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La guerra dei nostalgici del mito dell’Armageddon alla società aperta

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Il dibattito che si è avviato a seguito dei fatti sconvolgenti avvenuti a Parigi una settimana fa, presso la sede di Charlie Hebdo, a Montrouge, e nel supermercato Kosher di Porte de Vincennes, rischia di perdersi nel nulla se non si hanno chiari alcuni passaggi storici di fondamentale importanza per comprendere le vicende odierne.
Il terrorismo islamico ha poco a che vedere con la religione musulmana ma ha molto in comune con le filosofie e i movimenti romantici, irrazionalisti e nazionalisti partoriti in Europa tra la seconda metà dell’ottocento e i primi decenni del novecento e che hanno dato vita ai totalitarismi (stalinismo, fascismo, nazismo). Non siamo in presenza di uno scontro di civiltà tra il sud e il nord del mondo o tra occidente e oriente. Siamo ancora una volta, in forme nuove, allo scontro frontale tra lo spirito di autodistruzione, che è figlio dell’Europa e che dal vecchio continente è stato esportato altrove, e i valori fondanti dell’Illuminismo che hanno portato nel tempo al riconoscimento dei diritti umani, all’idea della democrazia come processo in divenire di errori e correzioni di errori, all’importanza dello sviluppo scientifico-tecnologico e degli scambi, guidato  da una politica responsabile, e all’idea che una singola vita umana non debba mai essere sacrificata per un ideale politico o un sentimento religioso o un’esigenza comunitaria. È per questo che il terrorismo islamico incrocia ovunque un’area estesa di connivenza e di simpatia in individui e gruppi che continuano a coltivare pulsioni e idee autodistruttive e palingenetiche. Dinanzi al riemergere di questo scontro, la battaglia culturale, etica e morale da condurre è contro la riesumazione di queste pulsioni e idee in cui alle vecchie contrapposizioni di classe, di razza o di religione si aggiungono nuovi binomi: oppressi/oppressori, imprese locali/multinazionali, naturale/artificiale, nord/sud. Conflitti generalizzati costruiti astrattamente e mai verificati e differenziati, caso per caso, nelle situazioni concrete.

Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, in concomitanza con lo sviluppo delle culture europee che hanno dato vita ai totalitarismi, nascono in Medio Oriente e si espandono nel mondo arabo i movimenti fondamentalisti che si richiamano all’identità di razza e/o di religione. Essi sono figli dei primi movimenti di massa europei. Uno dei maggiori analisti americani del terrorismo islamico, Paul Berman, nel saggio Terrore e liberalismo. Perché la guerra al fondamentalismo è una guerra antifascista ha raccontato in modo puntuale i legami culturali e politici tra i primi movimenti di massa europei e le organizzazioni fondamentaliste ancora oggi attive nel mondo.  Negli anni trenta del secolo scorso, si sviluppa in tutte le maggiori città del mondo arabo una presenza comunista significativa collegata a Stalin e alla sua concezione totalitaria del potere. Il socialismo Ba’th è una branca del grande movimento panarabo fondato negli anni successivi alla prima guerra mondiale da Satia al-Husri, sulla base dei suoi studi filosofici, condotti in Occidente e focalizzati su Fichte e sui romantici tedeschi: i filosofi del destino nazionale, della razza e dell’integrità delle culture nazionali. I suoi interlocutori in Europa sono i fascisti e i nazisti. Uno dei testi più in voga nei paesi arabi è I fondamenti del diciannovesimo secolo di H. S. Chamberlain, che tratta la questione razziale. Il fondamentalismo che si sviluppa in Pakistan sorge negli anni trenta (con un’organizzazione nel 1941). I Fratelli Musulmani nascono come setta politica in Egitto nel 1928. E questi movimenti hanno contatti molto stretti con il franchismo e con il nazismo. I “Fratelli Musulmani” chiamano le loro unità organizzative “Falangi”. Gli scrittori islamici di quel periodo si abbeverano alle idee di Heidegger. Lo scrittore più influente della tradizione fondamentalista è l’egiziano Sayyid Qutb che nasce nel 1906, sette anni prima di Camus. Egli riceve nell’infanzia una rigorosa educazione religiosa. Ma ben presto accarezza l’idea del socialismo e si immerge nella letteratura occidentale, va a studiare negli Stati Uniti, ottenendo un master in pedagogia presso l’University of Northern Colorado, a Greeley. Torna in Egitto ed entra nei “Fratelli Musulmani”. Egli scrive una gigantesca opera di esegesi in trenta volumi dal titolo All’ombra del Corano. Emerge in quest’opera il concetto dell’islam come “totalità”. Anche per George Lukacs, il marxismo si distingue dal pensiero borghese per “il primato della categoria della totalità”. Come perspicuamente ha rilevato di recente il giornalista Giuseppe Sarcina, nel testo sacro dell’islam i riferimenti espliciti alla dimensione politica sono solo due. Il primo è il “versetto dei potenti” (Sura delle Donne, 4, 58-59): «Iddio vi comanda… quando giudicate fra gli uomini, di giudicare secondo giustizia… O voi che credete! Obbedite a Dio, al suo Messaggero e a quelli di voi che detengono l’autorità». L’altro passaggio, brevissimo, si trova nella Sura della Consultazione, la 42ª, versetto 38: «Coloro che obbediscono al loro Signore… delle loro faccende decidono consultandosi tra di loro». Tutta la costruzione teorica di Qutb e dei fondamentalisti islamici sull’identificazione tra politica e religione sembra poggiare su questi esigui dettati coranici. Ma in realtà poggia sul mito biblico della guerra dell’Armageddon, secondo il quale gli abitanti ricchi, corrotti e sovversivi di Babilonia saranno sterminati e con loro verranno soppresse tutte le loro abominazioni. Terminato il terribile sterminio di queste “forze sataniche”, si stabilirà il regno di Cristo e il popolo di Dio vivrà nella purezza.

Si possono riconoscere in questo mito i temi di base e lo spirito di questo mito in poeti come Rimbaud e ancor più in Rubén Darìo. Dopo la prima guerra mondiale, dalla letteratura e dalla poesia, il mito primordiale di Armageddon e di Babilonia passa alla teoria politica in versioni aggiornate: una “parte sana” della società che si vede minacciata dal “male”, il quale deve venire eliminato – a tutti i costi – e, per rendere possibile questa eliminazione, è necessario il sacrificio che si traduce di fatto in “licenza di uccidere”. A comporre la “parte sana” sono i proletari o le masse russe per i bolscevichi di Lenin e gli stalinisti, i figli della lupa romana per i fascisti di Mussolini,  la razza ariana per Hitler, i guerriglieri di Cristo re per la Falange di Franco, i musulmani per Qutb.  Mentre gli abitanti corrotti e sovversivi di Babilonia, che commerciano beni di tutto il mondo e corrompono la società coi loro abomini, sono la borghesia e i kulak per i bolscevichi e gli stalinisti, sono i massoni e le tecnocrazie cosmopolite per i fascisti e i falangisti, sono gli ebrei per i nazisti, e in misura minore per gli altri fascisti, e infine anche per Stalin, e sono i falsi musulmani, gli “ipocriti”, in combutta con gli ebrei e i “crociati” cristiani per Qutb. In ogni versione del mito avviene sempre il bagno di sangue dello sterminio totale per raggiungere il regno, cioè una società perfetta, unita su tutta la faccia della terra, ripulita dagli elementi corrotti e dagli abomini, capace di durare mille anni. La gihad non è altro che lo sterminio totale del mito biblico della guerra dell’Armageddon. Il culto totalitario della morte è figlio dell’occidente.

L’attacco all’idea di libertà e di democrazia da parte del fondamentalismo islamico coincide con la critica radicale al capitalismo che deriva dalle culture originarie dei totalitarismi del novecento e che ancora oggi imperversano. Ma il capitalismo non è più quello descritto da Karl Marx. Esso si è trasformato nella “società aperta”, secondo la più appropriata definizione data da Karl Popper agli attuali meccanismi economici, sociali e politici presenti nei paesi occidentali, in cui i sistemi giuridici, da perfezionare continuamente attraverso la democrazia, regolano il mercato e il libero scambio. E la società aperta è tale perché tutti nel mondo possono concorrervi e orientarla mediante procedure democratiche. Ha ragione Claudia Mancina quando scrive: «Basta con il senso di colpa dell’occidente, che produce un pacifismo autolesionista. Basta con il multiculturalismo banale, relativista, privo di principi». C’è in questo atteggiamento dimesso il senso di sfiducia nella democrazia e l’idea che la messa in campo di nuovi soggetti mondiali possa riaprire la strada per un sovvertimento totale. Non si ha l’ardire di richiamare l’idea di sterminio o il bagno di sangue, ma l’antefatto è quello. In un mondo di grandi migrazioni, la battaglia politica e culturale per difendere la società aperta è oggi tutt’uno con quella per il reciproco riconoscimento tra persone e gruppi di diversa cultura o fede religiosa. Concordo con Silvia Costa quando afferma che la via della interazione, ideata ma poco praticata in Italia, è quella più promettente per realizzare questo reciproco riconoscimento, rispetto all’idea del  multiculturalismo britannico e dell’assimilazione francese. Una interazione da fondare però sulla base di valori e diritti comuni, e a patto che non comporti la rinuncia alla propria identità, il relativismo culturale o la superbia intellettuale. Accanto alla sfida della sicurezza, della pacificazione e della cooperazione allo sviluppo, dobbiamo ripartire insieme in Europa e in Italia dalla educazione e dalla cultura inclusive, fondandole su valori di una comune dignità e libertà, sui diritti umani scolpiti nella Carta dell’Onu e sulla capacità di creare fraternità.

 




Dopo Mafia Capitale il Terzo Settore deve produrre innovazione sociale

Alcune cooperative sociali sono coinvolte in “Mafia Capitale” e l’opinione pubblica tende ora a identificare il mondo del non profit come luogo del malaffare e della criminalità organizzata. Sarà lunga e faticosa la strada da percorrere per restituire la reputazione al brand del Terzo Settore. Non si tratta solo di scartare qualche mela marcia ma di produrre un cambiamento che riguarda tutti. Mutare regole e comportamenti.  Come è potuto accadere che i servizi sociali destinati ai più deboli diventassero il terreno privilegiato del fenomeno mafioso? Come mai alcuni dirigenti di cooperative son potuti diventare protagonisti di un intreccio malavitoso così ripugnante con esponenti della pubblica amministrazione e con bande criminali? Cos’è che non funziona nel mondo del sociale? Per rispondere a questi interrogativi il 21 gennaio si svolgerà a Roma l’Assemblea del Forum del Terzo Settore del Lazio. Sarà l’occasione per aprire una riflessione a tutto campo nel mondo del non profit su quanto è venuto fuori con l’inchiesta giudiziaria. E, nel contempo, l’avvio della ricerca di soluzioni sui servizi sociali delle periferie di Roma.

Il comitato scientifico del Forum ha predisposto una traccia di discussione, i cui punti sono i seguenti:

1. Quanto è successo a Roma è frutto di un intreccio mafioso tra funzionari pubblici e dirigenti di cooperative (per lo più sociali) basato sulla realizzazione di servizi pubblici.

2. Perché si può parlare di mafia? Quali valori negativi emergono? Quali contromisure possono essere prese (sia di breve che di medio periodo)?

3. In prima analisi si può affermare che: nella nostra società non si è mai fatto nulla di davvero efficace per promuovere il merito, che potrebbe essere antidoto contro la corruzione. Non basta richiamarsi al merito, ma si deve stabilire come lo si vuole perseguire. La corruzione non si estirpa solo con la repressione. Forse anche a causa di un’ipertrofia normativa, si ricorre troppo spesso a procedure d’emergenza che eludono gli iter di garanzia (sia le normative nazionali che quelle comunitarie, recentemente rimodulate). Si è in assenza di una progettazione condivisa tra gli attori in gioco e la pubblica amministrazione in un quadro programmato e di ampio respiro. Servono iniziative capaci di prevenire il diffondersi della mafia, attraverso il ricorso alle istituzioni e ai corpi intermedi. Servono iniziative finalizzate a dare le adeguate garanzie e protezione a chi ricorre alla giustizia. La mafia si diffonde con più facilità dove c’è povertà, l’Italia per certi aspetti è un paese sottosviluppato. Per invertire la tendenza, il non profit e l’innovazione sociale possono avere un ruolo estremamente importante. Sarebbe utile avviare un percorso d’ascolto sia interno al Forum che rivolto alla società. Così come non si può demonizzare tutto il Terzo Settore per colpa di alcuni casi, non si può neanche affermare che tutto ciò che si trova nel Terzo Settore sia necessariamente sano. Si deve valutare caso per caso avvalendosi dei giusti strumenti interni ed esterni. Serve maggiore trasparenza nella gestione delle organizzazioni non profit. Questa potrebbe esser perseguita ad esempio anche con strumenti tipo bilancio sociale, certificazione di terzi, ecc. Il Forum Terzo Settore (FTS) Lazio si deve dotare di una “Carta dei valori” e ogni organizzazione aderente vi si deve conformare redigendone una propria; dopodiché il FTS-Lazio deve raccogliere tutte le “Carte dei valori” e gli Statuti degli aderenti.

4. Si invita a riflettere su: quale deve essere il ruolo del Forum Terzo Settore? Si deve intervenire sulle singole organizzazioni o su quelle di rappresentanza? Così come è attualmente configurata, la vigilanza funziona? Lo strumento della revisione è sufficiente e/o adeguato? Il FTS-Lazio potrebbe supportare dei progetti territoriali pilota da realizzare in alcune periferie romane per promuovere: la partecipazione, la coesione, lo sviluppo locale, la legalità e l’integrazione? Si possono individuare delle politiche regionali e nazionali che diano un orizzonte d’investimento al Terzo Settore e che rimettano al centro dell’economia dei servizi la valorizzazione della cittadinanza come spazio comune politicamente sano? Si può sviluppare una politica sociale basata sull’aiuto diretto a soggetti che con la propria libera preferenza scelgano i servizi (standardizzati e certificati) di cui fruire?  L’uso dei voucher può essere uno strumento per limitare la corruzione?

È da augurarci che su questi temi si sviluppi un dibattito intenso con l’apporto di tutti i protagonisti del Terzo Settore: dirigenti, operatori e utenti. Ma senza chiuderci nel nostro mondo. Bisognerebbe coinvolgere le periferie di Roma e l’insieme dei sistemi locali in modo intersettoriale e interdisciplinare. Solo in questo modo la diagnosi potrà essere veritiera e la cura potrà produrre risanamento e innovazione sociale.

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Contro le mafie: legalità, legalitarismo e disobbedienza civile

L’azione di contrasto alle mafie ha bisogno congiuntamente di legalità, legalitarismo e disobbedienza civile. Ognuna di queste parole rappresenta concetti diversi e distinti ma, tenute insieme, possono contribuire a un vero e proprio programma di iniziative concrete per liberarci dalle mafie.

La legalità è uno dei principi che caratterizzano lo Stato di diritto ed esprime l’idea che ogni attività dei pubblici poteri debba trovare fondamento in una legge. Le norme possono disciplinare una certa discrezionalità entro cui la pubblica amministrazione si può muovere. Ma se si oltrepassano gli spazi di discrezionalità consentiti dalla legge si cade nell’arbitrio. E l’arbitrio, il favoritismo, il clientelismo  creano malgoverno e non governo, sottraggono risorse pubbliche ad un loro utilizzo efficiente, comprimono i diritti civili e sociali dei cittadini e favoriscono la corruzione e il malaffare,  in cui si annidano e prosperano le mafie. Battersi per la legalità è, dunque, esigere che i pubblici poteri agiscano nel rispetto della legge e non già in modo arbitrario. E, nello stesso tempo, promuovere ogni forma di collaborazione tra istituzioni e cittadini per denunciare qualsiasi atto illegale e favorire così il rispetto della legge.

Il legalitarismo è, invece, una concezione etico-politica generalmente professata da partiti e movimenti politici  che, prefiggendosi radicali e profonde riforme di carattere economico e sociale, cercano di realizzarle attraverso un confronto democratico nelle istituzioni e nella società anziché ricorrendo a metodi e mezzi violenti. Essere legalitari significa, dunque, raggiungere i propri fini politici di giustizia sociale con gli strumenti della democrazia e non imponendoli con la violenza.

Infine, il concetto di disobbedienza civile o di obiezione di coscienza risponde alla domanda: è giusto disobbedire alle leggi ingiuste? Un contributo originale volto ad approfondire questo tema è stato fornito da don Lorenzo Milani nella famosa Lettera ai giudici. Nel 1965 il priore di Barbiana scrive la Risposta ai cappellani militari che avevano sottoscritto un ordine del giorno in cui «considera(va)no un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà».  Avendo difeso gli obiettori, don Milani viene denunciato da un gruppo di ex combattenti per apologia di reato. Durante il processo, egli scrive la Lettera ai giudici in cui affronta il tema dal punto di vista laico e civile che qui ci interessa.

Don Milani parte dal principio che le leggi vanno amate perché il loro rispetto da parte di tutti è alla base degli ordinamenti democratici e della convivenza civile. Ma aggiunge di non poter dire ai suoi allievi «che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla». Perché? «Posso solo dir loro – continua – che essi dovranno tenere in tale onore le leggi da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate».

Fin qui non c’è ancora il tema della disobbedienza civile. C’è l’incitamento a battersi per cambiare le leggi quando sono ingiuste, cioè quando permettono ai forti di vessare i deboli. E la lotta per cambiarle non fa venir meno la tensione morale per osservarle. Ma il testo continua così: «La leva ufficiale per cambiare le leggi è il voto. Ma la leva vera è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti. E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza  che è cattiva e accettare la pena che essa prevede».

La disobbedienza civile è, dunque, per don Milani un atto educativo («…non c’è scuola più grande…»), un atto di testimonianza, un modo per pagare di persona (davvero e non per finta!) la pena prevista per aver violato una legge ingiusta. «Chi paga di persona – precisa il sacerdote – testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri».

Come si può chiaramente notare, nella concezione di don Milani riguardo alla disobbedienza civile non c’è alcunché di anarchico ma «un amore costruttivo per la legge» (sono parole sue). Si potrebbe dire che nel suo pensiero il concetto di legalità è declinato fino alle estreme conseguenze: battersi per migliorare le leggi fino a renderle giuste mediante atti concreti che comportino anche il sacrificio di pagare di persona per la violazione di norme ingiuste. Per l’educatore di Barbiana è in questo modo che si formano cittadini consapevoli e responsabili e classi dirigenti capaci di mettere l’interesse generale innanzi ad ogni tornaconto personale o di gruppo.

Cosa può significare tutto questo nella lotta alle mafie?

Promuovere la legalità, cioè battersi perché i pubblici poteri osservino le leggi. Le mafie si diffondono quando la discrezionalità delle pubbliche amministrazioni esorbita dalle norme legali e diventa arbitrio. E nell’arbitrio pullulano la corruzione e il malaffare. Diventa, quindi, necessaria una mobilitazione per scovare ogni forma di illegalità, sopruso, prepotenza, favoritismo, clientelismo che si consuma nelle istituzioni a danno dei cittadini e combattere tali comportamenti a viso aperto e con tutti i mezzi legali e non violenti, dalla denuncia all’azione penale. La mobilitazione per la legalità è, al contempo, conflittuale e collaborativa. Ed è legalitaria perché si svolge nelle regole democratiche senza alcun uso della violenza.

Battersi per cambiare le leggi quando negano i diritti dei più deboli fino al punto di disobbedire alle norme che la propria coscienza reputa ingiuste, ma accettando di buon grado la pena prevista per chi le viola. Guai a venire a patti coi pubblici poteri per ottenere l’impunità mediante un atto d’arbitrio o un favore di chi è tenuto a far osservare le leggi che si violano. La lotta per la giustizia sociale scadrebbe in collusione con chi, nella pubblica amministrazione, invece di applicare le leggi agisce in modo arbitrario e clientelare. La testimonianza è efficace, cioè muove altri ad agire per il cambiamento, se la mobilitazione sociale non provoca soprusi o favoritismi da parte dei pubblici poteri e se non assume il significato di scardinare l’ordinamento ma di migliorarlo mediante un’azione legalitaria, ossia non violenta, e che porta a pagare di persona l’obiezione di coscienza.

Si toglie acqua di coltura al proliferare delle mafie se maturano la consapevolezza e la responsabilità degli individui e dei gruppi, se crescono i diritti sociali e civili delle persone, se aumentano le occasioni di lavoro mettendo a frutto risorse pubbliche e private, se migliorano la qualità e l’efficienza delle istituzioni pubbliche. È questo il senso della legalità che dovremmo sempre più accogliere nel nostro modo di essere e di pensare per contrastare le mafie.
19marcia-legalita-acerra-16-marzo-2010




Mafia capitale e il racket degli ultimi

Roma, alle ore 17, presso la Città universitaria de “La Sapienza”  assemblea pubblica “Mafia capitale e il racket degli ultimi –  per un Patto per Roma verso una grande mobilitazione cittadina contro i clan”

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Roma metropolitana: Marino fermi il treno prima che vada a sbattere

Ignazio Marino fa ancora in tempo a fermare il treno in corsa che distruggerà la prospettiva di Roma come effettiva capitale d’Italia. Domani il Consiglio metropolitano discuterà a Palazzo Valentini lo statuto del nuovo ente messo a punto dalla commissione competente. Non se ne conosce il contenuto. Ma sembra che l’orientamento sia quello di confermare la nascita di un carrozzone che sostituirà di fatto la Provincia e depotenzierà la capacità del Comune di Roma di svolgere i poteri speciali di capitale previsti dalla Costituzione.

Il Coordinamento Promotori Nuovi Enti Locali (Co.Pro.N.E.L.) ha chiesto al Sindaco di Roma capitale di sospendere ogni decisione e proporre all’Assemblea capitolina la creazione delle zone omogenee dotate di autonomi poteri e di trasmettere la relativa delibera al Consiglio metropolitano come emendamento alla proposta di statuto.

Spetta, infatti, a Roma capitale indicare gli enti territoriali che potranno formare la città metropolitana. Tali enti dovrebbero essere i seguenti: i 15 municipi di Roma capitale; i comuni attuali di Fiumicino, Pomezia, Ciampino, Fonte Nuova; i comuni costituenti e confinanti di Boville e Tor San Lorenzo. Si tratta della delimitazione contenuta nella proposta di legge d’iniziativa popolare annunciata al Consiglio Regionale del Lazio il 19 gennaio 2000.

Con la suddetta proposta – scrive il Co.Pro.N.E.L. a Marino – si porterebbe  a compimento quel moderno processo riformatore che le comunità metropolitane aspettano da decenni, conciliando le comuni esigenze metropolitane e capitoline, da ricollocare nello stesso ente costituzionale omogeneo, con  quelle diverse  e distanti di altre comunità. E’ infatti del tutto paradossale che la capitale d’Italia ampli le sue propaggini fino ai confini con l’Abruzzo e con il Frusinate, considerando metropolitani anche quei territori che hanno caratteristiche marcatamente rurali e con notevoli problemi di sviluppo.

Finora ci sono state solo delle anticipazioni da parte di qualche consigliere circa l’orientamento favorevole  per l’elezione diretta del Sindaco e del Consiglio metropolitano e per il rafforzamento dei municipi di Roma capitale. Sarebbero fatti positivi se fossero accompagnati dalla conferma del disegno di riforma maturato in questi decenni che vuole la convivenza di Roma capitale (coi suoi poteri speciali) e della sua città metropolitana (con le sue nuove funzioni) in un unico ente omogeneo operante in un territorio appropriatamente delimitato in funzione dei complessi compiti da esercitare.

La vicenda ha del paradossale. Mentre in alcuni palazzi romani si sta distruggendo la prospettiva di Roma capitale in altri palazzi,
alcuni parlamentari del PD (in primis Roberto Morassut e Raffaele Ranucci) hanno presentato alla Camera e al Senato la proposta di attribuire a questa città il rango di Regione, in considerazione della specialità già prevista dalla Costituzione. Una proposta senza dubbio riformista. L’Italia si allineerebbe così ai paesi europei più importanti che hanno capitali coincidenti con regioni o distretti.

Ma alcune domande nascono spontanee: “Cari amici, perché non proponete al Governo la sospensione immediata di un percorso del tutto assurdo che sta portando alla creazione di una città metropolitana distinta da Roma capitale? Non vi sembra paradossale creare un nuovo ente che anziché rafforzare le funzioni della capitale le indeboliscono? Come può essere credibile la vostra iniziativa – che ha bisogno di una legge costituzionale – se non siete in grado di ottenere dall’esecutivo un provvedimento immediato di sospensione di un percorso che porterà alla creazione di un nuovo carrozzone del tutto inutile? Perché non proponete un dibattito serio e approfondito a Roma e nel Paese per seguire un percorso che porti alla trasformazione di Roma capitale in città metropolitana?”

Se il PD romano vuole superare la profonda crisi di credibilità in cui si sta dimenando, non può proporci la solita tragicommedia che vede la mano destra fingere di non sapere cosa fa la mano sinistra.

 

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Una politica democratica per combattere le mafie

Ignazio Marino  (anni 59) sindaco di Roma

Ignazio Marino (anni 59) sindaco di Roma

Vuoi battere le mafie e contribuire a dare una prospettiva alla capitale d’Italia? Non ti resta altro punto di riferimento che Ignazio Marino. Egli deve porsi concretamente questo obiettivo: aprire la fase costituente per trasformare Roma capitale in città metropolitana, ridisegnare i confini territoriali e dare piena autonomia ai municipi; dopodiché correre per l’elezione a suffragio universale del sindaco metropolitano. Questo obiettivo politico e istituzionale è oggi tutt’uno con la battaglia per liberare Roma dalle mafie.  

Francesco Rutelli e Walter Veltroni hanno rivendicato il lungo periodo di buon governo e di onestà delle amministrazioni capitoline che si sono succedute dal periodo di tangentopoli fino alla giunta guidata da Gianni Alemanno. Matteo Renzi ha commissariato con Matteo Orfini il PD romano, dopo la notizia che alcuni suoi esponenti sono coinvolti nell’inchiesta “Mondo di mezzo”.  Da quanto si conosce finora dell’indagine è con l’arrivo della destra in Campidoglio che si crea il sistema mafioso in cui le lobby affaristiche e criminali, annidate in un’area trasversale che va da alcune schegge dell’eversione di destra a imprese del terzo settore, asserviscono spezzoni di partiti e di pubblica amministrazione ai propri interessi, mediante il controllo di flussi cospicui di spesa pubblica.

Ma non mi persuade la tesi di Veltroni che il coinvolgimento del PD sia semplicemente il frutto di “una politica ridotta a tessere, correnti, potentati, preferenze e deprivata della sua ragione e del suo senso”. E che dunque sia sufficiente per risalire la china – come scrive Goffredo Bettini – “costruire un partito delle persone, in grado dal basso di controllare, discutere e decidere tutte le scelte, in trasparenza e libertà”.

È difficile una discussione razionale sulla politica e sulla sua riforma sotto la pressione quotidiana degli orrori politici e morali che emergono dall’inchiesta e delle semplificazioni giornalistiche. Ma credo che l’emotività debba far posto al ragionamento e guardarci serenamente negli occhi. Soprattutto in questo modo potremo dare effettivamente un contributo a Ignazio Marino nel suo tentativo di coalizzare intorno alla sua amministrazione le forze disponibili a combattere per liberare Roma dalle mafie e assicurare un futuro alla città.

Nulla è più come prima. Dal 2 dicembre abbiamo la certezza che anche a Roma ci sono le mafie. E il fatto che le mafie stiano conquistando la capitale è già il segno evidente che di questo morbo sia infetta ormai l’intera nazione. Il tema politico urgente diventa allora come la democrazia combatte questo cancro e come produce quelle difese immunitarie, quegli anticorpi necessari a prevenirlo.  E come il PD si attrezza per sconfiggere questo nemico e come crea degli argini per difendersi da coloro che ad un certo punto lo utilizzano per fini personali di arricchimento e di potere.

Assumere davvero l’obiettivo di dichiarare guerra alle mafie significa, dunque, restituire un senso alla politica, definire degli obiettivi concreti e introdurre nella vita del paese un’intransigenza morale e un civismo attivo che devono permeare tutti i gangli delle istituzioni e della società.

Per il PD significa dare effettivamente un senso alla propria denominazione. Non si tratta di produrre appelli moralistici o rigurgiti giustizialisti. Ma di elaborare nuove regole che riguardino la vita dei partiti e delle istituzioni, le nomine dirigenziali, la loro selezione e rotazione, le consulenze, la distinzione netta tra interventi ordinari e quelli emergenziali, gli statuti delle imprese e delle organizzazioni, indipendentemente dalla loro forma giuridica e dal carattere profit o non profit, le relazioni tra le parti sociali, i rapporti tra imprese e fornitori, i modelli di governance delle imprese che gestiscono beni comuni e interventi sociali per rendere effettivamente esercitabili i diritti.

Partiti, istituzioni e società civile organizzata dovrebbero sentire come proprio compito primario quello di promuovere pratiche concrete innovative che diventino procedimenti istituzionali trasparenti, affidabili e competitivi e favoriscano comportamenti virtuosi volti ad alimentare fiducia e cooperazione. Partiti, istituzioni e società civile organizzata dovrebbero sentire come propria missione quella di accompagnare processi partecipativi dal basso per l’utilizzazione trasparente, efficiente e condivisa dei flussi finanziari destinati allo sviluppo locale.

Partiti, istituzioni e società civile organizzata dovrebbero cogliere l’occasione dell’istituzione della città metropolitana di Roma capitale per interrompere un percorso istituzionale sbagliato. Un percorso che è il frutto di un accordo tra i potentati della cattiva politica volta ad affossare un disegno virtuoso delineato nella riforma del titolo V della Costituzione e nella legge 42 del 2009: la trasformazione di Roma capitale nella città metropolitana. Non è vero che la legge Delrio non lo permette. E se si hanno dubbi, si concordi con il governo il tragitto e si proceda rapidamente verso l’autonomia dei municipi e la definizione di uno statuto che preveda l’elezione diretta del sindaco e del consiglio metropolitano. Se non si realizza questo disegno la specialità di Roma capitale si banalizza perché non potrà realizzarsi in un’area vasta omogenea come accade per tutte le maggiori capitali del mondo. Marino deve battersi per questo obiettivo politico: preparare le elezioni dirette del sindaco della città metropolitana di Roma capitale e candidarsi a questo ruolo. E su tale obiettivo squisitamente politico e istituzionale deve costruire un accordo vero con il premier Renzi e con il commissario del PD Orfini.

È sconfortante che intorno allo statuto della città metropolitana non ci sia alcun dibattito pubblico. E il tutto sia lasciato agli accordi di vertice dei capi tribù dei partiti. I cittadini non sono per niente coinvolti in decisioni che riguardano i maggiori poteri autonomi dei municipi, le elezioni dirette e i nuovi confini territoriali che la città deve avere per svolgere pienamente le funzioni assegnate ad essa dalla Costituzione.

Vero è che neanche i cittadini romani richiedono di partecipare direttamente nella definizione di tali scelte importanti per la loro vita, quasi rassegnati a subire le decisioni dall’alto su questioni che riguardano lo sviluppo della loro città. Un atteggiamento passivo di subordinazione ai potentati che evidenzia una latente mafiosità diffusa. E’ anche per questo motivo che una funzione rilevante dovrebbe essere svolta dalle istituzioni scolastiche e universitarie per sviluppare il capitale cognitivo, cioè la risorsa indispensabile per accrescere la domanda di partecipazione e l’efficienza delle istituzioni democratiche e così prevenire i fenomeni di corruzione. Si tratta di agire sulla formazione della psicologia cognitiva e morale individuale nelle fasi giovanili di maturazione e stabilizzazione delle capacità decisionali per fare in modo che le persone apprezzino il valore e l’utilità della trasparenza, dell’affidabilità, del merito e della cooperazione.

Gerardo Chiaromonte, in qualità di presidente della Commissione Parlamentare Antimafia tra il 1988 e il 1992 ci aveva avvertiti della presenza delle mafie a Roma, sollecitandoci a guardare al fenomeno mafioso in modo ampio e lungimirante. Si tratta – egli scriveva – di partire da due elementi essenziali: 1) le origini antiche di un modo di fare politica in Italia (accentuatosi negli ultimi decenni) che si nutre a volte del rapporto tra partiti e uomini della struttura dello Stato con ambienti più o meno ambigui; 2) la costituzione di un nuovo blocco, flessibilissimo e resistentissimo, di forze politiche e sociali diverse che mira e, in gran misura, riesce a controllare e a gestire il flusso di spesa pubblica con un vero e proprio “sistema di potere”, in particolare colluso e comunque connivente (attraverso confini assai incerti) con nuclei e clan della delinquenza organizzata.

È, dunque, vero che ogni struttura che amministri potere è esposta all’infiltrazione di organizzazioni mafiose, come ha ricordato Veltroni. Ma è anche vero che la politica democratica può produrre gli anticorpi necessari per prevenire questi rischi. Se questa non c’è o si siede, le mafie trovano porte e finestre spalancate per assoggettare ai propri interessi criminali le istituzioni e la società.

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Il Pd riabbraccia Marino ma senza uno straccio d’idea

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Prima giunta Marino

Tra Ignazio Marino e il suo partito si è siglata una tregua giusto per prendere tempo. Ma nulla di più perché un contributo effettivo di idee dalla conferenza programmatica del Pd di Roma non è arrivato. E dunque è mancata una proposta su cui confrontarsi veramente e da cui ripartire, in modo condiviso, nell’attività amministrativa.

Marco Causi ha sicuramente individuato i problemi più scottanti della capitale ma la sua relazione è stata carente sul piano di una visione strategica di medio periodo entro cui collocare il futuro di Roma. Il senatore democratico è stato bravo a glissare brillantemente questa parte colmando il vuoto con la presentazione – convinta e priva di tentennamenti – degli assi portanti dello sforzo che il governo Renzi sta compiendo per far uscire il paese dai marosi della crisi. Ma non ha offerto alcuna base concreta di cose da fare a livello locale. Lo scontro tra una vecchia e cattiva politica e una buona politica è tutta giocata sul piano nazionale e riguarda il nostro rapporto con l’Europa, la capacità di modificare l’asse delle politiche di austerità, richiedendo più Europa senza ripiegare sui nazionalismi da “piccola patria” e portando a compimento quelle riforme che ci permettono di svolgere il nostro ruolo nel rilancio delle istituzioni europee.

C’è sicuramente consapevolezza della causa di fondo del malessere sociale che ultimamente si è manifestato in alcuni quartieri della città con punte virulente di “guerriglia urbana”. Non solo non si è potuto fare a meno di inanellare i dati della crisi a Roma quasi fossero un bollettino di guerra: in sette anni sette punti in meno di valore aggiunto, 30 mila posti di lavoro perduti al di fuori della CIG, 75 mila posti di lavoro perduti transitando attraverso la CIG, tasso di disoccupazione raddoppiato dal 5,8 all’11,3 per cento, tasso di disoccupazione giovanile al livello del 44,9 per cento, superiore alla media italiana del 40 per cento. Ma si sono anche individuate, senza mezzi termini, nei litigi istituzionali, negli eterni conflitti tra regione e comune e tra governo e amministrazione capitolina le ragioni di fondo dell’incapacità di dare risposte concrete al malessere dei cittadini. Non si è potuto tacere quello che tutti vedono. E cioè che gli effetti devastanti della grande depressione su Roma hanno colto impreparata un’intera classe dirigente a tutti i livelli: una classe dirigente litigiosa, inadeguata, irresponsabile e priva di capacità propositiva. Nel rappresentare i rapporti tra Campidoglio e Pisana, Causi utilizza un’espressione che rende plasticamente l’idea della situazione: «continuano a comportarsi da separati in casa».

C’è la denuncia dell’«arretrato di manutenzione urbana» e dei «vistosi segnali di caduta della qualità dei servizi pubblici essenziali» da affrontare attraverso un «piano per le periferie». E tuttavia i disagi manifestati dai cittadini per questa situazione diffusa di degrado, soprattutto nei quartieri periferici, costituiscono solo i sintomi di un malessere che ha cause più profonde da indagare con maggiore compiutezza. I figli e i nipoti degli ex baraccati e degli ex borgatari degli anni cinquanta e sessanta, migrati dalle regioni centro-meridionali del paese, stanno subendo un arretramento dei livelli di benessere fino a rasentare la soglia di povertà. La condizione di profonda incertezza rispetto al futuro fa sì che queste persone sviluppino una tipica avversione verso i deboli: non perché c’è in loro il senso del nemico, ma per paura di cadere nello stesso livello. Allora, attraverso l’aggressione al nero, al nordafricano, al bengalese, si stabilisce  una distanza rispetto al pericolo di una contaminazione da contatto. È la reazione a questo rischio e a quello di cadere al loro stesso livello. È una distorta ricerca di dignità. È qui che fanno leva i movimenti populisti per incanalare la violenza verso gli immigrati e la protesta verso le istituzioni considerate le principali responsabili dell’afflusso di stranieri nei quartieri multietnici della città. Manca ancora una lettura attenta e puntuale di questo fenomeno sociale.

C’è attenzione al tema della sicurezza e del contrasto dell’illegalità e tuttavia appare carente un’analisi aggiornata delle mafie a Roma. Causi evita di pronunciarne il nome e parla genericamente di «pericolose organizzazioni criminali». Ma altra cosa sono i poteri mafiosi che hanno messo le mani sulla città, le inedite commistioni tra mafie e  pezzi della destra estrema e populista, la loro penetrante capacità di organizzare consenso diffuso intorno ai traffici illeciti e al riciclo dei proventi di tali attività, di riempire i vuoti lasciati dalle istituzioni, dalla politica e dalla società civile organizzata, di utilizzare settori collusi e corrotti di pubblica amministrazione e di imprenditoria locale e di soffiare sul fuoco del malessere sociale nei quartieri con una maggiore presenza di immigrati. È pertanto sacrosanta l’indicazione di alzare il livello della risposta repressiva. Ma non se ne esce solo con una più riequilibrata dislocazione territoriale dei presidi fissi delle forze dell’ordine. Ci vuole un’azione capillare di sensibilizzazione, di divulgazione delle caratteristiche del fenomeno, di educazione per stroncare anche una mafiosità latente che ci riguarda un po’ tutti.

C’è sicuramente una puntuale disamina dei problemi da affrontare per conseguire il risanamento finanziario di Regione e Comune come condizione per liberare risorse in direzione degli investimenti. E si avverte senza dubbio il senso d’urgenza nel procedere verso un profondo rinnovamento delle pubbliche amministrazioni centrali e locali e delle aziende pubbliche concessionarie di servizi essenziali per favorire la modernizzazione dei processi la riorganizzazione delle strutture, la qualità dei servizi al cittadino, l’aumento di produttività, la riduzione dei costi.

Ma il Pd romano nella “due giorni” al Teatro Quirino si è limitato ad elencare solo alcuni titoli generici delle cose da fare, rinviando l’approfondimento nei circoli e nelle sedi istituzionali. Sono temi estrapolati dai documenti regionali per la programmazione dei fondi europei 2014-2020: aerospazio, scienza della vita, beni culturali e tecnologie per il patrimonio culturale, industrie digitali, sicurezza, green economy, agrifood. Nulla è stato detto su alcuni nodi cruciali che impediscono la progettazione e la realizzazione di vere politiche di sviluppo nella città per modificare drasticamente la struttura economica e sociale dei territori. Come concentrare e integrare le diverse politiche a livello locale? Con quali strumenti partecipativi? Come costituire dal basso efficaci partenariati pubblico-privati? Come creare lavoro in una logica produttiva stabile mediante processi di autoimprenditorialità economicamente sostenibile e coinvolgendo giovani italiani e stranieri?  Come gestire i beni comuni in una logica di welfare produttivo? Causi ha riproposto con calore la litania del decentramento municipale come se fossimo all’anno zero. È possibile che non si sia accorto che proprio in questi giorni si sta stupidamente perdendo l’occasione dell’istituzione della città metropolitana di Roma capitale per dare finalmente la piena autonomia ai municipi e permettere così di avere un’istituzione di prossimità attrezzata per affrontare i gravi problemi della città? La Legge Delrio – fortemente voluta dal governo Renzi – ha offerto finalmente ai romani tale opportunità ma la vecchia e cattiva politica sta facendo di tutto per aggirarla. E una nuova e buona politica a Roma ancora non si intravede.

 

 

 




Roma brucia sotto gli occhi inebetiti di Roma

Quali riflessioni inducono i fatti sconcertanti avvenuti a Tor Sapienza e nell’intero quadrante est di Roma?

La prima riflessione è che interi quartieri della capitale d’Italia sono controllati dalle mafie. L’eroina che si spaccia in così enormi quantitativi non può nascere sugli alberi lungo i viali della città e il riciclo di attività illecite non può avvenire spontaneamente. Roma è il centro dove si realizza l’osmosi  tra gruppi italiani di criminalità organizzata e i loro “colleghi” stranieri. Non solo. È anche la cabina di regia di un’inedita alleanza: quella tra mafie e movimenti populisti e xenofobi di destra per organizzare un consenso diffuso intorno ai traffici illeciti e ai fenomeni di corruzione, soffiando sul fuoco del malessere sociale nei quartieri con una maggiore presenza di immigrati. Di questo non c’è ancora consapevolezza nelle forze politiche, nelle istituzioni e nella società civile. È solo disattenzione o si tratta anche di mafiosità latente che ci riguarda un po’ tutti? Mi ha fatto piacere che a parlarne con toni consapevoli, in una riunione del Pd, sia stato il presidente del Municipio V, Giammarco Palmieri. Forse è possibile preparare un’iniziativa politica adeguata che parta dal basso.

La seconda riflessione è che i figli e i nipoti degli ex baraccati e degli ex borgatari degli anni cinquanta e sessanta, migrati dalle regioni centro-meridionali del paese, stanno sviluppando un loro modo peculiare di vivere la crisi economica. Essi stanno subendo un arretramento dei livelli di benessere fino a rasentare la soglia di povertà. La condizione di profonda incertezza rispetto al futuro fa sì che queste persone sviluppino una tipica avversione verso i deboli: non perché c’è in loro il senso del nemico, ma per paura di cadere nello stesso livello. Allora, attraverso l’aggressione al nero, al nordafricano, al bengalese, si stabilisce  una distanza rispetto al pericolo di una contaminazione da contatto. È la reazione a questo rischio e a quello di cadere al loro stesso livello. L’avversione contro il più debole è, poi, il bisogno di sfogare le frustrazioni che provengono dalle sfere della società in cui non si può arrivare, calpestando coloro che stanno sotto: creando, cioè, dei capri espiatori al di sotto. Un rancore verso l’alto che si sfoga verso il basso. È una distorta ricerca di dignità. Su questi sentimenti fanno leva i movimenti populisti per incanalare la violenza verso gli immigrati e la protesta verso le istituzioni considerate le principali responsabili dell’afflusso di stranieri nei quartieri multietnici della città. Non c’è, dunque, da perdere ulteriore tempo nel varare le misure socio-economiche del governo Renzi: 1) ridurre la pressione fiscale sul reddito da lavoro medio basso; 2) rendere permanente il bonus di 80 euro per i lavoratori con reddito inferiore a 26 mila euro; 3) eliminare il costo del lavoro a tempo indeterminato dalla base imponibile dell’IRAP; 4) fiscalizzare totalmente i contributi previdenziali per tutti i neo assunti, nei prossimi tre anni, con contratto a tempo indeterminato. Prima si interviene per ridurre il disagio sociale delle famiglie e prima si potrà arrestare il clima di violenza.

La terza riflessione è che nei quartieri di Roma interessati a questi fenomeni si dovrebbero concentrare risorse pubbliche e private per azioni di sviluppo – opportunamente accompagnate e facilitate – in grado di modificare drasticamente la struttura economica e sociale dei territori. Si tratta di creare lavoro in una logica produttiva stabile mediante processi di autoimprenditorialità economicamente sostenibile e coinvolgendo giovani italiani e stranieri.  La programmazione dei fondi europei 2014-2020 potrebbe essere un’opportunità qualora le istituzioni locali e la società civile, organizzata nelle assemblee di cittadini, costituissero dei partenariati pubblico-privati per promuovere lo sviluppo locale e gestire i beni comuni.  Questi percorsi forti di sviluppo potranno poi riguardare anche un’opera più lunga, diuturna, di educazione, di attivazione culturale, di associazionismo sociale. Ma oggi l’attenzione è rivolta esclusivamente a questi aspetti che vanno sotto il titolo “cultura”. E non si ha alcuna idea su come costruire, invece, uno sviluppo economico duraturo mediante nuove attività produttive e un nuovo Welfare produttivo. Da nessuna parte si discutono gli obiettivi concreti da realizzare nei quartieri della “guerriglia urbana” per renderli intelligenti, sostenibili e inclusivi, come prevede Europa 2020. Si sta perdendo stupidamente l’occasione dell’istituzione della città metropolitana di Roma capitale per dare finalmente la piena autonomia ai municipi e permettere così di avere un’istituzione di prossimità attrezzata per affrontare i gravi problemi della città. C’è ancora a Roma una classe dirigente degna di questo nome?

Manifestazione di cittadini a Tor Sapienza

Manifestazione di cittadini a Tor Sapienza




Ci salverà la musica?

Nella musica italiana è difficile individuare tratti peculiari o specificità. È italiana solo perché nasce nel territorio del nostro paese. In realtà, è frutto del confronto con le molte popolazioni straniere con cui gli italiani sono venuti a contatto. Evidente è l’influenza della cultura bizantina, spagnola, araba, greca e teutonica nel tessuto più intimo dell’espressione popolare che un pregiudizio romantico vorrebbe incontaminata e pura – appunto – da influssi esterni. E questo vale per tutti i generi musicali, dal folklore alla musica d’arte e alla canzone. Persino il ballo liscio non nasce – come molti credono – tra l’Emilia Romagna e la Lombardia. Ma le sue radici si allungano in Austria e in Francia.

Gramsci e il carattere cosmopolitico della musica

Se c’è un’italianità della musica la si può scorgere solo in questa molteplicità di esperienze, generi e stili, derivanti da fattori storici, economici, politici e linguistici, e non già in un suo radicamento deducibile da fattori biologici e ambientali. Ne parla Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere:  «In Italia la musica ha in una certa misura sostituito, nella cultura popolare, quella espressione artistica che in altri paesi è data dal romanzo popolare (…) e i geni musicali hanno avuto quella popolarità che invece è mancata ai letterati». E s’interroga: «Perché la “democrazia” artistica ha avuto un’espressione musicale e non “letteraria”? Che il linguaggio non sia stato nazionale, ma cosmopolita, come è la musica, può connettersi alla deficienza di carattere popolare-nazionale degli intellettuali italiani?» Ecco la risposta del pensatore sardo: «Nello stesso momento in cui in ogni paese avviene una stretta nazionalizzazione degli intellettuali indigeni (…), gli intellettuali italiani continuano la loro funzione europea attraverso la musica. Si potrà forse osservare che la trama dei libretti non è mai “nazionale” ma europea, in due sensi: o perché l’intrigo” del dramma si svolge in tutti i paesi d’Europa e più raramente in Italia, muovendo da leggende popolari  o da romanzi popolari; o perché i sentimenti  e le passioni del dramma riflettono la particolare sensibilità europea settecentesca e romantica, cioè una sensibilità europea, che non pertanto coincide  con elementi cospicui della sensibilità popolare di tutti i paesi, da cui del resto aveva attinto la corrente romantica». Attraverso la musica, si conferma in sostanza la vocazione universalistica di un popolo che non aveva un “particulare” da coltivare ed esportare, ma si sente a pieno titolo in un contesto globale.

Il deficit di cultura musicale

Chi ascolta attentamente la musica, può facilmente notare che dietro ogni pezzo c’è una storia, un processo, una sedimentazione di culture. Ma in genere chi consuma musica non ne comprende questa profondità. E non sceglie i brani in base a questi aspetti. Non a caso, per garantirsi l’eccellenza, molti si affidano ai divi e così suppliscono ad una cultura musicale deficitaria.

L’arte di massa nasce a metà Ottocento con l’idea di fruire di essa come distensione, distrazione, anziché sforzo intellettuale e mezzo di educazione. Nasce così l’arte “facile”, non problematica. La musica è invece un prodotto umano in sé compiuto di cui vanno compresi i meccanismi. La scuola, l’educazione di base e l’azione culturale penetrante e diffusa della società civile possono modificare la mentalità prevalente e suscitare un interesse a investire sul futuro della musica.

La musica italiana è aperta all’innovazione

A differenza della letteratura, la musica italiana porta con sé due elementi che interagiscono in modo virtuoso: il carattere cosmopolitico e aperto al mondo globale, in opposizione ad ogni rigurgito nazionalistico e autarchico, e l’apertura all’innovazione. I musicisti sono portati a fare i conti con l’innovazione. L’evoluzione della musica è sempre stata accompagnata e anche influenzata da un progresso di tecnologia che nei secoli precedenti era pressoché applicato all’organologia. Si pensi, ad esempio, cosa ha implicato il passaggio dal clavicembalo al pianoforte, inventato dall’italiano Bartolomeo Cristofori. La tecnologia di cui oggi disponiamo è figlia di un lungo processo di ricerca che ha le sue radici tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, quando si incominciarono a cercare nuove forme di scrittura ed espressione musicale. Con l’aiuto di maestranze tecniche e scientifiche, alcuni compositori cercarono anche strumenti musicali innovativi per esprimere i nuovi linguaggi, sfruttando l’elettricità, il magnetismo, i motori elettrici ed elettromeccanici. Un passo importante verso il connubio tra innovazione tecnologica e musica si ha con la cosiddetta Computer Music, da cui si sviluppa il sintetizzatore che viene utilizzato con successo nella cosiddetta musica elettronica ma anche nella musica pop e rock a partire dagli anni sessanta. Dagli anni ottanta in poi, la diffusione del protocollo MIDI e del computer Atari consente una grande diffusione della tecnologia musicale. Oggi il processo di innovazione è indirizzato principalmente alla ricerca del sistema di interazione tra l’utente e la macchina in grado di essere di semplice utilizzo soprattutto nell’interazione in tempo reale. Sicuramente i tablet e principalmente l’ipad della Apple cambieranno nei prossimi anni il modo che avranno gli utenti di interagire con le applicazioni software.

Il futuro è la musica

Oggi i giovani di buona cultura, generalmente umanistica, sono portati a contestare tutti o quasi tutti i processi d’innovazione tecnologica. In essi prevale lo spirito romantico, la nostalgia del bel tempo che fu. Guardano con sospetto alla modernità e tendono a rinchiudersi in difesa dinanzi alla globalizzazione con atteggiamenti autarchici. Un diffuso atteggiamento antiscientifico sottende un’inefficace politica di sostegno al made in Italy.

L’agricoltura italiana, che pure ha conosciuto nella sua storia un rapporto intenso con la tecnologia e la scienza, sta pesantemente subendo questa involuzione indotta da una cultura umanistica che si contrappone alle discipline scientifiche. Una cultura umanistica che identifica il “buono”, il “bello” e il “giusto” con l’atteggiamento antiscientifico e non sostiene, con la disponibilità ad un approccio pluridisciplinare, l’esigenza di tenere in equilibrio etica, innovazione tecnologica e sostenibilità.

Forse l’Italia potrà farcela a guardare in avanti con ragionevoli speranze, se promuoverà tra le nuove generazioni un’attività educativa e culturale capace di valorizzare i due tratti distintivi della musica italiana: il suo carattere cosmopolitico e l’apertura all’innovazione. Comprendendo fino in fondo la musica, il suo mondo e i suoi meccanismi, forse saremo in grado di cogliere pienamente le opportunità della globalizzazione  e della rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo.

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Alessandro Cives, cantautore romano




Cresce al Pigneto una società civile antimafia

Lettera aperta agli spacciatori e alla mafia

Lettera aperta agli spacciatori e alla mafia

La manifestazione intitolata Giù le mani dal Pigneto che si è svolta in via Pesaro – una delle strade del quartiere di Roma considerato il punto focale della movida cittadina ma anche quello più controllato dai pusher – è iniziata con una lettera aperta ai narcotrafficanti mafiosi. All’insegna dell’ironia, i rappresentanti del comitato di quartiere, insieme agli avvocati Claudio Giangiacomo e Alessandro Ianelli, hanno informato i cittadini sugli esiti della denuncia alla Procura della Repubblica presentata un anno fa da 500 residenti. Si segnalava che nelle strade del quartiere, in ogni ora della giornata, si spaccia droga di ogni tipo e in quantità tali da far immaginare l’esistenza di un’associazione a delinquere. Di tale denuncia è stata richiesta l’archiviazione non perché il fatto non sussista ma soltanto perché sono ignoti i responsabili. E anziché andarli a trovare, si archivia la denuncia dei cittadini. Di qui l’idea di rivolgersi direttamente e in modo burlesco ai responsabili. Che il fatto sussista, eccome, lo dimostra il documentario curato dalla redazione di Presa diretta, in onda su Rai 3, intitolato L’erba del Pigneto. Lo ha presentato il redattore del programma Vincenzo Guerrizio che ha posto l’accento sull’esigenza di legalizzare il consumo di droghe. «Non è in discussione – ha precisato il giornalista – il danno alla salute che i narcotici indubbiamente provocano ma si vuole sollecitare il Parlamento a equipararli al tabacco.  In tal modo si sottrarrebbe alle mafie un affare di grandi dimensioni.»

Per limitare il consumo di droghe si potranno attivare campagne pubblicitarie e soprattutto servizi di prossimità. Insomma, tra i due mali si tratta di scegliere il male minore. Il narcotraffico non si combatte solo con la repressione ma eliminando il proibizionismo. E poi promuovendo un welfare locale fatto anche di inclusione socio-lavorativa delle persone affette da dipendenze, in attività produttive da costruire localmente. La campagna romana è piena di risorse agricole per creare fattorie sociali e percorsi di vita in cui i tossicodipendenti possano ritrovare un senso alle proprie esistenze. Hanno assistito alla proiezione del documentario oltre 300 persone che abitano nel quartiere. Esse non si capacitano dell’inerzia delle istituzioni; si sentono abbandonate e, soprattutto, avvertono la mancanza di una riflessione seria sul fenomeno. Tutti sanno che Roma è la capitale delle mafie, ma nessuno lo vuole ammettere apertamente. Tutte le famiglie che hanno nel proprio nucleo adolescenti e giovani, sono perfettamente consapevoli che in gran parte delle scuole di Roma si spaccia e si consuma droga, ma si fa finta di niente. Non si attiva alcun programma di sensibilizzazione sul fenomeno. C’è un silenzio assordante sulla mafia romana da parte delle istituzioni locali e del governo da indurre tutti alla rassegnazione e alla rimozione. È per questo che le iniziative come Giù le mani dal Pigneto, promosse spontaneamente dalla società civile, vanno sostenute e incentivate anche in altri quartieri come Tor Pignattara e Corviale. Solo con la sensibilizzazione e l’impegno della cittadinanza attiva può crescere la consapevolezza individuale e collettiva che le mafie si possono sconfiggere, le istituzioni possono autoriformarsi e la società può cambiare.

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