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23 maggio 2016 – Ventotene, isola d’Europa

Trent’anni fa – il 23 maggio 1986 – in un clinica romana si spegneva Altiero Spinelli, che oggi riposa nell’isola di Ventotene. Quando era ancora in vita, poco più che trentenne, il giovane Altiero, era già stato nell’isola, prigioniero confinato dal regime fascista. E nel corso del 1941, insieme a Ernesto Rossi, vi scrisse: “Per un’Europa libera e unita-Progetto d’un Manifesto”. Il testo apparve, pubblicato clandestinamente, a Roma con il titolo: “Problemi della federazione europea” (insieme ad altri scritti dello stesso Spinelli), con le iniziali delle firme “A.S. ed E.R.”, curato da Eugenio Colorni, il 22 gennaio 1944, per le edizioni del Movimento italiano per la Federazione Europea.
Scrive Colorni, nella sua prefazione: “I presenti scritti sono stati concepiti e redatti nell’isola di Ventotene, negli anni 1941 e 1942. In quell’ambiente d’eccezione, fra le maglie di una rigidissima disciplina (…) la lontananza dalla vita politica concreta permetteva uno sguardo più distaccato (…) ricercando i motivi degli insuccessi passati non tanto in errori tecnici (…) o in una generica immaturità della situazione, quanto in insufficienze dell’impostazione generale (…) con troppo scarsa attenzione al nuovo che veniva modificando la realtà” (cfr. AA.VV., “Ventotene, un Manifesto per il futuro”, manifestolibri, 2014).

E’ interessante portare all’attenzione di lettori e lettrici odierni, le valutazioni che faceva quest’altro giovane italiano di trenta cinque anni – Eugenio Colorni – in piena guerra, sotto occupazione nazi-fascista, ed il linguaggio e i termini stessi, usati mentre si accingeva, mettendo a rischio anche la sua vita, a pubblicare uno scritto, una analisi, un sogno. Senza dimenticare che, pochi mesi dopo, sempre a Roma, la domenica 28 maggio 1944, il giovane Eugenio – mentre si recava ad una riunione clandestina, per organizzare la Brigata Matteotti (con i suoi compagni di lotta, Leo Solari e Mario Matteotti) , venne fermato dalla pattuglia della Banda Koch, nei pressi di piazza Bologna e gravemente ferito. Ricoverato all’ ospedale di S. Giovanni, muore due giorni dopo, martedì 30 maggio (cfr. Antonio Tedesco, “Il partigiano Colorni e il grande sogno europeo”, Editori riuniti university press, 2014). IN questi giorni di maggio, anche a questo giovane va la nostra memoria e la nostra gratitudine.
Tra un confino fascista, dunque, e i colpi assassini di una banda criminale, al servizio di un regime fascista e dell’occupante nazista, inizia il cammino del “Progetto di manifesto” – frutto di una speranza indomita di una giovane, indimenticabile generazione. “ L’Europa non cade dal cielo”, avrebbe poi titolato, un saggio (edito da Il Mulino molti anni dopo -1960), l’uomo adulto – Altiero Spinelli – politico ormai noto e, già, protagonista di molte battaglie.

L’eco delle parole usate dal giovane Colorni, ci mette dinanzi ad un film che conosciamo; rileggiamole: “ricercando i motivi degli insuccessi passati non tanto in errori tecnici”; “ o in una generica immaturità della situazione”; “quanto in insufficienze dell’impostazione generale”; “con troppo scarsa attenzione al nuovo che veniva modificando la realtà”.

Ci appare, improvvisamente, il film della crisi odierna di questa Unità Europea incompiuta e bloccata! Dal dibattito pubblico su “questa” Europa unita ascoltiamo, quotidianamente, un racconto il cui linguaggio è molto simile alle parole usate da Colorni. Ed è un racconto che parla di una “ impasse” della visione strategica della integrazione europea, che data dal 1989-90. Siamo ancora lì: a quegli undici mesi cruciali cha vanno dalla caduta del Muro (novembre 1989) alla riunificazione della Germania (ottobre 1990). Uno “stop and go” che allora non è stato compreso e, quindi, non è stato tradotto in una strategia nuova e diversa della costruzione europea. Pur nella temperie di quelle ore convulse, le consapevolezze non mancavano ( “ l’Unione politica è controparte della Unione economica e monetaria”: Helmut Kohl); sono mancate, invece, le decisioni conseguenti e coraggiose (“Abbiamo creduto di realizzare un progetto politico, anche contro la razionalità economica, sperando che poi questo costringesse all’Unione politica”: Gerhard Schroeder. “L’Euro è un progetto politico; non è che avessimo bisogno della moneta unica agli inizi degli anni Novanta; doveva essere il vettore dell’integrazione politica: questa era l’idea di fondo”: Joschka Fischer).

La straordinarietà della riunificazione tedesca, proprio a riguardo della strategia originaria di integrazione europea si può cogliere ancora meglio da una inattesa affermazione di Altiero Spinelli, che invitava a “condannare apertamente il rovinoso miraggio della riunificazione” (così, in “Tedeschi al bivio”, saggio apparso nel libro: “La Germania e l’unità europea”, a cura di Sergio Pistone, Napoli 1978). Il senso di questa affermazione è questo: l’impostazione e il percorso, e il ritmo ed i tempi della Unità europea, sognata nel buio della guerra fratricida e avviata nel dopoguerra con la messa in comune del carbone e dell’acciaio – strumenti indispensabili anche delle guerre fratricide tra europei- erano dentro una idea di Europa che prevedeva una Germania che sarebbe ‘dovevuta’ restare divisa.

La crisi attuale è dunque una manifestazione di una assenza lunga, troppo lunga della mancata presa d’atto e di coscienza di un cambio profondissimo di fase, scaturita da quell’evento.
Non siamo quindi di fronte a “problemi tecnici”, di “funzionamento” di una macchina ancora in rodaggio, ma al contrario alla fase ultima di un Congegno (politico, istituzionale, di infrastrutture economico-finanziarie e di un complesso di politiche comuni datate e incomplete, o appena abbozzate ed impari di fronte alle mutate condizioni strategiche del contesto globale) pensato ed avviato per una Storia europea diversa. Dopo il crollo dell’impero sovietico e la riunificazione della Germania è iniziata una’ Storia altra’.

Oggi, “crisi come quelle del debito sovrano greco e dell’arrivo massiccio di rifugiati e migranti economici hanno messo in dubbio l’efficacia dei meccanismi che dovrebbero garantire risposte comuni a problemi comuni” (Roberto Toscano, diplomatico ed ex ambasciatore in India e in Iran, cfr. la Repubblica, 20 maggio 2016, p. 49). ‘Meccanismi’ che non sono in grado di dare queste risposte attese dalle società contemporanee: urgenti e necessarie. Ragionando sulle analisi e valutazioni del presidente emerito, Giorgio Napolitano, nel libro: “Europa, politica e passione” (Feltrinelli, aprile 2016), appena presentato ai lettori e alle lettrici di oggi, il diplomatico osserva: “è un momento difficile per l’Europa. Così difficile che, mentre si diffonde l’euroscetticismo – la convinzione che l’integrazione europea non funzioni e nemmeno serva – prende corpo una ondata di euro-fobia, con attacchi all’Europa da parte di un nazionalismo redivivo, che La denuncia come problema piuttosto che come soluzione”. Giorgio Napolitano, peraltro – il cui europeismo storico è noto a tutti – definisce senza mezzi termini la situazione come “crisi, su diversi piani, del progetto e del processo di integrazione europea”.

Il completamento, necessario ed urgente, della Unione economica e monetaria (vedasi la recente “Unione bancaria”, ma senza la contestuale mutua garanzia europea dei depositi e in assenza di un meccanismo europeo che porti gradualmente alla costituzione di un unico Debito sovrano, un Fondo monetario europeo, un ministro del Tesoro europeo, ecc.) è soltanto una parte delle soluzioni attese, e che tardano.

I governi deli Stati membri manifestano – alcuni, non tutti; di tanto in tanto e non con continuità- consapevolezze di un “Grande Compromesso” tra i maggiori Paesi europei; ad esempio su: Immigrazioni, Economia, Russia (cioè: un pezzo di politica estera e un pezzo rilevante di politica energetica). Germania, Italia, Francia, e…chi ci sta. E’ sufficiente questo approccio? E’ certamente utile, ma non è adeguato alla sfida.
Resta, infatti, sullo sfondo la sfida vera: quella della rilevantissima questione strategica dell’insieme della “Integrazione” europea (Tipologia, Tempistica, Istituzioni). Ancora e sempre sullo sfondo: tutti sanno che esiste e nessuno ha la forza e il coraggio di prenderla di petto.

L’occasione del profondo rimescolamento cui è sottoposta l’ attuale costruzione europea, offerta dal referendum inglese dei prossimi giorni (a prescindere dal suo esito), può e deve costituire anche l’occasione per uno ‘stop and go’ della globale filosofia di Unità.

Ora è il tempo di ridefinire il “come , il perché e chi sta insieme”; e la tempistica – diversamente articolata- della integrazione. La sfida che ci lancia il mondo attraverso le “ Migrazioni”, può costituire il “luogo politico strategico” per “Ri-Definire” il carattere della “Casa comune”, nella quale ci sono ‘Piani” diversi e molte “Stanze”; con un solo “Tetto”, comuni-forti-solide “Fondamenta” e comuni, solidi “Pilastri” portanti.

“Il progetto d’un Manifesto” di Ventotene – a cui torniamo in queste ore per commemorare il trentesimo anniversario della morte di Spinelli, costituisce certamente, ancora oggi, una fonte di ispirazione forte e propulsiva.

In esso non si tratta di cercare la soluzione ai ritardi di una Unità che risulta bloccata da un gravissimo deficit di riforme urgenti e di nuove politiche comuni indispensabili. Sarebbe troppo semplice e, forse anche semplicistico. Dal suo “Progetto” è ancora possibile trarre la spinta morale per far ripartire il processo. Il modo migliore per celebrare i trent’anni dalla scomparsa del riformatore Altiero Spinelli, ed onorare la sua memoria, non sta nel citare le sue parole come formulette, già confezionate. Se – come lui ci ricorda – “l’Europa non cade dal cielo”, tocca alla nostra generazione e a quella che sta entrando in questi mesi ed anni nelle dinamiche politiche e strategiche di un mondo vasto e interconnesso, trovare nuove soluzioni a nuovi ed inediti problemi. La lezione di Altiero Spinelli – soprattutto quella dei suoi ultimi anni da protagonista delle e nelle Istituzioni – incomplete e acerbe – di quella Europa che cominciava a farsi Unita – sta proprio nella sua lezione di riformatore, tenace e volitivo; in quel suo rilanciare da stratega instancabile ‘ le ragioni’ – valide ieri come oggi – di una “Europa libera ed unita”. Più libera, perché unita.




Sospesa in un passato rimosso? Una Filosofia per l’Europa (III)

“Questa” Unione Europea potrebbe essere considerata come “sospesa in un passato rimosso”. La definizione è stata data, recentemente, da Gian Enrico Rusconi alla situazione del Brennero, mentre il governo dell’Austria ipotizzava di ristabilire la frontiera con l’Italia. Per estensione potremmo usare questa immagine per evidenziare il tipo di fase che sta vivendo l’intera Unione: appare come sospesa sul passato delle diverse Europe della storia. “ La geopolitica insegna che, nelle vicende politiche, le rotture prevalgono spesso sulle continuità e che il passato incombe sul presente, e dunque sul futuro”. Così scrive Manlio Graziano, in: “Le cinque Europe (più una)”, La Lettura/Corriere della sera, 8 maggio 2016. E aggiunge un esempio, a dir poco, inquietante: “durante i quarantasette anni di esistenza delle seconda Jugoslavia (1945-1992), le differenze tra serbi, croati, sloveni, bosniaci eccetera sembravano definitivamente svaporate, al punto che nove famiglie su dieci erano formate da coppie miste. Nel 1992 all’improvviso la guerra civile riprese là dove si era fermata nel 1945, tanto che i nemici principali ripresero perfino i nomi di allora: cetnici serbi contro ustascia croati”.

Cinque Europe: Europa mediterranea (capitale, Roma); Europa carolingia (capitale, Parigi-Aquisgrana); Europa prussiana (capitale, Berlino); Europa asburgica (capitale, Vienna); Europa bizantino-ottomana (capitale, Istanbul). Più una: Europa britannica (capitale, Londra).

“Sotto i confini del vecchio Continente riaffiora l’antica eredità di alcuni blocchi geopolitici rivali: carolingio, mediterraneo, bizantino-ottomano, prussiano, asburgico. E quello britannico, che potrebbe staccarsi per via referendaria”. L’articolo-analisi presenta e commenta un saggio uscito nel 2012, di Robert D. Kaplan : “The revenge of Geography – La vendetta della geografia”. R. Kaplan, con un sottotitolo (“ La battaglia contro il fato”) ha voluto prendere le distanze da un simile approdo.
Anche “Diario europeo”, continuando a descrivere il cammino faticoso di “Una filosofia per l’Europa”, vuole contribuire ad arginare una simile sventura. Vogliamo continuare, dunque, ad approfondire, con una terza ed ultima puntata, le dinamiche della filosofia europea, convinti che sono proprio la cura e la cultura di un pensiero europeo gli antidoti ad una deriva di questo tipo. Lo facciamo, benintesi, senza girare la testa per non vedere ciò che è sotto i nostri occhi: le molteplici pulsioni e le diverse forme socio-politiche (ormai anche organizzate in partiti, e persino al governo di Stati membri) che producono un pericoloso bradisismo politico e culturale. La Geografia si vendicherà? Dove la Politica non arriva, sarà la forza del Pensiero a supplire e a rigenerarla.

(French Theory)
Mentre in Germania si sviluppava la ricerca che abbiamo molto sinteticamente richiamato nei due precedenti “Diari”, con una guerra che squassava il continente, anche dalla Francia molti intellettuali emigrano negli USA, portando in quel nuovo contesto l’articolatissima filosofia francese. “Mentre surrealismo, esistenzialismo e storiografia delle ‘Annales’ sono stati trapiantati come tali, prima di essere americanizzati – scrive Roberto Esposito – la French Theory è un prodotto creato ex novo dagli intellettuali americani, dopo l’arrivo negli Stati Uniti di un piccolo drappello di filosofi francesi” (p.111). Come i vari Derrida, Deleuze, Foucault, con molta libertà avevano lavorato sui testi di Hegel, Nietzsche e Heidegger, così gli interpreti americani della loro filosofia hanno successivamente rielaborato il loro pensiero, dando origine a quella che chiamiamo “French Theory”, dandole una nuova energia e “ tale da proiettarla , in traduzione inglese, nel circuito internazionale” . E così, in tale ambito vasto, la ricerca ed il pensiero di Althusser (critica marxista della ideologia), Lévi-Strauss (Antropologia), Psicoanalisi (Lacan), Letteratura (Barthes), analisi Linguistica (Saussure), trovano un nuovo inizio. E proprio in questo nuovo destino “ad essere in gioco, ancora una volta, è proprio la questione del fuori. Il modo di impostarla e, prima ancora, di intenderla. Dove passa il “fuori” e cosa, precisamente, esso significa? Quali sono i suoi confini e quando si mostra per la prima volta? Da dove emerge e verso cosa muove? Sia Derrida, sia Foucault inscrivono il proprio pensiero nell’orizzonte aperto da questi interrogativi” (p.122).

Attenzione: la portata strategica di questi interrogativi sta nel fatto eminentemente ‘politico’ che essi riguardano l’Europa e la sua perduta centralità. Ed è proprio Michel Foucault – nella sua ricerca intorno alla “biopolitica” e al “biopotere” – a consentire l’ancoraggio con la concretezza della storia. Questi concetti (filosofici) “riconosciuti nella loro storicità e perciò sottratti alla totalizzazione cui naturalmente tendono, (possono) essere assunti come campi di lotta, e dunque di potenziale rovesciamento degli attuali rapporti di forza,( e) costituiscono il fronte avanzato delle dinamiche politiche contemporanee” (p.144).

(Italian Thought)
L’indagine filosofica di Foucault ci consente di approcciare il contesto italiano. “Se le sue radici affondano nell’operaismo degli anni Sessanta, la nozione di “Italian Thought” nasce, assai più recentemente , in relazione all’elaborazione della categoria di ‘biopolitica’ (p.146); ma non bisogna pensare a una derivazione del “Pensiero Italiano” dalla “Teoria Francese” , anche se resta indubitabile un collegamento con essa: da una parte, con la ricerca di Giorgio Agamben (Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita -1995), dall’altra con il noto saggio di M. Hardt e A. Negri (Impero- Cambridge 2000/Milano 2001).

La derivazione, però, non può essere ritenuta immediata (senza ulteriori mediazioni ), per via della “sua (del Pensiero Italiano) tendenza alla contaminazione (che ) ne rende impossibile una definizione autoctona, centrata intorno ad un nucleo identitario (….) Un debito analogo, il pensiero italiano lo contrae nei confronti della filosofia tedesca, in una modalità che spesso si sovrappone alla matrice francese (…) Autori come Walter Beniamin e Carl Schmitt non risultano meno influenti nella costruzione del pensiero italiano attuale, di Foucault e Deleuze” (p. 157). Approfondiamone alcune tendenze.

(qualità specifiche)
“Per un verso il pensiero italiano appare più giovane, e più immaturo (…) per altri versi coglie elementi della contemporaneità – soprattutto relativi all’orizzonte della politica – in maniera precoce e anche più incisiva di altre genealogie filosofiche” (p.158). Non stiamo, quindi, dinanzi ad un fenomeno “minore”, ma diverso e specifico. Le altre filosofie “sperimentano nei confronti della prassi politica, una distanza o quantomeno un dislivello (…) il pensiero italiano rovescia tale tendenza, trovando nell’azione politica un radicamento essenziale” (p.158). Certamente alla base di questa tendenza c’è anche l’impegno politico dei suoi protagonisti (vedi l’operaismo degli anni Sessanta e proiezioni nei successivi anni). Ma forse c’è anche una specificità ulteriore; “anziché precedere la prassi, nasce da essa in una forma che oltrepassa sia la autonomia della filosofia sia la neutralità della teoria”. Perciò, Roberto Esposito lo chiama “Pensiero”, e non “Filosofia” o “Teoria”. Subito, dunque , possiamo individuarne una sorta di precipitato nella circostanza che “il movimento del ‘fuori’, nella riflessione italiana contemporanea, coincida con il terreno del ‘contro’, in una tensione di natura politica” (159).

(una linea di filiera)
Questa configurazione ci spinge, infatti, a individuare una linea di ascendenza che ci rinvia ad un pensiero che va oltre gli ultimi cinquant’anni: e ci fa incrociare un percorso “che da Machiavelli arriva a Gramsci, e quindi, le esperienze dell’umanesimo civile, l’illuminismo riformatore, l’hegelismo napoletano, la resistenza al fascismo (…) e lo scontro con il potere , politico ed ecclesiastico (che) ha segnato l’intera storia del “Pensiero Italiano” già da Bruno, Galilei e Campanella (…) la morte violenta di Gramsci e Gentile , seppure ai lati opposti della medesima barricata in difesa del proprio pensiero, conferisce a questo (Pensiero) una intensità politica difficilmente rintracciabile in altre culture nazionali “ (p. 159). Nello stesso tempo – e qui fa premio un contesto storico-ambientale anch’esso tutto specifico e anche grandioso – esso assume e invera nella contemporaneità “figure arcaiche, o comunque di provenienza greca e romana, come : bios, sacertas, communitas, persona, imperium” (p. 159). Dunque: politica e storia; ma anche: natura e crisi. “Quello del rapporto tra teoria e crisi e quello della relazione tra secolarizzazione e teologia politica, la riflessione di Vico, ma anche di Cuoco e Leopardi hanno influito potentemente sulla discussione aperta in Italia a partire dagli anni settanta” (p.161). E fino ai giorni presenti, con gli studi di Paolo Virno e di Remo Bodei.

(proviamo a ricapitolare)
L’Italian Thought mostra da un lato, “ un lessico prevalentemente politico”, dall’altro, “traduce la semantica del ‘fuori’ in quella del ‘contro’; la sua (apparente) non assonanza con il linguaggio filosofico, gli consente una “tendenza alla valorizzazione del conflitto” (p. 169, passim). Attenzione, però: in forme diverse e anche con linguaggi diversi questo “Pensiero” confluisce – con accentuazioni – in quella “ attitudine antagonista (che) non è estranea né alla filosofia tedesca né a quella francese (…) essa costituisce, infatti, il presupposto della dialettica negativa di Adorno, ed è implicita nella dinamica tra potere e resistenza, teorizzata da Foucault” (p. 170).

(la teologia politica, andare oltre)
Il potere. Intorno allo studio del potere si è sviluppata, dunque, “una delle più complesse categorie della tradizione europea” (p. 185). Roberto Esposito ha dedicato a questa specifica tematica un saggio, a se stante, nel 2013 (“Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero”, Einaudi). La teologia politica è una teoria (una interpretazione) del potere (della sovranità) e, quindi anche, del Moderno. Scrive Massimo Cacciari, in un recente piccolo e densissimo saggio: “L’espressione ‘teologia politica’ non può limitarsi a significare l’influenza esercitata da idee teologiche sulle forme della sovranità mondana” ( “Il potere che frena”, Adelphi,2013, p.12). La sua ampia e densa portata, dunque, va cercata in Carl Schmitt su cui “Diario” si è intrattenuto nel suo n. 27 del 19 Aprile. In un sua opera specifica (“Politische Theologie, 1922/ edizione italiana a cura di: G.Miglio e P, Schiena- “Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità”, 1972) Schmitt tratteggia la sua concezione della sovranità: “Sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione”; dove – da giurista- sottolinea il limite del diritto statuale. Nello stesso tempo, egli indica dove sta il luogo o l’origine della sovranità: “la politica oltre lo stato”. “ Dove – precisa Roberto Esposito- al termine ‘oltre’ va conferito un significato di ulteriorità, ma anche di originarietà, seconda la nota tesi schmittiana che lo Stato presuppone il principio del politico” (p. 186). Gli autori italiani che hanno ‘pensato’ dietro l’impulso schmittiano sono soprattutto Mario Tronti e Massimo Cacciari. Essendo la “teologia politica un pensiero della fine” (Tronti), “il potere qualsiasi sia, dall’Impero agli Stati che nascono dalla sua dissoluzione, tende a frenare tale evento (la fine) ritardandone il compimento (…) A contendersi il dominio del mondo sono le nuove potenze, sempre più autonome da fini generali, dell’economia e della tecnica, di fronte alle quali risultano patetici gli appelli del Politico” (Cacciari). Sullo sfondo, per tutti, resta la analisi di Paolo di Tarso (San Paolo) e la sua visione della dialettica permanente tra: fede/legge, promessa/comando, potere costituente/potere costituito. Ma “se c’è una questione che tutti gli esponenti dell’Italian Thought tematizzano, pur se da angoli di visuale e con intenzioni differenti, è quella della fine della teologia politica (…) La teologia politica si mostrerebbe come la figura millenaria che ha assunto la metafisica a partire da quando le religioni monoteistiche hanno riempito il nostro spazio di pensiero” (p. 194). Specularmente, già negli anni Venti, il giovane W. Benjamin aveva aperto un altro orizzonte di speculazione e di analisi parlando di “capitalismo come religione”.
Fin qui, si potrebbe dire: una filosofia dell’Europa. “Teologia politica e teologia economica sono articolazioni interne di quella macchina metafisica cui ancora soggiacciono il nostro linguaggio e la nostra condizione”, così verso la fine della sua corsa attraverso il pensiero filosofico europeo – dentro guerre tremende e stato-nazioni impotenti – chiosa Roberto Esposito (p. 195).

(Una filosofia per l’Europa)
Ma ecco che la ‘Storia’ si incarica di darci la sua lezione. Scrive Roberto Esposito: “il 31 maggio del 2003 un articolo co-firmato da Habermas e da Derrida (ormai i lettori e le lettrici di Diario hanno dimestichezza con questi protagonisti!) sulla “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, non solo sanciva la fine del Kulturkampf franco-tedesco, ma intendeva siglare un nuovo inizio per la filosofia europea. Esso coglieva nelle manifestazioni di protesta contro la guerra anglo-americana in Iraq, simultaneamente attivate a Parigi, Berlino, Roma, Madrid e Londra, “ i segni della nascita di una sfera pubblica europea” (scrivevano i due filosofi). E aggiunge Esposito: “In realtà ciò che sembrava un fenomeno nuovo era il punto di precipitazione di un processo avviato già un quindicennio prima dal collasso dell’impero sovietico e dalla conseguente riunificazione della Germania (p. 195).

Care lettrici e cari lettori di “Diario”, torniamo ancora lì, sotto il muro crollato di Berlino.
Sotto le macerie di quel Muro sono rimasti sepolti: la vergogna di una dittatura comunista, che costituiva una macchia nelle eredità culturali e umanistiche dell’Europa, la drammatica vicenda umana e il dolore di tanti caduti in fuga dall’est all’ovest sotto i colpi di una polizia cieca e ottusa e il sistema politico, economico e militare specifico della guerra fredda, antidoto inutile alle reiterazioni delle follie belliciste. Quelle macerie, però, una volta che la polvere si è posata e con essa sono evaporati anche gli entusiasmi e la festa, hanno svelato: la “sorpresa” di una intera classe dirigente che, a sua volta, ci sorprende; la impreparazione sia dei governi sia degli apparati (le mitiche “cancellerie”) degli Stati- nazioni che ancora oggi ci inquieta; il disegno strategico di unità europea (il sogno europeo originario degli anni Cinquanta: fine delle guerre fratricide, la pace, l’unita a piccoli e progressivi passi) fondata consapevolmente su una condivisa e permanente divisione della Germania. Forse non si poteva pretendere di più dai fondatori di un sogno, degno veramente di questo termine, all’indomani della immensa sciagura: le due guerre mondiali. “ Le macerie lasciate dalla guerra non erano soltanto materiali, ma coinvolgevano anche un pensiero che non aveva saputo costituire un argine contro tale deriva” (p. 196).

Due sono le lezioni, permanenti e indimenticabili. La prima: le generazioni nuove – Millenials – non diano per scontata la conquista della pace; non la diano mai come un bene “scontato”. La seconda: una lezione, non ancora ben acquisita sia dalle classi dirigenti dei Paesi membri dell’Unione, sia da diversi movimenti e organizzazioni della società civile europea: l’Unione europea che continua la sua costruzione dopo la riunificazione della Germania è lontanissima dalla Comunità europea dei Trattati di Roma. Dopo il 1989, la semantica del discorso europeo è radicalmente cambiata. L’Europa non è (solo) una risposta alle tragedie del passato ma una proposta strategica per affrontare le sfide del futuro. Bisogna, allora, correre, correre. Da una parte, il completamento della Unione economica e monetaria, dall’altra l’avvio deciso e convinto della Unione politica.

Ma vorrei lasciare l’ultima parola al filosofo Roberto Esposito che ci ha accompagnato in questa piacevole e intensa camminata nel pensiero europeo: “E’ urgente rimettere in moto il processo al momento bloccato di unificazione politica. Solo in tal caso , l’Europa sarà in grado di perseguire scopi strategici in rapporto a questioni globali di carattere politico, economico, sociale, distinguendosi sia dal capitalismo senza uguaglianza di tipo anglosassone sia da quello senza libertà di marca asiatica. Ciò che in tal modo si profila all’orizzonte, come unica alternativa, reale e possibile, a un mondo unipolare percorso da conflitti endemici, è un multilateralismo di vaste entità regionali, diversamente caratterizzate, in grado di bilanciarsi reciprocamente. All’interno di esso l’Europa ha storia, risorse, cultura”.(p. 235)




Una potenza civile: filosofia per l’Europa (II)

“Oggi gli avversari di Habermas non sono pensatori di destra o nostalgici sostenitori di una Germania ‘neoguglielmina’ come Thilo Sarrazin o quelli raccolti attorno alla AfD (Alternative fur Deutschland). Ma intellettuali, sociologi e giuristi – ecco il paradosso – formatisi alla sua scuola, ma radicalmente ostili, dal punto di vista teorico come quello politico, alla prospettiva europeista”.

Così, martedì 12 aprile 2016, su “la Repubblica”, Angelo Bolaffi, attirava l’attenzione dei lettori e delle lettrici su “La deriva antieuropea dei ‘nipoti’ di Habermas”.

Questa stringente attualizzazione di un lungo percorso di una delle correnti filosofiche ed intellettuali della Germania ci aiuta a riprendere le fila dello strategico tessuto di una filosofia per Europa.

(German Philosophy)

Nell’estate del 1940 – mentre gli scritti di Carl Schmitt spostavano il baricentro anche simbolico della filosofia tedesca ed europea oltre i confini di una centralità europea che ormai solo i cantori del passato continuavano a sognare – Max Horkheimer, scrivendo “ per la prima volta in lingua inglese, con il titolo “Studies in Philosophy and Social Sciences”, dà il senso della rottura ormai consumata nel rapporto tra filosofia ed Europa”. E afferma senza incertezze, e per i suoi lettori certamente con una intensa sorpresa: “L’America , e specialmente gli Stati Uniti, è il solo continente in cui sia possibile continuare la vita scientifica” (p. 64).

Torna in scena il “Da fuori”. In realtà sono ben numerosi, infatti, gli intellettuali che ripararono oltre l’Atlantico. Thomas Mann, Ernst Cassirer, Hannah Arendt, Einstein e Sconberg; e, naturalmente, gli altri esponenti della “Scuola di Francoforte”: Marcuse, Lowenthal, Fromm e Adorno, per ultimo nel 1938. Tra gli anni ‘30 e ’40, dunque, “questo passaggio per “il fuori” – anche se compiuto sotto la pressione della necessità – poteva restituire una sorta di egemonia a quella filosofia europea incapace di ritrovarla nella propria origine greca” (p. 66).

L’opera più celebre della Scuola – Dialettica dell’illuminismo – di Adorno e Horkheimer, che tanto influirà anche nella formazione culturale della generazione del dopo-guerra (anche in Italia) è stata anche quella più discussa. “Si è voluta vedere in essa di volta in volta un rifiuto della ragione occidentale, una teoria catastrofica della storia, un frammento di Kulturpessimismus antitecnologico e perfino antidemocratico, una sconfessione esasperata del Moderno (…) L’effettivo rilievo filosofico risiede in una concezione del tempo irriducibile a ogni filosofia della storia, sia di tipo progressivo che regressivo; progresso e regressione, d’altra parte, sono profili, opposti e complementari dello stesso paradigma storicistico (p.79).

Ci sia consentito un salto nel bel mezzo dei giorni nostri (più di chi scrive che di legge, immagino per via della differente età): Torino 1986, siedono di fronte Jurgen Habermas – l’ultimo dei ‘francofortesi’ (venuto a presentare un suo libro: Teoria dell’agire comunicativo, in due volumi di 1091 pagine!) e Enrico Filippini, firma di grande qualità di “la Repubblica”.

“Da Francoforte, che nella vulgata vuol dire poi Horkheimer e Adorno, Habermas prende qualche distanza. I due avevano un concetto forte della Ragione, e in definitiva non erano in grado di dire quali fossero i loro criteri nella critica della società e della cultura”, e Habermas indica con chiarezza il pericolo: “non c’è più teoria critica della società, ma soltanto filosofia negativa della storia. Invece occorre poter formulare una critica contestuale della ragione e della società” (in: Enrico Filippini, “Eppure non sono un pessimista, conversazioni con Jurgen Habermas).

Avvertiranno i lettori e le lettrici di “Diario europeo” che con queste brevi citazioni abbiamo evocato tanta parte delle contraddizioni del pensiero e dell’azione anche delle successive generazioni europee, le quali dal 1968 in poi – con rotture e salti, di varia natura e intensità, di una continuità incerta e spesso obliata – agiscono e sono agite dalla e nella lotta politica e sociale sempre in bilico tra contestazione della ragione e degli assetti sociali e politici e una mai vinta tendenza alla filosofia negativa della storia, resa manifesta da forme di nichilismo, antagonismo e vere e proprie forme di corto-circuito sinistra-destra.

(Questa Europa è in crisi)

Questo salto notevole nella contemporaneità ci consente di planare dalla pura “filosofia tedesca” nell’azione di un filosofo costituzionalista che sta dando molto al pensiero e alla politica europei per una fuoriuscita di Europa dalla crisi.
Sono almeno due gli ostacoli alla comprensione piena e all’azione conseguente, con criteri di irreversibilità, per la integrazione europea: una è di ordine giuridico costituzionale; l’altra appartiene ai limiti della unione economica e monetaria, ai quali ancora oggi gli Stati nazionali e le classi dirigenti europee non riescono a dare compiute risposte.

“La prima innovazione sta nella preminenza del diritto internazionale sul diritto nazionale dei monopolisti del potere. L’Unione europea potrà stabilizzarsi a lungo termine soltanto se sotto la coazione degli imperativi economici farà i passi ormai indispensabili per coordinare le politiche essenziali, non nello stile burocratico-gabinettistico sinora consueto, ma percorrendo la via di una sufficiente ratificazione giuridica democratica.” (Jurgen Habermas, Questa Europa è in crisi).

Jurgen Habermas, come dicevamo sopra, è uno dei massimi costituzionalisti e filosofi viventi; è cittadino della Germania e dell’Unione europea. Il nostro “Diario” ha bisogno di misurarsi, con il suo aiuto, con alcune questioni giuridico-istituzionali e costituzionali, in bilico tra “stati nazionali” (e democrazia nazionale) e democrazia europea, dentro un assetto non statuale, non federale, non confederale; dunque non precisamente definito o definibile.

“Prima di fare chiarezza su un possibile disaccoppiamento del procedimento democratico dallo Stato nazionale – dice Habermas – dobbiamo sapere cosa vogliamo intendere per democrazia. Ebbene, autodeterminazione democratica significa che i destinatari di leggi cogenti ne sono al tempo stesso gli autori. […] Il crescere del potere di organizzazioni internazionali, via via che le funzioni degli Stati nazionali si dislocano sul piano della governance transnazionale, mina di fatto il procedere democratico degli stessi Stati nazionali. Se non ci si vuole rassegnare a tutto questo, mentre si è costretti a riconoscere come irreversibile la dipendenza crescente degli Stati nazionali (e dei loro popoli) dalle costrizioni sistemiche di una società mondiale sempre più interdipendente, s’impone la necessità politica di ampliare le procedure democratiche oltre i confini dello Stato nazionale.” (Jurgen Habermas, ivi.)
Si profila, dunque, una necessità storica: siamo tutti di fronte all’emergenza di un oggetto nuovo, il mondo in quanto tale. Per quel mondo e in quel mondo, questa generazione deve mettere a punto gli strumenti di un procedimento democratico adeguato a quella “immensità”.

Habermas, fa dettagliate proposte di riforme anche del “Trattato” vigente; non senza aver precisato due acquisizioni fondamentali: a) “Dall’angolo visuale teorico-democratico l’elemento della divisione del soggetto costituente in ‘cittadini’ e ‘Stati’ e invero una qualificazione importante. I cittadini partecipano in modo duplice al costituirsi della comunità politica di livello superiore, nel loro ruolo di futuri cittadini dell’Unione e come appartenenti a uno dei popoli dei rispettivi Stati; b) Questa configurazione delle componenti di una comunità democratica nella forma di una confederazione destatalizzata non significa una perdita di legittimazione, perché i cittadini d’Europa hanno buoni motivi perché il proprio Stato nazionale, nel ruolo di ‘Stato membro” dell’Unione, continua a svolgere il ruolo costituzionale di garante del diritto e della libertà” (ivi). Queste elaborazioni tese a esplicitare le basi realmente democratiche del livello “unionale” degli Stati nazionali hanno una indubbia valenza anche sociale (della Società europea).

Queste impostazioni di tipo costituzionale tese a definire i contorni di una Democrazia sovranazionale risalgono al 2011, mentre le prime forme e manifestazioni di populismi apparivano all’ordine del giorno della Politica europea. Chiosava, infatti, Habermas : ”L’ombra lunga del nazionalismo si stende ancora nel presente. Il diffondersi della solidarietà civica dipende da ‘processi di apprendimento’ che, come l’attuale crisi lascia sperare, possono essere stimolati dalla percezione degli stati di necessita in cui versano l’economia e la politica” (Jurgen Habermas, citato). Ma dopo quelle espressioni e forme hanno moltiplicato la loro forza e influenza. Alla crisi economica si è aggiunta, con una intensità inattesa, quella delle migrazioni che hanno investito una Europa – ancora una volta, e fino a quando?- impreparata. “Anche i popoli – spogliati dei diritti e disinformati – barcollano sperduti, fantasticando recinti nazionali eretti contro l’economia mondo. Credono di contestare i governi. Sono in realtà complici, quando non esigono un’altra Europa: forte e solidale.” (Barbara Spinelli, I sonnambuli dell’Europa).

Dunque ancora di più la ricerca teorica dei costituzionalisti tesa a “fondare” le basi democratiche dell’Unione hanno una valenza anche politica. Ma con tutta evidenza non bastano, perché non risultano funzionanti ed efficaci di fronte ai popoli!

Dalla “crisi della Filosofia /Filosofia della crisi” siamo approdati alla crisi di queste ore di una Europa che non ha le Forme e i Modelli Istituzionali adatti al “governo” delle emergenze, tanto meno dei nuovi, strutturali cambiamenti su scala mondiale, di fronte ai quali “questo” modello istituzionale e decisionale europeo manifesta di non poter offrire la necessaria forza di un “potere civile”, ma coesa ed efficace.

Altre ispirazioni e altre basi di un pensiero europeo dovremo e potremo scoprire dalla analisi “French Theory” e dall’ “Italian Thought”.




La potenza dell’unificazione: una filosofia per l’Europa

“Se è vero, come ha scritto Georg Wilhelm Friedrich Hegel , che il bisogno di filosofia nasce ‘Quando la potenza dell’unificazione scompare dalla vita degli uomini e le opposizioni hanno perduto il loro rapporto vivente e la loro azione reciproca’, nulla è più attuale di una filosofia per L’Europa”.
Così inizia la sua indagine Roberto Esposito, docente di filosofia teoretica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.
(La tesi)
Una intensa e appassionata ricostruzione delle radici del pensiero di e su Europa, perché “può accadere che, quando non è più sufficiente pensare l’Europa in termini economici e appare velleitario ipotizzarne un assetto politico, l’unico varco aperto resti quello scavato dal pensiero”(p. 4). E non si tratta di una fredda speculazione, ma di un confronto diretto con la vita e il sangue delle persone. La vita biologica di milioni di esseri umani in fuga dai propri territori devastati dalla guerra e dalla fame; e le esplosioni che hanno insanguinato le strade d’Europa con la morte che erompe senza più mediazioni al centro della scena politica, scrive Esposito; ed aggiunge: “Il destino del nostro continente, non diversamente da quello del resto del mondo, si gioca sul margine incerto che, nella implicazione diretta tra politica e vita biologica, separa una biopolitica affermativa da una crisi tanatopolitica di dimensione ignote” (p. 5).
“Da fuori”, è il titolo (sottotitolo, “una filosofia per l’Europa”, Einaudi, Torino, marzo 2016.
“Da fuori” è anche la chiave interpretativa dell’intero saggio.
Sia nel senso che: “filosofia e crisi si illuminano a vicenda in una stretta che fa dell’una il filtro di riconoscimento dell’altra”; laddove per “crisi” si deve intendere la questione economica e ancora di più “l’entità del flusso migratorio che ha investito l’Europa da un lato e la guerra scatenata nelle sue strade dall’altro” (p.5).
Sia in un senso più profondo di un “libro che fin dal titolo rompe con un atteggiamento introflesso, riportando la filosofia dell’Europa al suo ‘fuori’; la relazione del pensiero con l’esterno non è solo l’oggetto di questa ricerca, ma anche la cornice teoretica in cui essa si iscrive” (p.6).
Il saggio, perciò, ha una grande pregnanza politica, perché pur impostando la sua ricerca nel quadro di lunga ricostruzione della ‘filosofia della crisi europea’, afferma senza mezzi termini la necessità di una “netta discontinuità” che deve distanziare il pensiero europeo attuale, dal passato; per aprire “una nuova stagione di riflessione in grado di incrociare le questioni poste all’Europa dal mondo globalizzato” (p.6).
(Filosofia della crisi)
Diario europeo deve scusarsi con i lettori e le lettrici per la fatica alla quale li sta chiamando, in una immersione nel pensiero filosofico europeo di oltre un secolo.
“Alla fine della prima guerra mondiale la percezione di una crisi profondissima percorre ed unifica l’intero scenario della filosofia” (p.19). ‘Percorre ed unifica’. Si tratta da una parte di una discontinuità profonda; una sorta di abbandono di un porto tranquillo: “per Hegel la filosofia europea si compie (Vollendung) divenendo storia”. E si compie in Germania. Tutti i nuovi protagonisti, dopo di lui, hanno alle spalle questo ‘pensiero’, forte e rassicurante. “Bastano pochi decenni perché questa prospettiva si oscuri”. E da “compimento” si passa ad “esaurimento”.
“La mediazione tra spirito e potenza, che nella filosofia di Hegel aveva prodotto l’egemonia europea, non riesce più ad arginare le forze distruttive che investono l’Europa dal suo interno, travolgendone i confini simbolici e materiali” (p.21). La ‘macchina metafisica’ si inceppa. Le due grandi guerre si incaricano di certificare questo dato!
Ma procediamo con ordine. All’inizio la frattura avvenne all’interno, tra una sinistra e una destra hegeliana: Marx da una parte, Kierkegard dall’altra. Entrambi pensano che si è di fronte ad una “fine”, ad un “esaurimento” e non più ad un “compimento”. Una sorta di ‘si salvi chi può- un rompete le righe’: l’urgenza di “fuoriuscire” dalla filosofia. Per farsi “prassi politica” (Karl Marx); “agire etico” (Soren Kierkegaard ); “energia vitale” (Friedrich W. Nietzsche).
Insomma, “il rapporto tra filosofia ed Europa subisce una improvvisa lacerazione, destinata presto a farsi solco profondo”(p.21). La storia preme da ogni parte su e contro Europa: “dai lati opposti del continente la vecchia Russia di Dostoevskij e la nuova America di Tocqueville mettono per la prima volta in discussione la centralità dell’Europa” (p.21).
La categoria del “nichilismo” rende bene la situazione. Era un “pensiero” antico, primo-ottocentesco: ora viene ripreso per certificare una “fine”, quella della perduta centralità storica del continente. Le parole usate sono assolutamente altisonanti: Maria Zumbrano (“La agonia de Europa”, Madrid 1945): l’Europa, “il luogo dove esplode il cuore del mondo”. A dirla con forza molto evocativa è Karl Lowith in “Il nichilismo europeo”: “l’Europa è un mondo che tramonta e nello stesso tempo un mondo a venire, ma tra i due mondi non c’è una transizione continua, ma una decisione carica di destino” (Stoccarda, 1940).
(la ricerca del/nel passato)
IL “dispositivo della crisi” evolve in una ricerca di una origine perduta: “non essendovi, per la filosofia, altro terreno di sviluppo che quello europeo, essa non può che ripercorrerlo all’indietro, alla ricerca di qualcosa che ha lasciato, inattivo, alle sue spalle” (p.23).
Per Paul Valéry (Parigi 1919) la crisi dell’Europa ha un carattere terminale. “Dopo essere stata ‘una macchina per trasformazioni’, ‘fabbrica intellettuale senza paragoni’, essa rischia di ridursi alla piccola appendice a ovest dell’Asia” (p.25).
Per Edmund Husserl (Vienna 1935) la consapevolezza della crisi si traduce in una sorta di utopia-follia di grandezza. “Da un lato l’Europa è interpretata come entità dotata di significato universale in ragione del suo rapporto esclusivo con la filosofia (‘sapere che nasce dalla Grecia’). Dall’altro è intesa come terra di un gruppo umano particolare, superiore a tutti gli altri (….) riproducendo così il potenziale escludente della macchina geo-filosofica hegeliana ” (p.27). Il concetto della “fenomenologia del trascendentale” ne è lo strumento.
Martin Heidegger (Tubinga 1966) conduce questa analisi e la prospettiva alla sua conclusione: la origine della crisi europea, infatti, non starebbe nella deviazione dalla metafisica greca, bensì all’interno della filosofia europea tout court. E la crisi, “per quanto europea e dunque mondiale, (essa) è innanzitutto tedesca”; sia perché la Germania è terra di filosofia, sia perché al centro di quell’Europa oggetto dell’attacco delle due potenze antispirituali: Russia e America. In termini filosofici e della sua “Introduzione alla metafisica”, la missione è la “ricerca dell’Essere” (p.28-29).
Di questa autoriflessione della filosofia europea tutta proiettata, come si può ben vedere, su se stessa, alla ricerca salvifica della propria essenza originaria, c’è contemporaneamente una branca “tragica” (p. 29-30): Johan Christian Friedrich Holderlin che vede precisamente nella relazione tra Grecia ed Europa il luogo della salvezza.
Chi conduce alle sue estreme conseguenze questo percorso del dispositivo della crisi è Friedrich Nietzsche ( 1887). “E’ con lui che viene dichiarata la irrecuperabilità dell’origine in quanto inautentica, costitutivamente (…). E’ qui nasce quel vocabolario della ‘finis Europae’, destinato a prendere il nome di nichilismo, da cui le successive filosofie della crisi attingeranno a piene mani” (p. 33). Ma nello stesso tempo egli traccia una frattura insanabile e definitiva sia con le prospettive ellenocentriche di Hegel, di Husserl e di Heidegger, sia con ogni fenomenologia di interiorizzazione. Afferma categoricamente Nietzsche: “solo fuori di sé i ‘buoni europei’ potranno trovare l’energia per spezzare le catene che li legano a una civiltà esausta” (p. 35).
Ma c’è una seconda linea di pensiero di questa autoriflessione della filosofia europea, quella che tenta di proiettarsi fuori da un contesto, ormai definitivamente, lacerato e lacerante. Un itinerario speciale è quello del ceco Jan Patocka, dentro un’Europa scossa prima dalla guerra e poi dalla cortina di ferro, nella quale egli vive, iniziando a scrivere nel fatidico 1939. Per lui “ l’Europa è il prodotto sempre mutevole, di una guerra mai conclusa, perciò la definizione della sua essenza non può che cercarsi al fondo dei conflitti di cui essa è figlia” (p. 37). La sua morte, causata dalle violenze di un interrogatorio della polizia di regime, è segno e profezia di una Europa che può nascere solo “fuori di sé”. Egli già nel 1970, senza aver visto il crollo del muro del 1989, parla di un’Europa post europea, che nasce dalla autoconsapevolezza radicale delle sue crisi.
L’altro itinerario di grande rilievo per l’influenza che ha avuto nel pensiero politico di tutta Europa, è quello di Carl Schmitt. “Con la sua conferenza del 1941 su “Terra e mare- una riflessione sulla storia del mondo ” (…) egli imprime una svolta realistica dell’Europa rispetto alle sue derive apocalittiche. Quando scrive che ‘ molti vedono solo un disordine privo di senso laddove in realtà un nuovo senso sta lottando per il suo ordinamento” (p.40). Carl Schmitt condivide con altri la concezione della irriducibilità del conflitto e ad esso annette la categoria e il linguaggio del “politico”. “A prescindere dal tono – volta a volta drammatico o rassegnato, disperato o disilluso – con cui l’autore ripercorre la vicenda, ciò che caratterizza il suo lessico è un realismo ben lontano dallo spiritualismo di Husserl e Heidegger. Per Schmitt il nichilismo, prima che nel pensiero affonda nella carne viva della storia europea (…). Da questo punto di vista, rispetto alla tradizione filosofica, lo spazio prevale nettamente sul tempo, proiettandone le scansioni sulla superficie terrestre, in quella che può essere ben vista come la prima grande analisi, a un tempo filosofica e politica della globalizzazione”(p.41).
E non bisogna dimenticare anche il contesto più generale del pensiero germanico-europeo in cui nuota l’insieme di questa dinamica del pensiero filosofico: il contesto della “teologia politica”, cioè la discussione sulla interpretazione e fondazione della “sovranità”. E Schmitt “pensa in termini apocalittici, ma dall’alto (…) chi pensa dall’alto lotta perché il caos non venga a galla e permanga lo Stato” (in: Jakob Taubes, La teologia politica di san Paolo, Adelphi, 1997, p.234).
Mentre egli riflette sulla storia del mondo e sui poteri che si esercitano tra “terra e mare”, non può non accorgersi che un altro soggetto emerge sullo scenario della lotte per il potere: l’aereo. E in un carteggio con E. Junger , dopo aver evocato i due animali mitici – Leviatano (mostro marino) e Behemot (mostro terrestre)- ne evoca un terzo : il Grifo, grande uccello menzionato nel libro dei Salmi; e scrive:“ è così potente che se in volo lascia cadere un uovo schiaccia mille cedri giganti e fa straripare i fiumi”.
Insomma, con questo fraseggio simbolico e mitologico (ma anche teologico, per la indubbia dipendenza dalle scritture ebraico-cristiane) assistiamo ad una nuova consapevolezza filosofica, dove è la ricerca – anche giuridica e del diritto – della fonte del “Politico” (la Sovranità), la nuova emergenza del pensiero; in parallelo con l’osservazione dello “spostamento del baricentro simbolico dalla terra al mare, e poi da questo all’aria, (che) rappresenta sul piano dei rapporti di forza, la sconfitta delle potenze continentali da parte di quelle atlantiche. La lotta a morte fra i tre mostri dell’escatologia ebraico-cristiana – rappresentativi dei regni dell’acqua, della terra e dell’aria – traduce con l’evidenza visionaria delle immagini un passaggio di egemonia di carattere epocale” (p. 45).
E la campana già suonava per Europa: ormai non più centrale, ma neppure ancora unificata. Anzi molto lontana dall’esserlo!
Negli anni ’40, altri protagonisti del pensiero europeo – tedesco, francese, italiano – emergono ad interpretare la storia che si svolgeva sotto i loro occhi.

(Nel prossimo “Diario”, continueremo questo cammino: dalla Scuola di Francoforte, alla filosofia francese, al Pensiero italiano. E anche – curiosamente – scopriremo che molta parte di questa filosofia per l’Europa abbia trovato il luogo del suo approfondirsi in terra americana. “Da fuori”, come titola Roberto Esposito, il suo mirabile saggio di filosofia teoretica).




Europa non può perdere i suoi giovani

Lisbona, 7 aprile. Ancora una volta è la Banca centrale (e federale) – attraverso il suo presidente Mario Draghi – che prende la parola.

“Nonostante sia la generazione meglio istruita di sempre, i giovani di oggi stanno pagando un prezzo troppo alto per la crisi. Ciò danneggia seriamente l’economia, perché a queste persone, che vorrebbero ma non riescono a lavorare, viene impedito di sviluppare le loro competenze. Per evitare di creare una generazione perduta, dobbiamo agire in fretta. Una questione chiave in questo senso è la disoccupazione giovanile, in quanto impedisce ai giovani di svolgere un ruolo attivo nella società”

Ieri, Draghi parlava al Consiglio di Stato del Portogallo; e ancora una volta chiamava in causa l’assenza della politica. “L’eurozona nel suo complesso è tornata ai livelli pre – crisi solo l’anno scorso, e alcuni paesi non ci sono ancora. Gli investimenti nel continente sono deboli. Le nostre economie sono ancora caratterizzate da debolezze significative, che devono essere affrontate rapidamente”.

In Portogallo, un terzo dei giovani non ha lavoro. In Italia, il tasso di disoccupazione giovanile è al 38,1 %. Il tasso medio nell’eurozona è di 21,6%, circa tre milioni di giovani senza lavoro. Le punte più alte: Grecia (48,9%), Spagna (45, 3%), Croazia (40,3%), Francia (25,7%), Belgio (22,3%).

Eppure siamo di fronte, come ricordava Mario Draghi, ad una generazione la meglio istruita di sempre. Non solo: con un passaporto con tanti visti, nativa digitale, orientata alla flessibilità come non mai. Tutto è da addebitare alla “grande crisi”? No, non tutto. Dei cambiamenti indotti dalla crisi, sappiamo purtroppo ancora poco. “Anche novità largamente positive come la” sharing economy” – che producono outpout qualitativi in quanto razionalizzano l’uso delle risorse (auto, posti letto, offerta di servizi)- non allargano la torta, se non per qualche forma di integrazione temporanea del reddito” (cfr. Dario Di Vico, Corriere della sera, venerdì 8 aprile 2016).

E’ la qualità della stessa democrazia europea che viene messa a rischio. L’ingrediente strategico per tenere “integrata” una società e per essere cittadini/e nel senso sostanziale della parola – “liberi ed eguali in dignità e diritti”, come affermato dalla Dichiarazione universale dei diritti – anche nell’era delle trasformazioni rapide e inattese, come quella che viviamo, continua ad essere il lavoro: vero pilastro di uguaglianza e cittadinanza (cfr. Mario Campli, Europa, ragazzi e ragazze riscriviamo il sogno europeo, Napoli, 2014).

Le dinamiche relative al “lavoro” si sono via via sempre di più disarticolate e ri-articolate in modi e forme nuove e preoccupanti. Tutte le consapevolezze di questa straordinaria mutazione non appaiono completamente acquisite, neppure nelle organizzazioni dei lavoratori.

Perché la sfida rappresenta, innanzitutto, una “conquista” da parte dei lavoratori e delle loro organizzazioni? Perché sono cambiati profondamente il contesto e i modi della rappresentanza del lavoro che mette in discussione anche il modo di fare ed essere “sindacato”.

Poteva non dover accadere questa trasformazione, mentre un cambiamento profondo si verificava nella natura del capitalismo? Penso proprio di no.

Il paradigma del Novecento, basato sulla dialettica/dinamica capitale-lavoro, con la fabbrica come luogo del conflitto e con lo stato ridistributore è stato affiancato (e in parte sostituito) da un nuovo, insorgente (ma non stabilizzato) paradigma: la dialettica/dinamica flussi-luoghi, con il territorio come luogo della dinamica e con lo stato regolatore (cfr. Aldo Bonomi, Sotto la pelle dello Stato, 2001).

Il rapporto McKinsey, condotto su otto Paesi UE, e presentato a Bruxelles il 13 gennaio 2014, presso il centro di ricerca Bruegel, Il viaggio tempestoso dell’Europa, dall’educazione all’occupazione, dopo aver riconfermato i dati già noti sulla disoccupazione, afferma che “queste cifre solo parzialmente sono dovute alla crisi economica: i problemi ribollono più nel profondo. Il 47% dei datori di lavoro italiani riferiscono che le loro aziende sono danneggiate dalla loro incapacità di trovare i lavoratori giusti, e questa e la percentuale più alta fra tutti i Paesi esaminati”.

Dunque: lo stacco tra la velocita dell’innovazione tecnologica e la lentezza della innovazione

dei sistemi formativi e, infine, la separatezza tra i due mondi sono le grandi questioni che tengono bloccate le prospettive anche del lavoro giovanile.

Ma è importante sottolineare, anche, il suo diversificato andamento nei diversi Paesi della stessa Unione economica e monetaria. Nella crisi il tasso di disoccupazione giovanile italiano e raddoppiato, quello spagnolo e triplicato, quello tedesco si e ridotto del 35%, quello dell’eurozona e aumentato del 56%. E dunque evidente che nella crisi la UEM – Unione Economica e Monetaria ha subito una grande divaricazione nei livelli di disoccupazione giovanile.

L’integrazione tra i Paesi membri della Unione europea, anche e soprattutto tra quelli che hanno adottato la stessa moneta, è incompleta e stà generando divaricazione invece di integrazione economica e sociale: il diverso tasso di occupabilità ne è una delle manifestazioni tipiche.

E’, dunque, sulla Unione Economica e Monetaria che dobbiamo concentrare tutti gli sforzi della leadership dell’Unione.

E non basta. Occorre dare prova di una generosa, rapida e coraggiosa innovazione, tutta finalizzata alla generazione post- Erasmus.

Perché Parlamento e Commissione – di comune accordo e con congiunta iniziativa non si assumono il compito di completare il programma “Erasmus”, ben riuscito e ben funzionante, con la presa in carico direttamente dall’Unione di un programma e di tutte le misure connesse per l’accesso al lavoro dei giovani e delle giovani che hanno completato un programma Erasmus?

Si obietterà: ma non è bene spezzettare i mercati del lavoro, quando – tra l’altro- le politiche del lavoro sono di competenza nazionali!

Ebbene, l’ora e la fase di questa Unione europea sono tali che ragionare con i vecchi argomenti non porta da nessuna parte. Bisogna assumersi la responsabilità di “strappare” la vecchia ragnatela. La sfida che il pericolo concreto di una lost generation pone a Europa è troppo grande ed è troppo significativa per non dover forzare le vecchie distribuzioni dei poteri.

Diamo ad Europa una chance e diamogliela con i nostri ragazzi e le nostre ragazze che da anni hanno imparato a percorrere le strade d’Europa.




Bruxelles 22 marzo 2016

Questa è la pagina di Diario europeo che non avrei mai pensato di dover scrivere.

Sì anche per me, Maelbeek è stata per anni la stazione di “casa”, negli andirivieni da e verso le Istituzioni della Unione Europea. Ma non è certamente questa personale vicinanza ai luoghi che determina la fortissima preoccupazione ed anche angoscia. Mentre mi accingo al compito sono ancora alla ricerca del metodo. Mi immergerò, senza paraocchi e senza un ordine, nel buco scavato dalle bombe, umane e non[1].

(una istantanea)

Il pericolo dell’abitudine. Europa sotto attacco. Bloodbath in Brussels. Darkness in hearth of Europe. I nichilisti e l’argine dei valori. Le colpe dei governi indecisi. Una nuova coalizione per sconfiggere il terrore. Non facciamoci fermare dal mostro della paura. “Stuck”, bloccati. Possono colpirci sempre, siamo pronti al macello. Siamo in guerra, dobbiamo essere ancora più attenti nella vigilanza. Troppo buonismo, adesso la risposta deve essere militare. Abbiamo reagito tardi, la radice dell’odio è nell’apartheid sociale. Il filo spinato non serve, bisogna lavorare sui loro conflitti interni. Questo è il terrorismo della porta accanto.

(filo di Arianna)

Le nostre vite oltre la paura. I commissari hanno avuto la consegna di farsi vedere nei corridoi degli uffici della Commissione, per incoraggiare tutti. Il cuore ferito della città simbolo diventata ora la capitale di tutta l’Europa. Colpiscono il Belgio perché ormai somiglia ad uno stato fallito. Non si può affidare la sua sicurezza solo al governo belga e alle sue polizia rionali. La disfatta della polizia belga divisa in sei e senza un piano. “Dobbiamo trovare il coraggio di affrontare la minaccia, non rassegnarci a sperare che anche la prossima volta non tocchi a noi. Dobbiamo ricordarci cosa significhi essere cittadini, persone responsabili che non perdono la testa, non perdono la dignità ma non abbassano gli occhi per non vedere cosa succede 300 metri più in là” (Mario Calabrese). “Da un lato occorre sicuramente un grosso impegno delle forse di sicurezza, della polizia, dell’intelligence. Ma dall’altro occorre una fermezza politica e sociale a non farsi corrompere dalla minaccia, non rinunciare ai valori liberali e libertari della nostra civiltà, non criminalizzare che sembra diverso. Il terrorismo, nel lungo termine, non può vincere. Ma la nostra reazione, il nostro sistema per combatterlo, contribuiscono a determinare quanto durerà” (Hanif Kureishi). “Per porre fine all’ambiguità e operare con la necessaria trasparenza occorre mettere in atto una strategia che va oltre i confini dell’Europa. Non è un obiettivo impossibile perché Stati Uniti, Cina, Russia ed Europa sono in ugual modo sotto minaccia. Non vedo però nascere il senso di emergenza che è necessario assumere in questi frangenti” (Romano Prodi).

(L’altra faccia della medaglia)

“Scriveranno che l’Europa è in guerra, con se i paesi europei e l’intero Occidente non fossero davvero da due decenni in guerra in Afghanistan, Iraq, Libia e in Siria, con centinaia di migliaia di vittime e tante, troppo stragi di civili (…). Si ferma lo Stato islamico solo togliendogli sotto i piedi il terreno fertile della guerra e dell’odio. Basta maledette guerre, dunque, cominciando a risolvere le crisi, come quella israelo-palestinese, che restando aperte come voragini, sono brace sotto la cenere che riscalda le basi identitarie dello jihadismo armato. Ed è possibile, come dimostra l’accordo Usa con l’Iran” Tommaso Di Francesco).

(le decisioni urgenti, necessarie e possibili)

Nel Diario del 29 novembre 2015 – reagendo ad uno dei rintocchi della campana che suona per Europa – abbiamo indicato i tre punti essenziali tutti di ordina strettamente comunitario alla portata dei Governi e dei Parlamenti degli Stati membri:

  • La cooperazione, obbligatoria, tra le polizie e i servi di intelligence
  • La presa in carico a livello europeo delle frontiere esterne alla Unione
  • La politica estera e della sicurezza comune, ma non più a parole.

Oggi, dai Governi più sensibili e più consapevoli arrivano altre richieste e proposte come quella di una Struttura europea dell’antiterrorismo.

(un seme di futuro)

Il “triste ritorno” che oggi hanno vissuto le famiglie colpite dalla tristissima tragedia della morte delle stupende “ ragazze d’Europa” nell’incidente in Spagna – nel quadro ancora più tragico delineatosi a Bruxelles- può diventare il seme di speranza e di futuro. Sì, una morte ingiusta e creatrice di tanto dolore, lo spezzarsi di queste vite sono lì a ricordarci che c’è chi ora sta costruendo non solo il futuro del nostro Paese nel progetto di Europa Unita, ma anche aprendo la strada per tutti, da percorrere con testarda, positiva volontà. “Non andate in Europa”: è il messaggio lanciato con forza dai vari Travel warming. E, invece, sì: migliaia di ragazze e ragazzi che in questi anni hanno frequentato le università nei Paesi dell’Unione Europea – in parte finanziato con il programma Erasmus- sono stati creatori di un vero e proprio salto culturale. Una parte di quelle generazioni oggi è classe dirigente dei loro paesi. Un terzo degli studenti Erasmus ha conosciuto il partner durante l’esperienza all’estero; la Commissione ha calcolato che da queste coppie, a partire dal 1987, sia nato un milione di bambini. Europa non si costruisce nelle cancellerie di mitici diplomatici degli stati. A queste ragazze diamo un abbraccio commosso. Grazie infinite. Grazie di cuore. La mia generazione si inchina davanti a voi e non vi dimenticherà!

[1] Offrirò un affresco della cacofonia delle voci, scusandomi di non citare nomi e pubblicazioni.




La Banca “federale”

Il 10 marzo scorso (2016), il Consiglio dei Governatori della Banca Centrale Europea ha approvato con “una maggioranza schiacciante” (parole del presidente della BCE) un ventaglio di misure che strettamente intese devono essere chiamate di “politica monetaria”, ma che – in mancanza di una “Istituzione,” vera e propria, sovrana nella “politica economica” (il cosiddetto “Eurogruppo” non è tale, mentre è tale la BCE, vedasi art. 13 del T.U.E.)- rappresenta una manovra di “politica economica” europea di altissimo profilo ed impatto. (In calce, riporteremo anche una sintesi delle decisioni prese dalla Banca Centrale Europea).
(un sano approccio federalista).
Molto correttamente, alcuni analisti hanno ricordato che in “questa” Unione europea, soltanto due sono le Istituzioni “federali”: il Parlamento europeo e la Banca centrale europea. Ambedue senza volerlo, peraltro!
“Diario”, oggi, desidera, perciò, offrire ai lettori e alle lettrici alcuni elementi di conoscenza sul Federalismo, rinviando, per ragioni di snellezza, lettori e lettrici ad un piccolo ed efficace libro, intitolato: “ Gli Stati uniti d’Europa spiegata a tutti”, di Michele Ballerini, Fazi editore, aprile 2014. Naturalmente, resta aperta e impregiudicata la questione: se e come un vero e proprio modello federale possa rappresentare il futuro, possibile e immediato, di questa Unione europea; ma – in assenza di proposte vere e proprie sulla necessaria e urgente riforma del modello Istituzionale e della governance di questa Europa unita- anche questo esercizio potrebbe risultare utile e illuminante.
(le origini)
Il federalismo nasce in America, nel 1787 – Convenzione di Filadelfia – quando 13 Stati (ex colonie inglesi) già confederati decidono di approfondire questo loro rapporto, in quanto “ il legame confederale era troppo debole e gli interessi nazionali stavano per avere il predominio sull’interesse comune” (ivi, opera citata). La prima teorizzazione, in termini di filosofia politica, risale ad Immanuel Kant, alla fine del settecento con la sua: “Per la pace perpetua”, dove – tra l’altro, egli indica nella divisone dell’umanità in Stati sovrani la causa permanente della guerra. Un grande federalista fu Luigi Einaudi – secondo presidente della nostra Repubblica- che già nel 1918 “auspicava l’unione federale degli Stati europei e portò come esempi i comuni italiani del Quattrocento e le città-stato greche dell’età classica; e agli inizi degli anni cinquanta scrisse che gli Stati nazionali erano ormai ‘polvere senza sostanza’ e che dovevano prendere atto e agire di conseguenza, tentando la via della unità politica”.
(la questione democratica)
Il federalismo è innanzitutto un paradigma democratico preciso e leggibile, nel cui ambito può sussistere una razionale suddivisione della sovranità a più livelli (europea, nazionale, regionale, locale) ed una esplicita, legittimata e prevedibile, rappresentanza democratica e popolare. E’ su questa base che potrà essere reimpostato l’attuale modello istituzionale europeo: con al centro il Parlamento, organo legislativo (articolato su due Camere: quella dei popoli- l’attuale parlamento e quella degli Stati – l’attuale Consiglio), a cui deve rispondere un “Esecutivo” (l’attuale Commissione): vero e proprio “Governo europeo”.
(la infrastruttura federale)
Una Unione federale è dotata – normalmente – del Bilancio federale, con una Fiscalità propria (che non significa una ulteriore tassazione che si accumula su quella degli Stati federati, ma una specifica tassazione che corrisponde alle Politiche propriamente federali – quindi sgravando gli Stati membri da incombenze inadeguate ed inefficaci a quel livello –e genera Risorse Proprie (quindi non trasmesse dagli Stati membri, ma fondate sulla cittadinanza europea). Quindi, un Debito pubblico-sovrano federale (che da una parte deriverebbe dalla messa in comune di una parte dei Debiti sovrani degli Stati membri e dall’altra da uno specifico Debito nuovo, per un diretto approvvigionamento federale dai mercati per specifici Investimenti federali). Quindi, la Moneta federale e la Banca Centrale, con il potere reale ed autonomo di stampare moneta.
Come si può facilmente rilevare da questo rapido affresco, la situazione attuale di “questa” Unione europea si manifesta come un mix, contraddittorio e incompleto, di strumenti e funzioni che genera una situazione sempre instabile e incerta: una Moneta senza Stato, un Bilancio senza fiscalità propria, tante Politiche diversamente “comuni” e molte competenze/poteri/funzioni gestite a mezzadria! Mancano – in capo all’Unione, peraltro- Politiche strategiche per una Entità politico-strategica, riconoscibile ed affidabile di fronte al Mondo, quali: la Politica estera (anche con il seggio unico europeo all’ONU), della Difesa e della Sicurezza (con l’esercito europeo e la gestione comune delle frontiere esterne), dell’approvvigionamento energetico centrale, del Welfare europeo (integrale o almeno di alcune sue parti nevralgiche). Siamo di fronte ad una sorta di ircocervo, che le pubblicazioni ufficiali della UE – distribuite su carta o editate via internet – definiscono così: “L’UE quindi si trova a metà strada tra il sistema compiutamente federale proprio degli Stati Uniti e il sistema di cooperazione intergovernativa non vincolante che caratterizza le Nazioni Unite” (cfr. “Come funziona l’Unione Europea-Guida del cittadino alle Istituzioni dell’U.E.” (p. 3).
(come e da dove cominciare)
Curiosamente, l’opera di costruzione sarebbe più facile se oggi partisse da zero. Non è così: oltre che partire e procedere bisogna anche cancellare e demolire. La grande questione della Unità Europea di questo secolo sta appunto in questo difficile tornante: uno “stop and go” di carattere strategico, istituzionale e politico per procedere nella e con la Unione attuale, senza mai arrestare il cammino e nello stesso tempo innovare e cambiare in rpofondità. E’ ovvio, quasi naturale che siano i Paesi membri della zona Euro – Popoli e Stati – a prendere in mano – ad un tempo – il proprio destino e il destino di questa Unione. Sarebbe auspicabile che siano tutti gli attuali Paesi ( 18) che hanno in comune la Moneta; ma se da una autonoma e sovrana riflessione, qualche Paese non se la sentisse di procedere verso la “Unione Politica”, non sarebbe un dramma, in quanto non si configurerebbe come una sorta di “default”, bensì di una scelta condivisa e cogestita.
(tornando alla Banca Centrale e “federale”)
Le misure prese, il 10 Marzo, dalla Banca centrale europea (senza entrare nei tecnicismi): stimolano il finanziamento delle imprese e delle famiglie, sostiene la solidità dei bond dei paesi più fragili, riduce lo spread tra i titoli di stato e tra i tassi di interesse nel finanziamento alle imprese a Nord e a Sud dell’Europa. Colpisce l’equilibrio dell’insieme della manovra, facendosi carico di una visione veramente europea: dalle misure che danno una mano alle economie che stentano a far partire la ripresa, agli acquisti di obbligazioni emesse da imprese anche tedesche (Volkswagen, ad esempio o anche colossi energetici in affanno come Rwe), francesi, ecc. Non si comprendono, quindi, gli attacchi di dirigenti d’impresa, soprattutto tedesche; a meno che non si voglia continuare a pretendere di mantenere rendite di posizione derivanti da differenze di tassi, regalati dai mercati, e generati da un contesto – appunto, mai dimenticarlo- di una Unione economica e monetaria incompleta.
“Dove la solidarietà politica intergovernativa non ha funzionato, ha avuto successo una logica federale della banca centrale, tesa a prevenire la deflazione e stimolare la crescita complessiva dell’economia europea”. L’approccio e le misure adottati dalla BCE , inoltre, “finiscono per scontrarsi con le incongruenze originarie di Maastricht, quando si decise di creare una Unione monetaria federale senza un Bilancio federale e senza alcuna forma di condivisione anche parziale del Debito. Quando nel luglio 2012, Mario Draghi salvò l’euro promettendo di fare ‘whatever it takes’, tutto il necessario, per tutelare la moneta unica, implicitamente si impegnò a compensare le storture della costruzione monetaria europea” (cfr. Andrea Bonanni, “La scelta federalista”, in: la Repubblica 11 marzo 2016 e anche: Mario Campli, “Europa, ragazzi e ragazze riscriviamo il sogno europeo, Marotta&Cafiero, 2014).
Il tema del “Completamento della Unione Economico e Monetaria – U.E.M”, diventa sempre di più centrale e strategico. Nei prossimi interventi, “Diario europeo” affronterà il tema.
Oggi era importante sottolineare la “supplenza” politica e istituzionale da parte della Banca centrale europea. Lo facciamo con le parole di Mario Draghi nella conferenza stampa, a Francoforte, giovedì 10 marzo: “Immaginate se non avessimo fatto niente, avessimo incrociato le braccia dicendo nein zu allen, no a qualsiasi cosa; oggi ci troveremmo con una disastrosa deflazione”. E non solo; di nuovo la Moneta sotto attacco, il panico sui mercati, ecc. ecc!
Ma non saremmo completi se non aggiungessimo una analisi sulle cause della strisciante deflazione europea. Sono origini e cause del tutto nuove, sulle quali la riflessione dei decisori delle politiche economiche sono tendenzialmente silenti o distratti. “La quarta rivoluzione industriale, quella di Internet, permette a tutti di comprare, scambiare e condividere servizi (da Uber, a Airbnb, ecc.) e beni di ogni genere, rappresentando quella ‘distruzione creatrice’ che frena l’aumento dei prezzi, in un contesto in cui i giganti del Web creano poco lavoro e impongono la massima remunerazione del capitale” (Roberto Sommella, “Il capitalismo della rete e il socialismo delle cose”, in: Il Corriere della sera 14 marzo 2016). E, ovviamente, si tratta di una “innovazione” che riguarda tutta Europa: abbiamo assistito recentemente alle violente proteste in Francia, ad esempio, contro Uber. Come dire: una lotta contro un fantasma! Se, invece di misurare i decimali dei Bilanci pubblici nazionali, la Commissione si dedicasse allo studio ed alle politiche per predisporre questa economia “antica” d’Europa a reagire e a vincere la competizione del futuro? E se cominciasse a pensare anche a quale Welfare innovativo si debba Europa (con tassi di invecchiamento della popolazione molto alti: dalla Germania, all’Italia, ecc.) attrezzare per sostenere il lavoro e i lavoratori in questo attraversamento del deserto? Gli Stati membri a questa sorta di “abbandono” dovrebbero reagire e non sulla sacrosanta redistribuzione dei rifugiati e richiedenti asilo, guardando – si fa per dire – l’ombelico della propria, ristretta, impari ai nuovi compiti “sovranità nazionale”.



Il posto di Europa nel Mondo

Ha suscitato qualche scalpore la recente lunga serie di interviste del presidente (uscente) degli Stati Uniti d’America al magazine “The Atlantic” sulla politica estera da lui promossa e guidata nel corso dei suoi due mandati.

Obama, riferendosi agli alleati europei in merito al peso e alle responsabilità dell’ordine e della stabilità mondiali, ha parlato di “comportamenti parassiti e scrocconi” (in inglese, forse, è meno sprezzante: “free rider” è colui che non paga il biglietto sul mezzo pubblico, “portoghese” avremmo detto noi). A scanso di equivoci, però, dobbiamo esplicitare che questo nervosismo non rimanda alla classica posizione americana – stile John Wayne -del “mettere mano alla pistola”, sempre e comunque. Ecco alcuni passaggi utili a riassumere il pensiero strategico di Barack Obama: “non è brillante l’idea che di fronte a ogni crisi dobbiamo mandare i nostri militari a imporre l’ordine (…) Gettare bombe su qualcuno per dimostrare che sei pronto a gettare bombe su qualcuno, è la peggiore ragione per usare la potenza militare (…) L’Is non è una minaccia esistenziale per gli USA, il cambiamento climatico sì”. (le citazioni sono tratte da: F. Rampini, “Europei parassiti sulla sicurezza”, la Repubblica, 11 marzo 2016).

Naturalmente non è compito di “Diario europeo” difendere le scelte dell’inquilino della Casa Bianca, ma penso che sia molto interessante partire dalle sue analisi (e anche dal linguaggio, ormai da ex-presidente) per riflettere sul posto di Europa nel Mondo.

Faremo questo percorso presentando ai lettori e alle lettrici l’ultimo numero della “Rivista italiana di geopolitica- LIMES”: La terza guerra mondiale?, n. 2, 2016 (febbraio)”.

Quale è la situazione? “L’Europa, soggetto delle prime due guerre mondiali, in caso di terza ne sarebbe oggetto. Dopo aver esportato guerre sue in continenti altrui, ora potrebbe reimportarle. Con gli interessi” ( Editoriale: “Non è la fine del mondo”, p.23).

Ovviamente, il tema non è chi e come “fare una guerra”. Vale – sul piano etico, morale e anche strategico, per tutta la Unione quanto dice espressamente la Costituzione italiana: “ ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Il tema che Limes riassume a modo suo è, invece, questo: “Il trasferimento di sovranità dallo Stato nazionale all’Unione Europea è fallito, ammesso sia stato tentato. Nell’anomia che preme alle nostre porte le voci degli europei suonano flebili o velleitarie. Producendo stridenti cacofonie (…). In questa fase storica il pericolo per l’Europa scaturisce dall’intreccio fra la nostra impotenza, la violenza dei vortici bellici intorno a noi e il relativo disinteresse degli Stati Uniti per il continente”.

“Diario” ha già ricordato la vicenda storica europea del fallimento della “Comunità europea della difesa- CED” (Diario del 27 novembre 2015).

Oggi è su uno scenario più vasto che voglio attirare l’attenzione: “l’incrocio fra guerre alla nostra periferia orientale (Ucraina) e meridionale (dalla Libia al Siraq), l’incubo terroristico che dopo Parigi svela i nostri nervi scoperti e la pressione migratoria che espone la porosità delle frontiere esterne Ue, mentre ci spinge a erigere barriere fra soci comunitari onde scaricare gli aspiranti rifugiati sul vicino. Nell’illusione si tratti solo di emergenza, non anche di flussi dettati nel lungo periodo dalla geo-demografia (…) coltivare l’ideologia (e la prassi) della ‘guerra al terrorismo’, nella speranza di rispondere così alla domanda di sicurezza che sale dai nostri elettori” (p.24).

Ecco, è in questo affresco che, ancora una volta, si manifesta l’ afasia di “questa” Unità europea, l’obnubilamento del pensiero strategico delle sue classi dirigenti, l’annebbiamento della prospettiva: passando da uno stress all’altro (crisi finanziaria e fiscale e della moneta-crisi migratoria e di Schengen-crisi del modello istituzionale e della governance), non riuscendo mai, in nessuna di esse, a chiudere il cerchio, fino a configurare vere e proprie “crisi democratiche” in alcuni Stati membri: dove l’appartenenza all’Unione diviene (o viene così percepita) come parte (se non causa!) del problema e mai come componente e luogo della sua soluzione.

Suggerisce “Limes”: “ Per decifrare il corso dominante della geopolitica attuale estraniamoci per quanto possibile dal rumore della cronaca. Schivando il surplus di narrazione ideologica diffuso dal fuoco incrociato di propagande e contropropagande. Attingeremo al consiglio di Carlo Ginzburg- ‘ capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco’ . Prenderne le distanze, osservandolo con il cannocchiale rovesciato: ‘alla fine l’attualità emergerà di nuovo, ma in un contesto diverso, inaspettato’.”(p.7).

Non si tratta, ovviamente di “invocare la pace”, ma di operare per espandere lo spazio della pace, avendo chiari sullo sfondo le partite geopolitiche, tutte:
• Quella geo-demografica e ambientale: che sta lì a ricordarci – superando le diverse e contrapposte pulsioni ideologiche (anche quelle ammantate da spirituali motivazioni) – “Il pianeta stretto” (cfr. Massimo Livi Bacci, il Mulino, 2015);
• Quella della influenza del clima economico: l’impatto dei fattori economici e finanziari sull’accentuata conflittualità geopolitica, almeno nel breve periodo;
• Quella della insuperabile scarsità tendenziale delle risorse: energia, acqua;
• Quella delle mafie locali e/o transnazionali (cfr. ivi, passim).

E’ su questo sfondo che vanno – ricollocandoli sempre nell’unico “planisfero di Caoslandia” – analizzati e interpretati i vari pezzi. “La sfida è tra apocalissi quale profezia auto-avverante e rinascita di un pragmatismo positivo orientato al compromesso per il bene della propria comunità (non è questo il tempo di disegni salvifici universali); sempre che l’ora della politica non sia trascorsa” (p. 9).

Riuscirà l’Unione Europea- la qualità e la consistenza delle sue Istituzioni; il suo Parlamento dei popoli d’Europa; le sue forze politiche e intellettuali; le sue eredità umanistiche, religiose e culturali – a darsi la modalità di vincere il rumore della cronaca, rifiutare le narrazioni ideologiche e dimostrare con i fatti che l’ora della politica non è trascorsa?

Il “Trattato sull’Unione europea” (T.U.E.) sembra delineare una base giuridica adeguata:
• “La competenza dell’Unione in materia di politica estera e di sicurezza comune riguarda tutti i settori della politica estera e tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione; compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune che può condurre ad una difesa comune” (art. 24, comma1)
• “Nel quadro dei principi e degli obiettivi dell’azione esterna, l’Unione conduce, stabilisce e attua una politica estera e di sicurezza comune fondata sullo sviluppo della reciproca solidarietà politica degli Stati membri, sulla individuazione delle questioni di interesse generale e sulla realizzazione di un livello sempre maggiore di convergenza delle azioni degli Stati membri” (ivi, comma 2)
• “ Gli Stati membri sostengono attivamente e senza riserve la politica estera e di sicurezza dell’ Unione in uno spirito di lealtà e di solidarietà reciproca e rispettano l’azione dell’Unione in questo settore” (ivi, comma 3)
• “Il Consiglio e l’alto rappresentante provvedono affinché detti principi siano rispettati.”

Ricordo che per “Consiglio” qui si intende il consesso dei ministri degli esteri di tutti i Paesi (28) membri; e che per “Alto rappresentante”, si intende la Commissaria (e anche vicepresidente della Commissione) Federica Mogherini. Sottolineo che gli articoli del Trattato, sopra riportati, sono tutti “nuovi” rispetto ai precedenti, introdotti proprio nel Trattato cosiddetto di Lisbona (firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009).

In seguito la Unione Europea si è dotato di una grande e diffuso corpo di ambasciatori e sedi diplomatiche, sparse nel mondo. Occhi ed orecchie sul mondo dovrebbero, quindi, essere al lavoro. Le conoscenze dovrebbero essere complete, adeguate, rapide ed esaustive.

Ma sfido chiunque ad affermare che l’ Unione ha una politica estera. Mentre i termini (si provi a rileggere rapidamente gli articoli citati) scelti ed usati nel Trattato risultano impegnativi, cogenti per una efficacia quotidiana azione di politica internazionale.

Perché questo accade? E perché questa grave contraddizione non suscita interrogativi e – direi- sconcerto nelle classi dirigenti europee e Istituzioni dell’Unione?

A volte, ad essere precisi, accade: ricordo il caso dello strategico negoziato tra Iran e mondo occidentale, nel corso del quale l’Unione europea (e la commissaria Mogherini) ha svolto un ruolo rilevante e anche speciale per il profilo specifico. Per concludere che, se c’è la volontà politica unitaria, Europa e Mondo può risultare una relazione positiva, costruttiva e utile alla pace, al negoziato, alla stabilità.

“Il mondo, aperto e globale, ha un grande, urgente bisogno di questa Europa politico-strategica: unita, forte, affidabile e presente”. Così concludeva un “ Diario europeo” del 27 novembre 2015. Possiamo aggiungere: questo Mondo instabile- sempre più instabile (“ l’ultimo tentativo di gestione del puzzle globale fu la guerra fredda”!) – ha bisogno di UNA voce di Europa: riconoscibile, forte, autorevole, affidabile.

Se il Consiglio europeo (capi di Stato e di Governo) non ha l’animo di esprimerla – confermando che il modello del “metodo intergovernativo”, ormai imperante nella direzione dell’Unione, si dimostra con tutta evidenza inadatto – prenda la parola il Parlamento dei popoli d’Europa e chiami la Commissione europea ad assumere tutte le responsabilità che il Trattato indica e prevede.




Integrazione o Disintegrazione? Del ‘buon senso’ e del ‘senso comune’

Ai cittadini e alle cittadine di “questa” Unione europea –anche ai/alle più attenti/e – può capitare di essere talmente concentrate/i sulle attuali e interminabili emergenze e da esse assorbite/i, da perdere la capacità e la possibilità stessa della percezione dell’insieme.

Noi siamo abituati, infatti, a parlare, discutere e a fare i conti della “integrazione” europea; a indagare e riflettere se e come essa procede, segna il passo oppure si sta bloccando. Mentre l’insieme del processo – nella sua interezza – è fatto anche da processi di “disintegrazione”.

A che punto siamo? Su questa parola oggi voglio attirare la vostra attenzione. Lo faremo in compagnia di un libro recente e del suo autore.

(Il problema)
“Il problema è che gli esperti della UE hanno scritto tantissimo della sua ascesa, ma praticamente niente sulla sua eventuale caduta. Esistono numerose teorie sull’integrazione europea, ma praticamente nessuna sulla DISINTEGRAZIONE. E’ persino difficile immaginare quali sarebbero le conseguenze della disintegrazione (…). La disintegrazione è reversibile? E’ un prodotto o un processo? Quanto tempo deve trascorrere perché si possa stabilire se la disintegrazione sia o non sia effettivamente avvenuta: un mese, un anno o un decennio? E quali potrebbero essere le conseguenze più generali della disintegrazione europea a livello economico, politico e internazionale? Certo non è facile tentare di dare risposta a questi interrogativi sempre più pertinenti”.

Diario europeo trae questa citazione da un libro ( pubblicato in Italia nell’ottobre 2015), che oggi vuole presentarvi, insieme al suo autore, Jan Zielonka: “Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione europea”.

Zielonka insegna Politiche europee alla University of Oxford ; le sue aree di ricerca sono i media, la democrazia, le istituzioni politiche e la storia delle idee politiche. Nei “ringraziamenti”, in coda al libro, ci informa che ha discusso e monitorato l’ approccio adottato con i dottorandi in European Politics and Society, con l’ European Studies Centre del St. Antony’s College, con la European Council on Foreign Relations e – mentre lo scriveva – con l’Institute for Democracy and Human Rights presso la University of Sidney.

Presentando il libro ai lettori italiani, quasi si scusa e afferma: “questo libro potrà sembrare provocatorio o persino apocalittico” (in effetti il sottotitolo della traduzione italiana non è presente nel titolo della edizione originale: “ Is the UE doomed?” (Cambridge, 2014). Più in là precisa: “Questo libro non offre appigli agli euroscettici britannici, francesi o olandesi. L’Europa contemporanea è un ambiente fortemente integrato (….). Tuttavia in queste pagine si avanzano dubbi sulla capacità dell’UE di riconquistare la fiducia pubblica in Europa, generare coesione fra gli Stati membri e dar forma a un programma plausibile di autoriforma”. E ammonisce: “ Nell’Unione allargata e stratificata, le riforme coraggiose sono controverse e quelle timide sono inutili (…) Per questo motivo si propongono qui nuove modalità di integrazione dell’Europa. Il ragionamento va oltre le attuali controversie tra federalisti ed euroscettici. Non si rifà a un’agenda nazionale di parte, né ad un programma ideologico. Sostiene che gli europei meritano un modo di lavorare insieme, migliore di quello offerto da una UE sempre più inefficiente”.

Il tentativo di Zielonka è ad un tempo coraggioso e temerario; dice: “ I funzionari dell’UE si comportano come se niente fosse e rifiutano di prendere in considerazione un piano B. Questo libro apre una discussione su un piano B per il bene dell’Europa e dei suoi cittadini. Bruxelles pare incapace di guidare l’Europa verso un futuro migliore, e Berlino non sembra disposta a farlo. La prospettiva di un superstato europeo è ingenua. L’Europa deve essere reinventata e ricostruita, questa volta dal basso invece che dall’alto. Queste pagine rivelano molte verità dolorose, ma prefigurano uno scenario di rinnovamento europeo.”

Jan Zielonka è questo, generoso e temerario: “io sono un vero europeo, secondo qualsiasi parametro si voglia adottare, e non provo alcuna soddisfazione a concludere che l’Unione europea, la UE, possa essere condannata a sparire, ma l’Europa e l’integrazione europea di certo non lo sono”.

(del ‘buon senso’ e del ‘senso comune’)
La sua opera di studioso – tra indagine e critica politica – mi ha fatto tornare in mente una profonda espressione attribuita ad Alessandro Manzoni (già evocata nel titolo di questo Diario): “Il buon senso c’era ; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune. Il senso comune si nutre di miti, il buon senso di fatti”. Una massima che ben si attaglia alla situazione attuale di Europa e a molti dei suoi protagonisti (Stati nazionali, Capi di governo e/o di Stati, Parlamenti, Istituzioni europee).

E – sarò onesto e trasparente con i lettori e le lettrici – resto incerto e pensoso: cosa è qualificabile come “fatto” e cosa, come “mito” – stando al motto manzoniano- nella attuale configurazione della crisi europea?

L’indagine di Zielonka è ricca di “Fatti” sul versante della disintegrazione: sono numerosi e puntuali (rinvio alla lettura); mancano nella lista, ovviamente, quelli che sono nella nostra memoria più recente ( dopo la chiusura del suo libro) e anche quelli che sono, ora, sotto i nostri occhi.

Eccone uno, freschissimo, anzi dovrebbe ancora accadere: (è il quesito referendario che Viktor Orban, premier Ungherese, vuole-minaccia di proporre ai suoi elettori, una parte consistente del suo popolo): “E’ d’accordo sul fatto che, senza l’autorizzazione del Parlamento nazionale, l’Unione europea possa obbligare l’Ungheria ad accogliere ricollocamenti di cittadini stranieri sul suo territorio?”. Gli svizzeri, maestri in materia – chiosa Massimo Riva (La repubblica 28 febbraio 2016) – “dicono che il vero potere nei referendum sta dalla parte di chi pone l’interrogativo; con un quesito così formulato non si possono avere dubbi sull’esito della consultazione”.

Ma si può essere contrari ad un referendum che dà la parola ai cittadini? No, assolutamente. (Chi o cosa è “mito” e chi o cosa è “fatto”: tra “democrazia diretta” e “accoglienza dei rifugiati”?). Restiamo, ancora un poco, in Ungheria e facciamo emergere un altro “fatto”: gli oltre cinque miliardi e mezzo di euro che dal bilancio europeo (ex tasse dei contribuenti degli stati membri) che arrivano in Ungheria, ogni anno. (Chi o cosa è “mito” e chi o cosa è “fatto”: tra la condivisione dell’accoglienza dei rifugiati nella società e nello Stato ungheresi ( al cui benessere dà un contributo di risorse tutta l’Unione) e la “sovranità” nazionale?).
L’otto marzo prossimo- Martedì – la Commissione Europea approverà (e presenterà al Parlamento Europeo-cioè i rappresentanti eletti, dei popoli europei ed al Consiglio-cioè gli Stati membri europei) una nuova e risolutiva regolamentazione comune delle Immigrazioni e uno schema di “obblighi” sull’accoglienza condivisa. Ricordiamo tutti la Decisione “comune” di qualche mese fa (cfr. Diario n. 18, del 5 febbraio 2016): la stessa Commissione e il Consiglio avevano approvato – a maggioranza – un piano di ricollocazione, dall’Italia e dalla Grecia verso gli altri Paesi membri, di 160 mila rifugiati. Ma il piano è fallito per la mancata volontà di applicarlo da parte di diversi Paesi membri dell’Unione -dopo un voto formale (a maggioranza), secondo le regole democratiche.
E, dunque: sono questi i “fatti” e i “miti”; il “buon senso” e il “senso comune”; il processo-prodotto “integrazione” e il processo-prodotto “disintegrazione”.

L’ indagine di Jan Zielonka individua la debolezza del processo europeo, storicamente messo in atto, e scrive: “La UE ha sempre risentito di uno ‘scarto fra capacità e aspettative’. Ha immaginato un modello di integrazione controllato da un unico centro istituzionale investito di troppo responsabilità, ma dotato di scarsa legittimazione e di risorse inadeguate. Era una visione irrealistica, destinata a fallire”. Il caso sopra citato è un esempio preciso dello “scarto”.

(Scenari di disintegrazione)
Entrando, poi, nel merito del “processo o prodotto”, Zielonka afferma:” Corre l’obbligo di esaminare tre possibili scenari:
• “il primo vede i leader d’Europa perdere il controllo sugli eventi finanziari o politici in atto”;
• “il secondo presuppone che essi tentino di affrontare i problemi, ma finiscano per peggiorare la situazione”;
• “il terzo prevede una politica di benevola indifferenza, con implicazioni un po’ meno benevoli”.

(Motori di disintegrazione)
Esaminando gli agenti che muovono il processo osserva:
• “ Il processo decisionale europeo è sempre stato lento, complesso e subordinato al minimo comune denominatore. Ma oggi il problema sembra essere molto più fondamentale. Le Istituzioni europee paiono distanti sia dalla politica nazionale sia dai mercati globali. Sembrano operare in un vuoto politico ed economico, incapaci di produrre un impatto significativo per i cittadini o per le imprese. Adeguare la legislazione dell’UE a realtà in continuo mutamento è diventato problematico, e il livello di conformità deludente”.
• “Oggi ‘unità nella diversità’ sembra uno slogan privo di significato e l’Unione europea è priva di un’identità riconoscibile che spinga le persone a restarle fedeli in questi momenti difficili”.
(Dinamiche di disintegrazione)
Riflettendo sulle dinamiche di disintegrazione, Jan Zielonka rileva due fattori:
• “Primo, l’UE deve ancora mettere a punto un meccanismo di gestione efficace per i tre ambiti distinti – economico, politico e istituzionale – nei quali la crisi europea è in atto.
• “Secondo, l’Unione europea non dispone di strumenti democratici per legittimare le proprie politiche. (….) Il progetto europeo si è sempre basato sulla legittimità ‘in uscita’ (cioè sostanziata dai risultati), più che ‘in entrata’, e questo significa che l’efficienza, non la democrazia, è al sua logica di fondo.”
Fino ad ora, il tradizionale, storico metodo di integrazione (mercato interno, ecc.) aveva espresso gradi adeguati di efficienza; ora questo processo ha esaurito la sua forza.
Il nodo centrale viene individuato da Zielonka, nel fatto che i principali pilastri della integrazione europea:
• il mercato unico
• la moneta unica
• e l’area Schengen (frontiere interne aperte)
hanno:
• membri diversi
• disciplinati da Norme diverse
Il risultato è la situazione attuale che Jan Zielonka chiama “Eufonia”.

E’ a questo punto che inizia la ‘pars costruens’ della indagine. E Zielonka si chiede: “E’ possibile un qualche tipo di integrazione in un’Europa caratterizzata da una pluralità di alleanze politiche, una sovrapposizione di competenze e una florida eterogeneità socio-culturale? LA mia RISPOSTA è SI’. Ma dobbiamo modificare la nostra visione di integrazione, abbracciando un vero pluralismo e una vera diversità. Sosterrò che un’Europa più flessibile, decentrata e ibrida offre enormi opportunità e non andrebbe vista come soglia dell’anarchia westfaliana”.

Diario europeo si è impegnato molto in questa ricostruzione analitica per la serietà dell’impegno del suo autore e anche per la carica di speranza che egli profonde nel suo lavoro. Ma confessa che addentrandosi nella parte propositiva, l’ha trovato alquanto – pur generosa – fragile. Ciò non toglie nulla al valore del saggio.

Tento di riassumere la filosofia della sua visione innovativa in questi due punti:
• “L’alternativa che propongo prevede un’integrazione flessibile secondo criteri funzionali, al posto del tentativo ostinato di creare un superstato europeo. La reti che emergeranno da questo modello di integrazione non saranno veri e propri ordinamenti, ma organizzazioni concepite per rispondere a esigenze precise ed eseguire compiti precisi. Questo è esattamente il tipo di reti affinate e diversificate di cui l’Europa ha disperato bisogno”.
• “La struttura della ‘governance’ europea non assomiglierà a una piramide, bensì ad una ‘scatola di giunzione’ con numerosi punti di intersezione e interazione (…) Ho definito questa nuova modalità di integrazione ‘polifonica’, i contrapposizione all’attuale Eufonia o addirittura cacofonia. Un’ Europa polifonica adotterà i principi base della democrazia: pluralismo e autogoverno. Adotterà anche i principi base di una ‘governance’ efficiente: coordinamento funzionale, differenziazione territoriale e flessibilità.”

E conclude: “L’ascesa della pluralità e dell’ibridismo può sembrare un novità per gli studiosi dell’UE, ma non per gli studiosi della globalizzazione e del cambiamento sociale. Da anni la rivoluzione digitale determina enormi trasformazioni nei sistemi di produzione, nella concorrenza e nella sicurezza”.

E concludiamo anche noi. Questo ed altri studi sono i benvenuti. Costituiscono un potenziale di utilità e di operatività. Prioritaria è la volontà politica e strategica dei popoli e degli Stati d’Europa.
Deve manifestarsi. Deve manifestarsi a breve. L’attuale Parlamento deve prendere la parola: in modo rituale o irrituale.
Diario europeo ha già elevato, nei mesi scorsi, l’appello a questo Parlamento europeo esistente; esso può e deve diventare l’autore e il protagonista della trasformazione del modello istituzionale: la sua Forma e la sua Sostanza.

Senza il permesso degli Stati nazionali, i Rappresentanti ELETTI dei Popoli d’Europa – in forza della loro elezione senza vincolo di mandato – diano forma e voce ad una nuova configurazione istituzionale, assumendo in prima persona la iniziativa di fare le Leggi; e, in primis, approvando una “Costituzione dell’Unione”, snella e profonda, che inizi con le parole: “ NOI, POPOLI d’EUROPA……”; da sottoporre a successivo Referendum confermativo da parte dei Popoli d’Europa. Uno stop an go: solenne, risolutivo. Una ultima spiaggia! Ed è in questa “cornice” o “patto” che deve trovare posto e forma anche la nuova fase di integrazione possibile; non nelle “deroghe” affannose e pasticciate per arginare i vari Referendum dei “Membri”. La Unione non è e non potrà-dovrà mai essere una “prigione”. E torna in campo l’attuale articolo del Trattato: articolo 50, “Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione”. Vorrei soltanto una modifica: non ogni “Stato”, ma “Ogni membro – Popolo e Stato”.

Convochi, dunque, il Parlamento eletto ed operante una “Seduta Permanente” ( oppure elegga al suo interno, con metodo e rappresentanza proporzionali, una COMMISSIONE STRAORDINARIA COSTITUENTE), annunciando ai POPOLI d’EUROPA che legittimamente rappresentano, che la grande trasformazione è in atto e che il Parlamento dei Popoli d’Europa si considera in seduta permanente e continuativa per dare ai Popoli e agli Stati un’anima e una forza nuove.

Lo faccia. E’ il Tempo ed è l’Ora delle Responsabilità, cioè: abilità a rispondere!




Lezioni della storia

A volte anche la lettura del vecchio quotidiano può riservare qualche piacevolezza. (Soprattutto per un settantenne. E la memoria, stanca ma ancora indomita, torna non senza un certo rammarico alle temute interrogazioni del lunedì su un capitolo di storia, letto e memorizzato in fretta, per la “interrogazione” e poi via di corsa!)

Oggi – non un giornalista di professione ma uno storico di livello internazionale – Niall Ferguson, ci fa tornare ad un “vertice europeo” tra Francia e Gran Bretagna, del 1520 (…appena poche ore dopo il Consiglio europeo di giovedì-venerdì scorsi: ma in questo caso sono 28 Paesi di Europa).

Dice: “durò quasi due settimane e mezzo” (oggi sono più sbrigativi!). “Non si concluse nessun accordo importante, ma tutti tornarono a casa contenti” (e questa abitudine ha, dunque, una sua storia antica!).

Niall Ferguson è, tra l’altro, autore di: “ The Great Degeneration” (2012) – “Il grande declino- come crollano le istituzioni e muoiono le economie”, Mondadori, 2013.

In questo suo saggio, scrive: “Per dimostrare che le istituzioni occidentali sono veramente in declino, dovrò aprire alcune scatole nere rimaste a lungo sigillate. Sulla prima sta scritto “democrazia”. Sulla seconda, “capitalismo”. Sulla terza, “rule of law” (regola o governo della legge). Sulla quarta, “società civile”. Insieme costituiscono le componenti fondamentali della nostra civiltà. (…) Non si può individuare il guasto semplicemente guardando l’involucro lucente. Bisogna guardare dentro” (ivi, p. 11) .

Ma torniamo al Ferguson della sua lezione di storia, impartita oggi, a noi contemporanei di questa Europa-Unione (cfr. la Repubblica 22 febbraio 2016, p. 7).

Si lamenta il nostro perché: “ho avuto difficoltà a spiegare ai miei colleghi americani che il futuro del mio paese era appeso al numero di anni di attività lavorativa nel regno Unito che un idraulico polacco deve vantare per poter aspirare alle prestazioni di sicurezza sociale. La cosa li lascia perplessi, soprattutto quando specifico che la questione riguarda gli immigrati regolari”.
Dunque, 1520: quattrocentonovantasei anni fa, tra il 7 e il 24 giugno. (Per i dettagli è facilissimo consultare Wikipedia).

Forse è utile, invece, tratteggiare (citando e sintetizzando Niall Ferguson) la situazione dell’Europa di allora:
• Mentre l’Europa si spaccava sulla Riforma, gli eserciti del sultano assediavano Vienna due volte nell’arco di due secoli, nel 1529 e nel 1963;
• In seguito ad Est si profilò una seconda grave minaccia, nella forma delle Russia zarista;
• Dopo la pace di Westfalia del 1648, l’Europa entrò nell’era che associamo all’equilibrio di potere: cinque grandi potenze (Austria, Gran Bretagna, Francia, Prussia e Russia);
• La realtà geopolitica: competizione oltreoceano intensa, tra olandesi, britannici e francesi (per le spoglie dell’impero e dell’infinita “ questione orientale” che a lungo contrappose la Russia e la Turchia);
• Ma lo “splendido isolamento” era una formula ironica. Prima Napoleone, poi il Kaiser e infine Hitler ci insegnarono, o avrebbero dovuto insegnarci, l’esatto contrario. Il vincolo con il continente non venne mai meno.

Ci sono curiose assonanze. Salvo – lo voglio precisare a scanso di equivoci, gravi e spiacevoli ancorché diffusi- che oggi non ci sono invasioni alle porte di Europa.

Diario ricorda anche che un cittadino inglese, di Londra, vissuto intorno a quegli anni (1572-1631) – John Donne – ha lasciato scritto questa mirabile creazione, insieme, poetica e spirituale:

“Nessun uomo è un’isola,/ completo in se stesso;/ ogni uomo è un pezzo del continente,/ una parte del tutto./
Se anche solo una zolla/ venisse lavata via dal mare,/ l’Europa ne sarebbe diminuita,/ come se le mancasse un promontorio,/ come se venisse a mancare/ una dimora di amici tuoi,/ o la tua stessa casa./
La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,/ perché io sono parte dell’umanità./ E dunque non chiedere mai per chi suona la campana:/ essa suona per te.”

John Donne è stato poeta, religioso, saggista. Non un grande poeta, certamente. Scrisse anche “Sermoni”: celebre il suo sermone “Nessun uomo è un’isola” (meditazione XVII) citato da Ernest Heminguay, in epigrafe al suo famoso: “Per chi suona la campana”.

L’articolo di Niall Ferguson, ha mosso oggi “Diario europeo” per una sorta di veloce “MEMO”.

Aggiungiamo due piccole chiose. Una è questa: Ferguson (ora uno dei più importanti storici britannici e docente ad Harvard) è di origine scozzese. La Scozia permane filo europeista; la leader indipendentista della Scozia – Nicola Sturgen – ha dichiarato subito dopo il vertice di Bruxelles: “Se la Gran Bretagna esce dall’UE, la Scozia potrà anche uscire dalla Gran Bretagna”. L’altra riguarda il sindaco di Londra e anche parlamentare dello stesso partito del premier David Cameron; anche lui ha dichiarato, subito dopo il vertice di Bruxelles, dice ‘NO all’Europa’. E con lui, cinque ministri del governo di cui Cameron è primo ministro.
La questione – prima che europea – è britannica; è una questione di strategia e di storia di questo Paese. Non è nuova e neppure potrà essere risolta dagli altri Paesi o Popoli d’Europa.
“Nessun uomo è un’isola”: decida il popolo (o meglio i popoli britannici) e decida una volta per sempre. Europa è attesa dal Mondo e nel Mondo alla prova di nuove e straordinarie sfide. Non può più attendere: ha bisogno di Europa coesa, affidabile, forte, sicura, riconoscibile e identificabile.