettere. Dobbiamo trovare la forza e l’intelligenza necessarie per superare i nostri disaccordi e andare avanti insieme.

A tal fine dobbiamo riscoprire lo spirito che ha permesso a pochi grandi leader, in condizioni ben più difficili di quelle odierne, di vincere le diffidenze reciproche e riuscire insieme anziché fallire da soli”.

Riuscire insieme, anziché fallire da soli!




Bratislava, prove di ripartenza?

Con tutta la buona volontà e anche senso di responsabilità – necessario quando si valuta il difficile e strategico percorso di Integrazione europea- non si sfugge ad una sensazione ricorrente: una sorta di “assenza” di Europa – le sue Istituzioni e la loro quotidiana azione – nel governo della Unione! Sappiamo che è in campo quotidianamente una complessa “macchina” comunitaria, fatta di ampie e articolate professionalità; ma quella sensazione rimane. Mentre i protagonisti reali e, nello stesso tempo, disarmonici sono gli Stati nazionali.
Cerchiamo, allora, con pazienza di riannodare le fila di un “discorso” politico e strategico. E cominciamo dal calendario, anche considerando che molte cose sonno accadute e molte idee, analisi e proposte son venute all’odine del giorno dell’agenda comunitaria.
 
(Chi guida l’ Unione?)
 
Sul sito ufficiale del Consiglio europeo si legge che il 16 settembre i capi di Stato o di governo dei 27 si riuniranno a Bratislava, dove continueranno una riflessione politica per imprimere slancio a ulteriori riforme e allo sviluppo dell’UE a 27 Stati membri. Si tratta di una riunione informale del Consiglio europeo, quindi al di fuori delle (almeno) due riunioni previste dal Trattato nel corso di una presidenza semestrale (in questo caso tenuta dalla Slovacchia, dal 1 luglio al 31 dicembre). L’ultima volta che il Consiglio europeo (sempre in versione “informale”) si è riunito è stato il 29 giugno 2016; in quella occasione, i capi di Stato e di governo si riunirono per discutere delle implicazioni politiche e pratiche della Brexit, affermando: “Siamo determinati a rimanere uniti e a lavorare nel quadro dell’UE per affrontare le sfide del ventunesimo secolo e trovare soluzioni nell’interesse delle nostre nazioni e dei nostri popoli. Siamo pronti ad affrontare tutte le difficoltà che possono sorgere dalla situazione attuale”. Nella “Dichiarazione” ufficiale adottata il 29 giugno si legge: “Noi, capi di Stato o di governo dei 27 Stati membri, insieme ai presidenti del Consiglio europeo e della Commissione europea, ci rammarichiamo profondamente dell’esito del referendum nel Regno Unito ma rispettiamo la volontà espressa dalla maggioranza del popolo britannico. Fino a quando lascerà l’Unione, al Regno Unito e al suo interno continuerà ad applicarsi il diritto dell’UE, per quanto riguarda sia i diritti che gli obblighi. È necessario organizzare il recesso del Regno Unito dall’UE in modo ordinato. L’articolo 50 del TUE fornisce la base giuridica per questo processo. Spetta al governo britannico notificare al Consiglio europeo l’intenzione del Regno Unito di recedere dall’Unione. Ciò dovrebbe essere fatto il più rapidamente possibile. Nessun negoziato è possibile prima della notifica. Una volta ricevuta la notifica, il Consiglio europeo adotterà gli orientamenti relativi ai negoziati per un accordo con il Regno Unito. Nel processo che seguirà la Commissione europea e il Parlamento europeo svolgeranno appieno il loro ruolo in linea con i trattati”.
 
(out is out ?)
 
Diario europeo (n.35, “What now? L’Unione europea a 27 stati membri”) ha già analizzato la situazione di stallo della Unione a fronte della mancata “notifica” da parte del Regno Unito della volontà di uscire dall’Unione, la “Dichiarazione” sopra ricordata resta a tutt’oggi – e si presume anche nella futura riunione di Bratislava – disattesa: “Spetta al governo britannico notificare al Consiglio europeo l’intenzione del Regno Unito di recedere dall’Unione. Ciò dovrebbe essere fatto il più rapidamente possibile. Nessun negoziato è possibile prima della notifica”. Che fare? Stupisce – oltre ogni previsione – la “inelegante” (scorretta) prassi adottata dall’ex membro dell’Unione; desta ugualmente stupore la indeterminatezza dei “capi di stato o di governo”, membri attuali della Unione, ancora di più a seguito delle loro pur sobrie, ma almeno esplicite “Dichiarazioni”, sopra riportate.
 
Indigna, peraltro, apprendere che dalla Gran Bretagna l’unica solerzia manifestata è la volontà di costruire un muro lungo due chilometri, alta quattro metri attorno all’autostrada che porta all’imbarco dei traghetti per Dover e del tunnel per i treni che passano sotto la Manica, su territorio francese.(a tal fine ha raggiunto un accordo con la Francia, caricandosi totalmente la spesa). E non solo, manifesta anche un attivismo (molto “english”) sul versante di futuri “accordi commerciali bilaterali” con paesi membri della U.E. e con Paesi terzi (Australia, ad esempio, e anche con India, Corea del Sud). Steffen Seibert, portavoce della cancelliera, durante il consueto incontro con la stampa mercoledì sette ha osservato: “ la situazione è chiara: un Paese membro dell’Ue non può, finché ne fa parte, negoziare accordi di libero scambio bilaterale al di fuori della Ue”. E’ sufficiente il misurato e diplomatico commento del portavoce della cancelliera della Germania? “Diario” ritiene di no. Nel frattempo si apprende che Boris Johnson, ministro britannico agli esteri (oppositore frontale del già premier David Cameron e campione della campagna pro Brexit) chiede “ il pieno controllo dei confini”. Non è, quindi, condivisibile l’affermazione del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, che “la palla è nel campo del Regno Unito”; il campo di gioco, infatti, è ancora unico, fino alla “Notifica”. Ovviamente, neppure si tratta di compiere azioni di rappresaglia; semplicemente “ricordare” al Regno Unito di compiere, rapidamente e recuperando il ritardo già maturato, tutti gli atti richiesti dai Trattati che a suo tempo ha sottoscritto (ad essere precisi e pignoli: siccome la firma in calce al Trattato della Unione Europea è di “Sua Maestà la Regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord”, una lettera formale del Consiglio europeo dovrebbe essere inviata alla regina). E dunque, è necessario che, mentre i “capi di stato o di governo” si riuniscono (nella formula della informalità che non impegna la loro funzione definita dai Trattati) per delineare le attese dei loro Paesi e popoli e le risposte necessarie da parte della Unione di cui sono partecipi, il “Consiglio europeo” come tale – in modo solenne ed autorevole, sulla base degli obblighi del Trattato – compia un atto formale, da Bruxelles, per sollecitare il Regno Unito a “notificare tale intenzione al Consiglio Europeo” ( cfr art. 50, comma 2). Da parte sua, L’Unione ha completato, con la recente nomina da parte del Parlamento europeo del deputato (ex premier del Belgio) Guy Verhofstadt, a capo del suo team nel futuro negoziato. Il “trio” dell’Unione, dunque, è: Dedier Seeuws (diplomatico belga, già portavoce di Verhofstadt), capo delegazione del Consiglio, Michel Barnier, capo delegazione della Commissione (già commissario agli Affari interni e Servii finanziari) e Guy Verhofstadt. Sul versante britannico, è stato costituito un apposito dicastero per la Brexit, con a capo David Davis, uno dei leader della campagna pro Brexit ( il quale, però, è ancora alla ricerca di esperti e professionisti idonei per il suo dicastero e attende che il bilancio del suo Governo gli assegni una dotazione finanziaria adeguata per poterli pagare).
 
(nuova agenda europea)
 
Nel frattempo risulta sempre più urgente delineare – impegnando a tale compito tutte le Istituzioni dell’Unione (Parlamento, Commissione, Parlamenti nazionali, Organismi della Società civile) – la nuova “Agenda della integrazione europea”.
 
I binari di questo percorso sono due, già scritti nei Trattati (“Preambolo”), ricordiamoli:
1. “Intensificare la solidarietà tra i popoli rispettandone la storia, la cultura e le tradizioni”
2. “Conseguire il rafforzamento e la convergenza delle proprie economie”
 
(divergenze in crescita)
 
I fatti ci dicono che la tendenza dei paesi membri non va verso la “convergenza”. Nonostante la tenacia manifestata da Angela Merkel che ha voluto incontrare bilateralmente ben 13 Paesi membri della UE (appena dopo la visita in Italia, a Ventotene), le convergenze non sembrano né facili né vicine. Il punto di scontro resta la politica sulle migrazioni. Intanto sulla Porta di Brandeburgo, un gruppo (sedicente “movimento identitario”) le hanno fatto trovare uno striscione a caratteri cubitali: “Frontiere sicure, futuro sicuro”. Particolarmente aspri e persino ostili, i quattro paesi del Gruppo di Visegrad (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria) e l’Austria (dove si tornerà alla urne il 4 dicembre per la elezione del presidente della Repubblica). L’Unione non converge neppure nell’economia, anzi le divergenze strutturali continuano ad aggravarsi. Mentre la Germania conferma il surplus commerciale (8,9% sul PIL 2016, superiore persino alle previsioni della Commissione europea, oltrepassando anche la Cina con 310 miliardi di dollari) e comunica di aver risparmiato ben 122 miliardi di euro (dal 2008 a fine 2015) in interessi sul debito pubblico (anche con il contributo delle misure prese dalla Banca federale, alla quale peraltro riserva spesso critiche ingiustificate), Eurostat fotografa questa situazione: Italia, Francia, Finlandia registrano crescita zero; il gruppo dei Paesi dell’Est dà segni di dinamismo (anche per il loro problematico punto di partenza), il resto cresce modestamente. I tassi di disoccupazione restano molto difformi: Italia 11,6% – Germania 4,6 – Francia 9.9 – Spagna 22,1 – Europa 10, 1). Come non chiedersi se gli strumenti di politica economica e monetaria comunitari attuali siano o meno adatti ed efficaci ai fini della “convergenza” richiesta e dichiarata dai Trattati? Come è noto: nessun vento è favorevole a chi non sa (o non sceglie) la direzione da prendere.
 
La Banca “federale”, intanto, continua – solitaria – a ricordare all’Unione che: “le misure monetarie sarebbero più efficaci se tutti i Paesi facessero le riforme strutturali e se ci fossero politiche di bilancio espansive; e che la politica fiscale più che una questione di quantità è questione di mix, che deve essere favorevole alla crescita e alla creazione di un ambiente pro-business, compresi investimenti in infrastrutture” (così Mario Draghi, nelle comunicazioni ufficiali, dopo il consiglio di amministrazione della BCE, 8 settembre 2016). Un altro ‘fatto’, che da una parte denuncia la divergenza e nello stesso tempo esprime una positiva efficacia della Unione, si è verificato sul fronte del fisco. L’Unione (la Commissione europea) ha – dopo una lunga ed accurata analisi – deciso il recupero di 13 miliardi di euro di imposte non versate dalla Apple allo Stato membro Irlanda. Un attivismo benemerito contro quella pratica – scandalosa e anche autolesionista per una Unione, dotata di un Mercato unico e, in parte, addirittura di una Moneta unica – detta “ tax ruling”. A fronte della iniziativa “comunitaria”, proprio l’Irlanda – paese membro danneggiato(?)- ha scelto di impugnare la ‘Decisione’ della Commissione. E’ stato osservato che la cifra corrisponde alla spesa annuale che l’ Irlanda affronta per il suo sistema sanitario nazionale! Uno scambio “faustiano” – è stato detto – tra una società/economia nazionale e una multinazionale, in cambio di investimenti, occupazione, benessere nazionale a breve. Che fare? La vera risposta comunitaria dovrà realizzarsi sul fronte della comunitarizzazione di investimenti e di politiche sociali europee, per sottrarre gli stati e i popoli membri da questi tipi di “ricatto”. Insomma e in una parola: quando l’economia (e le imprese) diventa sempre di più “sovra-nazionale” la politica economica (fiscale, sociale, monetaria) deve diventare “sovra-nazionale”; diversamente anche il “Mercato Unico” diventa “fuori luogo” e, alla lunga, si inaridisce. Si vedrà come evolverà il contenzioso interno alla Unione tra Commissione e Irlanda, emerge infatti, la “lacuna grave dell’ordinamento comunitario, in quanto la Commissione non agisce in forza della scorrettezza degli accordi fiscali fra Stati e imprese (le politiche fiscali non sono materia comunitaria), ma a seguito della violazione del principio della leale concorrenza fra imprese che ne consegue” (cfr. Massimo Riva, “La foresta delle tasse”, in ‘la Repubblica’ 6 settembre 2016).
(le buone notizie, per il “cantiere Europa”)
 
Intenzioni e proposte per la “Convergenza” e per una “ nuova Agenda della Integrazione” sono comunque, in questi mesi, pervenute all’attenzione della opinione europea e anche degli Stati membri.
 
Innanzitutto sul versante della Sicurezza comune; e in risposta ( e come nuove opportunità) alla “Brexit.
 
Ha iniziato l’Italia (i ministri degli esteri e della difesa), su “Le Monde” e su “la Repubblica – l’11 agosto 2016) con la proposta di una “Schengen della difesa”: la terminologia evoca un percorso a tappe verso la struttura europea di lotta al terrorismo e la comunitarizzazione di parti (via via crescenti) della Difesa (“non si tratterebbe di creare una ‘armata europea’ che raggruppa la totalità delle forze nazionali degli stati partecipanti, ma di costituire una ‘forza europea multinazionale’ con funzioni e un mandato stabiliti insieme dotata di una struttura di comando e di meccanismi decisionali e budgettari comuni”).
 
Ha fatto seguito un Documento dettagliato del Governo italiano, inviato a Bruxelles dopo l’evento di Ventotene; tema-obiettivo: “solo una dimensione comunitaria può garantire le risorse umane, scientifiche, organizzative ed economiche per gestire la portata delle sfide sul fronte della sicurezza”.
 
Ha fatto seguito, ancora – in una sede rappresentativa, il vertice informale dei ministri degli esteri della UE, 2-3 settembre a Bratislava e successivamente al “Consiglio informale dei ministri della Difesa” – da parte dell’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza, Federica Mogherini, la presentazione di una vera e propria “Strategia di cooperazione rafforzata” (basi giuridiche gli articoli 42, 44, 46 del TUE) e di una cooperazione strutturata permanente, con l’obiettivo di dare all’Unione una ‘autonomia strategica’ per far fronte alle sfide della sicurezza. Il tema dovrebbe essere anche sul tavolo del vertice dei capi di Stato del 16 settembre. Avanguardia sarebbero: Roma, Berlino, Parigi; ma è altrettanto interessata la Polonia.
 
Non solo Sicurezza! Sempre l’Italia (questa volta, il ministro Padoan), ha presentato una proposta di “Fondo comune europeo per l’indennità di disoccupazione”. Obiettivo: aiutare i Paesi membri a superare le fasi di crisi economica e di aumento della disoccupazione. Anche qui, con sano approccio gradualista, il metodo delle cooperazione rafforzata. Si tratta di un documento molto elaborato e dettagliato, con cifre, diagrammi ed indici precisi. La portata strategica di questa proposta è persino più mobilitante delle precedenti: tocca la vita quotidiana delle persone nelle dinamiche antiche e moderne del Lavoro;quindi, della perdita e/o della concretizzazione della cittadinanza europea.
 
‘Diario europeo’ auspica che anche i risultati del lavoro, in via di conclusione, del “High level group on own resources” (guidato dal già premier Mario Monti, con la collaborazione di eminenti colleghi, come il commissario Pierre Moscovici e Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione), il Gruppo tecnico per la predisposizione di un Bilancio europeo dotato di ‘risorse proprie’: una antica questione strategica (un’altra di quelle alle quali si opponeva strenuamente la Gran Bretagna!), la cui soluzione potrà aprire un percorso virtuoso verso politiche “proprie” e comunitarie (non intergovernative!), come ad esempio: fondo per la disoccupazione, gestione delle migrazioni e della sicurezza. Le conclusioni del “High level group” sono previste in Ottobre; ora il lavoro si sta concentrando sulle nuove fonti di finanziamento che dovranno sostanziare le “risorse proprie dell’Unione”: in questo ambito torna di attualità – già riproposta dal commissario Pierre Moscovici, in questi giorni – una unica tassazione comunitaria per le imprese multinazionali; e trovare consistenza anche la proposta – lanciata da diverse parti – di un “ministro europeo del Tesoro.
 
Bratislava, però, mantiene all’ordine del giorno – quasi con una priorità di ordine morale, oltre che politico-strategico – il dramma delle migrazioni. L’auspicio è che la presidenza di turno semestrale del Paese (Slovacchia) ospitante faccia onore alla sua funzione. Anche qui, l’Italia (mentre continua a battersi per il giusto, necessario, equo ed equilibrato ricollocamento dei rifugiati che arrivano in qualsiasi territorio-paese membro dell’Unione europea) ha avanzato una proposta: quella della comunitarizzazione dei “Rimpatri”. Non si tratta di una sottrazione di sovranità agli Stati nazionali, ma al contrario di una forma di solidarietà europea, essendo l’Unione un soggetto politico strategico più forte nel dialogo/confronto con gli Stati terzi ( con i quali impostare e trattare una ordinata azione di rimpatrio, combinata con la realizzazione delle azioni previste nel “migration compact” – programmi di aiuti europei ai popoli e governi dei Paesi in difficoltà e in ritardo di sviluppo).
 
(la integrazione differenziata)
 
La problematica di una “integrazione” europea più flessibile e tesa a ricomprendere la costruzione della Unità europea nel quadro una “partnership continentale” (cfr. Diario europeo del 16 febbraio, 4 marzo, 24 giugno), anche a fronte della uscita del Regno Unito dalla Unione europea, ha avuto in questi giorni ancora un ulteriore approfondimento analitico.
La proposta è stata presentata simultaneamente il 28 agosto, a Londra, Bruxelles, Berlino e Parigi: è frutto di un dialogo tra cinque esperti europei, tra cui Guntram Wolff, direttore del think tank bruxellese Bruegel (gli altri sono Jean Pisani-Ferry, commissario generale della France Stratégie e docente alla Hertie School of Governance; Norbert Rottgen, presidente della commissione Esteri del Bundestag; André Sapir, docente all’Université Libre de Bruxelles e ricercatore a Bruegel; Paul Tucker, membro del Systemic Risk Council e ricercatore ad Harvard).
 
Si tratterebbe di un duplice e convergente movimento politico-strategico: il primo, da parte degli Stati della Unione europea attualmente dotati della moneta unica per procedere verso una vera e propria “Unione politica”; il secondo, da parte dei Paesi attualmente membri della Unione che non ritengono di potersi riconoscere nel mandato scritto nel Preambolo dei Trattati (“Decisi a portare avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta”) e di altri Stati esterni (tra questi, in primis quelli già in partner della UE, partecipi dello “Spazio economico europeo-See” e altri, quali: Gran Bretagna, Turchia, Svizzera, Ucraina).
 
La filosofia di fondo di questa analisi è quella di: “Trasformare la Brexit da «problema» a «opportunità di rilancio» per l’Europa. Non tanto per l’Unione Europea, ma per l’intero Continente (…). La Partnership Continentale consisterà dunque in una integrazione economica per quanto riguarda merci, servizi, capitali e – in maniera ridotta e limitata – mobilità lavorativa. Per gli Stati collocati fuori dalla Unione politica è prevista la partecipazione in un nuovo sistema di processo decisionale intergovernativo. Oltre alla questione del mercato unico (e dei lavoratori) ci sono altre aree per le quali definire le forme dell’integrazione, ad esempio le politiche economiche esterne, in particolare il commercio e la regolamentazione finanziaria” (Marco Bresolin, La Stampa 29 agosto 2016).
 
Su questo studio, è intervenuto il presidente Prodi (con un articolo su “Corriere della sera” del 11 settembre, in partnership con Riccardo Franco Levi), esprimendo un plauso a questa iniziativa (già nel 2002, R. Prodi intervenendo alla sesta conferenza mondiale Ecsa – “L’Europa è più grande: una politica di vicinato come chiave di stabilità” – aveva auspicato un “anello di paesi amici”), ma anche sottolineando che : “Difficile condividere la sostanziale asimmetria a favore del regno Unito”; “altrettanto insoddisfacente è l’impianto inter-governativo”; “qualche perplessità desta la complessità del disegno della Partnership continentale (…) per raccogliere un rinnovato consenso attorno al progetto dell’ Europa unita”. Ma aggiunge: “Resta il nocciolo – questo sì pienamente condivisibile – della proposta: il progetto di un’Europa unita e forte, con attorno a sé una cerchia di Paesi, un ‘anello di amici’ per l’appunto, con i quali condividere una relazione speciale”.
 
(ripartire)
 
Si tratta, ovviamente, di “studi” e di “analisi”. Non sono, certamente progetti “politici”, ma sono certamente stimoli alla Politica e alle Istituzioni rappresentative di questa Unione e di questi Paesi (Stati e Popoli) membri, soggetti di una Storia che non può e non deve naufragare per ignavia o per cecità.
Perciò: sempre e costantemente ripartire, con il coraggio e l’intelligenza di cogliere l’urgenza del momento.
 
Con fastidio, alcuni Paesi (non citiamo la espressione inadeguata e ineducata del ministro Wolfgang Schauble, per il rispetto che non solo chi scrive, ma tutti gli europei devono ai tutti popoli di questa Unione!) hanno accolto la riunione – ad Atene, il nove settembre – dei capi di Stati e di Governo di Grecia, Francia, Italia, Portogallo, Malta, Cipro e un rappresentante del governo dimissionario della Spagna , sul futuro di questa Unione e sulle sfide e le attese dei loro popoli. Anche questa riunione si svolta in previsione del vertice di Bratislava, anche questi Paesi auspicano una ripartenza: un percorso comune, una meta condivisa. Hanno le stesse aspirazioni e “vogliono” coltivare la stessa speranza e la stessa fiducia, con le quali gli altri Paesi membri si incontrano, discutono, collaborano; e, ad esempio, la cancelliera Angela Merkel ha (utilmente) voluto incontrare bilateralmente ben 13 capi di governo dei Paesi membri del nord Europa. Diversi e uniti, come i loro Popoli. Le polemiche sono, quindi, del tutto fuori luogo e anche frutto di miopia politica e strategica.
 
L’Unione europea deve fornire la prova della sua necessità! (copyright di Pascal Lamy). Il peso specifico dell’economia europea, rispetto alla economia Mondo è passato dal 34,4% del 2004, al 23,8 del 2014.
 
Ai leader dei Paesi membri di questa Unione Europea, affidiamo una memoria e un monito, come stimolo ad un rinnovato impegno per reagire e ripartire: “Nel 1954, dopo il voto contro la Comunità europea di Difesa, nel parlamento francese, i leader e i partiti europeisti furono investiti da una ondata di scetticismo e pessimismo. Reagirono con una conferenza che si tenne a Messina nel giugno 1955 e gettò le basi per la creazione del Mercato Comune Europeo, siglato a Roma, in Campidoglio, nel marzo 1957” (cfr. Sergio Romano, “I tre rimedi urgenti contro la palude”, in ‘Corriere della sera’ 23 agosto 2016).



What now? L’Unione Europea a 27 Stati membri

Lunedì, 22 agosto, il presidente del Consiglio dei ministri italiano Matteo Renzi, ospiterà a Ventotene il presidente francese Francois Hollande e la cancelliera della Repubblica federale tedesca Angela Merkel. I temi, il luogo e il momento dell’incontro evidenziano con assoluta chiarezza la posta in gioco dell’ora delle decisioni per l’Europa unita.

L’attesa di molti cittadini e cittadine europei è che non sia un evento turistico e neppure, soltanto, un incontro di alto profilo storico-politico nell’Isola dell’Europa. Ci attendiamo che il cuore dell’incontro sia una riflessione strategica per e sull’Europa Unita (con dettagliati contenuti anche concreti) dopo il referendum britannico.

(Brexit, chi era costui?)

Nelle settimane trascorse, l’Europa – sì “l’Unione”, e non Francia, Germania, Italia, o altri Paesi membri – è stata scossa da attacchi terroristici di varia natura e via via si è sentita sempre più oppressa da una sorta di ‘ansia globale’. Ed è sembrato avere quasi dimenticato che il 23 Giugno 2016 la Gran Bretagna ha tenuto un referendum sulla sua permanenza nella Unione Europea. E che alla domanda: “ il Regno Unito deve rimanere come membro dell’ Unione Europea o deve lasciare la U.E.?” la risposta dei popoli del Paese membro – Regno Unito – è stata, globalmente, quella di “lasciare, uscire, ‘leave’”.

Nel frattempo, con una non prevista accelerazione (per la modesta ragione che i candidati o contendenti si sono via via ritirati dalle primarie di partito) il Regno Unito si è dato – il 13 luglio – un nuovo Governo, con la prima ministra Signora Theresa May (già ministra degli Interni del ‘governo Cameron’). Pur essendo stato un referendum soltanto consultivo, la premier May – nel pieno delle sue funzioni – ha rilasciato una dichiarazione chiara ed esplicita: “out is out”. E, fin qui, all’unisono con le Istituzioni europee. Poi, però, ha fatto un giro in alcune capitali (Germania, Francia, Italia, ecc.) nelle quali sembra aver chiesto “tempo”; ugualmente ha visitato la Scozia e l’Irlanda del Nord, dove ha registrato la volontà dei due Governi locali di un percorso (ancora non sufficientemente ben definito) verso la riapertura del capitolo della loro permanenza nel Regno Unito, insieme con la volontà (già ben espressa dai rispettivi popoli nei risultati del voto referendario) di restare nella Unione Europea.

Dal 23 giugno in poi, nel dibattito pubblico, la complessa problematica conseguente al risultato referendario ha trovato una puntuale trattazione relativamente alle conseguenze economiche, mentre permane una non adeguata – e persino deviante – trattazione (anche nel linguaggio) del percorso successivo alla volontà-legittimità (indiscussa) registrata dagli esiti referendari.
Un esempio. In occasione della visita – il 20 luglio – della neo-premier May alla cancelliera della Germania Angela Merkel, il ‘Corriere della sera’ titola: “ Brexit , Merkel concede più tempo a Londra” (21 luglio 2016); e il suo inviato scrive: “Quell’urgenza impellente che meno di un mese fa agitava l’Europa che, ferita e offesa, voleva punire la Gran Bretagna obbligandola ad avviare immediatamente le procedure d’uscita dalla UE (…)”.

“Punire”? “Ferita ed offesa”? “Urgenza impellente”? “Obbligandola”? C’è da restare stupiti, ed anche provare rabbia di fronte all’uso di simili vocaboli. E neppure sono accettabili i termini o le parole pronunciate dalla Cancelliera ( stante all’articolo), quali: “la linea dura della UE non serve”. Perché la Germania (sono autorizzato a ritenere che sia lo Stato membro che parla) avalla l’esistenza di una o più linee – la dura e la dolce – quando la “procedura” (è troppo burocratico?) o la “regola” è che “ogni stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione…”? Chi inventa altri modi per stare nella casa comune, ha forse altri non noti o nascosti obiettivi? Diario ritiene che questo metodo “politicistico”, e il linguaggio giornalistico connesso, fanno alla Integrazione Europea molto danno e, inoltre, nessun servizio utile fanno ai cittadini e alle cittadine europei.

(articolo 50 del Trattato per uscire; art. 49 per entrare)

Con molta enfasi e come se fosse una scoperta dell’ultima ora, all’indomani del voto (quindi il 24 giugno) comunicatori e addetti vari hanno tutti citato – a gran voce- l’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea. Il breve Trattato dell’Unione è composto di soli 55 articoli; ogni giornalista o comunicatore di eventi europei dovrebbe conoscerli a memoria. I lettori e le lettrici di “Diario” hanno già avuto occasione ( Diario del 12 gennaio 2016) di conoscere questo importante e significativo articolo, evocato – in quella occasione – per ricordare ad alcuni Paesi o Stati membri (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia) che la membership europea non è una prigione da cui non si può uscire; tanto meno una calamità piovutaci addosso “nostro malgrado”.
Di fronte ai prossimi strategici e cruciali mesi, Diario sente il bisogno di insistere su questi aspetti fondanti la adesione, libera e responsabile, all’ Unione Europea.

L’articolo 50 si presenta senza alcun tono minaccioso; dice: “Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione. Lo Stato membro che decide di recedere dall’Unione, notifica tale intenzione al Consiglio europeo…”. A seguito della “notifica” ufficiale, non inizia – immediatamente o automaticamente – il negoziato conseguente, finalizzato a regolare la separazione. Il Consiglio europeo – senza alcun coinvolgimento dello Stato membro che ha già deciso legittimamente di recedere – “formula orientamenti”, alla luce dei quali “l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione” (ex art. 50).

Sono, quindi, del tutto incomprensibili sia le accuse di “fretta”, sia le richieste di tempo, al fine di – come si apprende dalle varie dichiarazioni – “preparare bene il negoziato”. Forse che lo Stato –Regno Unito – (e il’ Paese’: i cittadini che hanno scelto con un esplicito voto di recedere)- che ha indetto un referendum, sviluppato una lunga campagna elettorale deve ancora riflettere se recedere o meno? Non è plausibile. Deve ancora chiarirsi le idee sulle conseguenze delle scelte sollecitate, dibattute e fatte? Ma, allora, sulla base di quali disegni strategici, il Governo britannico ha indetto un referendum e su quali progetti ha chiamato il suo popolo ad una scelta così fondamentale? Oppure pensa che possa “negoziare” modalità e contenuti prima della comunicazione? E su quali basi giuridiche, e in quali sedi extra-territoriali (visto che il Trattato non li prevede) bisognerebbe “preparare” il normale e conseguente negoziato di cui parla, invece esplicitamente, il Trattato? Nell’articolo 218 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), unica base giuridica – dopo l’artico 50 del TUE- il negoziato con un ex Paese membro è sotto il titolo ‘Accordi internazionali’ e il Paese/ Stato viene denominato “Paese terzo”; il “nome” che viene dato a chi è fuori della Unione Europea. Le parole pesano, come pietre: sono le basi di una costruzione europea, affidabile di fronte al mondo.
La realtà è che il Trattato della Unione Europea, limpidamente, prevede, con solennità istituzionale, la possibilità di uscire dall’Unione, perché concepisce se stessa come una Scelta, una Opportunità, una Libertà; e non come una prigione o una mera, altalenante consorteria di tipo commerciale.

La serietà di uno Stato e la dignità di un popolo – in questo caso il Regno Unito e i popoli britannici – avrebbero dovuto consigliare quel Governo o quel Parlamento ( opzione non in capo alle Istituzioni europee) a comunicare al Consiglio europeo, subito ( o un minuto dopo la conferma della regolarità e l’efficacia del referendum da parte dei rispettivo organo preposto) la notifica di recesso. E soltanto dopo, nel caso che lo avesse ritenuto necessario, procedere alle dimissioni del Governo o del suo primo minsitro (che aveva indetto il referendum, con l’invito esplicito – e politicamente impegnativo- a votare per rimanere nell’Unione).
E’ del tutto evidente che il Governo del Regno Unito ha sbagliato ogni mossa, e ha proceduto pasticciando e rincorrendo unicamente i propri interessi (o pulsioni) nazionalistici o addirittura di partito; mettendo a rischio non solo la stabilità della propria moneta, ma anche quella (l’euro) di 18 Stati membri (su 28 ) della Unione, ai quali, ora chiede ancora “tempo”.
Con l’articolo 50, dunque, questa Unione dimostra di essere una casa con le porte aperte. E non solo; c’è un altro articolo del Trattato, la cui lettura e memoria danno della Unità Europea una esauriente, indispensabile consapevolezza. Prima che i mitici comunicatori dei fatti e della vita di questa Unione Europea, lo scoprano – anche in questo caso come fosse la novità dell’ultima ora – Diario ritiene di grande interesse e importanza affiancare all’articolo 50, la lettura meditata dell’ articolo 49, appena precedente: insieme, infatti, delineano – seppure con la sobrietà e la freddezza tipiche di un testo giuridico- il carattere fondamentale della Integrazione europea.

Dice, l’articolo 49: “Ogni Stato europeo che rispetti i valori di cui all’articolo 2 e si impegni a promuoverli, può domandare di diventare membro dell’Unione. Il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali sono informati di tale domanda. Lo Stato richiedente trasmette la sua domanda al Consiglio, che si pronuncia all’unanimità, previa consultazione della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, che si pronuncia a maggioranza dei membri che lo compongono. Si tiene conto dei criteri di ammissibilità convenuti dal Consiglio europeo. Le condizioni per l’ammissione e gli adattamenti dei trattati su cui è fondata l’Unione, da essa determinati, formano oggetto di un accordo tra gli Stati membri e lo Stato richiedente. Tale accordo è sottoposto alla ratifica da tutti gli Stati contraenti conformemente alle loro rispettive norme costituzionali”.

‘Diario europeo’ ha voluto riportare integralmente l’intero articolo per le seguenti ragioni: diventare membro dell’Unione non è un atto burocratico; implica l’assunzione di “valori” (art. 2) non generici; assunzione che viene caratterizzata da due elementi espliciti: “rispetto” e “promozione”; tutte le Istituzioni europee sono coinvolte nel processo di adesione di un nuovo Stato membro; le Istituzioni nazionali di ciascuno Stato membro sono corresponsabili, e anche il popolo ( il cui Stato avanza la domanda di adesione) attraverso il Parlamento nazionale; interviene un ‘accordo’ esplicito tra lo Stato richiedente e gli altri Stati membri, i quali si pronunciano esplicitamente, uno per uno, attraverso la Istituzione nazionale che la sua Costituzione indica ( parlamento o governo).

Alla luce di questa “solennità” è lecito chiedersi: quanta consistenza hanno le litanie sulla scarsa o mancata partecipazione democratica nella costruzione europea e quanto spessore democratico hanno le grida e lo sdegno di quegli Stati membri che si urtano e si offendono quando le Istituzioni europee – in nome e per conto degli altri Stati e dei popoli (i rispettivi parlamenti) – attuano un monitoraggio dei processi legislativi e della qualità dello “stato di diritto” di uno Stato membro? E’ il caso in questi mesi della Polonia. E’, per altri versi, il caso della Ungheria; ma è, per altri versi ancora, il caso dell’Austria; e via navigando dentro il dibattito politico e anche istituzionale dei Paesi membri. Oppure, drammaticamente in queste ore, è anche il caso di un Paese-Stato “membro candidato” (ancora?), come la Turchia!
E che dire, poi, dei “Discorsi” e dei “Richiami” – variamente autorevoli, tutti utili, qualcuno non indispensabile – ai “valori”?
Leggiamo-ascoltiamo (e scopriamo), dunque, anche l’articolo 2 del Trattato, intimamente connesso all’art. 49 sopra citato; dice: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo. Dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

Non ci sono commenti da fare; sarebbe un’offesa alle intelligenze dei lettori e delle lettrici, che possono spaziare in ogni verso per misurare la distanza tra i comportamenti politici e istituzionali nazionali e questi “impegni” solennemente assunti, al momento della richiesta di adesione alla “Unione” (in toto, e non ad una delle sue componenti che maggiormente “conviene”; ad esempio: il “mercato unico”).

(Forma e natura del negoziato di uscita)

Mentre scriviamo questo ‘Diario’ ci arriva una buona notizia: la nomina a capo negoziatore per la Unione Europea, del negoziato Brexit di Michel Barnier. La reazione del mondo finanziario e politico inglese, dicono i ben informati, è stata gelida. Il sig. Barnier è stato commissario europeo per il “Mercato interno e i servizi”, l’architetto delle riforme finanziarie nell’Unione, dopo la crisi del 2008, un europeista convinto che conosce dettagliatamente tutte le norme e i tecnicismi che regolano il Mercato interno e i servizi finanziari e gli accordi esistenti tra i 28 Stati membri.

La decisione fa seguito ad una pericolosa e non dignitosa discussione (e anche divisione) interna alle Istituzioni della UE: tra Consiglio europeo e Commissione europea (muto il Paramento europeo). Il Consiglio europeo, infatti – espressione degli Stati membri e geloso delle prerogative degli Stati e della concezione intergovernativa della integrazione europea – precedendo la Commissione Europea e senza consultarsi con essa aveva già designato un proprio negoziatore nella persona di un diplomatico belga, Didier Seeuws. L’intervento della Francia e dell’Italia, ha consentito alla Commissione di rientrare in campo, con la mediazione di non impegnare direttamente la persona del suo presidente – Jean Claude Juncker – ma nominando un rappresentate di alto livello, non attualmente membro della Commissione. L’Unione ha , dunque, già compiuto – da parte sua – il primo passo, e nella direzione giusta: garantendo – sia alla controparte (Regno Unito) sia agli Stati membri – la massima competenza del negoziatore. Ora risulta urgente che lo Stato – Regno Unito, che sia il suo parlamento o il governo sta ad esso decidere – invii la notifica della richiesta di recesso. Poi tocca al Consiglio europeo dei 27 Stati membri fare il secondo passo: “formulare gli orientamenti” sui quali l’Unione negozierà; l’Unione, non gli Stati membri, singolarmente. Quale è l’oggetto del negoziato? Per quanto attiene ad eventuali fatti o elementi patrimoniali, il negoziato attiene – come è noto- alla separazione dei rispettivi “patrimoni”; ma per quanto attiene ad eventuali “interessi” che le due parti ritengono di vicendevole utilità perseguire nel futuro, il negoziato parte da zero; e alla luce della “unicità” dei mercati e dei servizi finanziari nell’Unione: il negoziatore è unico, l’Unione. “Gli orientamenti del Consiglio”, pertanto dovranno prima di tutto scegliere ed indicare il modello di partnership che meglio risponde agli interessi dei 27 Stati membri, in quanto Unione. La cosa migliore sarebbe – per ambedue le parti – avere come riferimento un modello consolidato e noto: potrebbe essere quello dello “Spazio economico europeo” (See), del quale altri Stati europei sono già partner. In queste settimane – a partire dal giorno dopo il referendum- si è molto favoleggiato del cosiddetto “modello Norvegia”, sia sulla stampa europea sia su quella britannica. E’ appena il caso di ricordare che il modello di relazione tra la Norvegia e l’Unione europea comprende da una parte il vantaggio per la Norvegia di godere di gran parte delle norme europee sul Mercato unico e dall’altra l’accettazione delle quattro fondamentali libertà fondamentali della UE: libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali. Immaginiamo che la libera circolazione dei servizi e dei capitali e dei servizi siano di speciale gradimento per il Regno Unito; ma non la libera circolazione delle persone: sulla quale è stata condotta buona parte (con rilevanti dosi di falsificazione della realtà) della campagna pro Brexit (a tale specifico proposito, è appena il caso di ricordare un po’ di storia: nel 2004, quando L’Unione aprì le porte ai polacchi – e quando avrebbe potuto valersi della clausola che consentiva di ritardare l’applicazione del principio, cosa che fece la Germania – il Regno Unito procedette subito all’applicazione del principio della libera circolazione delle persone e, quindi, all’accesso dei lavoratori polacchi nel Regno Unito, per flessibilizzare il suo mercato del lavoro e guadagnare in competitività). Ma se al principio della libera circolazione delle persone, il Regno Unito ha espresso ed esprime non condivisione non potrà mai godere del benefici del Mercato Unico europeo: su tale questione, infatti, la Unione Europea non può ‘transigere’, pena la perdita del cuore della sua identità. Come si può vedere il “negoziato” sarà aspro, non facile, non indolore e neppure breve.

Anche da questo punto di vista si conferma la necessità di una rapidissima notifica del recesso: i 27 Stati membri della Unione, infatti, devono potersi riunire nei propri organi istituzionali e decisionali, con i propri membri effettivi ed affrontare il proprio destino e quello strategico dei propri popoli, con la determinazione e la tempestività necessari.

(scenari economici)

L’incontro di Ventotene non potrà, dunque, non dedicare un “pensierino” a Brexit: non per recriminare (non sarebbe dignitoso né per i tre grandi protagonisti della integrazione europea, né per il luogo e la memoria dei protagonisti storici che lì, nella dura e buia prigionia, hanno formulato il primo pensiero per la Unità europea, né per il Regno unito e i suoi popoli – anche per quella parte di essi che ancora vorrebbero esserne parte: la maggioranza degli Scozzesi e degli Irlandesi).

Ripartire da Brexit, significa prima di tutto focalizzare l’accentuazione della crisi economica dell’Unione causata dallo choc Brexit. ”Negli uffici delle istituzioni finanziarie della City si stanno disegnando gli scenari economici del dopo Brexit. E il quadro complessivo che ne esce è di concreta preoccupazione”, informava da Londra il corrispondente del ‘Corriere della sera’, Fabio Cavalera, l’11 luglio scorso. E sottolineava: “ … ora che il voto è alle spalle, i conti bisogna farli sul serio e non sono numeri di fantasia o sulle proiezioni virtuali. Due analisti dell’ufficio studi della Barclays, Michael Gavin e Aiay Rajadhyaksha, certificano che la contrazione degli investimenti è cominciata e che alla fine del 2016 sarà pari all’1,6%; ancora maggiore nel 2017 con un meno 2,6; il tasso di disoccupazione che si sarebbe dovuto attestare sul 5%, sarà più alto di oltre un punto, al 6,1”. In casa Italia, le analisi dell’Upb, l’ufficio parlamentare di bilancio, l’autorità indipendente che per statuto verifica le previsioni del governo certifica a sua volta: “una crescita nel 2016 dell’1,2%, come ipotizzato dal governo nel Documento di economia e finanza, appare non raggiungibile. In buona parte si tratta dell’effetto Brexit; le stime di crescita riguardano anche l’anno prossimo, si prevede una ripresa meno dinamica”. Di fronte alle manovre dilatorie, gli analisti formulano questo interrogativo: “e se la Gran Bretagna per limitare i danni dell’uscita dalla UE avviasse una politica aggressiva dal punto di vista monetario? Insomma se avesse ragione il vecchio saggio Henry Kissinger che sul ‘ Wall Street Journal’ definisce la Brexit ‘ una classica dimostrazione della legge delle conseguenze a catena non volute’” (Eugenio Occorso, “Tasse a buon mercato, l’ultima tentazione in vista della Brexit”, in ‘la Repubblica –Affari & Finanza- 25 luglio 2016)? Brutalmente, torna a farsi vivo lo spettro della strategia di una Gran Bretagna fuori dalle pastoie (le regole comuni) unioniste, evocato da Farage durante la campagna elettorale: un grande paradiso fiscale dentro il continente Europa. Mentre a Londra, il sindaco Sadiq Aman Khan – persona responsabile e lungimirante, attualmente forse l’unico dirigente politico e istituzionale degno di questo nome, in Inghilterra- si affanna a ricordare che “London is open”. E la premier scozzese – Nicola Sturgeon – organizza (17 agosto) una discussione pubblica, coinvolgendo circa 450 cittadini dell’UE che vivono in Scozia, “per spiegare loro il forte impegno del governo scozzese a proteggere il legame del suo Paese con l’Europa, dopo il sì della Gran Bretagna alla Brexit”.

Ecco altre, pressanti, ragioni per accelerare la “Notifica” del recesso (la premier May, intanto fa belle camminate sulle Montagne svizzere!) e iniziare un serio negoziato. Non per fretta ma per serietà: compiere gli atti conseguenti alle proprie iniziative. Un referendum consultivo e non obbligatorio, con il “quesito” fondamentale che conosciamo (si potevano sottomettere alla consultazioni altri tipologie di quesiti, come la modesta e piccola Grecia insegna!) rappresenta molto di più di una “intenzione”( dice l’art. 50: “lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo”). I mercati delle monete e dei beni se sono resi conto con chiarezza e già presentano il conto agli Stati membri ed ai cittadini di questa Unione Europea (persino i Soci delle due “Borse” – di Londra e di Francoforte – dopo il via libera della “London Stock Exchange – hanno, in queste ore, proceduto alla fusione).

(more perfect Union)

Il 22 agosto, i tre massimi protagonisti di ‘questa’ Union Europea di 27 Stati membri, devono (devono!) sciogliere, di fronte alle opinioni pubbliche dei rispettivi popoli, il dilemma che pesa da sempre sulle ali di un areo che non riesce, appunto, a volare: “l’Europa unita è una mera associazione di stati per perseguire obiettivi di natura economica (comunità economica) oppure un’unione di stati per perseguire obiettivi di natura preminentemente politica (unione politica)?” (Sergio Fabbrini, “Ma chi negozia davvero con il Regno Unito?”, in: Il Sole-24 ore del 31 luglio 2016)

C’è, in effetti, di che essere spaventati della stanca e a volte furbastra reazione di tanti governi e cancellerie: dimenticano che sono proprio questi comportamenti e metodi politicistici alla base delle tendenze e delle concezioni populiste della democrazia. E non ci si venga a dire che il “tempo” serve per “sedimentare lo choc”, e che allo choc si risponde non con “visioni” ma con cose concrete (ho letto che in Germania, in questi giorni rispolverano un loro modo di dire: ”visionari dall’oculista”; sarebbe bene che prendano nota anche che in altri Paesi e culture, europei, si racconta di un malcapitato – chiamato erroneamente Pasquale dal suo aggressore – che prendeva sberle e ceffoni, ostentando noncuranza e dicendo: “e ch’è, sono forse Pasquale, io?).

Ora, è indubitabile che la integrazione europea sta prendendo molti colpi da qualche tempo: con una crescente intensità e da versanti differenziati, che, però, si cumulano; non vederli o non sentirli è manifestazione di miopia e sordità. Assistiamo, infatti, a reazioni diversificate, e poco comprensibili. Ad esempio: un giorno leggiamo che il ministro tedesco Schauble, nervoso e ipercritico verso la Commissione europea, minaccia una iniziativa da parte dei governi nazionali; un altro giorno lo stesso ministro (delle finanze) nega che l’Eurozona abbia bisogno di più integrazione, nello stesso tempo, però, rilancia la cosiddetta “Europa a due velocità”. Il ministro degli esteri della stessa Germania (Frank-Walter Steinmeier) dichiara (il 7 luglio) : “Ciò che ci possiamo aspettare da Londra è una road-map per avviare i negoziati per l’uscita e indicazioni su quanto si prefigurano; anche noi dobbiamo preparaci bene e il mio ministero ha già creato una taskforce”. Ma un altro giorno (20 luglio) apprendiamo che la cancelliera concede a Londra più tempo. Nel frattempo (il 9 luglio) il viceministro delle Finanze Jens Spahn – uomo di fiducia di Wolfgang Schauble e ascoltato membro della CDU (partito della cancelliera) – in una intervista, afferma: “L’idea che otto o dieci Paesi facciano un passo avanti sulla Difesa comune era già stata del generale De Gaulle, negli anni ’50. Noi vorremmo fare questo passo e costruire un esercito comune. Non è necessario che tutti partecipino subito”. C’è molta confusione sotto il cielo di Europa. E’ urgente dare un segnale di chiarezza e di ripartenza, non velleitaria e concreta.

“More perfect Union” è la formula che ha usato Obama nel discorso alla Convention democratica di Philadelphia. Mi piace prenderla in prestito: dà il senso del lavoro da fare, del lavoro fatto, di un approccio positivo, dell’urgenza non frettolosa, della visione necessaria e dell’urgenza dell’ora:
* Una strategia comune per la sicurezza. La domanda di Sicurezza non è una richiesta di guerre, non è un prurito malsano, non è di “destra”, non è “euro-scettica”, non è una misura settorialistica. I popoli europei hanno diritto (e bisogno) a un “Progetto europeo” della Sicurezza. Di che si tratta? E’ Difesa comune, ‘Intelligence’ comune, Frontiera esterna comune; una ‘lettura’ comune del mondo (quindi, attuazione del “compact migration”). Al suo interno, quasi con naturalezza, trova posto la comune accoglienza dei rifugiati (non per ‘buonismo’ ma per dovere verso il mondo) e una intelligente concezione del fenomeno migratorio (non per solidarietà, ma per ‘tornaconto’: vedi i tassi europei di invecchiamento e la conseguente crisi del welfare europeo). Nella conferenza stampa a Berlino, prima di ferragosto, la Cancelliera Merkel ha detto tante cose giuste sul terrorismo e altro, ma non ha evidenziato la Unione europea come luogo ed opportunità unici per dare sicurezza agli Stati membri: egemonia riluttante o distrazione politica? La recente (11 agosto 2016) proposta dei due ministri italiani – degli Esteri, Paolo Gentiloni e della Difesa, Roberta Pinotti – di una “Schengen della difesa” va nella giusta direzione ed è coerente con l’attuale Trattato; quindi immediatamente realizzabile: senza alcuna modifica agli articoli dei Trattati vigenti, basta la volontà politica di alcuni Stati membri.

• Eurozona. Esigenza non più procrastinabile di un Modello di leadership istituzionale dell’Unione Economica e Monetaria. La Banca europea (BCE), la chiede da tempo. Non lasciamola sola a governare una moneta comune.

• Il futuro come fatto culturale. Il “cuore” di Europa è spezzato tra due metà, due pulsioni; il suo “Pensiero” è diviso. La manifestazione più appariscente è quel “surplus di rabbia” che cova e, di tanto in tanto, esplode. Si può anche osservare – lecitamente e con fondamento – che persino gli Stati Uniti d’America è alle prese (e anche vittima) con questo fenomeno politico-antropologico. Vero, e allora? E’ tornata in campo e nelle vite delle persone e dei popoli la questione di “darsi un’anima”! Her Schauble, ha qualche idea in proposito?

• La potenza svogliata. Di tanto in tanto riemerge questa analisi/congettura della riluttanza della Germania e del tedeschi ad esercitare una positiva egemonia. Dalla felice intuizione di “Economist” che nel 2013 coniò la definizione di “egemone riluttante”, questa questione politica è diventata oggetto di dibattiti e analisi: dal “ Die Schuldfrage” di Karl Jaspers (1946 – “Il senso di colpa”); alla “ Germania troppo piccola per il mondo, troppo grande per l’Europa”; alla affermazione di Joschka Fischer: ”ci siamo svegliati (dopo la riunificazione) e improvvisamente ci siamo accorti di avere un ruolo da leader almeno in Europa, ma senza averne voglia”; alla Brexit, con la Germania da una parte e la Francia dall’altra senza più la Gran Bretagna, che faceva da scusa per non procedere nella integrazione. “Hic Rhodus, hic salta” – tradotto in inglese: “ prove what you can do, here and now”.

• Una penultima chance? ‘Diario’ ha letto di una ricerca realizzata dall’Ifop in 6 Paesi, per conto di “Institut Jean Jaurés” e di “Fondation européenne d’étude progressistes” (Feps). La ricerca registra che Brexit ha provocato in molti Paesi europei un nuovo senso di appartenenza: uno dei paradossi di questa strana storia. Cittadini che pensano sia meglio stare dentro l’UE:
Germania + 19%; Francia + 10; Belgio + 33; Italia + 4. Inoltre, nei Paesi tre fondatori della Unione: sono contro la organizzazione di referendum per un “leave”: 59 % in Germania, 54 %, in Francia e in Italia. Sono ‘messaggi in bottiglia’ in un mare tempestoso, raccogliemoli.

Il ritorno a Ventotene, come luogo e memoria (e l’Italia, come partner fondamentale) non sia, dunque, soltanto un appuntamento qualsiasi di mezzo agosto.




Scusate l’interruzione

Ci eravamo salutati con questo augurio: “Diario europeo” tornerà in ‘edicola’ agli inizi di Settembre. Augura ai lettori e alle lettrici un buon riposo e buone letture. La velocità degli accadimenti, la loro crudezza mi spingono a interrompere il “riposo” dei lettori e delle lettrici. Lo farò, scusandomi della interruzione solo parziale. Non interromperò, infatti, le loro “buone letture”, proponendovene una coerente con il tempo della prova che stiamo vivendo. E ricorrendo ad un nostro comune amico e maestro: il filosofo Roberto Esposito, che i lettori e le lettrici conoscono attraverso le tre puntate di ‘Diario’ su: “Una filosofia per l’Europa”.

Il 20 luglio, dunque, Roberto Esposito – docente di filosofia teoretica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa – ha scritto un articolo dal titolo: “Brexit, Nizza ed Ankara: la fatica di capire”, che ‘Diario europeo’ desidera aggiungere alle vostre buone letture estive.

Perché facciamo tanta fatica a capire quel che sta accadendo? Forse perché i fatti di queste settimane, dalla Brexit, alla Turchia fino al terrore di Nizza e a quello del treno in Germania, così diversi tra loro, nella portata, negli effetti e nelle cause, hanno un punto in comune: “i fatti” di queste settimane non sono più quelli di una volta. L’idea stessa di “fatto” o di avvenimento è tale (diventa tale) perché riusciamo ad inserirla in una cornice di pensiero più o meno consolidata.

Ora quella cornice che ha retto la seconda parte del Novecento non c’è più. L’Inghilterra che ha salvato l’Europa decide di lasciarla, possiamo assistere in Turchia a quello che è stato un golpe democratico contro una democrazia autoritaria, possiamo vedere dei terroristi che non hanno più un rapporto forte con un’ideologia, folle e totalitaria, ma la prendono a prestito, in leasing, per poche settimane, mettendo in gioco il loro corpo, la loro vita.

Ad essere più sotto attacco è quello che abbiamo chiamato a lungo “vecchio mondo” – Europa e Medio Oriente, da Lisbona ad Ankara, passando per Parigi e per Londra. Certo, in America il nuovo potrebbe presto annunciarsi con il profilo, non proprio rassicurante di Trump. Ma finora i sussulti che la scuotano sembrano venire da lontano, dalle viscere del secolo scorso. Dall’Alabama a Dallas, in una storia che ha visto alternarsi Ku-Klux-Klan e Black Panthers, segregazione razziale e Martin Luther King. Sono fantasmi di ritorno di un antico conflitto, apparentemente sopito, ma in realtà sempre strisciante sotto le ceneri dell’integrazione.

In Europa, invece, con la sua propaggine anatolica, il mutamento ha le sembianze di un vero cataclisma. A collassare, prima dei confini geopolitici, sono le categorie che hanno segnato in profondo l’intero orizzonte della modernità fino a ieri. Proviamo a mettere in fila gli eventi: Brexit, Nizza e Turchia sono tre onde d’urto che, a distanza di qualche giorno, vanno sconquassando il paesaggio storico e mentale che abbiamo a lungo percepito come nostro.

Brexit. E’ vero che il Regno Unito non è mai stato il Paese più europeista. E’ vero che la sua opzione atlantica è antica quanto l’opposizione simbolica tra terra e mare. E’ vero insomma che la Gran Bretagna non ha mai smesso di sentirsi Isola – fieramente autonoma dal Continente. Ma è anche vero che il vascello che negli anni Quaranta del secolo scorso ha salvato l’Europa dai suoi demoni interni rompe gli ormeggi, salpando verso destinazione ignota. Ignota per l’Europa, che perde un suo pezzo per molti versi insostituibile, insieme alla sua maggiore potenza militare. E ignota anche al suo equipaggio, che ancora guarda, smarrito, la terra da cui si stacca senza sapere a quale porto approdare.

Nizza. Certo, si è trattato dell’ultimo colpo di una deriva terroristica in atto da almeno quindici anni. Ma anche di un salto di qualità di una furia distruttiva che lascia senza parole. Non solo per la ferocia ottusa del terrorista, ma anche per la anomalia delle sua figura. Inassimilabile sia a quella, ormai scomparsa, del partigiano, sia a quella del soldato della fede. Diversa dall’una e dall’altra, la sua sagoma si perde nell’insensatezza assoluta della morte per la morte. Se si pensa che l’attentatore ha fatto un numero di vittime pari a quelle prodotte dal gruppo di fuoco organizzato al Bataclan con un camion noleggiato per poche centinaia di euro, lo scarto appare netto. L’escalation nichilista senza paragoni. Tale da rendere ancora più spettrale il panorama che abbiamo di fronte e più indistinto il nemico da combattere.

Infine la Turchia. Nel golpe dell’altra notte – vero o falso che sia: le due cose nella società dei nuovi media si accostano sempre di più – va in frantumi una categoria alla quale, almeno in Occidente, eravamo particolarmente affezionati –quella di democrazia liberale. Dobbiamo abituarci a pensare che questi due termini non vanno necessariamente insieme. Che può esistere, a est del Bosforo, una democrazia illiberale e anzi decisamente autoritaria. Non troppo diversa, del resto da quella russa con cui da tempo è in concorrenza nella stessa area. Dobbiamo constatare che una tale democrazia può inglobare, funzionalizzandolo al potere del suo capo, perfino un putsch militare. Il quale anche, del resto, si è richiamato alla democrazia. Come democratici sono presentati dai seguaci di Erdogan i mezzi repressivi impiegati in queste ore alla luce del sole e nel buio dei sotterranei.

Ce n’è abbastanza per dire che un intero universo concettuale sta andando in pezzi. Nessuno dei parametri validi fino al secondo Novecento funziona più nella globalizzazione e nella politica della vita e della morte. Dove i corpi umani sono usati come bombe esplosive e il web appare l’unico spazio praticabile del confronto pubblico. Tutto ciò non può non allarmare. Ma, se vogliamo rispondere efficacemente alla sfida in atto, dobbiamo attrezzarci a modificare rapidamente il modo di rapportarci al nostro tempo – di affrontare le sue minacce e di adoperare le sue risorse.

Mentre scrivo, riportando fedelmente l’analisi e lo sforzo intellettivo del filosofo, impegnato a dare un senso a questo nostro tempo, “Diario europeo” apprende ancora l’ultima ma non ultima notizia di attacco terrorista (?), questa volta, nel cuore della Germania. Monaco di Baviera, attacco in un Centro commerciale; dieci morti e feriti gravi, l’attentatore (?) – un diciottenne tedesco di origine iraniana -si suicida.

L’epidemia da “ansia globale” continua. Mi sovviene la confessione di qualche giorno fa di Beppe Severgnini: “Certi dibattiti televisivi sembrano una riunione di naufraghi sulla spiaggia dopo la tempesta: solo il trauma subìto giustifica la pochezza della discussione. Noi giornalisti sapremo trovare un ruolo?” Potrà apparire una banalità, ma dal quadro emerge, con una forza e una evidenza mai così limpide, la necessità dell’Europa, coesa, unita, attrezzata, forte, affidabile, rassicurante, reattiva. Il ripiegamento su se stessi degli Stati nazionali è la nota, ben nota e sperimentata, cecità dei sonnambuli.

  • L’articolo di Roberto Esposito è stato pubblicato in “la Repubblica del 20 luglio 2016
  • La citazione di Beppe Severgnini è tratta da: “Il torrente dei fatti in diretta mondiale ci prende e trascina tutti. Dove porta?” (in ‘Corriere della sera’ del 17 luglio 2016).
  • L’evocazione dell’epidemia da “ansia globale” è tratta da: “L’avvento dell’ansia globale” di Ugo Tramballi, in ‘ Il sole 24 ore’ del 17 luglio 2016.



“Completare la Unione economica e monetaria” (II): il Tempo si è fatto breve!

…dove eravamo rimasti? Avevamo compiuto un’analisi sul percorso di completamento della Unione economica e monetaria – quella configurazione politica, economica e strategica che tiene uniti i Paesi membri della U.E. che hanno liberamente adottato la moneta unica; e – di fronte alla prospettiva di una tempistica lenta che rinvia ad una ipotetica “fase 2” e ad un futuro “Libro bianco” calendarizzato per la fine del 2017 – Diario europeo si era chiesto: dobbiamo attendere uno ‘choc’ per convincere i Paesi della ‘ zona euro’ a fare quello che finora non hanno fatto? Lo ‘choc’ è arrivato.
(Da Londra, ‘Diario europeo’, il 24 giugno scorso, ha fatto una prima valutazione della situazione. Tornerà sulle conseguenze, anche giuridiche e istituzionali, del referendum britannico, agli inizi di Settembre, quando il governo U.K. si sarà ricostituito e nel pieno delle sue funzioni – con ritardo grave e inaccettabile, stante il Trattato vigente e sottoscritto anche dal Regno Unito – si assumerà fino in fondo la responsabilità politica, istituzionale e giuridica di scelte – legittime, benintesi e, persino utili se saranno, alla fine, servite a fare chiarezza tra i popoli britannici e tra essi e la Unione europea- che hanno, fra l’altro, prodotto e svelato la débacle di un’ intera classe politica del Regno Unito stesso).
Lo choc, dunque, c’è stato, ma non ci sono state, subito, le risposte adeguate da parte della Unione Europea (il Consiglio europeo successivo al “Brexit” è stato particolarmente afono); neppure sono apparse chiare e nette le consapevolezze sulla situazione da parte di tutti e di ciascuno degli Stati membri. Faccio soltanto due esempi di ‘notizie’ europee: il Paese membro Ungheria, ha annunciato la data di un suo referendum per il 2 ottobre, la domanda alla quale i cittadini saranno chiamati a rispondere, questa volta, è: “Volete che l’Unione europea sia autorizzata a decidere l’insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi in Ungheria senza il consenso del Parlamento”? Mi limito ad osservare che l’Ungheria – quindi anche il suo Parlamento – è membro dell’area Schengen. Altra notizia: le acque agitate della finanza- dopo il fatidico referendum britannico- non sono una esclusiva del Sud Europa e delle sue banche. In Germania i credit default swap a cinque anni – una sorta di assicurazione contro il default- su Deutsche Bank sono saliti dai 184 punti base in data 23 giugno, ai 250 odierni (Unicredit, per dire, ha subito un rialzo da 180 a 226)! In Gran Bretagna, d’altra parte, si sta profilando una fuga dal settore immobiliare, svelando (forse) una (finora nascosta) bolla immobiliare nella mitica Britannia, le cui conseguenze sono tutte da capire. Non solo Mediterraneo, quindi e non solo Eurozona!! Ma torniamo alle sfide e alle responsabilità proprie della Unione europea e specificamente dei membri che compongono la UEM. Il compito di tutti – e senza “primi della classe”, dispensati dai ‘compiti a casa’- è volere le conseguenze di ciò che si è voluto.

Il momento è questo! Non c’è da attendere nessun altro giorno. La risposta deve venire dai 18 Stati che hanno adottato l’Euro. Ma – tra essi – il cuore della responsabilità storica sta soprattutto in alcuni: Germania, Francia, Italia, Spagna. In questi giorni (lunedì 4 luglio 2016), Wolfgang Schauble, potente e avveduto super ministro tedesco, ha rilasciato una lunga intervista al “Corriere della sera” (4 luglio 2016) piuttosto inquietante: appariva nervoso (e a ragione) ma non si capiva quali “decisioni” la Germania è pronta ad assumere per arginare la slavina della disintegrazione dell’Unione e della Eurozona. Certamente, ‘Unione digitale’ e ‘ Unione energetica’, sono due delle, ancora troppo numerose, ‘Politiche comuni’ di cui l’Unione non è ancora dotata. Ma, il ministro Schauble nulla ha detto delle tappe di completamento della Unione economica e monetaria da definire per evitare nuove crisi alla moneta unica e i conseguenti ulteriori sconquassi ai bilanci pubblici di alcuni di questi Paesi. Mentre il pensiero del super ministro va – lodevolmente – alla Unione energetica, su cui le responsabilità della Germania sono prevalenti, considerate le relazioni speciali con la Russia, il completamento della Unione bancaria (la garanzia europea comune dei depositi sotto i centomila), tanto per citare una tappa, tarda ad essere completata per la opposizione del super ministro. Non mancano, peraltro, suggerimenti ed analisi puntuali da parte di intellettuali assolutamente esperti (certamente non meno di Herr Wolfgang); ha dichiarato in questi giorni Lucrezia Reichlin: “C’è sempre meno appetito politico di più Europa e in molti paesi si alzano muri. Eppure anche con le istituzioni che abbiamo si può fare una riforma ‘minima’ che renda la Unione più robusta dal punto di vista economico” (la Repubblica 9 maggio 2016). La professoressa della ‘ London Business School’, insieme ad altri studiosi di varie tendenze, ha elaborato precise proposte per attaccare la madre di tutte le instabilità economiche e finanziarie: i Debiti sovrani pubblici. Dice: “ Instaurare un meccanismo che renda possibile la ristrutturazione del debito pubblico in Paesi non solvibili. Quando un Paese diventa a rischio si adotta una serie di misure preventive, ma oltre un certo limite scatta la ristrutturazione secondo regole certe e conosciute ex-ante. Per evitare attacchi speculativi e prima di applicare questa riforma si deve negoziare il patto per abbattere una parte del debito così da far tornare tutti ai livelli tra il 90-95%. Andrebbe, quindi, creato un Fondo di stabilità che compri una parte del debito di ogni stato e finanzi gli acquisti e i costi per gli interessi con titoli di nuova natura garantiti dalle entrate fiscali future dei Paesi. (…) Non sono eurobond perché le risorse a garanzia sono nazionali e non c’è mutualizzazione del debito.”

Mentre leggevo, pensavo: immagina (“Imagine…” suona in lingua inglese!) l’effetto che farebbe, questa o altre proposte e decisioni – la cui realizzazione benintesi occuperebbe comunque anni a venire – sulla situazione del Brexit e dei tanti, troppi impulsi euroscettici dell’attuale Unione. E, anche, di fronte al Mondo! Chi sarà a prendere sulle spalle questa sfida? Chi sarà il nuovo (europeo, questa volta) ‘Alexander Hamilton’? ( Ministro del Tesoro americano che prese in mano i destini incerti degli Stati americani e indirizzò, definitivamente, nella Storia, gli “Stati Uniti d’America”. Le tappe della costruzione degli Stati Uniti hanno visto in primis la costituzione di un debito comune e solo dopo aver ottenuto un debito comune, fu istituita una moneta comune e fu fatta la proposta dallo stesso Hamilton di una banca centrale; che fu però istituita solo più di cento anni dopo, nel 1913! Nella Europa unita si è fatto il percorso inverso: ma le componenti sono e devono essere le stesse; altrimenti la casa non regge!).

Il momento è questo! “L’esigenza fondamentale è di restituire chiarezza e fiducia all’assetto istituzionale dell’area euro, dal momento che sappiamo che quello attuale è incompleto”, così Mario Draghi intervenendo il 9 Giugno all’appuntamento annuale del ‘Brussels Economic Forum’, organizzato ogni anno a Bruxelles dalla direzione generale ‘Economia e finanza’ della Commissione europea. Draghi, in quella occasione – e non è certamente la prima, ma una delle molteplici nella quali il presidente della Banca Centrale Europea invia moniti e suggerimenti alle Istituzioni europee e agli Stati membri –si è soffermato su: strumenti di bilancio europei per la spesa in programmi comuni, fondi dell’area euro di assicurazione dal rischio di una crisi in questo o quel Paese, istituzioni dell’Unione monetaria, dotate di poteri reali.

Il Comitato Economico e Sociale – relatori: l’italiano Carmelo Cedrone e l’olandese Van Iersel – già nel maggio 2015, ha elaborato un dettagliato e accurato ‘ Parere’ (“Completare l’UEM: il pilastro politico”), distinguendo il percorso per tappe successive (si veda, per una lettura completa www.eesc.europa.eu). “Parallelamente alla convergenza economica – affermano i due relatori – vi è bisogno di legittimità democratica, di un quadro politico solido e di un senso condiviso di un destino comune. A tal fine, misure concrete possono essere intraprese già nel quadro del Trattato attuale e delle altre norme vigenti; a medio-lungo termine, una revisione del Trattato dovrebbe riportare le disposizioni in linea con i requisiti indispensabili di una vera Unione economica e politica. Alla fine del percorso, dovrà risultare chiaro ed evidente che la moneta unica ha un “sovrano”. Scriveva – con una buona dose di preveggenza – la professoressa Lucrezia Reichlin: “Nonostante le tensioni politiche siano in aumento, un’opportunità c’è ed è proprio data dalla prospettiva dell’uscita del Regno Unito dall’Unione o comunque dall’allentamento del suo rapporto con essa. Per cogliere questa opportunità, è essenziale che si rompa l’ambiguità e si chiarisca se l’obiettivo sia una maggiore centralizzazione dei processi decisionali dell’Unione o invece il consolidamento di un sistema decentralizzato a livello nazionale” (‘Le scelte giuste sull’Europa’, Corriere della sera 25 febbraio 2016). Sempre prima dello svolgimento referendario britannico, ministro dell’economia italiano ed europeo, Pier Carlo Padoan (già direttore esecutivo del FMI, poi vice segretario generale e capo economista dell’OCSE), ha dichiarato nel corso del Festival dell’economia di Trento: “Tutti ci auguriamo che la Brexit non ci sia, ma nel caso contrario la BCE sarà in prima fila per scongiurare le tensioni sui mercati e l’Europa farà un forte annuncio di integrazione”. Ben detto, ma mentre l’azione della BCE si è puntualmente manifestata, di “annunci di integrazione” non ne abbiamo visto: né forti né deboli. E della volontà e anche perspicacia di Pier Carlo Padoan non abbiamo dubbi; quindi è nelle altre capitali che bisogna cercare e scovare le non volontà. Insomma, un “annuncio” di integrazione per l’area euro potrebbe – ad esempio – essere che i 5 presidenti delle cinque Istituzioni europee che hanno redatto il Rapporto: “Completare l’Unione economico e monetaria”, nel Giugno 2015, decidano di integrare il loro Rapporto, con un “Allegato strategico”, anticipando le fasi e le scansioni temporali precedentemente indicate! Perché? Perché, il tempo si è fatto breve!

L’accelerazione delle tappe di completamento della Unione economica e monetaria riguarda i Paesi membri che hanno sulle spalle l’opportunità/vincolo della moneta unica.
La manifestazione della loro volontà di intensificare la “loro unione” non dovrà essere percepita come una sfida ai colleghi Paesi membri, ma come un grande atto di fiducia nella comune costruzione unitaria. Ed anche un incoraggiamento a cercare su altri campi, altre sfide e altri terreni comuni nei quali portare avanti la “Comune Integrazione differenziata”.

Qualche giorno prima del referendum britannico, lo psicanalista Massimo Recalcati, analizzava e commentava, così, il mito della “Torre di Babele”: “Quale è il peccato più grande commesso dai babelici? E’ quello di voler realizzare la propria impresa escludendo la possibilità di lingue differenti. Essi, infatti, si radunano attorno a un principio forte di identità: ‘un solo popolo’ e ‘una sola lingua’. Gli uomini della Torre vogliono assaltare il cielo sfidando Dio non solo perché esibiscono la loro ambizione in una spinta ascendente che vorrebbe escludere l’esperienza del limite, ma perché in questo slancio fallico-narcisistico essi vogliono farsi un nome da se stessi” (“La Torre di Babele, simbolo eterno dell’antipolitica”, in ‘ la Repubblica, 12 Giugno 2016).
Ma così non è per la costruzione europea, della quale la realtà della storia fatta insieme fino ad ora e il sogno della futura costituzione comune suonano così: “Noi, Popoli d’Europa, diversi e uniti….”.

PS.
“Diario europeo”: tornerà in ‘edicola’ agli inizi di Settembre. Augura ai lettori e alle lettrici un buon riposo e buone letture.




Londra, 23 giugno 2016, remain or leave?

Scrivo queste note da Forest Hill (Londra).

Giovedì 23 giugno, alla domanda: “Il Regno Unito deve rimanere come membro dell’Unione Europea o deve lasciare l’U.E.?”, i cittadini e le cittadine britannici hanno risposto: Leave-Lasciare.

Non è servito a nulla l'”Accordo speciale” siglato il 16 febbraio 2016 per dare al Regno Unito uno statuto particolare di membro dell’Unione. Diario europeo, il 16 febbraio 2016, all’indomani di quello che va ancora considerato l’ultimo atto di generosità e di responsabilità dei 27 Paesi membri dell’U.E. per dare alla Gran Bretagna una possibilità di sentirsi ancora membro effettivo e convinto della Unione – faceva due considerazioni dalle quali vogliamo ripartire.

La prima. Il primo ministro David Cameron, scrivevamo

“non ha investito nel delineare e approfondire una forte politica europea del suo Paese, evidenziando e sottolineando, ad esempio, i vantaggi per il Regno Unito della partecipazione al vasto Mercato unico europeo. Non ha neppure provato ad aprire un confronto duro e serrato nel suo stesso partito”.

Le conseguenze di questa errata impostazione politica le abbiamo potuto verificare durante una lunga campagna referendaria, nella quale sono emerse gravi segnali di una situazione sociale, etica e valoriale che devono preoccupare tutti i cittadini e le cittadine britannici – qualsiasi sia stata la scelta fatta da ciascuno nelle urne referendarie.
Durante le ore terribili successive all’assassinio della deputata Jo Cox, tutti gli europei hanno dovuto constatare

“il tragico fallimento dell’establishment britannico, e naturalmente c’è la responsabilità di Cameron: non aveva capito quanto alta fosse l’intossicazione portata dal veleno anti europeo nel Paese, e nello stesso partito”

(così si esprimeva sul Corriere della Sera, il 17 giugno 2016, Graham Watson, britannico, già presidente dell’Alleanza dei liberali e democratici per l’Europa (Alde) al Parlamento europeo nel 2011-2014).

Alla memoria della splendida Jo Cox, assassinata mentre svolgeva la sua doverosa azione democratica tra la sua gente, vogliamo dedicare le parole dal suo conterraneo John Donne (Londra 1572-1631), ancora scritte nella memoria di tutti i tempi, aggiungendovi una connotazione di genere per onorare la bellezza della pur breve vita di Jo:

“Nessun-a uomo-donna è un’isola,/ completa in se stessa;/ ogni uomo-donna è un pezzo del continente,/ una parte del tutto./ Se anche solo una zolla/ venisse lavata via dal mare,/ l’Europa ne sarebbe diminuita,/ come se le mancasse un promontorio,/ come se venisse a mancare/ una dimora di amici tuoi,/ o la tua stessa casa”.

In effetti una “zolla” della terra britannica è stata “lavata” da una mano assassina; Europa è “stata diminuita” di una componente della sua storia e della sua vitalità. Se nessun britannico e nessun europeo lo dimenticherà, allora la domanda fatidica: “Per chi suona la campana?” potrà avere la risposta sempre necessaria, impegnativa e inequivocabile : “Essa suona per te”. E sarà la risposta veramente strategica per tutte le generazioni di europei. La campana suona per te, Britannia. La campana suona per te, Europa.

Jo Cox si era laureata a Cambridge, dove insegnava ed insegna lo storico australiano, Christopher Munro Clark, il quale nel 2013 ha pubblicato una monumentale ricerca storica sulla prima guerra mondiale, dal titolo: “I sonnambuli. Come l’Europa è andata alla guerra nel 1914” (pubblicata in Italia dall’editore Laterza).

“Siamo ancora in tempo per evitare una nuova edizione aggiornata a questo secolo. A meno di continuare a far finta di nulla, mentre il campo della politica ingiallisce e nelle praterie dell’antipolitica crepitano le fiamme”

(Lucio Caracciolo, “L’Europa della paura e i politici sonnambuli”, in: la Repubblica 17 giugno 2016).

La seconda considerazione di Diario (16 febbraio 2016) diceva:

“due debolezze sono a confronto, una Gran Bretagna alle prese con i suoi specifici conflitti ideologico-culturali e sociali, che scarica il tutto su una Unione Europea perennemente a metà del guado di un processo di integrazione mai compiuto; sul cui percorso di completamento annaspa e non riesce a trovare una strategia comune e condivisa. Si chiede Etienne Davignon: “ La domanda è: dovremmo ripensare a un nuovo giuramento? Io credo che sia arrivato il momento di farlo”.

Sì, è giunto il momento di nuovamente compromettersi con l’unico futuro possibile per il continente europeo. La sua Unità. Ma, quale? Come? Con chi?

Mentre attendevo l’esito del Referendum (anche per attenuare un poco l’ansia dell’attesa, mentre l’altalena dei risultati arrivavano dalle numerose circoscrizioni britanniche, con lenta ma, alla fine, con inesorabile determinazione ) mi sono “distratto” con la lettura dell’ultimo volume di Andrea Camilleri (“L’altro capo del filo”, maggio 2016), in compagnia del commissario Montalbano e mi sono imbattuto in questa inattesa e bella pagina:

“…il vrazzo di molo indove lui s’attrovava erano stati divisi in tante sezioni tutte transennate. Taliati da lontano, parivano ‘na specie di labirinto. Gli vinni logico pinsare che erano meglio ‘sti transenne mobili chiuttosto che mura e filo spinato come stavano pinsanno di fari tanti paesi europei”. Poi, in compagnia della sua solitudine, diresse la sua parola al vicino: “Chi pensi tu dell’Europa? spiò al grancio che dallo scoglio allato lo stava a taliare. Il grancio non gli arrispunnì. “Prifirisci non compromittiriti? Allura mi compromitto io. Io penso che dopo il granni sogno di ‘st’Europa unita, avemo fatto tutto il possibili e l’impossibili per distruggerinni le fondamenta stisse. Avemo mannato a catafottirisi la storia, la politica, l’economia ‘ncomuni. L’unica cosa che forsi restava ‘ntatta era l’idea di paci. Pirchì doppo avirinni ammazzati per secoli l’uni con l’autri non nni potivamo cchiù. Ma ora ce lo semu scordati, epperciò stamo attrovanno la bella scusa di ‘sti migranti per rimittiri vecchi e novi confini coi fili spinati. Dicino che tra ‘sti migranti s’ammucciano i terroristi ‘nveci di diri che ‘sti povirazzi scappano dai terroristi’. Il grancio che non voliva esprimiri la so pinioni prifirì sciddricari nell’acqua e scompariri” (p. 85).

Improvvisamente, questa lettura mi è parsa una sorta di parabola di questa Europa incerta, indefinita, contraddittoria. E l’urgenza di una assunzione di responsabilità piena, definitiva, da parte di individui, popoli e Stati mi è parsa essere la risposta necessaria alla ‘campana che suona’.
I cittadini e le cittadine della Gran Bretagna si sono, dunque, espressi. I paesi membri della Unione sono ora 27. Il Regno Unito è un Paese “terzo”. (Se le diverse componenti dei “popoli britannici” – ad esempio la Scozia, ma anche la Irlanda del Nord – non condivideranno questo approdo, dovranno trovare il modo di dirlo. Ci vorrà del tempo. Molto tempo. Mentre non c’è più tempo per tergiversare sulle conseguenze del Referendum).

“Out is out”. Ventisette Paesi membri della Unione conoscono bene i capisaldi dei Trattati: nelle prossime ore (non mesi e neppure settimane di stanche discussioni o inattuali negoziati) il Governo della Gran Bretagna dovrà formalizzare al Consiglio Europeo (dove tutti i 27 Paesi membri sono presenti) la loro richiesta di recesso. “Tertium non datur”.

Le attese dei popoli europei – convinti membri di questa Unione – e il compito dei Governi degli Stati membri di questa Unione richiedono una piena e consapevole assunzione di responsabilità nel delineare il destino della integrazione europea.
Subito, a partire da queste ore, possiamo e dobbiamo, dunque, riprendere il cammino della integrazione, approfondendo l’unico percorso utile per tutti i Paesi e per tutti i popoli europei: quello di una “integrazione differenziata ed univoca”, nel quadro comune di una Europa unita, voluta e tenacemente promossa da tutti i membri della Unione.
Ripensare a “un nuovo giuramento” ( a cui ci invitava Etienne Davignon, uno dei padri della costruzione europea) non significa inerpicarsi per sentieri di sogno indeterminato.

Utilizzando l’attuale “Trattato sull’ Unione europea”, da una parte, si tratta di proseguire il percorso della integrazione dei Paesi che non hanno adottato la moneta unica, intensificando la integrazione delle politiche comuni necessarie ed adeguate alla complessità dell’essere liberi e forti nella vastità e complessità del mondo globale ed interconnesso. Dal mercato unico, al digitale, all’innovazione tecnologica, ad una nuova fase di industrializzazione, alla comune sicurezza dei nostri popoli.

La consapevolezza che deve animare questa importante componente della Unione è che – anche se al di fuori della zona euro e della integrazione politica – il mero “mercato unico”, non può bastare a dare ai propri popoli una certezza di stabilità nel mondo globale. Un soloesempio. In tema di lotta al crimine organizzato, la strada più efficace è rappresentata da accordi multilaterali e non bilaterali. Si pensi alla minaccia del terrorismo. Si pensi ai crimini economici. Si pensi al traffico degli esseri umani. Tutte queste attività criminose passano attraverso infrastrutture illegali che hanno diramazioni in ogni singolo paese. E’ possibile combattere da soli? Occorrono infrastrutture di “intelligence” per condividere informazioni, con paesi amici, dunque con l’Europa unita. Occorre che i criminali siano inseguiti, arrestati e processati oltre le singole giurisdizioni di competenza. Dunque abbiamo bisogno di una stabile, fiducia e di istituzioni comuni, europei. La conclusione è che il solo “mercato comune delle merci” non basterà ai Paesi che pure scelgono un modello di integrazione non-politica.

Nello stesso tempo, i Paesi che hanno adottato la moneta unica – senza subire sospetti e neppure tentativi di invasioni di campo – devono poter procedere ancora più speditamente verso il completamento della Unione economica e monetaria e la costruzione di una Unione Politica. Necessaria , indispensabile per sostenere l’impegno di una moneta unica, di fronte a mercati mondiali: delle merci, delle monete e delle istituzioni globali connesse.
L’impatto positivo di questa più intensa integrazione (“cooperazione rafforzata”, dice l’attuale Trattato) dei Paesi “euro” si estenderà certamente anche verso i Paesi, non Euro, membri della stessa, unica Unione europea. Ecco alcuni esempi di una “integrazione differenziata” dentro una condivisa scelta di Unione Europea, con le sue Istituzioni, ancora meglio e di più, democratiche di quelle vigenti nel modello di governance attuale, tutta da ripensare.

Molte, e altre, fasi dovrà affrontare questo percorso di Unità Europea.

“Il grande errore della mia generazione – ha dichiarato Bernard-Hery Lévy, in un recente dibattito a più voci – è stato credere che l’Europa fosse fatta, che fosse un lavoro finito, che fosse iscritta nel senso della Storia e che qualunque cosa fosse accaduta, sarebbe rimasta e andata avanti. Non è così”

(cfr. “Il Corriere della sera, 20 giugno 2016).

Appartengo a quella generazione; quell’errore mi appartiene. Imparo giorno per giorno, perciò, la lezione, affinché questa Europa, diversificata e unita, possa e debba incontrare e fare la Storia. E’ l’unico modo per vivere il presente non da “sonnambuli”




“L’Unione economica e monetaria” (I)

Il Preambolo del Trattato sull’Unione europea, con il suo tono (apparentemente) solenne e rassicurante (che i lettori e le lettrici di Diario hanno imparato ormai a riconoscere e interpretare) afferma: “Decisi a conseguire il rafforzamento e la convergenza delle proprie economie e ad istituire un’Unione economica e monetaria che comporti, in conformità delle disposizioni del presente Trattato e del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, una moneta unica e stabile”.

(Brexit alle porte?)

I lettori e le lettrici di “Diario” , forse si chiederanno e chiederanno anche a chi scrive: “ma con la possibile Brexit alle porte, volgiamo addentraci su un tema del genere”?.

Diario – nella sua ‘finestra’ del 16 Febbraio 2016 “Europa e Gran Bretagna”- ha analizzato dettagliatamente l’Accordo tra G.B. e Unione Europea finalizzato a concedere alla stessa una sorta di Statuto Speciale di membership: una non-soluzione, per consentire all’attuale Governo inglese di far fronte alla tempesta referendaria. Una “non-soluzione”, appunto, che tuttavia poteva (e può) anche configurare – per la prima volta in questi termini pesanti ed espliciti – un grado specifico di ‘integrazione differenziata’ (così precisamente scrivevamo in Diario) e nello stesso tempo, e dare anche una spinta per accelerare la stagione di una profonda riconsiderazione del processo di Unità europea che tenga insieme i due Poli. Successivamente – nel precedente Diario – commemorando i trent’anni della morte di Altiero Spinelli, osservavamo: L’occasione del profondo rimescolamento cui è sottoposta l’attuale costruzione europea, offerta del referendum inglese dei prossimi giorni (a prescindere dal suo esito), può e deve costituire anche l’occasione per uno ‘stop and go’ della globale filosofia di Unità.

Eccoci, dunque, al momento opportuno e necessario! Alla vigilia del D-day del 23 giugno 2016, Diario dedica al referendum britannico questa riflessione dell’ambasciatore Romano: “Direi che la Gran Bretagna, se uscisse dall’Ue, correrebbe i rischi maggiori rispetto agli altri Paesi membri. Ma sarà bene non sottovalutare il rischio “sfiducia” dei mercati e delle opinioni pubbliche. Per far fronte, esiste una contromossa che consiste nel rispondere all’uscita dalla Gran Bretagna con una coraggiosa iniziativa europeista” (Il Corriere della Sera, 7 giugno 2016).

(Il compito e l’ora)

E chi dovrà essere ad assumersi questo compito? Dovranno essere i Paesi membri che hanno il vincolo/opportunità della moneta unica. In primis, tocca alla “zona Euro” assumersi l’onere e il dovere – di fronte ai popoli europei ed anche al mondo- di prendere in mano il destino di Europa e condurla nella Storia. “Sono un convinto anglofono – afferma Piero Ottone, sul Corriere del 4 giugno – e non riesco a immaginare una UE senza l’Inghilterra; ma nello stesso tempo penso che soltanto uno choc potrebbe convincere i Paesi dell’Unione a fare quello che finora non hanno fatto”.

Dobbiamo concentrarci sull’accelerazione delle riforme necessarie per rilanciare la integrazione dell’Unione, subito! Il primo compito è: “Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa”. Le virgolette, ricordano che si tratta di un titolo del documento/impegno – massimamente autorevole – preso dai cinque presidenti in carica nell’attuale Unione Europea: Jean-Claude Juncker della Commissione europea, Donald Tusk del Consiglio europeo, Mario Draghi della Banca centrale, Jeroen Dijsselbloem dell’ Eurogruppo, Martin Schulz del Parlamento europeo, nella relazione del 22 giugno 2016. Di che si tratta?

(L’antefatto)

Completare il lavoro già iniziato. Per comprendere meglio il tutto, dobbiamo tornare, un attimo indietro nel tempo, a Maastricht, cittadina olandese. Potrebbe risultare utile una brevissima contestualizzazione temporale, che facciamo utilizzando “ L’Inchiesta: come è nata la crisi UE”, di Andrea Bonanni (la Repubblica, 30 maggio e a seguire), che consiglio ai lettori e alle lettrici, per comprendere meglio alcuni semi originari dell’attuale crisi della integrazione europea. Scrive Bonanni: Siamo nel dicembre 1991. Da poche ore; l’Unione Sovietica si è sciolta. La Germania è riunificata da un anno. La Jugoslavia non esiste più. In Croazia si combatte e si uccide. L’Est europeo si misura con la scoperta della democrazia. (…) Oggi Maastricht è iscritto nel museo della memoria europea come il vertice che mise la basi della Unione monetaria, fissandone la data di nascita al 1 gennaio 1999 e definendo i famigerati parametri in materia dei conti pubblici”. Prima ancora, i lettori e le lettrici di Diario ricordano certamente anche altre date fatidiche: 9 novembre 1989 (inatteso crollo del muro di Berlino) e i successivi undici mesi cruciali entro i quali con un’accelerazione straordinaria e non prevista si arriva alla riunificazione della Germania (3 ottobre 1990). (Per una ulteriore contestualizzazione, anche di tipo strategico-politico, si veda: Mario Campli, Europa, ragazzi e ragazze riscriviamo il sogno europeo, Marotta &Cafiero, 2014; pp. 110-124).

La risposta politico-strategica alla riunificazione della Germania e contestualmente al sommovimento globale dell’area post-sovietica fu da una parte la riunificazione delle due Germanie, dall’altra il nuovo ‘Trattato dell’Unione Europea’ con dentro la Unione economica e monetaria. In quegli anni (1989-92) veramente – senza retorica – è stata fatta la Storia europea, con il coinvolgimento attivo ed esplicito delle nazioni che erano state coinvolte nella seconda guerra mondiale. E si trattò di un coinvolgimento politico e strategico non indolore. Nikita Chruscev (prego i lettori e le lettrici giovani di consultare Internet) era stato molto chiaro quando era al potere dell’impero sovietico: “La frontiera delle due Germanie è una frontiera che è stata tracciata con la guerra e solo una guerra potrebbe cambiarla”. La Russia di Corbacev, invece, non oppose alcuna resistenza. Nessuna guerra fu minacciata. Gli USA parteciparono in prima persona, attraverso il suo Segretario di Stato James Baker al processo storico, negoziando direttamente – sia per la riunificazione/annessione sia per la successiva adesione alla NATO della nuova Germania riunificata – i passi del nuovo assetto dell’area, strategico per l’intero occidente.

Ci dispiace, invece, dover sottolineare – da “vecchi” europei che vengono da un percorso di Unità iniziato nel 1950 – che furono proprio i Governi degli stati membri dell’allora Comunità Europea a non raccogliere completamente la sfida della storia. “Si arriva così al 30 settembre 1991, il lunedì nero dell’Europa, secondo i ricordi dei diplomatici olandesi. Nel corso di una riunione dei dodici ministri degli esteri dei Governi dei dodici Paesi membri convocatisi per discutere del nuovo “Trattato” (da cui nascerà la Unione Europea) la proposta della presidenza di turno, l’Olanda, di comunitarizzare oltre che la moneta, anche la politica estera, la difesa e la giustizia riceve solo due voti: Olanda e Belgio. La Germania si schiera con la Francia. L’Italia si adegua” (Andrea Bonanni, vedi sopra). Cosa era accaduto nei mesi di faticosi incontri e discussioni? Era intervenuto una serie interminabile di contorcimenti, sotto gli occhi increduli di Russia e America, stupiti che gli Europei stavano mancando l’appuntamento a cui avevano dedicato anni ed anni di faticoso cammino (dal famoso discorso a Parigi di R. Schuman il 9 maggio 1950). Sta di fatto che ad una apertura della Germania di H. Kohl pronto a mettere a disposizione l’abolizione del marco e anche l’opzione della Unione politica, la Francia di F. Mitterand preferì mantenere nazionalizzate tutte le politiche strategiche (Difesa, Esteri, Fiscalità comune, Debito sovrano europeo) illudendosi che la sola “moneta unica” (con la soppressione del marco) avrebbe potuto reggere la sfida della navigazione in mare aperto della la sorgente globalizzazione dell’economia e delle Comunicazione (Internet). Nell’insieme si era verificato anche un circuito – piuttosto usuale nella storia europea- di scarsa fiducia vicendevole: la Germania, ad esempio procedette al riconoscimento unilaterale della indipendenza della Slovenia e di Croazia, innescando la guerra in Jugoslavia; pure il Vaticano fece la sua parte: all’inizio della crisi dello Stato Jugoslavo, il papa polacco aveva attivamente favorito la secessione della Croazia cattolica a scapito della Serbia ortodossa (cfr. Sergio Romano, “Fra cattolici e ortodossi…”, in Corriere della sera, 12-6-2016). A seguire alcuni colpa di coda: la Germania, non avendo comunitarizzato la politica economica, pretese i famosi “parametri di Maastricht”, per vincolare i bilanci nazionali a rigorose regole di austerità; la Gran Bretagna aggiunse (as usual) il suo veto a qualsiasi “politica sociale europea”.

(Euro, soluzione incompleta)

L’affermazione “soluzione incompleta” è di Mario Draghi presidente della Banca Europea. Il Film della crisi economica e finanziaria – peraltro importata dagli USA – ha successivamente (2007-08) mostrato senza equivoci di sorta, che la moneta da sola, e per giunta “senza un sovrano” certo e indiscusso (la Unione politica,) non può reggere la sfida né dello sviluppo armonico di economie e società diverse e ancora ‘nazionali’, mentre tutte le leve di una normale politica economica e finanziaria e la impostazione di una coerente politica economica di crescita e sviluppo restano affidate a strumenti e congegni di “coordinamento” (vedasi art. 5-6 del T.U.E.). “Com’e possibile continuare a mantenere una moneta unica, con diciotto politiche economiche diverse, con diciotto politiche del debito pubblico, con diciotto politiche di bilancio, con diciotto mercati del lavoro, ecc. E che dire di una Banca centrale, lasciata sola a difendere la moneta, nel contesto appena ricordato e senza gli strumenti normali di altre banche centrali del mondo?” (Carmelo Cedrone, Dove va l’€uro?, Edizioni Nuova Cultura, 2013).

(Le tappe)

Bruxelles 21 ottobre 2015, La Commissione europea – dopo la Relazione dei cinque Presidenti – in qualche modo (!) espressione del “sovrano” (l’attuale Consiglio Europe) – invia al Parlamento ed ai Governi, alla Banca Centrale (ed alla società civile europea) una formale “Comunicazione” per delineare le tappe del completamento della U.E.M. Ma, attenzione, senza poter (non avendo questo input da parte dei Governi degli Stati membri) mettere mano a nessun altra riforma che delinei le forme e le istituzioni proprie di una “Unione politica”.

Nell’esame sul tema del “completamento” della Unione economica e monetaria vi sono molti passaggi di natura e consistenza specialistica e anche tecnica che non è utile affrontare per non appesantire la lettura, paziente e generosa, dei lettori e delle lettrici di Diario. Farò, peraltro, molto riferimento al lavoro condotto dai rappresentanti della Società civile europea nel Comitato Economico e Sociale Europeo, in quanto è – allo stato attuale l’organismo istituzionale (indipendente) dell’Unione che il Trattato chiama ad “assistere” le prime tre Istituzioni della UE (Parlamento, Consiglio, Commissione- art. 13, comma 4).

La Comunicazione della Commissione sulle Tappe verso il completamento (COM 600, del 21 ottobre 2015) aveva il compito di dare una concretezza operativa e di percorso legislativo al documento politico dei cinque presidenti, onde evitare che restasse ‘lettera morta’, come era già accaduto ad un analogo pronunciamento dei 4 presidenti nel 2012, ingnorato del tutto dalla Commissione stessa, allora presieduta dal portoghese Barroso. Bene, dunque, che la Commissione – Junker si sia assunto la responsabilità politica di avviare un vero e proprio percorso legislativo. Nel merito essa presenta una configurazione prevalentemente fragile.

I punti di forza sono: forzare il fronte degli Stati membri che manifestano tiepidezza e anche contrarietà alle riforme; l’attenzione alla Unione finanziaria nelle sue diverse articolazioni; il completamento della Unione bancaria, con la imprescindibile esigenza della garanzia europea dei depositi; l’Unione dei mercati dei capitali, affinché i risparmiatori/correntisti, i contribuenti europei in riferimento ai debiti delle banche, gli investitori e le imprese che operano sui mercati finanziari poco trasparenti e poco diversificati siano tutelati dentro un quadro di regole europee e relativi controlli incisivi. In questo ambito, grave risulta la mancata obbligatoria differenziazione e separazione tra banche commerciali e banche di investimento. Limitata ma utile e positiva è anche la introduzione della “Rappresentanza esterna unificata” dell’UEM, per consentire un dialogo strutturato ed istituzionale tra zona euro- come entità unica- verso il Fondo monetario internazionale (considerando che allo stato attuale la “zona euro” non è dotata di un analogo Fondo Monetario Europeo).

I punti di debolezza, invece, sono molto seri e tutti di natura politico-strategica. “Si continua a perseverare e far credere, ad esempio, che: a) il problema nella UEM sia solo una questione di rispetto delle regole di “contabilità”; b) la ‘governance’ economica si risolva solo con un “coordinamento”; c) la sostenibilità macroeconomica e finanziaria dell’Eurozona sia solo un problema di trasparenza; d) la gravissima questione della disoccupazione possa essere affrontata con proposte sollo “formali”, come si fa da anni (….) Le gravi conseguenze sociali provocate dalla disoccupazione non trovano nessuno strumento di solidarietà e non si capisce che cosa si voglia intendere per “pilastro europeo” dei diritti sociali (forse quelli esistenti già – molto diversificati e spesso fragilissimi- nei Paesi membri?)” (cfr. Parere del Comitato Economico e Sociale Europeo, ECO/394, del 17 marzo 2016, del relatore, consigliere Carmelo Cedrone).

Ma la parte ancora più debole è quella relativa alla “legittimità democratica”. Afferma, coerentemente il relatore del CESE, Carmelo Cedrone: “Se ne parla in mdo molto superficiale ed approssimativo, quando invece è il cuore di tutto, e l’essenza del dibattito e delle preoccupazioni dell’opinione pubblica europea: e da qui che passa il futuro dell’eurozona e della UE”. La Commissione rinvia, dunque, ad una “Fase 2” ed a un “Libro bianco” a fine 2017.

Con tutta evidenza, siamo di fronte ad una gravissima sottovalutazione della gravità delle situazione politica dell’Unione, di fronte alle pulsioni antieuropeiste, dalle svariate forme. Oppure dobbiamo “capire” che prima delle elezioni in Francia e in Germania, nessuna vera apertura del dibattito sulla ‘Unione politica’ potrà cominciare? E, dunque, l’attuale Unione e i 27 ( utti, meno la UK) Paesi membri non hanno ancora nessuna “Ipotesi di ripartenza” all’indomani del referendum britannico? Non possiamo crederlo e non è così! Già ora molte analisi e anche precise proposte sono state espresse. Dobbiamo attendere – come diceva sopra Piero Ottone- uno choc per convincere i Paesi dell’Unione a fare quello che finora non hanno fatto”?

Una seconda puntata sul “Completamento” (II) della Unione economica e monetaria-Pilastro politico, sarà per dopo referendum.

Diario, oggi, si ferma qui. Il 23 giugno – Giovedì – torneremo ai lettori e alle lettrici, direttamente da Londra, per commentare Brexit/Remain.