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Ricordo di Alberto Valentini

Valentini

Ieri è venuto a mancare Alberto Valentini, personalità di spicco del cattolicesimo democratico, studioso insigne di problemi economici e sociali e costruttore infaticabile di iniziative di sviluppo locale e di promozione della piccola e media impresa.

Sono particolarmente addolorato perché ho avuto il privilegio di essergli amico e di collaborare con lui in diverse iniziative di studio. Mi ha sempre colpito il suo rigore intellettuale, l’approccio concreto ai problemi, la sua attitudine all’ascolto e al confronto pacato e la non comune sensibilità umana con cui si relazionava con gli altri.

Ultimamente eravamo entrambi impegnati nel Comitato scientifico del Forum Terzo Settore Lazio, che egli presiedeva da cinque anni con cura, passione e competenza. Tra le sue ultime realizzazioni, mi piace ricordare il percorso di riflessione, che, a seguito dello scandalo di Mafia capitale, il Comitato ha offerto al Forum, e l’elaborazione di una Carta dei Valori, successivamente condivisa dalle organizzazioni del Terzo Settore.

La morte di Alberto lascia un vuoto incolmabile nella schiera, sempre più esile, dei cultori di quella particolare visione dello sviluppo della società che mette al centro le persone e le loro relazioni. Bisognerà ora studiare e approfondire attentamente i contributi di idee e i risultati delle ricerche sul campo che egli ci lascia e trasmetterli alle nuove generazioni di studiosi e di operatori sociali.

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Contro Mafia capitale per una nuova idea di sviluppo

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La manifestazione contro le mafie indetta dal PD romano il prossimo 3 settembre, nella piazza dove si svolse il funerale del capo clan Casamonica, sarà la prima risposta popolare della città allo scandalo emerso con l’inchiesta “Mondo di mezzo” o, meglio nota”, “Mafia Capitale”.

In verità, c’erano state in primavera le vivaci e genuine iniziative del movimento della società civile “Spiazziamoli”, a cui avevano aderito anche diversi circoli di partiti. Ma quelle iniziative non hanno mai trovato un riscontro nelle istituzioni. La richiesta di svolgere una seduta pubblica dell’Assemblea Capitolina per discutere in modo organico di “Mafia Capitale” non è stata mai presa seriamente in considerazione.

C’è, dunque, il rischio che la manifestazione del 3 settembre possa essere interpretata effettivamente come una delle 120 giornate di Sodoma di cui parla il marchese de Sade nella sua opera più famosa o Pier Paolo Pasolini nel suo film “Salò″. Evidenziai questo pericolo in un articolo del 13 aprile scorso dal titolo “Le 120 giornate di Sodoma Capitale ovvero la scuola dell’antimafia“.

Cos’è cambiato da allora? È cambiato l’atteggiamento del governo e del principale partito del paese, i quali hanno finalmente preso coscienza che Roma non è soltanto una delle metropoli italiane ma la Capitale. E stanno fornendo un contributo effettivo, pur tra difficoltà e contraddizioni, all’amministrazione capitolina perché svolga, contestualmente, la necessaria opera di risanamento e l’indispensabile azione di governo della città.

Va pertanto incoraggiata con convinzione una partecipazione larga dei cittadini di Roma, senza bandiere e senza accampare paternità o primogeniture, all’iniziativa di giovedì. Essa deve servire ad aprire finalmente un dibattito pubblico nella città su cosa sono le mafie a Roma, come queste s’annidano non solo nelle pieghe di istituzioni, partiti, imprese, professioni e società civile a livello locale ma anche nei livelli centrali presenti nella Capitale, e quali sono i rimedi per debellare questa terribile piaga sociale che infetta ogni cosa e ogni spazio della nostra comunità.

Partecipiamo, dunque, compatti il 3 settembre all’iniziativa indetta dal Pd per assumere un impegno comune. Ovviamente contro le mafie. Ma soprattutto rivolgendoci a noi stessi e alle nostre coscienze, alle associazioni, ai partiti, alle istituzioni perché insieme cambiamo la nostra mentalità e la nostra cultura. Dev’essere innanzitutto un percorso di autoapprendimento collettivo per creare le condizioni dello sviluppo in tutte le sue declinazioni in una realtà complessa come quella della Capitale d’Italia.




Papa Francesco: più cultura e più politica per l’ambiente

L’enciclica “Laudato si’” di papa Francesco andrebbe letta più volte per immedesimarsi davvero nel suo estensore. E se ne può comprendere pienamente il senso solo dopo un confronto tra più punti di vista, da sviluppare con un approccio multidisciplinare: teologico, storico, filosofico, antropologico, scientifico. Quello che non bisognerebbe fare è intruppare il papa nelle proprie “guerre sante” ma rispettare lo spirito del documento che apre a tutte le posizioni e invita al dialogo fecondo.

L’impressione che ne ricavo dopo una prima lettura è che ci troviamo dinanzi ad un testo che ambisce, infatti, ad un confronto a tutto campo con tutti, indipendentemente dai convincimenti religiosi, filosofici e politici. Non solo coi credenti e non solo con gli uomini di buona volontà; tutti dovremmo poter dialogare per contaminarci vicendevolmente. Un testo che offre un’analisi della questione ambientale intimamente connessa alla questione sociale e che guarda con rispetto a tutte le posizioni in campo. Un testo che parte da una profonda fiducia nell’uomo e nella sua capacità di produrre un cambiamento e dall’idea che qualsiasi persona che abiti il pianeta possa assumersi la sua quota di responsabilità nell’affrontare la crisi sociale e ambientale, contribuendo a promuovere uno “sviluppo sostenibile e integrale”.

L’enciclica sul rapporto tra uomo e ambiente si colloca nel solco già scavato dalla lettera apostolica di Paolo IV “Octogesima adveniens” del 1971. In quel testo si parlava esplicitamente di “sfruttamento sconsiderato della natura” e del rischio incombente che l’uomo potesse “distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione”. Successivamente, Giovanni Paolo II ha invitato ad una conversione ecologica globale e Benedetto XVI ha proposto di riconoscere che l’ambiente naturale è pieno di ferite prodotte dal nostro comportamento irresponsabile. Gran parte del testo serve dunque a ribadire posizioni già espresse dai predecessori.

Il documento contiene un’ampia panoramica della crisi ecologica e delle ipotesi di soluzione in campo allo scopo di assumere i migliori frutti della ricerca scientifica oggi disponibile: inquinamento, rifiuti, cultura dello scarto, cambiamenti climatici, acqua, perdita di biodiversità, deterioramento della qualità della vita e della mobilità nelle città sono i temi affrontati. E nell’individuare la causa di fondo di tali problemi punta il dito sulla condizione di isolamento in cui oggi si trova l’individuo e la continua erosione delle relazioni interpersonali come esiti diretti del modello di sviluppo economico, fondato sull’idea della crescita illimitata, e delle innovazioni tecnologiche introdotte non più mediante un’osmosi tra conoscenza scientifica e saperi esperienziali ma mediante forme di dominio esercitate da forze potenti.

Non ci sono novità rilevanti

Non si riscontrano novità su diversi temi a partire dall’aborto, la cui giustificazione è ritenuta incompatibile con la difesa della natura (“Non appare praticabile un cammino educativo per l’accoglienza degli esseri deboli che ci circondano, che a volte sono molesti o importuni, quando non si dà protezione a un embrione umano benché il suo arrivo sia causa di disagi e difficoltà”). Anche riguardo al tema delle politiche di controllo della natalità, l’enciclica non mostra aperture: secondo papa Francesco, infatti, “la crescita demografica è pienamente compatibile con uno sviluppo integrale e solidale”, in maniera che “incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni è un modo per non affrontare i problemi”.

Resta, dunque, aperto il problema del rapporto tra crescita demografica e squilibrio nella distribuzione della popolazione nel territorio e, a tale proposito, s’invoca la costruzione di un’etica delle relazioni internazionali per l’uso delle risorse ambientali, ma non si indicano dei principi a cui attenersi.

Tra i temi che non presentano novità merita di essere segnalato quello degli Organismi geneticamente modificati (Ogm). Checché ne dica Carlo Petrini, nel documento non c’è affatto una condanna di questa tecnologia, bensì viene ravvisata la necessità di “assicurare un dibattito scientifico e sociale che sia responsabile e ampio”. Scrive il papa: “Quella degli Ogm è una questione di carattere complesso, che esige di essere affrontata con uno sguardo comprensivo di tutti i suoi aspetti, e questo richiederebbe almeno un maggiore sforzo per finanziare diverse linee di ricerca autonoma e interdisciplinare che possano apportare nuova luce”. C’è qui una critica molto esplicita a talune scelte degli Stati, a partire dal nostro Paese, che da tre lustri non finanziano più linee di ricerca sugli Ogm, come denunciato ultimamente in Parlamento dalla senatrice Elena Cattaneo.

Per quanto riguarda il tema della crescita economica, bisogna fare attenzione a non fraintendere il termine “decrescita” nelle proposte del papa: alcune attività e realtà devono decrescere (quelle ad alto impatto ambientale) e altre devono crescere (quelle innovative a minore o nullo impatto). La critica è rivolta al mito della priorità della crescita economica senza qualità sociale e ambientale e non già alla crescita sostenibile.

Una novità sembra essere il passaggio sulle dinamiche dei media e del mondo digitale, “che, quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità”. E si auspica “uno sforzo affinché tali mezzi si traducano in un nuovo sviluppo culturale dell’umanità e non in un deterioramento della sua ricchezza più profonda”. È del tutto condivisibile l’idea che “la vera sapienza, frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone, non si acquisisce con una mera accumulazione di dati” e che la comunicazione mediata da internet “permette che condividiamo conoscenze e affetti, benché, a volte impedisce di prendere contatto diretto con l’angoscia, con il tremore, con la gioia dell’altro e con la complessità della sua esperienza personale”. Torna anche in questo caso, la giusta preoccupazione per l’esito insoddisfacente nelle relazioni interpersonali e per i rischi di un dannoso isolamento dell’individuo.

Papa Francesco

Papa Francesco

Le responsabilità della politica e della società civile

La forza dell’enciclica va ricercata nelle parole usate per sottolineare l’aggravamento della crisi ambientale e le responsabilità della politica e del mondo della cultura: “Il problema è che non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi e c’è bisogno di costruire leadership che indichino strade, cercando di rispondere alle necessità delle generazioni attuali includendo tutti, senza compromettere le generazioni future”. E l’affondo continua così:  “Si richiede dalla politica una maggiore attenzione per prevenire e risolvere le cause che possono dare origine a nuovi conflitti. Ma il potere collegato con la finanza è quello che più resiste a tale sforzo, e i disegni politici spesso non hanno ampiezza di vedute”. Il papa imputa, dunque, l’aggravamento dei problemi ambientali alla mancanza di una classe dirigente di rilevanza mondiale che sappia agire con lungimiranza e in piena autonomia rispetto ai poteri finanziari.

Ma il dito è puntato anche verso una società civile incapace di confrontarsi rispettosamente su temi di così vasta portata. Il documento del papa riconosce infatti “che si sono sviluppate diverse visioni e linee di pensiero in merito alla situazione e alle possibili soluzioni”. C’è chi afferma – ricorda il pontefice – che i problemi ecologici si risolveranno semplicemente con nuove applicazioni tecniche, senza considerazioni etiche né cambiamenti di fondo. Altri ritengono che la specie umana, con qualunque suo intervento, possa essere solo una minaccia e compromettere l’ecosistema mondiale, per cui converrebbe ridurre la sua presenza sul pianeta e impedirle ogni tipo di intervento. “Fra questi estremi – afferma Francesco – la riflessione dovrebbe identificare possibili scenari futuri, perché non c’è un’unica via di soluzione. Questo lascerebbe spazio a una varietà di apporti che potrebbero entrare in dialogo in vista di risposte integrali”.

Il dialogo tra saperi diversi

L’enciclica dedica poi un capitolo alle convinzioni di fede che derivano dalla sapienza dei racconti biblici e che vengono offerte come contributo fecondo al dibattito tra scienza e fede, tra fede e ragione: elementi questi che si collocano su piani diversi ma possono integrarsi, alimentando una conoscenza reciproca tra culture, religioni, arti, convinzioni filosofiche, acquisizioni scientifiche.  Anche in questo caso non viene stravolta la visione tradizionale della Chiesa sul rapporto tra essere umano e natura ripresa dalla Genesi, che pone l’essere umano al centro del mondo naturale, con la responsabilità di prendersene cura. Una lettura, questa, che – da quando, nel 1967, Lynn White, studioso statunitense di storia medievale, definì il cristianesimo come la religione più antropocentrica del mondo – si è spesso attirata l’accusa di cadere in un eccessivo antropocentrismo, presentando l’essere umano come “signore della creazione”, con il compito di soggiogare la natura e di domarla a suo piacere, e ponendo l’universo semplicemente al suo servizio. Una visione a cui è stata ricondotta, anche, la responsabilità di aver alienato l’essere umano dall’ambiente, in quanto l’unico “a immagine e somiglianza di Dio”, dunque non realmente naturale, e di aver separato in maniera netta Dio dalla natura, spogliando questa di ogni sacralità e in tal modo svalutandola e riducendola a una materialità inerte, senza alcuna rilevanza salvifica.

Anche a giudizio del papa “il pensiero ebraico-cristiano ha demitizzato la natura”, in quanto, “senza smettere di ammirarla per il suo splendore e la sua immensità, non le ha più attribuito un carattere divino”. Ma in ciò egli vede, al contrario, un’ulteriore sottolineatura del “nostro impegno nei suoi confronti”: “Un ritorno alla natura non può essere a scapito della libertà e della responsabilità dell’essere umano, che è parte del mondo con il compito di coltivare le proprie capacità per proteggerlo e svilupparne le potenzialità”. Come pure il papa riconosce all’essere umano, “benché supponga anche processi evolutivi”, “una novità non pienamente spiegabile dall’evoluzione di altri sistemi aperti”, “una singolarità che trascende l’ambito fisico e biologico”: “La novità qualitativa implicata dal sorgere di un essere personale all’interno dell’universo materiale presuppone un’azione diretta di Dio, una peculiare chiamata alla vita e alla relazione di un Tu a un altro tu”.

L’approfondimento serve al pontefice per respingere un’accusa contro il pensiero giudaico-cristiano che avrebbe favorito lo sfruttamento selvaggio della natura, ricavando dal racconto della Genesi un’immagine dell’essere umano come dominatore e distruttore.  “Coltivare” e “custodire” la terra, di cui parla il testo biblico, sono due concetti che si completano a vicenda e implicano una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura. “Ogni comunità – argomenta l’enciclica – può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla e garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future”. La Bibbia non dà adito, dunque, ad un antropocentrismo dispotico che non si interessi degli altri viventi.  E la Chiesa non dice in maniera semplicistica che le altre creature sono completamente subordinate al bene dell’essere umano, come se non avessero un valore in sé stesse e noi potessimo disporne a piacimento. La sapienza biblica è pervasa dalla convinzione che “tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri”. Insomma, il papa prende le distanze dall’”ossessione di negare alla persona umana qualsiasi preminenza”. E nega che “un antropocentrismo deviato” possa lasciare il posto “a un biocentrismo”, perché ciò implicherebbe introdurre un nuovo squilibrio, che non solo non risolverebbe i problemi, bensì ne aggiungerebbe altri.

L’enciclica opera uno sforzo evidente per superare gli aspetti più anti-ecologici della tradizione giudaico-cristiana: sia riconoscendo agli altri esseri viventi un valore proprio di fronte a Dio; sia ricordando “che noi stessi siamo terra”; sia abbracciando una visione olistica, in cui tutto è intimamente connesso, tutto è in relazione, tutti gli esseri formano “una sorta di famiglia universale”.

Rifondare il rapporto tra scienza, tecnica e società

La lettura di questo capitolo sulle convinzioni di fede ci riporta, per molti versi, a quella cultura contadina che compone la linfa vitale delle radici delle nostre società odierne.  La trasformazione della natura a fini di utilità è una caratteristica del genere umano fin dai suoi inizi, e in tal modo la tecnica “esprime la tensione dell’animo umano verso il graduale superamento di certi condizionamenti materiali”.

Del resto, la nascita dell’agricoltura, diecimila anni fa, combinandosi con l’uso di simboli, misure, calcolo e scritture, rese possibile lo sviluppo della scienza applicata.  E ciò ha consentito alle società umane di evolvere verso forme di organizzazione complesse. La cultura agricola esperienziale, propria del mondo rurale, e quella scientifica, agronomica ed economico-agraria, si sono entrambe caratterizzate, fino agli albori degli anni sessanta, per la loro capacità di far convivere una visione economico-produttivistica dell’attività agricola con una visione conservativa delle risorse ambientali.

Nella cultura contadina è presente da un tempo immemorabile l’idea che la terra in determinate condizioni “si stanchi”. Ora, l’idea di stanchezza attiene ad un organismo vivente e il fatto che i contadini abbiano sempre associato questa condizione anche alla terra per rispettarne il decorso è la prova di un profondo senso di responsabilità nei confronti di questo bene.  Il momento in cui avviene la rottura tra la conoscenza scientifica e la cultura agricola esperienziale e, dunque, dell’equilibrio tra visione produttivistica dell’attività agricola e visione conservativa delle risorse ambientali va, a mio avviso, collocata dagli anni sessanta in poi con il venir meno progressivamente di un impegno pubblico nella trasmissione del progresso tecnico e, più complessivamente, nelle politiche territoriali che guardano non solo al sostegno agli investimenti ma anche alle attività educative e di crescita culturale.

Da lì bisogna ripartire, con una visione globale dei problemi ambientali e coinvolgendo l’insieme dei cittadini, per ridefinire il rapporto tra scienza, tecnica e società, rifondandolo sulla responsabilità, sull’educazione e sull’interazione dei saperi. Da questa angolatura, l’enciclica contiene un’impostazione chiara, aperta e fiduciosa. E potrà sicuramente essere di stimolo ad una ripresa del confronto su questioni decisive che riguardano il futuro dell’umanità, se tutti accettiamo l’invito all’ascolto reciproco.

Testo dell’Enciclica


Fonte : afonsopascale.it apri l’articolo originale




Il condominio di strada

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Ovvero la reinvenzione di comunità che si autoregolano

Il Progetto Condominio di Strada promosso da UNIAT e UPPI segna una discontinuità nel modo di fare rappresentanza nel campo dell’abitare. Da una tutela dei diritti dei proprietari di immobili e degli inquilini, esercitati individualmente, si passa alla rappresentanza e tutela dei cittadini che intendono espletare i diritti e i doveri nel campo dell’abitare, sia come individui che come formazioni sociali e comunità di persone. E le due Associazioni predispongono un’offerta efficiente, ordinata ed economica di servizi per supportare la capacità dei cittadini di autoregolarsi per gestire una serie di problematiche che riguardano la loro vita quotidiana, il condominio, il fronte strada e le aree pubbliche adiacenti ai caseggiati.

L’associazionismo nel settore dei servizi per la casa si sviluppa dopo la prima guerra mondiale coi programmi iniziali di edilizia popolare volti ad agevolare la proprietà familiare della casa. Nelle grandi città esistevano già le prime associazioni di proprietari di immobili. Quella di Milano è fondata nel 1893 e raccoglie tra i suoi membri i principali esponenti del notabilato locale, giocando un ruolo determinante nelle dinamiche politiche cittadine. Agisce anche a livello nazionale come gruppo di pressione nell’ambito della Federazione delle associazioni dei proprietari di case. Il soffocamento dell’associazione operato dal regime fascista, che la ingloba nelle proprie strutture corporative, trasformandola prima nell’Associazione fascista della proprietà edilizia (1928) e successivamente nel Sindacato fascista dei proprietari di fabbricati (1934), testimonia il peso raggiunto negli anni da questo sodalizio.

Nel secondo dopoguerra, la Federazione risorge come Confedilizia (1945). A Bologna nasce nel 1948 l’Associazione sindacale dei piccoli proprietari immobiliari per iniziativa di un gruppo di lavoratori e di pensionati, cui presto si uniscono giovani carichi di entusiasmo, che abitano nei quartieri di Levante e di S. Viola. Un fermento associativo e un’atmosfera da “sottosuolo” sociale che rimbalzano nell’Assemblea costituente. La quale ne recepisce le istanze nell’art. 47 della Costituzione:  “…(La Repubblica) favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione…”. È il frutto di una comunanza di interessi tra gli inquilini delle classi inferiori e i grandi proprietari, i primi desiderosi di acquistare una casa propria, i secondi per disfarsi di un patrimonio non più remunerativo per la tassazione più elevata e il blocco dei canoni. Anche quando, negli anni settanta, nasceranno dai movimenti e dalle consulte per la casa le attuali associazioni di inquilini, il sistema della rappresentanza resterà rigidamente ancorato ad un approccio di tipo “sindacale”, teso cioè a presidiare esclusivamente l’evoluzione delle politiche per la casa e la gestione dei rapporti contrattuali tra proprietari e inquilini. L’offerta di ulteriori servizi richiesti dai cittadini, nell’ambito del settore privato dei servizi per la casa, si svilupperà sulla base di modelli costosi e non aperti alla partecipazione e alla condivisione.

In tale contesto, l’iniziativa di UPPI e UNIAT ha l’ambizione di superare tali limiti offrendo un modello di servizi efficiente, sicuro, meno costoso, soprattutto aperto alla partecipazione dei residenti per la gestione delle strade delle città, riorganizzando le regole di civile convivenza aldilà del tornaconto personale e del mutuo vantaggio.

La libertà di ciascuno di noi non è solo limitata da quella altrui, è anche costruita grazie a quella degli altri. Per essere libero di vivere devo poter comprare del pane e mi serve anche un panettiere che lo produca. Questa evidenza, troppo trascurata, s’impone ancora in modo più impellente con la globalizzazione e con la crescita dell’interdipendenza degli uomini in un pianeta di dimensioni limitate. E poiché la libertà di ognuno si costruisce grazie a quella altrui, ogni persona deve partecipare alla costruzione della libertà degli altri.

Se si accetta sul piano etico l’esistenza di un legame inscindibile tra diritti e doveri, si può ritenere che il diritto alle libertà individuali ha come corrispettivo il dovere di fraternità, cioè l’attenzione consapevole di un individuo nei confronti delle libertà individuali dell’altro, con l’intenzione altrettanto consapevole di difenderle e accrescerle. In tale ottica, la fraternità si potrebbe definire come il dovere della libertà.

Sia le libertà individuali che la fraternità acquisiscono il loro pieno valore e la loro piena utilità solo se associati ad una introspezione personale da parte dell’individuo. Con la riflessione l’individuo autodetermina, in modo pragmatico, sia i limiti delle proprie libertà individuali che i limiti del dovere di fraternità che gli è proprio, bilanciandoli. Da tale equilibrio nasce la responsabilità, la cui natura ed entità ciascun individuo autodetermina liberamente, confrontandole coi punti di vista degli altri. E dal confronto continuo e sistematico tra le persone e i gruppi sulla natura e l’entità della responsabilità che gli individui assumono personalmente scaturisce un probabile sistema di riduzione delle ingiustizie e delle disuguaglianze in modo pragmatico, cioè fondato sull’analisi delle situazioni di fatto. Il dovere di fraternità è, dunque, accompagnato sempre da un percorso razionale di introspezione individuale e collettivo e – senza necessariamente attendersi atti di reciprocità e senza far leva sui sentimenti e sulle emozioni – produce beni relazionali, responsabilità individuale e giustizia sociale.

Le democrazie contemporanee riconoscono e tutelano il diritto fondamentale dei cittadini a disporre di una casa non come un diritto a se stante ma in modo strettamente collegato alla tutela di altri diritti umani. Nell’art. 2 della Costituzione italiana si riconoscono i diritti umani, sia quelli che si esercitano individualmente, sia quelli che si realizzano nella socievolezza, cioè nelle relazioni interpersonali, fondate sul reciproco riconoscimento dei rispettivi bisogni, e nelle formazioni sociali dove gli individui sviluppano la propria personalità. E nel medesimo articolo sono prescritti i doveri di solidarietà politica, sociale ed economica, come elementi imprescindibili dai diritti, necessari entrambi a garantire la convivenza civile.

La collocazione del principio di solidarietà in tale contesto non è privo di significato. Esso è inserito in connessione con il principio personalista: lo sviluppo di ogni singola persona è il fine ultimo dell’organizzazione sociale. E tuttavia l’attuazione di tale principio va ottenuta non solo mediante i diritti dell’individuo, considerato in quanto singola persona o formazione sociale, ma anche mediante i doveri di solidarietà, dei quali “la Repubblica… richiede l’adempimento”. In altre parole, le persone sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca e doverosa solidarietà.

Va, inoltre, considerata la qualificazione che connota la solidarietà nella Costituzione. Non è solo politica e sociale ma anche economica. E anche questa caratterizzazione non è priva di conseguenze nell’assetto sociale del Paese. Nell’economia di mercato, qual è quella esistente in Italia, la Costituzione prescrive i doveri di solidarietà economica. Sicché, la competizione, che caratterizza l’economia di mercato, e la solidarietà economica non sono posti in alternativa, bensì in modo complementare: l’economia deve essere competitiva e, al tempo stesso, solidale. Il principio di solidarietà nella nostra Carta costituzionale non è, dunque, assimilabile al “principio di restituzione” o “principio filantropico”, che vige negli Stati Uniti; non è obbligazione morale, ma si inscrive nei doveri di cittadinanza. In Italia la solidarietà è un dovere, il cui adempimento va conseguito mediante ordinamenti e regole. L’idea che la sorregge è che tutte le persone godono di un nucleo di diritti fondamentali ed è un dovere basilare della società (istituzioni, società civile e singoli cittadini) rispettare e sostenere tali diritti. Per poter espletare tale dovere, anche le comunità di cittadini devono darsi ordinamenti e regole e svolgere attività di interesse generale.

Individuare nel condominio una comunità di persone che amplia in modo autonomo e condiviso il ventaglio  dei propri compiti e servizi d’interesse collettivo significa abbandonare sia la visione individualista che quella statalista del diritto alla casa e favorire un approccio relazionale, collaborativo, fraternizzante, di vicinato, di comunità. Si tratta di promuovere tra i proprietari di immobili e gli inquilini la capacità di esercitare il diritto di autoregolazione e autorganizzazione per la gestione di una serie di problematiche che riguardano i condomini, il fronte strada e le aree pubbliche adiacenti ai caseggiati in cui essi vivono senza attendere che tale diritto sia concesso dallo Stato.  Un diritto siffatto è da sempre appartenuto agli individui e alle comunità di persone e adesso occorre rivitalizzarlo in forme nuove e con nuovi contenuti.

Il condominio e la legge

La parola condominio deriva dal latino medievale condominium (con = insieme e dominium = possesso) che significa: “diritto di possesso esercitato insieme con altri”.  Il condominio è una forma di comunione forzosa, necessaria e permanente, cioè imposta dalla legge al verificarsi di determinati presupposti: il primo è che vi siano due o più unità immobiliari nello stesso edificio; l’altro presupposto è la necessaria correlazione tra diritto di proprietà esclusiva e diritti (e obblighi) sulle parti comuni. Il principio generale che informa le norme sul condominio è quello di solidarietà, garantito dall’articolo 2 della Costituzione, che impone un costante equilibrio tra i diritti inviolabili dell’uomo (compresa la libertà economica e la tutela della proprietà privata), sia come singolo sia nelle formazioni sociali, e i doveri inderogabili di solidarietà (compresi i doveri reciproci dei partecipanti alla comunione).

Il condominio ha un inquadramento giuridico molto particolare. Può nascere anche senza un formale atto costitutivo. Appena il costruttore proprietario vende a terzi una porzione di fabbricato suscettibile di uso autonomo, si profila una situazione di condominio. Si tratta, dunque, di uno stato di diritto dipendente da uno stato di fatto puramente naturale, che non scaturisce dalla volontà dei partecipanti ma dalla situazione dei luoghi.

È significativo che quando fu approvato il Codice Civile venisse respinta la proposta del relatore Rossi della Commissione di studio per il progetto del terzo libro di introdurre una disposizione di questo tipo: “A ciascuno dei condomini spetta il diritto di proprietà sulla quota rispettiva, mentre alla collettività dei condomini spetta il diritto di proprietà sull’intero fabbricato. La collettività dei condomini si considera ente distinto dalle persone dei singoli condomini”. La bocciatura di questa norma fece mancare nella legislazione un esplicito legame del condominio alla proprietà collettiva. Non c’è dunque la possibilità di assimilare questa forma di possedere ai domini collettivi, i cui enti, benché non siano proprietari dei beni comuni, sono rappresentanti della collettività e titolari di poteri amministrativi. In Italia esiste una lunga tradizione di questi enti riguardanti i terreni coltivati e i boschi, le cui reliquie si conservano ancora oggi in quasi tutte le regioni. In base alla normativa vigente, il condominio sembrerebbe estraneo a questa forma di possesso.

Anche in occasione del dibattito sulla riforma del condominio del 2012 è riaffiorato il confronto tra la tesi collettivista (la proprietà condominiale intesa come proprietà collettiva) e quella individualista (rigorosamente ancorata alle prerogative proprietarie dei singoli condomini) ed è stata confermata la scelta di non configurare il condominio come un ente autonomo di gestione, nonostante il favore accordato dalla giurisprudenza a questa soluzione. Molte pronunce della Cassazione individuano, infatti, nel condominio un tertium genus, non identificabile né con la persona fisica né con la persona giuridica,  quanto piuttosto con la collettività organizzata, con la persona giuridica collettiva. Ma nel dibattito parlamentare è stato affermato senza mezzi termini che la proprietà condominiale non è assimilabile alla proprietà collettiva. E il motivo è che la proprietà condominiale viene ancora ritenuta una modalità di possedere non finalizzata all’interesse generale. È questa anche la ragione addotta per non conferire al condominio una personalità giuridica.

In breve, la maggioranza del Parlamento non ha voluto fare aperture in questo senso e riconoscere, dunque, al condominio la funzione di espletare compiti e attività di interesse collettivo così come avviene in altri paesi occidentali. Negli Stati Uniti, 57 milioni di americani vivono in comunità autoregolate, in gran parte dei casi organizzate come grandi condomini. La loro legge è un regolamento contrattuale, approvato da tutti. Da noi, invece, il baricentro della vita condominiale non è il regolamento stabilito in modo condiviso dai condomini ma un complesso di norme calate dall’alto che riguardano aspetti minuti della vita delle persone. Un’impostazione che risente dell’epoca (statalismo e accentramento) in cui questa fu concepita e varata per la prima volta (1935 e 1942) e che il timido e neghittoso legislatore del 2012 non se l’è sentita di innovare favorendo l’autonoma capacità dei privati di operare nell’interesse collettivo.

A distanza ormai di due anni dall’entrata in vigore della “riformicchia”, le controversie nei condomini sono cresciute e il contrasto alla morosità, alimentata anche dalla crisi economica, non produce effetti perché mancano competenze adeguate nel dirimere le liti. Per non incorrere in responsabilità introdotte dirigisticamente dal legislatore, gli amministratori sono diventati più rapidi nell’avviare le azioni di recupero del credito nei confronti dei condomini morosi. Con la conseguenza di aggiungere l’aggravio delle spese legali ai bilanci familiari già in condizioni di estrema difficoltà.  C’è poi un ritardo enorme nella digitalizzazione del rapporto tra condòmini e condominio: poche realtà dispongono di un sito internet e rarissimi sono i casi in cui i condòmini possono accedere direttamente, con funzioni di mera consultazione, all’home banking del conto corrente condominiale, cosa che permetterebbe maggiore trasparenza e maggiore partecipazione alla vita del condominio.  Sono tutti problemi che si possono affrontare seriamente solo organizzando un modello efficiente e condiviso di servizi che vada oltre le mere prescrizioni normative.

Prove di sussidiarietà orizzontale

Tra le azioni urgenti per il rilancio dell’edilizia, cui è dedicato il decreto “Sblocca Italia”, figura un articolo rubricato “Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio”. Si tratta di una norma con la quale si consente ai comuni di affidare a cittadini singoli o associati determinati interventi aventi ad oggetto la cura di aree ed edifici pubblici.  Questi soggetti  beneficiano di alcuni sgravi fiscali inerenti le attività da essi realizzate. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. I benefici fiscali sono concessi prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute. È facoltà dei comuni allargare l’elenco ad altri interventi realizzati dalle comunità di cittadini ritenute di interesse generale.

Questa norma fa seguito ad un’altra disposizione del 2013 che prevede la possibilità per i comuni di affidare la gestione di aree verdi o di determinati edifici di origine rurale ai cittadini residenti nei relativi comprensori mediante procedure di evidenza pubblica, in forma ristretta, senza pubblicazione del bando di gara. Condizione per la partecipazione a tali procedure, tuttavia, era la costituzione da parte dei cittadini di un consorzio del comprensorio che raggiungesse almeno i due terzi della proprietà della corrispondente lottizzazione. Pur commendevole nella finalità, la norma in questione sembra subire i limiti di un approccio segnatamente urbanistico che finisce per restringerne sensibilmente l’applicazione concreta.

Da questo punto di vista, lo “Sblocca Italia” compie una scelta diversa che apre ad una serie diversificata di formazioni sociali, sebbene non rinunci ad incentivare il ricorso, da parte delle comunità di cittadini, a “forme associative stabili e giuridicamente riconosciute”, cui viene accordata priorità nel riconoscimento delle agevolazioni fiscali. Tale scelta sembra riprendere quella contenuta in una norma del 2008 che si riferiva a “gruppi di cittadini organizzati”, i quali, secondo tale norma, possono presentare microprogetti di arredo urbano e di realizzazione di opere di interesse locale senz’oneri per l’ente, ottenendo così una detrazione dall’imposta sul reddito delle spese da essi sostenute.

L’insieme di queste norme costituisce un’indicazione per le amministrazioni comunali rispetto ad una diversa politica di valorizzazione per via partecipativa degli spazi pubblici e uno strumento normativo utile a fornire supporto ad iniziative di questa natura. Prende finalmente corpo quel principio di sussidiarietà orizzontale previsto dall’art. 118, ultimo comma della nostra Costituzione. E l’orientamento sembra essere quello di riconoscere prioritariamente soggetti privati di natura associativa che svolgono attività e interventi di interesse generale.

Su questa scia, anche il condominio può diventare un soggetto capace di andare oltre quanto previsto dalle norme vigenti e assolvere una serie di compiti di interesse collettivo a beneficio dei proprietari di case, degli inquilini e in generale delle comunità locali.

L’idea che dovrebbe guidare tali iniziative è l’innovazione nel suo significato più ampio che non comprende solo la tecnologia e va ben oltre il risultato dell’attività di ricerca. L’innovazione è tale perché viene attuata e trova corrispondenza nella pratica produttiva. Essa non riguarda solo la sfera tecnologica ma tutte le fasi del processo produttivo, nonché il contesto interno ed esterno nel quale si realizza e coinvolge anche gruppi di attività come la formazione professionale, i servizi tecnici di supporto, la consulenza. L’ulteriore elemento che caratterizza attualmente l’innovazione è la consapevolezza che l’evento ideativo e la sua trasformazione in innovazione non proviene soltanto dal mondo della ricerca e della sperimentazione. L’innovazione non è dunque solo un fatto tecnico, un metodo rigido che determina il successo di un’idea, di un’intuizione, di una proposta, è piuttosto il frutto di un’attitudine mentale, di una predisposizione psicologica che va alimentata con la ricerca, il confronto, lo scambio di più punti di vista.

L’innovazione diventa innovazione sociale, cioè un nuovo modo di organizzare l’attività umana, dove le potenzialità della vita vengono messe all’opera in un impegno di natura etica. Si tratta di quella innovazione che vuole rispondere a bisogni emergenti delle persone attraverso nuovi schemi di azione e nuove forme di collaborazione tra diversi soggetti. E descrive l’intero processo attraverso il quale vengono individuate nuove risposte ai bisogni sociali con l’obiettivo di migliorare il benessere collettivo.

Il Progetto “Condominio di Strada” come innovazione sociale

Lo Sportello di Strada

La realizzazione del Progetto Condominio di Strada è un’innovazione sociale perché presuppone un mutamento di mentalità e di abitudini negli individui, nella società civile e nella pubblica amministrazione; un mutamento di comportamenti che si può ottenere gradualmente solo con la creazione di fiducia, la condivisione, la formazione e la sperimentazione di nuovi servizi. La prima azione da avviare è quella di razionalizzare la presenza di amministratori competenti di condominio. L’amministratore è scelto dalle assemblee condominiali. Se più assemblee condominiali si raccordano tra loro,  ci potrà essere un solo amministratore al servizio di una via o di un quartiere, inteso come insieme di abitazioni e infrastrutture costituenti l’unità minima di urbanizzazione. Un amministratore che abbia competenze pluridisciplinari: non solo  nell’ambito tecnico-giuridico, per poter acquisire la natura fattuale dei problemi pratici e poi interpretare e applicare le norme, ma anche in quello della mediazione culturale, della mediazione di comunità e della negoziazione per poter prevenire e risolvere le divergenze tra condomini di diversa cultura e formazione, etnia, età e per fornire servizi primari e complementari agli edifici in modo corretto, trasparente, puntuale ed economico. Un amministratore che interpreti il proprio ruolo come conciliatore, negoziatore e animatore sociale per assumersi la responsabilità nella mediazione dei conflitti e individuare nuove opportunità da proporre ai condomini volte a contrastare i pregiudizi, le diffidenze, l’isolamento e il disagio abitativo, a risolvere le divergenze senza necessariamente ricorrere al giudice, a ridurre i costi di qualsiasi tipo, a puntare al risultato al di là del mero ordine contabile e a migliorare la sicurezza e la qualità della vita degli individui e delle famiglie. Un amministratore che sappia collegarsi con il contesto sociale e amministrativo in cui svolge la sua attività. Si tratta di conoscere l’articolazione decentrata della pubblica amministrazione, della rete associativa del Terzo Settore, dei servizi erogati dalle organizzazioni di categoria, dei servizi di prossimità resi disponibili dalla autorità preposte all’ordine pubblico e alla sicurezza.

Tali competenze scientifiche e tecniche e capacità psico-attitudinali si acquisiscono sia con un’adeguata formazione che con una pratica riflessiva, inserita in processi di autoapprendimento collettivo promossi da UPPI e UNIAT impegnati a sviluppare modelli di servizi di alto livello. In questo modo si potrà stabilire un rapporto quotidiano, diretto, faccia a faccia, fondato sulla fiducia e la stima professionale, tra i cittadini residenti e coloro che sono nominati dalle assemblee condominiali non solo per amministrare quanto previsto dalle normative ma anche per badare ad altre esigenze.

La partecipazione alla costituzione di Smart community

L’ufficio dell’amministratore diventa così uno Sportello di Strada, collegato ad una équipe di specialisti,  dove chiedere chiarimenti sui problemi condominiali, ottenere la lettura dei riparti millesimali, far confluire la domanda di nuovi servizi ed essere protagonisti, in quanto cittadini residenti organizzati, alla costituzione di smart community mediante la piena e congiunta utilizzazione dell’intelligenza connettiva, la capacità creativa, la risorsa partecipativa e il legame solidale comunitario.  La dotazione di un sito internet permette di accompagnare processi partecipativi, di elaborare e diffondere prontuari per facilitare la comunicazione e vademecum per favorire la civile convivenza e l’interculturalità, di semplificare norme e procedure,  di rendere trasparenti i contratti di manutenzione e dei processi di affidamento, di curare l’albo dei fornitori dei servizi: artigiani, imprese, ditte; tutte del quartiere per ottenere una riduzione dei costi e dei tempi d’intervento. Lo Sportello di Strada cura anche la connessione ai servizi digitali informatici, internet e radio televisivi degli immobili migliorando la capacità ricettiva e riducendo i costi.

La creazione di attività innovative

Diventando il centro di aggregazione e di confluenza dei bisogni dei cittadini che non trovano risposte efficaci da parte dei servizi erogati dal pubblico o dal mercato – così com’è organizzato attualmente – o che addirittura non trovano alcuna risposta, lo Sportello di strada potrà favorire la nascita di attività innovative o di rafforzare e riorganizzare attività già presenti nel territorio:

  1. servizi agli anziani non autosufficienti (ricerca badanti, creazione di orti sociali, ecc.);
  2. servizi all’infanzia (ricerca baby-sitter, allestimento di asili nido – Tagesmutter gestiti da una mamma nel proprio appartamento, creazione di agrinidi, ecc.);
  3. servizi educativi (accompagnamento e ritiro dalla scuola e dai luoghi delle attività sportive, insegnamento lingua italiana agli immigrati, ripetizioni per studenti in difficoltà, percorsi di educazione-formazione-lavoro di minori in difficoltà presso fattorie sociali, ecc.);
  4. servizi per le persone svantaggiate (inserimento socio-lavorativo e attività terapeutico-riabilitative in fattorie sociali, ecc.);
  5. organizzazione della banca del tempo tra volontari ed eventuali operatori a contratto;
  6. servizi comuni di lavanderia e stireria in aree condominiali, per ridurre le spese e i costi ecologici;
  7. creazione di spazi condominiali attrezzati per il gioco dei bambini, per la produzione fai da te (falegnameria, ceramica, conserve, ecc.), per l’organizzazione di concerti e spettacoli;
  8. servizi per i nostri «amici a quattro zampe» (dog-sitter, gestione di aree ludiche per cani all’interno di aree verdi pubbliche, private o collettive, ecc.).

L’inverdimento del grigio urbano bonificato

Molti comuni hanno già predisposto dei regolamenti per fruire delle aree verdi. Le iniziative si possono sviluppare anche in aree private per iniziativa dei proprietari o di affittuari. La stessa cosa vale per gli orti sociali che possono nascere in aree verdi pubbliche, private o collettive. Si tratta di favorire la nascita di vere e proprie imprese di servizi per fare in modo che i cittadini ricevano servizi efficienti a costi contenuti non solo in aree aperte ma anche all’interno delle proprie abitazioni, terrazzi o sui tetti. Catturando CO2 e le emissioni nocive nell’aria, gli orti sui tetti delle case non fanno solo bene all’ambiente e al benessere psicofisico delle persone coinvolte, ma favoriscono anche la biodiversità animale, in quanto gli uccelli possono tornare a nidificare tra i giardini pensili. Inoltre, essi hanno un effetto isolante perché assorbono i rumori del traffico e d’estate riducono il calore di diversi gradi, apportando risparmi notevoli sulle bollette energetiche. Con una legge recente anche lo Stato italiano sta supportando gli orti sui tetti: essi sono stati, infatti, inclusi nella lista degli interventi di riqualificazione energetica per i quali è prevista una detrazione fiscale del 65%. L’attività dei tetti “verdi” viene studiata con grande interesse anche nelle Università italiane. È il caso del Centro Studi Agricoltura Urbana e Biodiversità dell’Università di Bologna che, recentemente, ha pubblicato la ricerca Exploring the production capacity of rooftop gardens in urban agriculture con la quale si è stabilito come più di due terzi degli ortaggi consumati dai bolognesi potrebbero arrivare dai tetti della città. Se tutto lo spazio disponibile nelle case e nei palazzi fosse impiegato per la creazione di orti urbani, infatti, si potrebbero produrre circa 12.500 tonnellate di ortaggi. Lo studio, per la sua importanza, è stato pubblicato anche dalla rivista Science and Evironment Policy della Direzione Generale Ambiente della Commissione Europea.

Anche l’Università del Molise, in collaborazione con l’Associazione italiana verde pensile, è impegnata su tali progetti come a Corviale, un grande condominio pubblico lungo un chilometro che guarda all’Agro Romano. Un progetto di bonifica del grigio (del cemento) da ricoprire con il verde dell’orto senza terra ma in serra idroponica, per l’assorbimento di calore, polveri sottili e acque piovane. L’idea portante – creata da Stefano Panunzi e la sua équipe scientifica – è che “gli alloggi dovranno implementare terminali di sistemi produttivi/riproduttivi alimentati direttamente dai cicli di consumo e di scarto ospitati quotidianamente dall’edificio. Le infrastrutture fisiche, quelle impiantistiche, gli involucri e i vuoti occupabili e inutilizzati, dovranno essere messi a sistema fra di loro per attuare ecosistemi primari e secondari basati sull’economia circolare a km zero, alla scala del condominio residenziale e delle sue aggregazioni di isolato e distretto locale. Il conseguente minor aggravio delle infrastrutture urbane centrali dovrà generare immediate compensazioni fiscali e semplificazioni procedurali autorizzative e certificatorie. La diffusione e l’efficientamento dell’ecosistema digitale nell’ecosistema urbano dovranno incidere concretamente nel più generale ecosistema spazio-temporale quotidiano dell’abitante, aumentando la sua dotazione e la disponibilità di spazio e di tempo per l’affermazione dei propri diritti nel lavoro tradizionale e innovativo e nell’accesso alle risorse relazionali pregiate (salute, istruzione, cultura)”.

La costruzione di reti di economia civile

La creazione di orti sociali sollecita la nascita di farmer market e di gruppi di acquisto solidali (Gas) in collaborazione con produttori agricoli locali. Anche in questo caso si tratta di collegarsi alle reti solidali che stanno nascendo per inserire il condominio di strada nei loro sistemi con l’accortezza di creare sinergie coi negozi specializzati del fresco e del bio. Occorre diffondere e favorire lo spirito di collaborazione e di reciprocità, evitando che le iniziative muoiano per via di una competizione spinta.  Tra le reti solidali da incoraggiare ci sono anche quelle tra agricolture civili e ristorazione collettiva, mediante la sperimentazione di nuovi modelli di welfare nell’ambito del gusto riflessivo, per usare la felice espressione coniata, alcuni anni fa, da Elena Battaglini rileggendo e connettendo la lezione sociologica di Antony Giddens con quella della tradizione gastronomica mediterranea; un gusto rivolto al futuro, potremmo anche dire; un gusto dinamico, inteso come la dimensione corporea, sensoriale e cognitiva dell’individuo capace di scegliere (o di rifiutare) modalità, luoghi e prodotti di consumo nella mutevolezza dell’agire quotidiano; di interagire con il “rischio costruito”, esprimendo con la propria scelta la fiducia (o la sfiducia) in un’azienda produttrice; di associare le sensazioni concesse dall’esperienza della relazione con un alimento o una bevanda alle motivazioni ideali che possono indurre a sostenere determinati progetti imprenditoriali socialmente responsabili.

Altro settore d’intervento riguarda la creatività, a partire dal graffitismo che ha assunto il carattere di una vera e propria produzione artistica (arte di strada) per decorare le pareti di palazzi o muri di cinta. Nell’ambito della memorialistica della Resistenza, si va diffondendo l’uso di incidere sui mattoni dei marciapiedi  delle loro abitazioni il nome dei martiri; un uso che si può collegare ai percorsi storici presenti nei quartieri.

Un altro campo di attività è la creazione di reti per:

  1. gli interventi urgenti di manutenzione domestica;
  2. la gestione dei rifiuti;
  3. l’organizzazione del riciclo e del riuso dei beni domestici non utilizzati;
  4. la pianificazione di soluzioni di efficienza energetica per gli immobili.

Un ulteriore ambito di attività è l’intermediazione immobiliare mediante la creazione di servizi di assistenza centralizzata per contratti di locazione,  di servizi di notariato per rogiti, mutui e usufrutto e di una banca dati a sostegno di compravendite e locazione in affitto, per utenti pubblici e privati.

Un nuovo ambito d’iniziativa è la tutela dei cittadini e delle imprese che vengono vessati dalle banche e dalla pubblica amministrazione finanziaria e hanno bisogno di aiuto. Si tratta di favorire l’educazione finanziaria delle imprese e delle famiglie per la tutela da ogni forma di sopruso da parte di operatori speculativi e di promuovere solidarietà verso le vittime del reato di usura.

Infine, lo Sportello di Strada potrà sperimentare forme di gestione concordata con l’amministrazione comunale della messa in posa e rifacimento delle opere infrastrutturali: gas, luce, acqua, telefono, asfaltatura strade, rifacimento marciapiedi e riqualificazione delle aree verdi e sportive.

Le forme originarie dell’abitare nel Mediterraneo

Il Condominio di Strada è un progetto che si può considerare come reinvenzione di una tradizione. Infatti, le forme dell’abitare nel Mediterraneo, dall’antichità fino alle soglie della società industriale, hanno sempre avuto un carattere collettivo. In quest’area del mondo non si vive mai in un luogo da soli, ma in gruppo, quali che siano le dimensioni e la ricchezza di quest’ultimo. Un migliaio di uomini che vivano poveramente del lavoro della terra e dello scambio dei suoi prodotti è sufficiente, nel Mediterraneo, a costituire una città. Anche un borgo modesto si presenta come un microcosmo urbano, nel quale tutta la vita sociale è organizzata in funzione del gruppo.

Sono rimasti disperatamente vuoti i villaggi di colonizzazione creati con la riforma agraria nel cuore della Sicilia e della Basilicata interna al fine di strappare i contadini dalle agro-città, simbolo della forza d’inerzia del latifondo, e di legarli alle terre loro distribuite. Non basta una casa in mezzo ai campi per fare un podere.

La moderna urbanistica è nata nel Mediterraneo, nella Grecia del V secolo, con Ippodamo da Mileto, inventore delle piante a scacchiera. Sia i greci che i romani portavano dovunque arrivavano il proprio modello urbanistico. Lo spazio pubblico della città, dove l’uomo è tenuto ad apparire, fruisce di una duplice definizione. L’una lo differenzia rispetto alla casa, luogo del riposo e del sonno, ma spazio chiuso, privato, femminile, difeso e da difendere; l’altra rispetto al “paese piatto”, al “paese vuoto” della campagna, spazio aperto, ma luogo del lavoro e della natura. Esso si impone come lo spazio dell’azione senza lavoro: luogo del rituale e della festa, del gesto e dello spettacolo, dei piaceri e dei giochi.

Il vero centro sociale è situato nella piazza dove sfocia tutta la circolazione confusa e caotica delle viuzze. Una piazza per ogni quartiere, per ogni comunità etnica o religiosa; una piazza per ogni funzione, dal mercato al culto, all’assemblea; una piazza dalle dimensioni di una strada – un “corso” – lungo la quale si allineano le case dei ricchi e le botteghe di lusso e dove sfilano processioni e cortei; a ogni piazza, infine, la sua coloritura, aristocratica o popolare. Anche nel più piccolo borgo, è sempre sufficiente uno spazio, anche di modeste proporzioni, vicino alla chiesa o al municipio, con un caffè e qualche albero e un po’ d’ombra, perché gli uomini vi si ritrovino tra loro e diano vita alla piazza.

Scrive il grande storico Fernand Braudel: “Molto più che al clima, alla geologia e al rilievo il Mediterraneo deve la propria unità a una rete di città e di borghi precocemente costituita e notevolmente tenace: è intorno ad essa che si è formato lo spazio mediterraneo, che ne è animato e ne riceve vita. Non sono le città a nascere dalla campagna: è la campagna a nascere dalle città, che è appena sufficiente ad alimentare”. Attraverso le città si proietta sul territorio un modello di organizzazione sociale e attraverso le reti di città e di borghi i mercati si ampliano e, coi mercati, l’idea stessa di vicinato supera ogni frontiera.

L’idea di vicinato ha a che fare con la reciprocità. Nel senso comune “avere rapporti di buon vicinato” significa stabilire una reciprocità di diritti e doveri tra persone che abitano terre o case contigue. Lo attesta la consuetudine millenaria della prestarella o aiutarella, molto diffusa nelle comunità rurali. Nel poema Le Opere e i Giorni, Esiodo esorta gli agricoltori a coltivare i doveri di vicinato: “Fatti ben misurare dal vicino ciò che ti occorre, e restituiscigli la stessa misura e anche di più, se lo puoi, avendone in futuro ancora bisogno, tu lo ritrovi pronto”.

La parola territorio deriva dal latino terrae torus, “letto di terra”, e originariamente stava a significare quella porzione di terra della quale gli antichi popoli si appropriavano, attraverso la delimitazione di confini. L’espressione latina fines regere, “tracciare il confine”, voleva dire porre la regola (da regere, “mantenere”) dell’appartenenza (da appartenere, “far parte di”) ad una comunità umana di una porzione dei terreni allora disponibili; voleva dire, in altri termini, che su quello spazio di terra si instaurava il primo rapporto giuridico di appartenenza collettiva della terra stessa ad una comunità umana. Dunque, nella storia di Roma l’istituto della proprietà collettiva ha preceduto quello della proprietà privata.

Nell’antica Roma esisteva l’insula che era un caseggiato di quattro o cinque piani, divisi in tanti appartamenti, piccoli e grandi. Un epigramma di Marziale dedicato a Novio (I, LXXXVI) ci dice quanto fosse difficile incontrarsi coi vicini di casa in un condominio antico, ieri come oggi, anche se si abitava nell’appartamento accanto: “È mio vicino e con la mano / Si può toccare Novio dalle mie finestre. / Chi non mi invidia e non mi reputa / beato ad ogni ora, potendo io / godere di un compagno così intimo? / Ma per me è lontano quanto Terenziano / che ora amministra Siene sul Nilo. / Non riesco a cenarci e nemmeno a vederlo, /  non posso sentirlo, in tutta Roma non c’è / chi mi sia così distante e così accanto. / C’è da emigrare più lontano io o lui. /  Vicino o coinquilino sia di Novio, / chiunque non ha voglia di vedere Novio” (Traduzione di Miro Gabriele). Anche nelle città antiche c’erano, dunque, gli stessi problemi di oggi: sovraffollamento, incomunicabilità, invisibilità in mezzo alla massa. E i problemi si risolvevano dotandosi di regole comuni.

È con il risorgere delle città in epoca medievale, dopo la decadenza dell’impero romano, che il condominio incomincia a chiamarsi con questo nome. Lo storico Carlo M. Cipolla racconta una vicenda accaduta nella Firenze del ‘600 che ci fa comprendere il peso delle clausole contrattuali tra proprietari e conduttori e delle regole condominiali nel determinare le condizioni igienico-sanitarie delle città. A Firenze, come altrove, per la raccolta dei rifiuti gli edifici d’abitazione disponevano in genere di pozzi neri. I “votapozzi”, dietro compenso, si occupavano di vuotare i pozzi neri e le cantine quando la cosa era necessaria. Il contenuto veniva suddiviso in due parti: quello buono per concimare veniva venduto ai contadini e agli ortolani; quello non buono per i campi coltivati, detto “acquastrone”, veniva gettato nell’Arno. Ma ad un certo punto i proprietari e i contadini si resero conto che era possibile far a meno dell’intermediazione dei votapozzi. Il contadino stesso incominciò a vuotare il pozzo nero o la cantina: così il proprietario risparmiava la spesa del votapozzi e il contadino in compenso della sua fatica si teneva la materia buona per concimare senza dover sborsare soldi e gettava nel fiume l’acquastrone. Maggiormente apprezzati erano i pozzi dei quartieri più poveri, dove le materie fecali non erano inondate dall’acqua e quindi conservavano una maggiore percentuale di azoto. Tuttavia, venne a mancare l’alta professionalità dei votapozzi e l’acquastrone buttato in malo modo nell’Arno incominciò a creare forti malumori tra gli “ecologi” del tempo. E presto arrivarono molte segnalazioni all’Amministrazione. La quale si vide costretta a decretare che i pozzi e le cantine dovevano essere vuotati  solo dai votapozzi. E questi vennero impegnati,  sotto pene gravissime per ogni contravvenzione, a portare i rifiuti ad appositi scaricatori e buche fuori le mura della città. I votapozzi andavano pagati dai proprietari ma costoro si erano abituati, grazie all’opera dei contadini, ad essere sgravati della spesa della vuotatura dei pozzi neri e delle cantine. Quando entrò in vigore la nuova normativa, molti proprietari presero il vezzo di includere nei contratti di locazione che la spesa  per il vuotamento dei pozzi fosse a carico dell’affittuario. Molti degli inquilini però erano poveri e non avevano i mezzi per pagare questa spesa. E così incominciarono a lasciare i pozzi neri e le cantine ricolmi di liquami. Presto il cattivo odore allarmò le autorità cittadine. Le quali, dopo molti sopralluoghi, si resero conto che l’obbligo di svuotare i pozzi, fino a quando sarebbe stato oneroso, molti lo avrebbero disatteso. E decisero, pertanto, di levare gli scaricatori e di lasciare liberi i proprietari e gli affittuari di concordare coi contadini il vuotamento dei pozzi. Il rischio della peste fu così evitato. La pratica durerà fino all’Ottocento, quando l’arrivo dei concimi chimici renderà superfluo l’utilizzo dei liquami urbani in agricoltura. Si spezza così il plurisecolare circolo virtuoso tra città e campagna, formato in successione e ripetutamente prima dalle fasi della produzione e del consumo dei prodotti agricoli e poi dalle fasi del trasporto di rifiuti e deiezioni umane dalle aree urbane in quelle rurali e del loro riutilizzo in agricoltura. E solo allora sarà il condominio a ripartire le spese per il vuotamento dei pozzi neri in attesa di più efficienti reti fognanti dinamiche.

L’evoluzione delle forme dell’abitare

La vita economica e sociale delle città in età pre-industriale e pre-metropolitana è contrassegnata dalla mescolanza di aspetti urbani e aspetti rurali. La vita degli individui è interamente regolata dalla comunità, la Gemeinschaft, di cui parla il sociologo Ferdinand Tönnies. Tutto rientra nello spazio pubblico. Le relazioni tra gli individui sono emotive e immediate, piene e aperte, solidali e reciproche. Sono orientate da regole consuetudinarie definite dalla comunità.

Il passaggio dall’urbanesimo preindustriale a quello industriale ha aperto la strada alla deruralizzazione totale dell’ambiente cittadino. Alla Gemeinschaft (comunità) subentra la Gesellschaft, che per Tönnies è la società basata su relazioni artificiali e convenzionali e in cui gli individui s’impegnano solo parzialmente nei rapporti emotivi. Il moderno urbanesimo industriale si afferma all’insegna della convinzione che l’avvento della società industriale rappresenti, nell’evoluzione dei sistemi economico-produttivi, una tappa conclusiva e irreversibile, e che in virtù delle enormi potenzialità tecnologiche dell’industria il mondo urbano possa vivere ed espandersi prescindendo da ogni rapporto con l’ambiente rurale. In tale contesto, lo Stato assolutista assorbe ogni potere normativo espropriando la comunità della sua funzione primaria di autoregolamentarsi. Assecondano tale processo la Riforma protestante e il Concilio di Trento che introducono la preghiera personale e silenziosa e attenuano il valore di quella comunitaria. Inoltre, l’alfabetizzazione e le tecniche di stampa si propagano e finalmente si può leggere anche individualmente.

Lo sviluppo della città metropolitana e della grande fabbrica, come due facce della stessa medaglia, ha portato alla morte dello spazio pubblico e al rinchiudersi progressivo degli individui nella sfera privata. Secondo il sociologo Richard Sennett, questo cambiamento ha avuto una lunga gestazione dal declino dell’Ancien régime in poi. L’idea del “privato” sembra richiamare la casa come luogo nostro per eccellenza, preposto all’intimità, uno spazio del sé, che si intende come ricco, pieno del senso della persona. In realtà, il significato della parola – “esser privo” – non suona affatto come pienezza ma prende il nome da una mancanza. Cosa manca nel privato? Evidentemente lo sguardo dell’altro, il collettivo, il fragore del pubblico. La parola racchiude, dunque, le tracce di una sottrazione, come se il terreno del sé fosse stato separato da altri spazi e con fatica conquistato.

In tale clima, nasce l’idea hobbesiana di “Stato sociale” come preoccupazione del Sovrano assoluto – raffigurato dalla figura mitologica del Leviatano – che opera per il benessere della popolazione. Thomas Hobbes (1588-1679) teorizza che in origine lo “stato di natura” dell’uomo è “homo homini lupus” (“un lupo per l’altro uomo”) e che, per non soccombere in una guerra fratricida, fra gli uomini si deve stipulare un contratto al fine di delegare il potere a una autorità, il Leviatano, al quale conferire il monopolio della forza (fisica e legale), e di altri poteri ancora, ove necessari, così da garantire le libertà individuali e la pace sociale, in breve il benessere di tutti. Sulla base di questa teoria, si è successivamente sostenuto che l’utilitarismo degli individui genera problemi di sicurezza (conflitti sociali) che possono essere risolti solo attraverso un contratto (che ha due momenti: un pactum unionis e un pactum subjectionis) in cui ciascuno aliena le proprie prerogative ad un Potere che decide le regole per tutti, assicurando le libertà proprietarie di tutti alla sola condizione che ciascuno non leda le libertà altrui. Col tempo, il Leviatano si trasforma nella “Repubblica” di marca giacobina. Tutti i vari modelli di Stato sociale, fino a quelli recenti di tipo keynesiano-beveridgiano o parsonsiano, assumono una visione antropologica di tipo materialistico, utilitaristico e individualistico e presuppongono che gli individui, come sudditi o cittadini, si sottomettano ad un Potere politico che detta la norma valevole per tutti.

Lo Stato sociale edificato in Italia nel secondo dopoguerra ha assunto caratteri del tutto peculiari. La pesante eredità del fascismo e l’adattamento alla “guerra fredda” tra gli Stati Uniti e i paesi alleati, da una parte, e l’Unione Sovietica e i paesi satelliti, dall’altra, hanno interagito per fare in modo che il residuo spazio pubblico della comunità venisse occupato dalle organizzazioni della sinistra marxista e dei cattolici democratici in una logica di appartenenza competitiva. A questa condizione si aggiunge un altro elemento non meno grave. Da noi i doveri costituzionali di solidarietà non sono ripartiti tra Stato, corpi intermedi e cittadini – come si sarebbe dovuto fare – ma sono stati assunti quasi completamente nelle politiche pubbliche in una logica statalista, burocratizzata e centralistica. I pubblici poteri si fanno essi stessi produttori di beni e servizi mediante attività economiche non dissimili da quelle dei privati (partecipazioni statali, nazionalizzazioni, consorzi bancari, ecc.); le riforme socio-economiche come l’agricoltura, l’istruzione e la sanità sono gestite essenzialmente da enti pubblici (enti di riforma, aziende sanitarie locali, distretti scolastici, ecc.); i servizi sociali vengono pensati di tipo centralistico e risarcitorio, cioè per i soggetti svantaggiati e per i poveri; il riequilibrio territoriale viene affidato alla Cassa per il Mezzogiorno; il regionalismo viene attuato come articolazione dello Stato unitario per ridistribuire le provvidenze pubbliche. La Dc e la sinistra  hanno assolto ad un ruolo di mediazione tra i cittadini e lo Stato, trasformando la residua comunità tradizionale in una sorta di convivenza tra “separati in casa”. Le forme di aggregazione e di associazionismo, costruite nel tempo, hanno fatto riferimento essenzialmente alle due “chiese politiche” che sono rimaste in piedi anche quando non ci sono state più le ragioni ideologiche e geopolitiche che motivassero in qualche modo la loro esistenza. Una situazione che si è ulteriormente complicata con le recenti ondate migratorie: nei quartieri delle nostre città, insieme a gruppi di immigrati si sono aggiunti nuovi movimenti politici transnazionali e nuove religioni con la conseguenza che le “chiese” si sono moltiplicate.

Dal punto di vista urbanistico, l’idea guida dello sviluppo metropolitano è che i nuovi quartieri debbano essere abitati da un’unica classe, mentre nel vecchio centro cittadino i ricchi debbano vivere separati dai poveri. Questa concezione ha dato origine allo sviluppo urbano “monofunzionale”, secondo il quale ogni parte della città ha una funzione specifica. Interi isolati sono esclusivamente residenziali, mentre i servizi per le famiglie  (centri comunitari, parchi, centri commerciali, ospedali, ecc.) sono situati altrove. Lo spazio non si definisce dai confini – dentro/fuori alla/dalla polis come per la dimensione fondativa della città premoderna – ma dalla specializzazione interna dello spazio urbano. Tale differenziazione impone i suoi criteri anche sulla regolazione del tempo della vita sociale.

Tali processi sono accompagnati da fenomeni contraddittori e paradossali come la vicenda degli orti urbani. Già nella seconda metà dell’ottocento, i processi migratori delle campagne verso le città sono accompagnati dalla reinvenzione della tradizione degli orti negli interstizi dei grandi complessi edilizi urbani; una tradizione che costituisce la modalità con cui i contadini diventati operai restano legati in qualche modo alla loro cultura originaria ed evitano gli effetti alienanti della vita di fabbrica. Spesso sono i condomìni a promuoverli sull’onda dei mitici jardins ouvriers organizzati dall’abate Lemire in Francia e lo fanno per soddisfare un bisogno di comunità che la vita urbana tende a sfaldare.

Presto ci si accorge che stabilire l’immutabilità dell’uso dello spazio a prescindere da chi lo utilizza, è razionale solo in termini d’investimento iniziale. Alla lunga i costi umani sono enormi. Sicché, lentamente e spontaneamente ogni spazio specializzato per funzioni, ogni interstizio o confluenza tende a reinventarsi come spazio  plurifunzionale in contraddizione con le rigidità dello Stato sociale. In sostanza, nonostante l’eclisse della comunità, gli individui continuano a cercare relazioni comunitarie, le quali assumono forme intimistiche, affettive, motivazionali e psicologiche, e – in mancanza di regole comunitarie condivise – tendono inevitabilmente ad autodistruggersi. Senza barriere, confini, distacco reciproco – gli elementi di fondo delle convenzioni e delle regole  –  gli individui diventano distruttivi. E questo non già perché la natura umana sia malvagia (come pensava Hobbes), ma perché gli effetti della cultura urbana e industriale portano al fratricidio qualora la base dei rapporti sociali non sia la regola comunitaria condivisa, bensì semplicemente l’aggregazione per appartenenze familiari, amicali, etniche, religiose, ideologiche e motivazionali. Tönnies rimpiangeva la fine della Gemeinschaft, ma riteneva che fosse “romanticismo sociale” credere in una sua rinascita. Della comunità tradizionale, così come essa si configurava concretamente, non bisognerebbe, invece, nutrire alcuna nostalgia poiché presentava alcuni connotati inaccettabili, a partire dalla forte gerarchizzazione dei rapporti sociali. Ma la sua reinvenzione in forme adatte all’attuale sensibilità civile è da auspicare per costruire un equilibrato rapporto tra comunità che recupera la sua capacità di organizzarsi e autoregolarsi e sistema politico e istituzionale.

Nel frattempo, lo Stato sociale entra in una crisi profonda. Nonostante i gravi limiti con cui esso era stato edificato nel secondo dopoguerra nel nostro paese, quel modello ha rappresentato un esperimento di economia mista (pubblico-privata), tra i più estesi del mondo occidentale, che ha permesso una rapida ricostruzione dopo i disastri della guerra e un principio – benché parziale – di modernizzazione delle strutture fondamentali del paese. Ma, negli anni settanta, la crisi fiscale, la commistione pubblico-privata e l’eclisse della comunità ad opera delle “chiese politiche” hanno prodotto un’inarrestabile degenerazione, i cui segni più evidenti sono la crisi del sistema politico e i livelli vertiginosi raggiunti dal debito pubblico. E sono così riemerse, come un fiume carsico, e si reinventano regole comunitarie di reciprocità e mutuo aiuto, come dimostrano le continue attenzioni alle vicende delle terre collettive, la creazione di economie civili, la diffusione delle banche del tempo e di antiche consuetudini come il baratto.

Le forme dell’abitare della città post-fordista e post-metropolitana sono caratterizzate dal riemergere del bisogno di campagna nelle aree urbane che trova soddisfazione con la diffusione del fenomeno delle villettopoli e la reinvenzione dell’agricoltura di servizi che dapprima affianca e sempre più oggi tende a prevalere sul modello produttivistico (che si è imposto dagli anni trenta del novecento quando la preoccupazione principale dei paesi occidentali è stata quella dell’autosufficienza alimentare). Così prendono forma progetti che prevedono di rivitalizzare le aziende agricole che ancora sopravvivono nelle aree urbane e destinare alle agricolture civili e relazionali parti delle aree industriali e commerciali dismesse o dei complessi residenziali da rinnovare. E in tale evoluzione si reinventa di nuovo la tradizione degli orti di città come saldatura e cerniera di territori plurifunzionali. Le agricolture civili s’incrociano con il Terzo Settore e danno vita a modelli di welfare produttivo: nasce l’agricoltura sociale come attuazione del principio di sussidiarietà. In sostanza, le granitiche certezze sociologiche e urbanistiche che hanno assecondato e guidato l’espansione della città industriale moderna si rivelano infondate. E la crisi urbana si manifesta impietosamente con il processo di decremento demografico dovuto alla fuga dalla città e con il delinearsi di un continuum urbano-rurale da cui emerge un’agricoltura che produce beni relazionali inclusivi, legami comunitari e civili. Alle fattorie sociali si aggiungono, negli ultimi tempi, i farmer’s market, i gruppi di acquisto solidale e  le forniture di mense collettive con prodotti locali. E si creano inedite sinergie di tali economie coi percorsi turistici, culturali, archeologici e ambientali nelle aree protette.

Questo fenomeno, definito dagli studiosi “rurbanizzazione,” vede l’entrata in scena di una particolare tipologia di consumatore che vuol essere partecipe del progetto con cui si crea il prodotto agricolo e non semplicemente spettatore passivo nel teatro del marketing; vuole, in sostanza, essere un co-protagonista che interagisce con il produttore. Egli non si limita ad informarsi sui diversi prodotti, guardare l’etichetta e acquistare passivamente il bene in qualunque punto vendita. Vuole invece partecipare attivamente al rapporto di scambio dopo essersi aggregato, anche informalmente, in gruppi di acquisto o in comunità di cibo, le cui esperienze pioneristiche nascono tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta. Queste forme civili di agricoltura, con istanze ed esperienze diversificate, si candidano a promuovere modelli di welfare produttivo e ad assumere un ruolo di cerniera e di saldatura di territori in cui sono sempre più evidenti le confluenze e le intersezioni. E in tale quadro si aprono ai condomini nuove opportunità di iniziativa per svolgere servizi di interesse collettivo a beneficio delle comunità locali, reinventando una tradizione partecipativa di vicinato e di promozione sociale che si è mantenuta solo in alcune realtà.

La grande crisi economica e finanziaria

Con la globalizzazione, la costruzione dell’Unione europea, la conclusione del ciclo fordista dell’economia e la nuova rivoluzione tecnologica, le modalità con cui lo Stato ha esplicato i doveri di solidarietà si sono frantumate e non ci sono più le condizioni per ripristinarle nelle vecchie forme. La nostra società versa, dunque, in una condizione in cui non pare esserci alcun barlume solidaristico nell’intervento pubblico e tale stato di cose si è adesso aggravato con la recente crisi economica e finanziaria. Emergono sempre più le nuove forme di povertà. Si tratta a volte di una povertà percepita, indotta dalla paura di arretrare nella scala sociale. Spesso sono forme di povertà dovute alla mancanza di prospettive per superare la povertà stessa, a orizzonti che progressivamente si chiudono sempre di più.

Rivitalizzare lo spirito comunitario in tali condizioni è diventato più difficile perché le appartenenze particolaristiche si sono frantumate e prevalgono sui vincoli di appartenenza di tipo territoriale. E la difficoltà a ricostruire legami sociali fraterni e doveri solidaristici è strumentalizzata politicamente dai populismi e dagli amministratori delle città che cavalcano in modo spregiudicato il disagio urbano, drammatizzando il disordine che deriva dall’atomizzazione delle funzioni e dalla distruzione dello spazio pubblico, adottando metodi manipolatori e costruendo messaggi eticamente inaccettabili.

In mancanza di veri e propri programmi urbani per la sicurezza che poggino su interventi co-progettati dalle amministrazioni pubbliche e le comunità di cittadini,  si utilizza  il modello esplicativo della “finestra rotta” come un supporto giustificativo alla strategia della “tolleranza zero” ai fini dell’organizzazione del consenso sociale. Una finestra rotta di un edificio se non prontamente riparata determinerebbe la vandalizzazione di un’altra finestra; una cabina telefonica danneggiata inviterebbe a distruggerne altre, e così via. Insomma, il degrado produrrebbe degrado e l’azione vandalica si diffonderebbe rapidamente rendendo ben presto quel territorio inospitale, pericoloso e insicuro.

Ma tale modello esplicativo della genesi e diffusione dell’insicurezza nella città si è rivelato scientificamente erroneo: se è possibile verificare che una cabina telefonica vandalizzata favorisce la distruzione di altre, non è possibile trovare convincente verifica che la presenza di edifici abbandonati con le finestre rotte e altre forme di degrado definisca un territorio urbano insicuro o più insicuro di altri. Il diffondersi del degrado urbano non ha effetti di moltiplicatore sui livelli di sicurezza oggettiva. La strategia della “tolleranza zero” che si è voluta ricavare da questo modello è servita solo a enfatizzare la paura del contatto con la miseria e coi diversi, ma è del tutto inefficace per affrontare il degrado urbano.

Con l’aumento della disoccupazione soprattutto giovanile, le città rischiano di esplodere. I figli e i nipoti di coloro che migrarono dalle campagne centro-meridionali del paese nelle aree urbane, stanno sviluppando un loro modo peculiare di vivere la crisi. Essi stanno subendo un arretramento dei livelli di benessere fino a rasentare la soglia di povertà. La condizione di profonda incertezza rispetto al futuro fa sì che queste persone sviluppino una tipica avversione verso i deboli: non perché c’è in loro il senso del nemico, ma per paura di cadere nello stesso livello. Allora, attraverso l’aggressione al nero, al nordafricano, al bengalese, si stabilisce  una distanza rispetto al pericolo di una contaminazione da contatto. È la reazione a questo rischio e a quello di cadere al loro stesso livello. L’avversione contro il più debole è, poi, il bisogno di sfogare le frustrazioni che provengono dalle sfere della società in cui non si può arrivare, calpestando coloro che stanno sotto: creando, cioè, dei capri espiatori. Un rancore verso l’alto che si sfoga verso il basso. È una distorta ricerca di dignità. Su questi sentimenti fanno leva i movimenti populisti per incanalare la violenza verso gli immigrati e la protesta verso le istituzioni considerate le principali responsabili dell’afflusso di stranieri nei quartieri multietnici della città. E nel vuoto che si è creato tra istituzioni e cittadini si sono incuneate nuove mafie che vedono interagire gruppi criminali, spezzoni di pubblica amministrazione e di terzo settore e movimenti xenofobi nella gestione di servizi sociali verso gli ultimi.

Per affrontare seriamente l’insicurezza urbana – come ci insegna Maurizio Fiasco – bisogna incominciare a sperimentare nuove modalità di intervento che poggino su strategie definite in modo razionale e con un approccio interdisciplinare e assumano, come dato strutturale di cui tener conto concretamente: l’emotività delle persone e delle comunità, la percezione dell’insicurezza (processo psichico che elabora e connota simbolicamente le impressioni della realtà ricevute attraverso gli organi di senso), la paura personale di essere vittime di un atto criminale (fear of crime), la preoccupazione sociale per la criminalità che minaccia l’ordine sociale e il “mondo giusto” (concern abourt crime). In tale ambito, la promozione della coesione di vicinato e della sussidiarietà tra le comunità di cittadini può svolgere sia una funzione di pressione verso le amministrazioni pubbliche perché si dotino di programmi efficaci, sia un’azione propedeutica a strategie pubbliche da implementare in percorsi partecipativi dal basso, sia una qualche difesa preventiva di ulteriore erosione del capitale sociale nei quartieri urbani.  In questo modo, si soddisfa il bisogno avvertito in modo latente tra i residenti delle città di una relazione tranquillizzante tra la domanda soggettiva di sicurezza e il servizio dell’offerta di sicurezza.

Lo sviluppo locale a partire dai quartieri delle città

Gli strumenti utilizzati finora dalle amministrazioni comunali non permettono più di programmare, pianificare e gestire le città-territorio per affrontare i diversi problemi. Occorrerebbero percorsi di progettazione ad alta risoluzione capaci di mobilitare le comunità locali, cioè i soggetti e i gruppi che le compongono, senza più separarli per categorie. Anche i luoghi dell’abitare non sono più spazi chiusi, ma ogni edificio o spazio tende a trasformarsi in luogo polivalente, inglobando diverse funzioni nel legarsi ad altri edifici e ad altri spazi.

Per ricostituire le comunità-territorio e per fare in modo che queste possano meglio cogliere le opportunità della globalizzazione, bisognerebbe accompagnarle nell’acquisire una chiara percezione di sé, per fare in modo che gli scambi culturali ed economici con altre comunità-territorio del mondo globale siano reciprocamente arricchenti e improntati ad una relazionalità collaborativa. Le arti e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione possono alimentare la capacità delle reti locali di costruire in modo creativo la propria immagine e di riscoprire il Genius loci come processo culturale di autocoscienza e di apertura agli altri.

Reinventare le tradizioni diventa un’esigenza non comprimibile perché esse danno continuità e forma alla vita. C’è un nesso stretto fra tradizione e cambiamento. Per evitare, però, che a caratterizzare le tradizioni restino solo i riti e i simboli specifici, in un vuoto di visione che si chiude al mondo, bisognerebbe inventarle, da un lato aperte al confronto con altre tradizioni o modi di fare le cose e, dall’altro, disposte a lasciarsi trasmettere e consegnare alle generazioni future perché le possano conservare. Del resto, le radici linguistiche della parola “tradizione” sono antiche e risalgono al termine latino tradere, che significa “trasmettere”, “dare qualcosa a qualcuno perché la custodisca”. E così, se le tradizioni si reinventano continuamente e si aprono all’interazione con le altre tradizioni e con le generazioni future, anche l’identità – cioè la percezione di sé – non dovrà mai essere statica ma creata e ricreata in modo molto più attivo e multiforme di prima. Si dovrà ripartire dal territorio nella sua pluridimensionalità dal locale al globale, dalla percezione del passato a quella del futuro. E si dovranno costruire le multiformi identità che ne deriveranno, tutte mutevoli e in continua evoluzione. Identità caleidoscopiche e paritarie, impastate di memoria e creatività, capaci di non blindarsi dinanzi allo straniero. Capaci di riconoscersi negli altri, visti non come minacce ma risorse, non buchi neri ma specchi necessari, a loro modo positivi. Capaci di recuperare e rivitalizzare il senso di fraternità primordiale proprio delle comunità rurali, lo spirito di dialogo che ha preceduto il monologo, il valore dell’ospitalità che è più antica di ogni frontiera.

A livello locale non ci sono istituzioni, né organizzazioni politiche e sociali, che svolgono un’azione costante di lettura dei bisogni sociali dei cittadini. Bisognerebbe, pertanto, strutturare alcuni strumenti d’indagine (semplici e gestibili con risorse modeste) per osservare e accertare tali bisogni in ambiti che si ipotizzano come più significativi. Dall’osservazione e verifica dei bisogni occorrerebbe poi trarre una serie di indicazioni e alternative possibili da tradurre sia in domanda di decisioni politiche (da rivolgere ai partiti e alle istituzioni), sia in domanda strutturata di beni e servizi a cui far corrispondere un’offerta (da promuovere e organizzare). Lo scopo delle attività dovrebbe essere quello di supportare progetti territoriali al fine di promuovere: la partecipazione, la coesione, lo sviluppo locale, la legalità e l’integrazione. Si tratta di far crescere le persone, la qualità umana dei singoli mediante l’aumento della buona occupazione e della relazionalità.

Di primaria importanza è l’utilizzo integrato territoriale dei Fondi strutturali e di investimento europei 2014-2020 al fine di introdurre percorsi innovativi di sviluppo locale. La prima risorsa che dovrebbe essere messa a valore è la condivisione delle informazioni. Si tratta di individuare strumenti che permettano ai soggetti economici e sociali delle comunità-territorio di avere il massimo delle informazioni relative agli ambiti in cui operano. E di favorire la collaborazione in modo tale che i buoni progetti siano messi in comune senza il timore che qualcuno li rubi, senza gelosie e con l’idea che insieme si potranno realizzare progetti migliori. In tale contesto comunitario e collaborativo, il Progetto Condominio di Strada potrà trovare una sua più rapida ed efficace concretizzazione.




Le 120 giornate di Sodoma Capitale

Ovvero la scuola dell’antimafia. Cos’è avvenuto a Roma nelle 120 giornate che si sono succedute a quello scioccante martedì 2 dicembre quando la Procura della Repubblica della capitale scoperchiò uno scandalo senza precedenti che coinvolgeva politici, dirigenti pubblici, imprenditori ed ex terroristi nel malaffare e in ogni genere di nefandezze compiute nella città?  Come stanno rispondendo la politica e la società civile all’inchiesta giudiziaria più sconvolgente che si sia abbattuta finora su Roma, facendo emergere una mafia del tutto nuova? La società della comunicazione tende a semplificare ogni cosa in una guerra infinita del “bene” contro il “male”. Ed è per questo che – a fronte dell’offensiva mediatico-giudiziaria della Procura di Roma che ha dissolto in un baleno granitici convincimenti, mitizzazioni consolidate e luoghi comuni – la politica e la società civile coinvolte nello scandalo provano innanzitutto a ricostruire una nuova immagine di sé. L’immagine di chi sta dalla parte del “bene” che combatte il “male”. E provano a creare un nuovo recinto in cui collocarsi e distinguersi: lo spazio pubblico delle “anime belle”. Lo fanno utilizzando tutti gli strumenti che la società della comunicazione mette a disposizione per occupare costantemente la scena. Inventano nuovi simboli, nuovi linguaggi, nuove modalità di esercizio del potere e delle forme di violenza con cui esso si manifesta. È sicuramente encomiabile e va incoraggiato l’impegno a contrastare la nuova cupola scoperchiata dagli inquirenti. Tuttavia, è similmente importante disvelare le metamorfosi e i camaleontismi di un’antimafia di facciata priva di ricadute sul benessere collettivo per fare emergere, invece, l’impegno effettivo di persone e gruppi nel creare comportamenti responsabili e consapevolezze diffuse, capaci di incidere sullo sviluppo delle comunità e aprire nuovi spazi di democrazia. Di qui il richiamo metaforico alla “scuola del libertinaggio” del marchese de Sade e a “Salò” di Pasolini. La domanda a cui qui si vuole tentare di dare una prima risposta, è la seguente: siamo o no in presenza di una “scuola dell’antimafia” che sta costruendo pratiche perverse, ciniche e sadiche, volte a distorcere la democrazia, a ridurre gli spazi della partecipazione e ad allontanare le opportunità di crescita sociale, economica e civile delle comunità che vivono a Roma?  Se la risposta è affermativa bisognerà agire su due fronti: combattere la mafia e difendersi dall’antimafia di facciata. Perché la mafia e la falsa antimafia sono due facce della stessa medaglia. In questo duplice conflitto e nella diffusione di nuove pratiche sociali – così come sta avvenendo con l’iniziativa di “Spiazziamoli” – può nascere una nuova classe dirigente.

Lot e le sue figlie fuggono da Sodoma in fiamme

Lot e le sue figlie fuggono da Sodoma in fiamme

La giornata dell’orrore

La mattina del 2 dicembre 2014 Roma si sveglia e scopre che le inchieste giornalistiche di Lirio Abbate sull’Espresso non erano affatto dei falsi scoop. A mezzogiorno rimbalzano sulle agenzie i nomi di 37 arrestati, tra cui Massimo Carminati, che era appartenuto ai Nuclei armati rivoluzionari ed era stato amico di quelli della Banda della Magliana. Ora viene presentato come il capo di una mafia nuova, una mafia romana: Mafia Capitale. Tra i cento e passa indagati figura, con accusa di associazione mafiosa, anche l’ex sindaco Gianni Alemanno. Mentre i due arrestati eccellenti sono Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative sociali, accusato di associazione mafiosa, turbativa d’asta, trasferimento fraudolento di valori e rivelazione di segreto d’ufficio, e Luca Odevaine, accusato di corruzione aggravata, ex vicecapo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni. Entrambi vicinissimi al Pd.

Nove giorni dopo, sarà il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, a spiegare il senso dell’operazione investigativa alla commissione parlamentare antimafia: “A Roma ci sono una serie di investimenti mafiosi, ci sono alcune associazioni di tipo mafioso presenti nel territorio, come le due di Ostia, una collegata a Cosa nostra e una, quella dei Fasciani, autoctona, già sgominate; ma oggi abbiamo fatto un passo avanti. Sappiamo che non c’è un collegamento con la mafia classica: rispecchia in qualche modo la società romana. Mafia Capitale è originale e originaria”.  Nell’ordinanza degli arresti del 2 dicembre si precisa: “Originale perché l’associazione criminale presenta caratteri suoi propri, in nulla assimilabili a quelli di altre consorterie note; originaria perché la sua genesi è propriamente romana, nelle sue specificità criminali e istituzionali (…). Deve escludersi  che la sua genesi sia recente e reputarsi che essa sia radicata da tempo, mentre deve ritenersi che essa, sul piano investigativo, sia stata colta nella fase evoluta propria delle organizzazioni criminali mature, che fruiscono, ai fini dell’utilizzazione del metodo mafioso, di una accumulazione originaria criminale già avvenuta”.

Il tutto sembra, dunque, partire dai contesti di violenza dei conflitti antisistema degli anni settanta e ottanta e dai collegamenti tra l’eversione nera con apparati istituzionali.  Tali legami si consolidano nel fenomeno criminale della Banda della Magliana per trasformarsi definitivamente in Mafia Capitale: un luogo descritto da Carminati  come “mondo di mezzo”, dove si realizzano sinergie e si compongono equilibri illeciti tra il “mondo di sopra”, fatto di colletti bianchi, imprenditoria e istituzioni, e il “mondo di sotto”, fatto di batterie di rapinatori, trafficanti di droga, gruppi che operano con l’uso illegale di armi.

Il fantasma di “Roma ladrona”

Dopo quel brutto martedì nulla è più come prima nella capitale. È crollato definitivamente il mito di una città più ordinata ed efficiente, costruito grazie alla buona amministrazione delle giunte di Rutelli e Veltroni. Un mito che si era avvalso della caduta del primato di Milano capitale morale da quando le inchieste di Tangentopoli avevano dimostrato a confronto il modesto livello della “Roma ladrona”. La parola “Roma” ha ripreso la capacità di suscitare rifiuto e condanna non sapendosi più avvolgere – se mai ci fosse riuscita – nella glorificazione di un mito. Sono tornati a risuonare gli echi di polemiche antiche contro la capitale.  Come quella di Papini nei primi anni del novecento: “Chi mi darà torto se io dichiaro che Roma è stata sempre, intellettualmente parlando, una mantenuta? (…) Questa città ch’è tutto passato nelle sue rovine, nelle sue piazze, nelle sue chiese; questa città brigantesca e saccheggiatrice che attira come una puttana e attacca ai suoi amanti la sifilide dell’archeologismo cronico, è il simbolo sfacciato e pericoloso di tutto quello che ostacola in Italia il sorgere di una mentalità nuova, originale, rivolta innanzi e non sempre indietro”. O come quella di Moravia agli inizi degli anni settanta: “Come si fa a voler bene a Roma, città socialmente spregevole, culturalmente nulla, storicamente sopravvissuta a furia di retorica e di turismo?”. E sempre Moravia, rincarando la dose, scrive in apertura a un volume del 1975 significativamente in titolato “Contro Roma”, raccolta delle considerazioni di una quindicina fra saggisti, scrittori e poeti sulla capitale: “Fisicamente, Roma, non è diventata né una grande capitale  come Parigi o Londra, né una megalopoli come Rio de Janeiro o il Cairo. È una via di mezzo fra le due cose e ha i difetti così della megalopoli come della capitale senza averne i pregi”. Alla constatazione che Roma era una delle città “peggio tenute, più sporche, più neglette e più maltrattate d’Europa” Moravia aggiungeva anche “la mancanza di raffinatezza, la volgarità squallida e devitalizzante propria dello Stato”. E come un insulto affermava: “Roma è una città, a dirla in breve, statale”.  “Roma è soltanto – sosteneva lo scrittore Libero Bigiaretti – una bellissima (a tratti, a momenti) città sfasciata, traboccante in maniera incomposta, dalla morfologia abnorme, e che ‘funziona’ fortunosamente alla meglio, ed è assolutamente non idonea – dopo cento anni di tirocinio – alle mansioni di capitale”. Per Guido Piovene Roma, “vetrina vistosa dei vizi nazionali”, è politicamente “senza qualità”. E continua: “Tra Roma e le diverse parti d’Italia, non si sa quale sia più attiva nel corrompere l’altra. L’Italia è tutta e quasi egualmente mafiosa, la periferia guasta il centro e il centro la periferia. Tra un’Italia male unita e una capitale senza qualità politica si ha un circolo sbagliato, da cui il buono resta estromesso. Roma sarebbe una delle città più attraenti del mondo se non svolgesse una funzione che non è la sua”.

È Galli della Loggia sul Corriere della Sera a dare voce alla nuova ondata di invettive contro Roma. “Non è più Tangentopoli, ormai”, tuona l’editorialista. “È Mahagonny, la città immaginata dalla fantasia di Brecht e Weill dove è legge l’assenza di legge”. Nell’intreccio tra corruzione e criminalità  “è cresciuto a Roma un ceto più o meno vasto di professionisti, di consulenti, di personaggi introdotti in alcuni punti chiave dello Stato, di veri e propri delinquenti in guanti bianchi, ma anche di uomini-ombra più di mano, tipo Salvatore Buzzi, la cui attività sostanziale è ormai quella di intermediare il malaffare con la decisione politico-amministrativa”. La caratteristica di Mafia Capitale è quella di privilegiare la corruzione alla violenza, per evitare l’attenzione della magistratura e dell’opinione pubblica. E nei fatti di corruzione non solo le imprese, ma anche la politica e la pubblica amministrazione assumono il ruolo di soggetti comprimari. Roma sta incarnando nel senso comune l’immagine della capitale dell’intreccio perverso tra mafia e corruzione.

 

Il “regolamento” di Sodoma Capitale

Ma come reagiscono la politica e la società civile al brutto risveglio di quel martedì nero che ha messo in luce in modo così appariscente la presenza di una mafia che spara poco ma corrompe tanto? L’opinione pubblica è scossa e terribilmente sbandata e tra la gente si rafforza l’ostilità verso le istituzioni e l’indignazione verso la classe dirigente. La disgregazione in atto è potente, lo sbandamento dell’opinione pubblica è terribile e sono formidabili gli interessi che si coalizzano attorno all’idea di affidare Roma a poteri straordinari, guidati “dall’alto”, piuttosto che rimetterla alle decisioni del suo popolo. Nessuno ragiona sul futuro della città e su come definire armoniosamente il ruolo e le funzioni della capitale italiana come strada maestra per sottrarla alla corruzione e al malaffare. Nessuno collega il proliferare di questa nuova mafia con la fragilità dell’assetto istituzionale e con l’esigenza di riforme profonde. Non solo a livello nazionale con un esecutivo che risponda al popolo, con un Parlamento meno centrale ma più efficace nell’intervenire e nel fare le leggi, con un decentramento capace di trasformarsi in autonomie responsabili, con una magistratura che renda l’azione penale e civilistica più efficace ma anche meno politicizzata. Ma anche a livello romano con Municipi che diventino veri e propri Comuni e che – una volta acquisito il diritto all’autogoverno – diano vita con quelli limitrofi ad una vera capitale metropolitana, con poteri reali e risorse adeguate. Solo da questa scelta preliminare può dipendere il modello organizzativo dell’amministrazione: la sua qualità, la sua efficienza, l’articolazione delle sue competenze e funzioni. Solo da questa opzione di fondo può prendere forma un’idea di sviluppo della città nell’era di internet e della robotica. Non a caso il “modello Roma” delle giunte di Rutelli e Veltroni non poté andare oltre il “buon governo” di facciata: non si fondava, infatti, su un progetto istituzionale di funzioni e poteri armoniosamente costruito. Nulla di tutto questo diviene però oggetto di dibattito pubblico ma solo quello che la società della comunicazione sa meglio assimilare: messaggi semplificati, battute ad effetto, banalità da bar nel tentativo disperato – da parte di chi li formula – di restare a galla con le minori perdite possibili.

Nessuno si avvede che anche questa volta si ripete – come in un copione ingiallito da rispettare rigidamente senza margini d’inventiva – il medesimo rito che si consumò dopo lo scandalo di Mani pulite e l’assassinio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Anche allora i partiti di governo minati nella loro credibilità morale a causa della corruzione e della collusione con le mafie e per questo perseguiti da una magistratura portata sugli scudi da un vasto e radicale movimento d’opinione, vengono di fatto commissariati dall’establishment. Tra il 1992 e il 1996 si susseguono i cosiddetti governi tecnici che avviano il rientro dell’Italia in Europa in condizioni di forte dipendenza nei confronti dei vertici di Bruxelles. Quando la politica perde credibilità, non si è abituati ad attingere immediatamente nuove risorse con l’esercizio della democrazia, e quindi restituendo immediatamente ogni decisione al popolo sovrano. Ma i più, per conservare le proprie rendite di posizione, si rendono disponibili a cedere sovranità ad altri poteri e a forze esterne sovranazionali.  Anche a Roma è la Procura ad avere il pallino in mano ed è con essa che il Pd e la giunta Marino, entrambi sotto schiaffo, dovranno vedersela. Tramite Renzi e la supervisione di Bruxelles, a cui dar conto degli impegni riguardanti il piano di rientro del debito pregresso del Comune di Roma.

Come i protagonisti del romanzo di Sade e del film di Pasolini, anche i nostri eroi – il commissario, il sindaco e il magistrato – si sono forse riuniti in qualche torre immaginaria della campagna romana per stringere il loro patto di potere mediante un “regolamento”? Non si sa. Quel che appare è la comune osservanza di una regola non scritta: dare l’impressione all’opinione pubblica che tutto cambi perché nulla cambi. Ancora una volta è il principe di Salina a dettare le regole del gioco, le regole di Sodoma Capitale.

Il commissario

A distanza di poche ore dallo scandalo, il segretario del Pd romano, Lionello Cosentino, rassegna le dimissioni immediatamente accolte dal premier e segretario nazionale del partito, Matteo Renzi. Il quale nomina commissario il presidente del Pd, Matteo Orfini. Lapidaria la prima dichiarazione del commissario: “Emerge a Roma un partito da rifondare e ricostruire su basi nuove”.  E commissiona all’economista Fabrizio Barca uno studio sui circoli democratici della capitale per  venire a capo delle ragioni del coinvolgimento del partito nei gravi fatti di collusione tra criminalità organizzata, imprenditoria e amministrazioni pubbliche.

L’ipotesi di lavoro che Barca e la sua équipe presentano alla vigilia di Natale  si poggia su due elementi, entrambi individuati come fenomeni concomitanti all’origine dei fatti collusivi: a) l’accumularsi di errori nell’azione pubblica di governo della città, specie in quella che avrebbe dovuto assicurare inclusione sociale ai suoi cittadini più vulnerabili (servizi essenziali di urbanizzazione, di sicurezza, abitativi, di cura degli anziani e dell’infanzia, ecc.); b) la progressiva trasformazione del partito in una “macchina per il bilanciamento del potere” priva di riferimento a una visione della città e a un progetto politico e mescolata in forme spesso improprie con l’amministrazione (municipale e comunale). Per curare il morbo i due fenomeni da correggere sarebbero questi: a) le cordate dei “signori delle tessere” che avrebbero trasformato il Pd appena nato in un partito “feudale”, privo di una visione di città; b) gli strumenti e le regole per il governo della città, utili nella prima fase delle giunte Rutelli, ma rivelatisi fragili o addirittura perversi successivamente, fino a trasformarsi in mezzi di degenerazione con la giunta Alemanno. “Il partito – scrive Barca – non serviva più a raccogliere e traghettare fabbisogni, idee e possibili soluzioni dalla comunità di iscritti e cittadini agli amministratori, a tenere gli amministratori sotto controllo”.

La ricerca commissionata al gruppo MappailPd consiste nella costruzione di un questionario da sottoporre ai coordinamenti di 110 circoli non già – si precisa – per individuare capri espiatori ma per identificare l’idea di partito che i singoli circoli incarnano.  E così il 15 marzo arriva la relazione intermedia del gruppo di studio a metà della ricognizione, le cui prime anticipazioni sono impietose: c’è un partito cattivo, un altro buono e un altro ancora dormiente. Quello cattivo è anche “pericoloso e dannoso”: in esso “non c’è trasparenza e neppure attività, si lavora per gli eletti anziché per i cittadini, traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di ‘carne da cannone da tesseramento’”. Quello buono “esprime progettualità, capacità di raggruppamento e rappresentanza, ha percezione della propria responsabilità territoriale, sa agire con e sulle istituzioni, è aperto e interessante per le realtà associative del territorio e sa essere esso stesso associazione (inventando forme originali di intervento), informando cittadini, iscritti e simpatizzanti”. E poi “emerge una sorta di partito dormiente, dove si intravedono le potenzialità e le risorse per ben lavorare, e dove il peso di eletti e correnti è sfumato, ma che si è chiuso nell’autoreferenzialità di una comunità a sé stante, poco aperta all’innovazione organizzativa, al ricambio, al resto del territorio”.

L’ex ministro delle politiche di coesione conta di concludere il lavoro entro maggio. E solo allora si aprirà il tesseramento per giungere al congresso entro la fine dell’anno. Dunque, pare di capire che il dibattito interno al Pd romano verterà sui risultati dello studio diretto da Barca. Eppure i democratici americani e il Labour britannico, per affrontare le loro difficoltà, non sono partiti dalla propria organizzazione  ma dalla società con cui i partiti dovrebbero interagire. La stessa cosa andrebbe fatta a Roma perché la mafia copre il vuoto della rappresentanza sociale. L’obiettivo del commissario sembra, invece, essere quello di cambiare metodo di lavoro del partito per renderlo capace di darsi una visione di città. Insomma, permane in lui l’idea che basti cambiare il partito per produrre innovazione sociale. Ma quella parte di società che potrebbe effettivamente produrre tale innovazione sta prevalentemente fuori del partito e interagisce – come ci dice il rapporto intermedio del team di Barca – con quella ristretta componente buona del Pd che sa essere “aperta e interessante per le realtà associative del territorio”. E la mafia è annidata lì, nelle lacune e debolezze di quella parte di società. Non a caso i partiti li ha solo sfiorati. Lo scambio è avvenuto con gli amministratori (i decisori politici) e coi vertici tecnici della pubblica amministrazione. Proprio per questo motivo Mafia capitale non è paragonabile a Tangentopoli. Gli scandali corruttivi dei primi anni novanta videro coinvolti i tesorieri dei partiti che costituivano i comitati d’affari. Oggi l’associazione mafiosa è insediata negli interstizi tra cittadini e società, laddove appunto le rappresentanze degli interessi dovrebbero leggere e selezionare i bisogni sociali e tramutarli in richieste leggibili per la politica e per i cittadini. Afferma Pignatone che “il vero collante [dell’associazione mafiosa] è costituito dalla convenienza reciproca: la possibilità di entrare nei luoghi decisionali della pubblica amministrazione e il denaro. Denaro in grande quantità, la possibilità di averne sempre di più, di mantenere i rubinetti sempre aperti”.  E continua: “Nella nostra inchiesta tutto si mescola: il mafioso parla da manager e da burocrate, il funzionario si presta a operazioni corruttive di impatto economico a volte minimo a volte significativo, pronto a ripeterle qualunque sia la postazione che la politica sceglie per lui; l’imprenditore accetta o addirittura cerca la protezione del mafioso, mentre delicati incarichi amministrativi di nomina politica vengono affidati a persone indicate da Carminati”. Sembra, dunque, abbastanza evidente che la mafia romana svolga una vera e propria attività lobbistica: “crea” emergenze e ne pilota la percezione nell’opinione pubblica; offre una nuova agenda di bisogni comprensibili; indica gli uomini giusti al posto giusto nella pubblica amministrazione per acquisire risorse pubbliche, sottraendole così ai servizi effettivamente necessari ai cittadini; non offre ai decisori politici solo soldi ma anche consenso elettorale in virtù del forte controllo del territorio da essa esercitato.

Sono tutte attività che la criminalità non potrebbe svolgere qualora vi fossero efficienti organizzazioni di rappresentanza delle forze sociali in grado di adempiere alle proprie funzioni in un rapporto diretto coi cittadini, le imprese, i lavoratori, il territorio. Ma queste strutture oggi hanno smarrito la propria mission originaria e sono disperse in mille rivoli, divise per settori, categorie, forme giuridiche, bisogni speciali, storie ideologiche, ecc., intente a gestire pezzi di spesa pubblica per “mantenere” le proprie strutture organizzative: patronati, caf, caa, servizi per i sistemi di qualità, formazione professionale, attività promozionali, vigilanza agli affiliati, ecc. E invece le mafie agiscono in loro sostituzione “raccordandosi” con gli amministratori pubblici (sia decisori politici che strutture tecnico-amministrative), “cavalcando” i bisogni dei cittadini e trasformando le diverse esigenze in richieste funzionali ai propri affari illeciti. Non è un fatto nuovo. Già nel secondo dopoguerra si verificò questo fenomeno in alcune regioni meridionali laddove le organizzazioni democratiche erano estremamente deboli. Perché le mafie non sono anti-Stato ma altro-Stato.

Orbene, il commissario farebbe bene a ispirarsi al Labour britannico che nel 2010, dopo la seconda peggior sconfitta della sua storia, ha scelto il community organizing o capacity building per rigenerare il proprio rapporto con la società. Si è insomma mosso dall’esterno del partito, mappando le comunità, i suoi leader naturali, la cittadinanza attiva e l’associazionismo diffuso. Oggi la priorità è quella di strutturare, in modo sano e trasparente, gli spazi di definizione dei bisogni sociali partendo “dal basso”, incrociando coloro che già lo fanno, spesso in silenzio e contrastati dalle “sigle” e “siglette” che pretendono di essere le depositarie della rappresentanza sociale senza svolgerne più le funzioni. Si tratta di capire i motivi che rendono difficili a Roma i percorsi partecipativi per la progettazione integrata territoriale, pur vivamente raccomandati dalle politiche europee strutturali e di coesione. Andrebbero approfondite a fondo le ragioni dell’inerzia nell’attuazione dei piani di zona dei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari e delle correlate forme partecipative. Bisognerebbe studiare il modo come connettere la governance delle cooperative sociali e delle associazioni di volontariato con gli utenti, i lavoratori e il territorio e sostenere la “valutazione” partecipata dei servizi offerti ai cittadini.

Solo se si creano, si rafforzano e si risanano questi luoghi, i partiti potranno svolgere un ruolo. Potranno, cioè, diventare strumenti di collegamento tra cittadini organizzati e istituzioni, oltre che promotori di classi dirigenti che si formano nell’ascolto dei bisogni. Ma c’è la necessità di una iniziativa politica nella società per avviare tale processo, con la consapevolezza che il problema non è prevalentemente nei partiti ma è fuori di essi. Spetta però ai partiti prenderne coscienza e agire di conseguenza. Si vedrà se il congresso del Pd romano saprà cogliere questo aspetto che lo studio MappailPd contiene e andrebbe ulteriormente approfondito e discusso.

Ma intanto Orfini, coadiuvato da tre subcommissari, rappresenta il partito nelle attività territoriali e nei rapporti con l’Amministrazione capitolina e con le altre forze politiche. In Campidoglio sono indagati due esponenti Pd: Mirko Coratti, presidente dell’Assemblea capitolina, e Daniele Ozzimo, assessore alla casa. I quali si dimettono poche ore dopo aver saputo del loro coinvolgimento nelle indagini. La situazione in Campidoglio la spiega il procuratore Pignatone alla commissione parlamentare antimafia. Dice che  l’organizzazione criminale “si rapporta in modo completamente diverso con le due giunte che si sono succedute”. E infatti, tra gli arrestati – sottolinea il magistrato – ci sono tre figure “di vertice” dell’amministrazione guidata da Alemanno, a sua volta indagato, a cui viene contestato il reato di associazione di stampo mafioso. Mentre questa “presenza di vertice”- fa notare il procuratore – non c’è più quando in Campidoglio si insedia la nuova giunta guidata da Marino. Rimane però la “presenza estremamente pesante di Buzzi, che si caratterizza con tentativi di corruzione anche con la nuova amministrazione”.  Spiega Pignatone che quando si arriva alle elezioni del 2013, i vertici di Mafia Capitale si dicono tranquilli sull’esito del voto perché vantano agganci sia nell’uno che nell’altro schieramento.

A seguito di queste dichiarazioni, il commissario del Pd fa quadrato sul sindaco criticando i precedenti attacchi del partito al suo operato. Così Marino può ristrutturare la sua giunta: dimissiona Rita Cutini, assessore alle politiche sociali,  sposta l’assessore Paolo Masini dai lavori pubblici alla scuola e nomina il magistrato Alfonso Sabella assessore alla legalità e alla trasparenza, la presidente del Centro Servizi Volontariato del Lazio Francesca Danese alle politiche sociali e alla casa e il coordinatore capitolino dei progetti speciali Maurizio Pucci ai lavori pubblici. Non così ad Ostia, il territorio considerato il cuore delle infiltrazioni mafiose a Roma, dove il Pd locale viene affidato da Orfini al senatore torinese Stefano Esposito. Qui la prima misura messa in campo è l’azzeramento della giunta municipale. Una decisione sofferta che passa dapprima attraverso le dimissioni annunciate in conferenza-stampa da parte del presidente municipale Andrea Tassone: “Non ci dimettiamo per lotte intestine o perché abbiamo ricevuto avvisi di garanzia o altro, ma io azzero oggi la mia esperienza amministrativa e rimetto il mio mandato per lanciare un appello al sindaco Ignazio Marino, quello di avere la consapevolezza che Ostia non è come tutti gli altri Municipi”. Si tratta, dunque, inizialmente di dimissioni revocabili a precise condizioni da trattare con il sindaco. Ma dopo alcune giornate di passione consumate nel leggere carte giudiziarie e nel sondare l’aria che tira in Procura, arrivano quelle definitive che avrebbero dovuto portare alle elezioni anticipate del Municipio, restituendo così lo scettro al principe, al popolo sovrano. E invece è il sindaco Marino a svolgere la funzione di commissario del Municipio, in attesa che arrivi un altro magistrato in aspettativa a supplire – cambiando temporaneamente casacca e mettendo così sotto i piedi il principio della separazione dei poteri di Montesquieu – una politica incapace di fare il proprio mestiere.

C’è comunque da dire che, al di là del Pd, nessun’altra forza politica della città ha avviato dibattiti interni, percorsi di verifica e di riorganizzazione delle proprie strutture. Sel ha confermato il pieno appoggio al sindaco in una riunione pubblica alla presenza di Niki Vendola. E nelle prime settimane di dicembre, Giorgia Meloni si è candidata a sostituire Marino, annunciando un congresso di rifondazione di Fratelli d’Italia-An da tenere a febbraio che però non si è svolto.  Anche Alfio Marchini, leader della lista che prende il suo nome e che ha conseguito il 10% dei consensi, ha chiesto le dimissioni del sindaco. Berlusconi lo vorrebbe alla guida di un cartello di centrodestra nel caso si vada a votare anticipatamente per il Campidoglio. Sono però contrari a questa ipotesi di leadership Meloni e Storace. E Marchini non cede nemmeno questa volta alle sirene come fece quando rifiutò di sostenere Marino al ballottaggio con Alemanno: pensa ad irrobustire il suo movimento senza allearsi né con la destra, né con la sinistra. E Mafia Capitale è un’occasione da non lasciar cadere.

Il sindaco e il magistrato

Marino dice che farà il sindaco per due mandati e non pensa affatto a dimettersi. Ma finora non ha ancora proposto all’Assemblea capitolina un dibattito pubblico su quanto è emerso dall’inchiesta di Mafia Capitale e sulle scelte future per la città. È contemporaneamente sindaco di Roma capitale e della Città metropolitana ma non ha maturato alcuna idea di come le due istituzioni che presiede possano unificarsi in un progetto costituente per dare all’Italia una vera e propria capitale. È come se l’argomento non lo riguardasse. È in barca e deve continuare a remare. Non importa verso dove. L’importante è amministrare nella legalità e nella trasparenza come richiedono la magistratura e il governo sotto la pressione di un’opinione pubblica allo sbando a seguito dell’inchiesta giudiziaria. Inoltre, va rispettato il piano di rientro del debito del Comune per tranquillizzare l’occhio vigile di Bruxelles. Se ci sarà la possibilità di fare anche altro a vantaggio dei cittadini, è tutta ciccia. Altrimenti pazienza.

Marino ha scelto Sabella a fargli da “tutore” in una macchina amministrativa che l’ex magistrato antimafia giudica “patologicamente alterata e totalmente fuori controllo con profonde e antiche radici”. “La patologia – spiega Sabella – è quella che di fronte a un ceto politico locale scarsamente preparato c’è una burocrazia comunale in grado di amministrare, decidere, scegliere senza che nessuno possa ostacolarla”. E precisa che i fenomeni corruttivi sono diffusissimi e che è costretto a segnalare alla Procura, ogni giorno, distorsioni e anomale procedure in favore di determinate ditte. “Nella Palermo controllata dai corleonesi di Totò Riina – racconta a un giornalista de “La Stampa” – almeno le carte erano formalmente in regola, qui la mafia ha occupato spazi vitali della vita pubblica”. L’assessore alla legalità dice che in queste 120 giornate ha occupato la maggior parte del suo tempo a firmare in autotutela richieste di annullamento di un paio di decine di gare con procedure a evidenza pubblica, cioè quelle gare che prevedono il bando pubblico, la commissione giudicatrice, la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Un paio di decine a fronte di almeno diecimila procedure negoziate, cottimi fiduciari, affidamenti diretti, somme urgenze. Racconta al giornalista: “Ho azzerato le somme urgenze e gli affidamenti diretti  e ho dettato regole per ridurre all’osso le procedure e renderle trasparenti come una casa di vetro”. È lui che ha predisposto le regole per la trasparenza dei dati personali non solo di coloro che svolgono la funzione di indirizzo politico in Campidoglio, nei Municipi e nelle società partecipate, ma anche dei dirigenti. Dovranno tutti rendere disponibili on line la propria dichiarazione dei redditi e la situazione patrimoniale complessiva di tutta la famiglia fino al secondo grado di parentela. Ad un altro giornalista dice che in sostanza vuole sapere “se il capo dipartimento o il direttore generale dell’azienda tal dei tali ha la Porsche o la Panda, se ha la villa a Cortina o vive in un appartamento a Tor Bella Monaca”. È convinto che è dal tenore di vita che spesso emergono le contraddizioni. Ma è anche ben consapevole dei limiti dello strumento: moglie e congiunti non sono infatti obbligati alla pubblicazione e se uno ha intenzione di nascondere i propri beni con intestazioni fittizie, eludere i controlli è piuttosto semplice. Leggendo queste dichiarazioni di Sabella nel suo nuovo ruolo di assessore comunale viene in mente la lezione di Leonardo Sciascia sul rapporto tra politica e giustizia e alcune sue sottolineature fulminanti: spesso chi amministra la giustizia – fa notare lo scrittore – è portato ad “assumere un che di ieratico, di religioso, di imperscrutabile e con conseguenti punte di fanatismo”.

Oltre Sodoma Capitale, il prete di strada

Don Luigi Ciotti è da vent’anni presidente di Libera, un coordinamento di associazioni che hanno come finalità il contrasto alla mafia e alla corruzione. Lo fece prete agli inizi degli anni settanta il cardinale Michele Pellegrino, che gli affidò come parrocchia i marciapiedi di Torino. Da parecchi anni vive sotto scorta minacciato continuamente da Totò Riina e dai suoi sodali. Cosa Nostra non gli perdona di aver ottenuto dal Parlamento la legge sui beni confiscati ai mafiosi. A Roma ha il suo quartier generale in via Quattro Novembre. La ex Provincia gli ha messo a disposizione una minuscola bottega che si affaccia sul Foro di Traiano, quasi ai piedi della Colonna. Sull’insegna si legge: “I sapori della legalità”. Vi si trovano prodotti che arrivano dalle terre confiscate e coltivate: vini, pasta, salse, miele, melanzane, peperoncino di Calabria, olio di Puglia, passata di pomodoro della Sicilia.

Con il sostegno della Regione Lazio, il 22 marzo dell’anno scorso don Ciotti ha promosso a Latina la XIX Giornata della Memoria e dell’Impegno in Ricordo delle Vittime di Mafia. Ha poi partecipato attivamente al meeting della legalità “Lazio Senza Mafie” promosso dall’Osservatorio per la sicurezza e la legalità della Regione Lazio, dal Progetto ABC – Arte, Bellezza, Cultura e da Sviluppo Lazio e che si è svolto a Roma dal 26 al 29 novembre. Il 16 dicembre – quattordicesima giornata di Sodoma Capitale – ha preso parte a Roma al Congresso di Legacoop, l’associazione a cui aderisce la cooperativa 29 giugno, presieduta da Buzzi. Lo scandalo che si è consumato nella capitale domina necessariamente l’assise. Federica De Sanctis, giornalista di SkyTg24, “presentatrice” del congresso, chiama sul palco il presidente di Libera che così affronta il tema della giornata: “Bisogna sempre vigilare, non c’è realtà che si possa dire esente. Non possiamo spaventarci di alcune fragilità. Ve lo dico con stima, gratitudine e affetto: dobbiamo imparare sempre di più a fare scelte scomode. Di fronte ai bivi bisogna decidere da che parte stare: imboccare la strada in salita, non possiamo essere troppo prudenti, dobbiamo osare di più, avere più coraggio. Siate sereni, cacciate le cose che non vanno (…). Le notizie sulle tangenti non possono lasciarci tranquilli. C’è una mentalità irriducibile sulla quale bisogna interrogarci. Molti con la bocca hanno scelto la legalità ma non può essere la legalità secondo le circostanze, non è una carta d’identità che si tira fuori quando fa comodo, dobbiamo evitare che ci rubino le parole, le stanno svuotando del loro significato. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione. L’etica, la legalità non sono obiettivi tra gli altri, ma è lo sfondo per tutto il resto, non prestiamoci mai a chi offre al privilegio la possibilità di calpestare i diritti”. Un discorso che tocca le corde più profonde e i valori di un’organizzazione che intende attuare i principi cooperativistici e solidaristici. Un discorso che, tuttavia, con ogni probabilità non riesce ad influenzare nel concreto la scelta e l’individuazione dei giusti modelli di governance che le imprese cooperative dovrebbero darsi per evitare di essere coinvolte in attività illecite. Il gruppo dirigente di Legacoop ritiene, infatti, che i fondamentali della cooperazione stiano a posto e che non ci sia nulla da approfondire e da innovare. Nel dibattito congressuale, lo scandalo di Mafia Capitale viene derubricato a questione di mele marce: ieri la “29 aprile” di Buzzi, oggi la “Concordia” e domani?! Nel frattempo, l’Alleanza delle Cooperative Italiane (ACI), coordinamento nazionale costituito dalle Associazioni più rappresentative della cooperazione italiana (AGCI, Confcooperative, Legacoop), tace sulla necessità di un ripensamento dei modelli di governance, salvo far osservare a Legacoop che il male sta nel gigantismo delle sue cooperative. Cosa del tutto discutibile: un’impresa può, infatti, adottare misure che la mettano al riparo da comportamenti corruttivi e illegali indipendentemente dalle sue dimensioni. Il grande tema da porre è, invece, quello di rafforzare la funzione sociale delle cooperative come impatto sociale sul territorio. E per farlo dovrebbero cercare nelle loro modalità di gestione e di governo modelli flessibili e inclusivi, che le portino ad essere sempre più le organizzazioni delle comunità per le comunità.

Don Ciotti ha una personalità carismatica e il suo linguaggio tende ad agire direttamente sulle coscienze dei suoi uditori. E questa attitudine educativa del fondatore, questo suo carisma, costituisce l’originalità e l’identità specifica in cui si riconoscono gli aderenti al movimento. Ma spesso la cattiva gestione della paura di perdere questa caratteristica originaria rende l’organizzazione auto-immune, cioè incapace di attrarre nuove persone generative e creative di qualità. Potrebbe accadere anche a Libera di diventare auto-immune se non dovesse germogliare rapidamente un visibile e plurale gruppo dirigente capace di inventare nuove modalità di intervento e nuove forme di espressione per preservare meglio il suo spirito originario. A questo proposito Luigino Bruni ha scritto pagine molto penetranti sulle opportunità e i rischi dei carismi nelle Organizzazioni a Movente Ideale (OMI) su cui varrebbe la pena riflettere e confrontarsi.

Come dice don Ciotti, la legalità, la trasparenza e la lotta alla corruzione non costituiscono obiettivi a sé stanti, discipline o materie distinte dal resto, ma devono fare da sfondo e permeare il tutto. Solo il massimo di apertura e di spirito di collaborazione con tutti gli altri soggetti sociali interessati ad agire su questi temi, pur svolgendo attività diverse, può favorire una più diffusa cultura di contrasto alle mafie. Non dovrebbero, dunque, valere né primogeniture, né professionismi esclusivi.

La Fondazione Libera Informazione collabora con la Regione Lazio nell’elaborazione del rapporto annuale “Mafie nel Lazio”. Il 13 marzo è stato presentato quello relativo al 2015 alla presenza del presidente Nicola Zingaretti. È un lavoro di grande interesse che ricostruisce puntualmente la mappa della presenza mafiosa a Roma e nella regione, dimostrando che entrambe non siano mai state immuni dalla penetrazione criminale. “La specificità – si legge nel rapporto – è quella di essere zona di confine e di poteri istituzionali al più alto grado, di essere un centro di flussi economici vasti e che da Roma, come dagli altri capoluoghi di provincia, si diramano poi a raggiera verso l’Italia intera”.

Il documento è senza dubbio un prezioso strumento di indagine e di informazione che utilizza quasi esclusivamente la vasta letteratura giudiziaria e gli atti della Commissione parlamentare antimafia. È questo anche il suo limite: manca, infatti, un’analisi sulle politiche per la legalità, attuate e da realizzare, e come queste si possano intrecciare con le diverse politiche ai differenti livelli istituzionali e coi comportamenti e le strategie dei corpi intermedi e della società civile. Manca un’indagine sociologica del fenomeno mafioso effettuata direttamente nelle comunità locali infiltrate dalla criminalità. Quando si parla di mafia non si dovrebbe fare riferimento solo ai comportamenti illegali che la magistratura persegue ma anche al brodo di coltura entro cui questi comportamenti si alimentano: un’attitudine diffusa alle pratiche clientelari e agli atteggiamenti omertosi, rapporti anomali nelle pubbliche amministrazioni tra chi è titolare dell’indirizzo politico e chi esercita la gestione amministrativa, lo svuotamento della funzione di rappresentanza in molte organizzazioni sociali preoccupate esclusivamente a dare continuità ai servizi erogati coi finanziamenti pubblici.

In Italia. l’analisi sulle mafie è di fatto delegata alla magistratura. Le istituzioni, le associazioni e i media non fanno altro che ricostruire i fatti e mettere insieme i dati che emergono da atti giudiziari e da materiali investigativi. La prima e ultima grande indagine sociologica nella capitale la realizzò negli anni sessanta Franco Ferrarotti e la sua équipe nelle borgate e nelle baraccopoli romane. E poi non ce ne sono state più della stessa importanza. Ma senza questi strumenti la politica non sarà mai nelle condizioni di svolgere un’analisi compiuta del fenomeno mafioso e di individuare correttamente le misure per contrastarla.

I magistrati, sia quando esercitano le loro funzioni che quando accorrono a supplire quelle della politica, guardano al tema con l’ottica del perseguimento del reato e, quindi, suggeriscono esclusivamente misure che permettono di individuare con maggiore facilità i comportamenti illeciti. Non sono in grado di dare un contributo nell’analizzare le cause sociali del fenomeno e soprattutto di indicare strumenti per diffondere una cultura della legalità. Ma tali indicazioni possono venire solo dall’inchiesta sociologica sul campo con la strumentazione scientifica idonea che questo tipo di indagini richiede.

Pur con questi limiti, il rapporto “Mafie nel Lazio” contiene notizie poco note ma molto utili che riguardano ad esempio il riutilizzo sociale dei beni confiscati. Si tratta della nascita di un protocollo fra il Tribunale di Roma, la Corte d’Appello, la Regione Lazio, Roma Capitale, Unindustria, Camera di Commercio e successivamente allargato a Cgil, Cisl, Uil, Libera, FederLazio, Cnca, Coldiretti Lazio. “Il protocollo – spiega il presidente del Tribunale di Roma Guglielmo Muntoni – è relativo alla gestione e all’assegnazione provvisoria dei beni sequestrati ai boss e ancora non utilizzati. Il nostro compito è quello di fare una mappatura della situazione, di sollecitare i comuni che hanno questi beni sui propri territori e procedere, nell’interesse della tutela economica del bene e del riutilizzo sociale, ove possibile, per la collettività. Il nodo principale del protocollo è la costituzione di un ‘data base’ con la collocazione di tutti i dati, appunti, relativi ai singoli beni su un sito riservato, cui possano accedere i firmatari del protocollo d’Intesa”. Si tratta di capire se il protocollo è aperto anche ad altre organizzazioni che intendono aderire e se c’è la disponibilità a rivedere la legge sui beni confiscati per trasformare questi beni in proprietà collettive da far gestire liberamente alle comunità locali.

Né Mafia Capitale né Sodoma Capitale: Spiazziamoli

All’insegna della parola d’ordine “Spiazziamoli – 50 piazze per la democrazia e contro le mafie”, il 6 e 7 marzo si sono svolte a Roma quasi un centinaio di eventi, spettacoli, giochi di piazza, performance, sit in, flash mob, presentazioni, dibattiti, assemblee per “rompere i silenzi sulle mafie, vincere la corruzione, promuovere i diritti, ricostruire il welfare”. Per la prima volta una grande manifestazione, che ha riguardato tutti i municipi e migliaia di persone, ha messo al centro la voglia dei cittadini di dire “no” alle mafie e di contribuire a costruire un futuro migliore per la città. Le iniziative sono state liberamente organizzate da altrettante associazioni di ogni tipo, gruppi, comitati, realtà territoriali e cittadini che si sono riuniti nel coordinamento “Spiazziamoli” sulla base di un documento predisposto unitariamente.  I temi affrontati nei dibattiti sono stati tanti: la lotta alla corruzione e per la trasparenza, la centralità di un nuovo welfare territoriale (reddito minimo, agricoltura sociale, minori in difficoltà, immigrazione, ecc.), nuove regole per il terzo settore, lotta all’usura, centralità dell’alimentazione, rifiuti, nuovi modi dell’abitare, riutilizzo per finalità sociali dei beni confiscati e pubblici inutilizzati, politiche culturali e dei beni storico-archeologici, gioco d’azzardo, appalti pubblici, aree protette, consumo di suolo, ecomafie, beni trasporti, narcotraffico, Roma Capitale Metropolitana, ecc.

Un ruolo trainante è stato svolto dall’Associazione Da Sud che nasce in Calabria dieci anni fa e che dal 2009 ha la sua sede nazionale a Roma nello storico quartiere del Pigneto. Uno spazio di coworking, un osservatorio sulle mafie, un laboratorio permanente di creatività e di innovazione sociale dove vengono organizzati dibattiti, eventi culturali e slow food. Un luogo dove sorge la prima mediateca sulle mafie e l’antimafia della capitale dedicata a Giuseppe Valarioti e dove, contemporaneamente, si pubblicano materiali creativi originali per raccontare storie riguardanti gli stessi argomenti.

Tra le organizzazioni che hanno aderito all’iniziativa figura il Forum del Terzo Settore che sta elaborando una carta dei valori da far sottoscrivere alle organizzazioni aderenti. In tale documento non solo sono definiti i principi ma sono previsti anche gli strumenti e le modalità per garantirne l’applicazione fino all’espulsione delle organizzazioni inadempienti. C’è il Coordinamento per la promozione di nuovi enti locali (Co.Pro. NEL) che sta portando avanti la campagna per avviare un processo costituente di Roma Capitale Metropolitana. C’è anche il coordinamento Corviale Domani che ha avviato un percorso di progettazione condivisa nell’intero territorio dove sorge il palazzone, per l’utilizzo integrato dei fondi europei, nazionali e regionali. C’è l’Unione nazionale inquilini ambiente e territorio (Uniat) impegnata nella tutela del diritto alla casa, nel fornire assistenza ai problemi dell’abitare oltre che a promuovere attività culturali sui temi ambientali, della tutela del territorio e in contrasto ai processi di impoverimento. C’è CarteinRegola, un laboratorio di cittadini, associazioni e comitati che vuole lavorare sulle regole, a partire da quelle che guidano le trasformazioni urbane, la mobilità, la tutela dell’ambiente e dei beni culturali. Per le centrali cooperative c’è l’AGCI, quella più piccola di tradizione laico-socialista. Mancano Legacoop e Confcooperative del Lazio, entrambe commissariate perché lambite da vicende di corruzione. Ma non si conoscono i termini del dibattito interno su come intendono superare le difficoltà. Dopo lo scandalo di Mafia Capitale ancora non c’è stata un’iniziativa appropriata delle organizzazioni imprenditoriali e dei sindacati. È come se il tema non li riguardasse. E invece una parte importante del problema sta proprio nella crisi della rappresentanza sociale.

Nel documento di “Spiazziamoli” è scritto che “il radicamento delle mafie, l’inquinamento del commercio, dell’economia e del terzo settore, il sistema di corruzione generalizzato, il controllo di interi pezzi di territorio, la diffusione a macchia d’olio di sale slot, i fiumi di droga che arricchiscono i clan, il silenzio delle classi dirigenti sulle dinamiche mafiose, l’impossibilità di cittadini e associazioni di intervenire nei processi decisionali sono questioni esiziali per la democrazia in questa città”.

C’è, dunque, una rete di soggetti collettivi a Roma che si trova finalmente concorde nel porre alla città un tema di fondo: il legame strettissimo tra lotta alle mafie e allargamento della democrazia. Contestando di fatto l’operazione strisciante di Sodoma Capitale che tende, invece, a sottrarre ai cittadini gli spazi democratici e partecipativi. Non è facile muoversi sul doppio versante del contrasto alle mafie e alla corruzione e del disvelamento di una iniziativa per la legalità che si ferma agli aspetti formali e risponde esclusivamente alle esigenze comunicative per tentare di innalzare il livello di reputazione delle proprie organizzazioni. Dopo le due giornate di mobilitazione non si è fatto più nulla insieme. E c’è una discussione difficile se dare un minimo di strutturazione al coordinamento “Spiazziamoli” per continuare a collaborare con ulteriori iniziative comuni. Bisognerebbe fare in modo che questa discussione diventasse pubblica e coinvolgesse i cittadini che hanno partecipato agli eventi. Inoltre, non è privo di significato il fatto che in occasione delle due giornate di mobilitazione hanno organizzato iniziative anche quindici circoli del Pd e cinque di Sel. C’è dunque la possibilità di un dialogo tra questa nuova ed embrionale società civile che sta emergendo nella città sui temi della lotta alle mafie e componenti dei partiti disponibili a collegarsi attivamente  con essa. Il team di Barca farebbe bene a tenerne conto nell’analisi che sta conducendo all’interno dei circoli del Pd per fare in modo che tali buone pratiche diventino materia di dibattito congressuale.

Se questa rete crescerà nei prossimi mesi sull’onda di nuove iniziative di approfondimento, di formazione, di animazione territoriale, di percorsi partecipativi di sviluppo locale, diventando lo strumento con cui l’antimafia diventa, in modo sano e non perverso, cultura diffusa  e senso comune, una vera “scuola dell’antimafia” che non sforni “professionisti dell’antimafia” – per riprendere una celebre polemica di Sciascia –  ma costruttori di comunità; se accadrà tutto questo, potrà forse maturare una nuova classe dirigente capace di prendere le redini della città e di dare una visione strategica per fare in modo che Roma diventi davvero una capitale europea. Si tratta di vincere sia sul fronte di Mafia Capitale che su quello di Sodoma Capitale. Ed è questa la vera posta in gioco.




Contro le mafie far nascere bene, ora, Roma Capitale Metropolitana

Sabato 7 marzo 2015, per iniziativa di CoProNEL, ci siamo incontrati a Boville in una delle 50 PIAZZE METROPOLITANE di “SPIAZZIAMOLI” PER LA DEMOCRAZIA E CONTRO LE MAFIE e abbiamo discusso il tema di come far nascere bene, ora, Roma Capitale Metropolitana.

Abbiamo condiviso una convinzione profonda: le Mafie Capitali hanno gioco facile ad infiltrarsi nel tessuto civile, economico, politico ed istituzionale di Roma perché le nostre Comunità non hanno una governance adeguata al ruolo che la Costituzione attribuisce ad esse.

La Città Metropolitana in funzione dal primo gennaio ha uno Statuto che, di fatto, conferma l’assetto della vecchia Provincia. Si tratta di una vera e propria operazione gattopardesca che risponde esclusivamente alla logica di lasciare le cose come stanno e di non rompere gli equilibri di potere consolidati. Si può ben dire che le mafie questo chiedevano e sono state accontentate.

L’importante e storica occasione dello Statuto “costituente” è stata sprecata. Si sono violate chiare disposizioni costituzionali e legislative. In particolare:
• all’articolo 27 (autonomia e identità locale; sovranità e partecipazione popolare; decentramento ed uguaglianza; autonomia statutaria, funzionale, finanziaria e tributaria);
• agli articoli 2, 28 e 31 (sottrazione allo Stato del potere ordinamentale di definire il perimetro capitolino e metropolitano; stravolgimento dell’ impianto federalista e paritario fra gli enti territoriali costituenti la Repubblica; limitazione/impedimento del potere di Roma Capitale di ripartire il proprio territorio in Zone Omogenee con autonomia amministrativa che lede le potenzialità dei Municipi di evolvere verso l’ autonomia comunale);
• all’articolo 41 (non prevedendovi come l’Iniziativa Popolare debba essere garantita nello Statuto mediante: il rapporto di 1 a 1000 fra firme ed abitanti; iter e tempi certi di decisione dal deposito – entro 3 mesi inizio esame; entro 9 mesi approvazione/bocciatura finale; in mancanza, entro 12 mesi Referendum approvativo – );
• all’articolo 46 (ove, prevedendovi organi e procedure “doppie” rispetto a ciò che già è definito dalla legge – in materia di trasferimenti di funzioni e risorse nonché di mobilità del personale, il monitoraggio e le decisioni avvengono in apposita “sessione” della Conferenza Stato-Regioni-Autonomie Locali -, si ingenerano confusione, paralisi e ritardi che pongono a rischio la funzionalità dei servizi e la salvaguardia dei posti di lavoro);
• all’articolo 47 (ove rimanda di almeno 4 anni ciò che si può fare ora per l’autonomia dei Municipi).

Muovendo da queste prime indicazioni fondamentali di correzione dello Statuto e dopo aver raccolto ulteriori proposte migliorative, ci impegniamo a presentare a breve una proposta organica di revisione statutaria, a completamento dello schema che il CoProNEL ha inviato il 29 novembre 2014 alla Commissione Statuto del Consiglio Metropolitano. Verificheremo così se risponde ad uno spirito di sincerità la previsione dell’articolo 50 che impegna la Commissione statutaria a monitorare l’attuazione delle norme e a proporre al Consiglio le necessarie modifiche. Se, invece, le proposte di modifica non saranno recepite, ci vedremo costretti a rivolgerci al Governo che – dal 30 giugno 2015 – potrà esercitare i poteri sostitutivi, nei casi di violazioni e/o inadempienze degli organi delle Città Metropolitane.

Abbiamo inoltre condiviso una netta valutazione: l’attuale assetto istituzionale di Roma è inefficiente, inadeguato e farraginoso. Esso va smontato e rimontato mediante un percorso costituente che veda la rete della società civile mobilitata nelle iniziative di SPIAZZIAMOLI attivamente partecipe nel processo da avviare e nelle scelte da compiere.

Abbiamo infine convenuto di proporre TRE TAPPE per raggiungere l’obiettivo di dotare Roma di una governance adeguata al ruolo di una vera Capitale Europea.

La PRIMA TAPPA dovrà essere la capacità di autogoverno dei Municipi a cui l’Assemblea capitolina deve garantire la piena autonomia amministrativa, creando le condizioni perché si trasformino in veri e propri Comuni: nell’immediato con l’adozione, da parte dell’ Assemblea capitolina, della delibera per la individuazione delle Zone Omogenee dotandole di autonomia amministrativa ( da far coincidere con gli attuali Municipi), sulla base della proposta che il CoProNEL ha inviato in Campidoglio sin dal 16 dicembre 2014 e che, in quella sede, ha illustrato nel corso della conferenza stampa del 23 dicembre successivo.

La SECONDA TAPPA dovrà condurre ad un “patto federativo” tra i futuri Comuni interni all’attuale perimetro di Roma e i Comuni e le Comunità che interagiscono con essi da diversi versanti (abitativi, occupazionali, infrastrutturali, ambientali, ecc.) e che devono affrontare i medesimi problemi risolvibili solo in una dimensione di “area vasta”. I Comuni della ex Provincia di Roma che non vorranno far parte di questa aggregazione potranno costituire volontariamente Unioni di Comuni e/o stringere intese istituzionali con il costituendo ente Roma Capitale Metropolitana.

La TERZA TAPPA dovrà portare al riconoscimento -da parte del Parlamento – della nuova aggregazione istituzionale con la definizione – mediante una legge ad hoc – dell’ordinamento di Roma Capitale Metropolitana; il quale, ovviamente, potrà prevedere anche l’attribuzione dei poteri e delle competenze regionali.

Facciamo appello a tutte le forze vive e responsabili di Roma e delle Comunità limitrofe affinché su questa proposta aperta si apra un ampio dibattito politico e culturale. L’assetto delle istituzioni è questione che interessa ciascuno di noi perché incide profondamente nelle nostre vite.

Essendo decisivo come e con chi condividerne il percorso, ci rivolgiamo, in particolare, alle Comunità municipali – ai rispettivi organi istituzionali e a movimenti/associazioni di base – affinché, organizzando incontri/assemblee/riunioni consiliari ed approvando ordini del giorni, facciano maturare il processo costituente dal basso.

Auspichiamo che le realtà promotrici di SPIAZZIAMOLI ne siano i principali artefici quale forza decisiva dal basso per conquistare la fondamentale sponda istituzionale di “Roma Capitale Metropolitana”, ai fini della lotta per la legalità da vivere quotidianamente.

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Festa delle donne: quando le contadine conquistarono la parità in famiglia

Vorrei fare gli auguri di una bella giornata alle donne ricordando una grande conquista ottenuta quarant’anni fa dopo quasi venti anni di lotte contadine nelle campagne italiane: la parità in famiglia.


Nella riforma del diritto di famiglia approvata nel 1975 fu introdotta per la prima volta una norma sull’impresa familiare per tutelare i componenti della famiglia che collaborano nell’impresa nei confronti dell’imprenditore. Con questa norma il familiare partecipante all’impresa ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano alla impresa stessa.

Prima del 1975 il lavoro prestato della moglie e dai figli era privo di qualsiasi riconoscimento. Non solo. Per avere diritto all’assegnazione di terreni degli enti di riforma la situazione era davvero paradossale. Tutta la famiglia era impegnata a lavorare per pagare le rate e riscattare le terre; ma poi, al momento del riscatto, la proprietà andava al solo capofamiglia. La stessa cosa avveniva con l’acquisto dei terreni con le agevolazioni per la proprietà coltivatrice. Per avere i mutui quarantennali ai fini dell’acquisto dei terreni, l’agricoltore doveva dimostrare di possedere un’azienda vitale, cioè che la sua famiglia era composta da un numero di persone che lavoravano e pagavano le rate. Ma poi, la terra rimaneva intestata solo al capofamiglia e la moglie ne veniva esclusa completamente. Anche l’acquisto degli animali, delle macchine e delle attrezzature era garantito dal lavoro di tutta la famiglia. Ma poi se ne avvantaggiava solo uno.

La stessa cosa avveniva da sempre anche nelle aziende artigiane e commerciali. Esclusivamente per l’agricoltura e solo in alcune aree dell’Italia centrale esisteva, però, l’antico consuetudinario istituto della comunione tacita familiare: le antiche famiglie si aggregavano per condurre un’impresa comune. In base a questi antichi usi, tutto quello che veniva acquisito, comprese le migliorie, era diviso fra tutti i componenti della comunione con il sistema, vigente allora, che il lavoro della donna valeva il 60 per cento di quello dell’uomo.

Nel 1975 per la prima volta una legge estende l’antica consuetudine a tutto il Paese e considera il lavoro della donna e quello dell’uomo equivalenti. Si supera così una grave discriminazione perché le donne contadine portavano il trattore, partecipavano alle colture specializzate, svolgevano ogni tipo di attività nelle aziende. Anzi s’accollavano ogni onere di direzione e di lavoro quando il marito andava a lavorare in fabbrica o all’emigrazione, più o meno temporanea. Ma ad avere tutti i diritti restava l’uomo per cui avvenivano cose curiose come, per esempio, questa: se c’era il premio d’integrazione per l’olio e il marito era in Germania, la donna non poteva fare la domanda, o non poteva incassare, a tutto danno della famiglia.

Fu dunque una grande conquista sociale e civile il nuovo diritto di famiglia. E fu soprattutto l’Alleanza dei Contadini, l’organizzazione che si batté con testardaggine per ottenere questa riforma. Già nel 1957 il suo Presidente, Emilio Sereni, aveva presentato una proposta di legge intitolata Per la difesa e lo sviluppo dell’impresa e la proprietà contadina che prevedeva le norme che saranno poi accolte nel 1975 dopo quasi venti anni di lotte nelle campagne.

Per saperne di più: http://www.ibs.it/code/9788889986271/pascale-alfonso/radici-gemme-societa.html




Aprire una fase costituente della Capitale d’Italia

La proposta di organizzare a Roma, il 6 e il 7 Marzo, “Spiazziamoli”: 50 Piazze Contro le Mafie va sostenuta con convinzione perché è la prima iniziativa concreta con cui la società civile risponde “dal basso” allo scenario gravemente preoccupante emerso con l’inchiesta “Mondo di mezzo” e le altre indagini su ‘ndrangheta e camorra. Si tratta di “riprenderci la città” e ricomporre il tessuto sociale che il sistema mafioso ha disgregato. Deve, tuttavia, essere chiaro il quadro entro cui l’associazione mafiosa ha potuto costituirsi e proliferare: un’estrema debolezza e frantumazione della politica e dell’intera classe dirigente della città, un’impressionante inefficienza, inadeguatezza e farraginosità delle istituzioni locali, una caduta verticale delle funzioni di rappresentanza degli interessi (sindacati, organizzazioni imprenditoriali, terzo settore).   Occorre, dunque, dar vita ad un’opera di lunga lena per creare una nuova classe dirigente e per dotare Roma di istituzioni adeguate per una Capitale. Le due cose devono necessariamente marciare insieme perché l’una tiene l’altra. Si tratta di aprire una vero e proprio processo costituente che deve partire dai cittadini e dalle loro forme associative di base.

Nella Costituzione c’è scritto: “Roma è la Capitale d’Italia. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento”. La norma non esplicita a quale categoria di ente locale debba essere ricondotta Roma. Se si segue solo un criterio territoriale si può ricondurre Roma a uno dei livelli territoriali previsti dalla Costituzione: comune, provincia, città metropolitana, regione. Se invece si segue anche un criterio funzionale, la città di Roma è da ricondurre ad un nuovo e diverso ente locale da aggiungere ad essi. Mi sembra che il secondo criterio sia importante alla pari del primo per dare una veste giuridica adeguata alla Capitale d’Italia. Non ci si può infatti limitare alla sola dimensione territoriale, perché lo statuto giuridico della Capitale è connotato da un rapporto di immedesimazione funzionale con la Repubblica e il suo ordinamento.

Se si utilizza esclusivamente il criterio territoriale, quattro sembrano essere le possibilità su cui ragionare: 1) Roma capitale è una forma particolare di comune; 2) Roma capitale è una forma particolare di città metropolitana; 3) Roma capitale è una forma particolare di provincia; 4) Roma capitale è una forma particolare di regione. Se si prendono in considerazione sia il criterio territoriale che quello funzionale, alle quattro possibilità prese prima in esame va aggiunta un’altra ipotesi: Roma capitale è un nuovo ed ulteriore ente autonomo, diverso e non assimilabile a nessun altro.

A quest’ultima ipotesi riconducono criteri di razionalità rispondenti ai principi di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza, leale collaborazione, efficienza e buon andamento. A me sembra, infatti, del tutto irrazionale la scelta effettuata in questi mesi di creare una città metropolitana di Roma all’interno della quale è ricompreso il comune autonomo di Roma capitale. E questo perché quest’ultimo, in virtù della sua autonomia speciale prevista dalla Costituzione, potrebbe ben possedere poteri e competenze pari, se non maggiori, e comunque confliggenti, rispetto a quelli del “contenitore” in cui è ricompreso.

Così da un lato viene reso vano il ruolo di “supercomune” che dovrebbe svolgere la città metropolitana, in quanto il suo comune principale “sfuggirebbe”, per così dire, al suo controllo; dall’altro viene limitata l’autonomia di Roma capitale che dovrebbe fare i conti, quotidianamente, con la difficile relazione di convivenza con la sua città metropolitana di riferimento. Ne viene fuori un’organizzazione complessivamente inefficiente, inadeguata e farraginosa, tra l’altro completamente esorbitante da un’ottica sussidiaria, che rappresenterebbe l’esatto capovolgimento degli obiettivi prefigurati dal dettato costituzionale.

Si fa ancora in tempo a raddrizzare il processo avviato aprendo una vera e propria fase costituente di Roma capitale. Si tratta di lottare per trasformare i municipi in comuni autonomi e intorno ad essi sollecitare l’iniziativa dei comuni e delle comunità contermini per aderire al processo costituente che deve dar vita al nuovo soggetto istituzionale. Occorre un grande movimento dal basso per dare istituzioni dignitose a cittadini che desiderano vivere in una vera Capitale. “Spiazziamoli” può costituire una prima occasione per far crescere nelle comunità locali questa consapevolezza politica e culturale.

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Nei Municipi di Roma co-progettare lo sviluppo locale

L’inchiesta “Mondo di mezzo” ha messo a nudo una realtà romana in cui emerge la crisi della rappresentanza non solo sul piano della politica e delle istituzioni ma anche su quello della società civile. Una crisi che viene da lontano e che dipende dal deteriorarsi delle forme tradizionali  con cui avvenivano le relazioni tra sistema politico e società civile e dalla messa in discussione dei sistemi di welfare edificati nelle società del benessere, i quali avevano anche modellato le forme della rappresentanza.

Approfittando dell’indebolirsi delle capacità dei corpi intermedi di svolgere la propria funzione primaria, l’associazione mafiosa si è insediata negli interstizi lasciati vuoti tra cittadini, formazioni sociali e istituzioni, laddove appunto le rappresentanze degli interessi dovrebbero cogliere e selezionare i bisogni sociali e tramutarli in richieste leggibili per la politica e per i cittadini.

In sostanza, la mafia non ha fatto altro che colmare vuoti e lacune della rappresentanza. Ha potuto così alimentare la corruzione e il malaffare anche nell’ambito dei servizi sociali destinati ai più deboli, trovando terreno fertile per coinvolgere nell’intreccio mafioso  perfino alcune cooperative sociali. La vera e propria attività lobbistica della mafia si esplica nella capacità di “creare” emergenze, pilotarne la percezione da parte dell’opinione pubblica e orientare le risorse pubbliche a vantaggio delle proprie attività.

Tale fenomeno dipende dall’intreccio di una serie di fattori: l’impoverimento di ampie fasce sociali dovuto alle debolezze strutturali del tessuto economico del Paese e all’acuirsi della crisi; l’assenza di una cultura del merito o, comunque, di regole efficaci per poterla affermare; l’ipertrofia normativa negli ambiti più diversi della pubblica amministrazione e dei rapporti tra questa e i soggetti economici e sociali; il frequente ricorso a procedure d’emergenza che eludono gli iter di garanzia e alimentano fatti degenerativi e relazioni perverse tra politica e istituzioni e tra società e istituzioni; l’assenza di una co-progettazione condivisa tra gli attori in gioco e i pubblici poteri in un quadro programmato e di ampio respiro; l’accumularsi di errori nell’azione pubblica di governo della città, specie in quella che avrebbe dovuto assicurare inclusione sociale ai suoi cittadini più vulnerabili (servizi essenziali di urbanizzazione, di sicurezza, abitativi, di cura degli anziani e dell’infanzia, etc.).

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L’altro elemento che a Roma sostanzia e acuisce la crisi della rappresentanza a tutti i livelli è il mancato riassetto delle istituzioni locali, le cui inefficienze rischiano di aggravarsi ulteriormente a seguito della recente istituzione della città metropolitana di Roma. Di fatto, si è semplicemente sostituita con questo nuovo ente la Provincia omonima, lasciando tutto come prima.

Si sono così arrestati tre percorsi innovativi che si erano avviati da circa quindici anni e che sembravano dover convergere in un unico riassetto complessivo: l’evoluzione dei Municipi in veri e propri Comuni; l’individuazione di un’area vasta coincidente coi Municipi di Roma, da trasformare in Comuni, più i Comuni e le Comunità della cintura romana; la confluenza delle funzioni speciali di Roma capitale e di quelle di area vasta nella città metropolitana.  L’aver frenato tali processi riformatori fa emergere in modo impietoso la fragilità delle istituzioni più prossime ai cittadini, quali sono i Municipi. Una fragilità che si ripercuote negativamente sulla capacità di selezionare i bisogni e sull’efficacia dei servizi alle persone e alle comunità. E il tutto contribuisce ad alimentare la sfiducia tra pubblica amministrazione e società.

C’è dunque un interesse comune delle istituzioni locali e delle organizzazioni di rappresentanza a supportare progetti territoriali da realizzare nei territori municipali al fine di promuovere: la partecipazione, la coesione, lo sviluppo locale, la legalità e l’integrazione.

Si tratta di affidare all’innovazione sociale un ruolo importante per invertire le tendenze in atto, innanzitutto mappando le comunità, i suoi leader naturali, la cittadinanza attiva e l’associazionismo diffuso, e poi strutturando, in modo sano e trasparente, gli spazi di definizione dei bisogni sociali partendo “dal basso”.

Lo sviluppo locale dovrebbe essere l’asse di progressione su cui tentare di rinforzare le funzioni della rappresentanza sociale e di incanalare il decentramento istituzionale, attivando energie oggi magari inespresse, formalizzandole e funzionalmente distribuendole fra singole responsabilità. Il fine è quello di far crescere le persone, la qualità umana dei singoli mediante l’aumento della buona occupazione e della relazionalità.

Il Terzo Settore potrebbe svolgere un ruolo determinante nel favorire la collaborazione tra i vari corpi intermedi e tra i diversi settori e competenze. Promuovendo la capacità di lavorare insieme, il non profit potrebbe meglio ricostruire la reputazione del proprio brand anche mediante l’introduzione di percorsi capaci di connettere la governance delle cooperative sociali e delle associazioni di volontariato con gli operatori e con gli utenti e di sostenere la valutazione partecipata dei servizi offerti ai cittadini.

Nell’ambito dei servizi sociali non ha senso che i soggetti non profit competano al massimo ribasso, magari tagliando le buste paga dei lavoratori o lesinando nell’offerta. Non si tratta di eliminare i bandi, che sono il modo per chiamare a raccolta le disponibilità del territorio, ma di sostituire le gare d’appalto con la co-progettazione pubblico-privata, laddove la normativa lo consente, chiamando a partecipare i portatori di bisogni (le famiglie) e i produttori (le fondazioni, le cooperative sociali, gli organismi di volontariato, le associazioni, gli operatori). In tal modo la cultura del merito si potrà esprimere nella capacità di declinare l’efficienza mediante processi riorganizzativi, fusioni, specializzazioni per aree di bisogno. E la cultura della sussidiarietà potrà crescere promuovendo “punti comunità” in ogni quartiere, gestiti in forma auto-organizzata dai soggetti sociali presenti e disponibili, nonché ridisegnando le maglie dei servizi sociali sul territorio in modo totalmente sussidiario.

I territori municipali presentano spesso forti elementi storico-culturali-ambientali che permettono sia di costruire concretamente un’identità in cui gli abitanti possano riconoscersi, sia di comporre un quadro d’insieme e una “visione” di sviluppo, a medio-lungo termine, capace di coinvolgere le aree più significative dei territori medesimi e i relativi processi trainanti, di trasformare la convivenza di una pluralità di etnie in opportunità e di attrarre anche investimenti dall’esterno e dall’estero.

Diventa a tal fine necessario far interagire i diversi ambiti della programmazione pubblica, tra cui i processi di trasformazione urbanistica (a partire dalla Carta dei Valori redatti dai Municipi in vista della Conferenza urbanistica cittadina), i piani di zona dei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari, i piani di assetto delle aree protette, etc.

Di primaria importanza è l’utilizzo integrato territoriale dei Fondi strutturali e di investimento europei 2014-2020, realizzando anche programmi di cooperazione con territori di altre capitali europee al fine di introdurre percorsi innovativi di riqualificazione urbana, agricolture civili e sviluppo locale. Si tratta di chiamare a raccolta le forze istituzionali, imprenditoriali, culturali e sociali locali (e anche forze esterne), disponibili a mettersi in gioco per prendere parte attiva allo sviluppo dei territori municipali.

La prima risorsa che dovrebbe essere messa a valore è la condivisione delle informazioni. Tutti i soggetti economici e sociali dei territori dovrebbero avere il massimo delle informazioni relative agli ambiti in cui operano. E tutti i buoni progetti dovrebbero essere messi in comune senza il timore che qualcuno li rubi, senza gelosie e con l’idea che insieme si potranno realizzare progetti migliori.




Cibo ed eros

Edouard Manet: "Colazione sull'erba"

Edouard Manet: “Colazione sull’erba”

Il rapporto tra noi e il cibo e quello tra noi e gli altri, attraverso il cibo, hanno a che fare con l’eros. Il mangiare e il sesso hanno molte cose in comune. Entrambi sono sempre una mediazione tra natura e cultura e costituiscono elementi di fondo delle strutture sociali e delle regole che informano la convivenza umana. È per questo che il mangiare e il sesso rientrano nella sfera del “sacro”.

Il concetto di “sacro” precede quello di “religioso” e di “divino”. Non vanno confusi. Il sacro attiene a quegli aspetti metaumani che più occorrono quando due o più persone vivono insieme, pena il trasformarsi delle loro relazioni in rapporti mercificati, utilitaristici, pena la perdita della dimensione utopica. Senza il sacro l’uomo perde quello che, più umanamente, è umano.

L’idea di sacro richiama la cultura del frumento e del pane; dell’olivo e dell’olio; della vite e del vino. Si tratta di prodotti che in passato scarseggiavano e non erano accessibili a tutti i ceti sociali. La loro produzione, preparazione e consumo erano accompagnati da gesti, preghiere, formule, riti di propiziazione e ringraziamento. Appartenevano a quell’universo in cui ogni bene era necessario. E pertanto niente andava smarrito, perduto, gettato, sprecato. L’equilibrio produttivo e alimentare, la qualità della vita, la mentalità delle persone, ancora in un recente passato, risultavano strettamente legati alla bizzarria del clima, all’alternarsi di periodi di siccità e periodi di piogge torrentizie. Dal mattino alla sera, i contadini interrogavano il cielo, le nuvole, le nebbie, le stelle; osservavano attentamente la natura e gli animali che, coi loro movimenti e comportamenti, annunciavano pioggia, temporali, cattivo tempo. Tali modalità di vita del mondo rurale, lungi dal favorire atteggiamenti autoreferenziali e autarchici, si accompagnavano sempre ad un’apertura verso il mondo della ricerca scientifica e della tecnica e ad una predisposizione agli scambi tra i popoli.

La nascita dell’agricoltura

Sembra che siano state le donne a favorire, dieci mila anni fa, il passaggio dal nomadismo e dall’economia predatoria all’assetto stanziale e all’economia agricola, quando per prime sperimentarono la coltivazione del grano, dell’olivo e della vite, che richiedeva un’applicazione che durava quasi un intero anno in un medesimo luogo. E così inventarono il pane, l’olio e il vino per sostituire e integrare il cibo proveniente dall’attività pastorale-venatoria. Lo fecero per conciliare meglio i loro tempi di lavoro e di cura prima e dopo le gravidanze e contribuirono, in modo determinante, alla nascita dell’agricoltura.

Frapponendo tra sé e il cibo riti di macellazione, tecniche di cottura, maestria di miscelazioni, arte della presentazione dei piatti, del cibo e del vino, la donna e l’uomo cessarono di essere divoratori. Abbandonando l’atteggiamento dell’animale cacciatore che mangia la sua preda, la donna e l’uomo assunsero quello di chi crea un rapporto con il cibo. Si realizzò così la rivoluzione neolitica che costituì la prima rivoluzione agricola. Poi arriverà, tra il 1600 e il 1700 della nostra era, la seconda rivoluzione agricola e, infine, la recente rivoluzione verde. Una lunga traversata dall’invenzione della pratica agricola, dei miti, dei riti, dei numeri, della scrittura, alle attuali sperimentazioni degli organismi geneticamente modificati. Dalle democrazie assembleari delle proto-città e delle città-stato alla odierna “società aperta”.

L’eclisse del sacro

Le attuali società del benessere appaiono afflitte da una grigia mediocrità e da una piatta, monotona ripetitività. Stanchezza, usura psicologica e solitudine sono i mali del tempo presente. L’innovazione si riduce alla mera transizione dello stesso allo stesso. La forza delle differenze è vanificata. La creatività langue. L’etica della responsabilità è stata accantonata. Il rapporto tra le persone si è inaridito. Non è più un rapporto umano; è solo utilitaristico. Tra le varie forme di reciprocità prevalgono quelle distruttive (conflitti, guerre, vendette, ritorsioni) su quelle generative (confidenza, fiducia, cooperazione, sviluppo civile, mercato, mutualità, amicizia, amore).

Il sacro sembra eclissato da una molteplicità di fattori. Le filosofie irrazionaliste e autodistruttive, reinterpretando il mito della guerra dell’Armageddon, sono prevalse sulle idee dell’illuminismo e hanno contribuito a costituire le basi teoriche dei totalitarismi del novecento e del terrorismo islamico odierno. La liberazione dei rapporti sessuali, che si è manifestata al suo apice negli anni sessanta, ha costituito una tappa fondamentale nella conquista di una maggiore autodeterminazione. Tuttavia, si è molto intrecciata con l’affermazione di una mentalità utilitaristica e un atteggiamento competitivo e predatorio. Sia gli uomini che le donne spesso utilizzano la sessualità come strumento di negoziazione, di ricatto e di competizione. E quando non serve a questi fini, ci si rinchiude nei rapporti virtuali favoriti da internet. Perfino i rapporti tra le persone sono stati fagocitati nella sfera dell’efficienza. E dunque sono tenuti a livelli minimi fino all’evanescenza. Quando ci si incontra è da maleducati toccarsi, abbracciarsi, guardarsi negli occhi. Senza fini utilitaristici è da perdigiorno mangiare insieme e darsi del tempo. E così non mangiamo più insieme agli altri ma da soli, tristemente seduti davanti al bancone di un bar o del tavolo di un ristorante, gli occhi calamitati sul giornale per non guardare il cibo che si divora. E quelle volte che ceniamo in famiglia, spesso lasciamo il televisore e il computer accesi. “Per restare collegati con il mondo” è la giustificazione. Ma il motivo vero è che non abbiamo voglia di parlare nemmeno coi nostri congiunti.

Come ne usciamo?

Le società del benessere hanno modificato i nostri comportamenti e un’ inquietudine pervade le nostre vite. Una forte domanda di senso, a cui non sappiamo rispondere, ci afferra le viscere. Una nostalgia di “totalmente altro”. Un bisogno di trovarci in “luoghi totalmente diversi”. Una fame di eternità oltre l’effimero e l’inconcludenza. Questa domanda di senso altro non è che la ricerca del sacro.

Per recuperare la dimensione del sacro e rivitalizzare, in questo modo, i legami comunitari, gli individui dovrebbero imparare a vivere positivamente la sessualità. Si tratta di improntare i rapporti con gli altri più alla trasparenza e meno all’utilità, ove il gioco degli interessi prevale. C’è in noi un desiderio dell’altro come altro. Più esattamente di un altro come me, che mi è simile e compagno, che mi completa, ma soprattutto che vale non perché serve a me, ma per sé. Che quindi non posso mai ridurre a me – lo tratterei come cosa e lo perderei – ma che posso raggiungere solo nella sua libertà. L’amore non è – né può mai essere – possesso, ma è reciprocità positiva e perciò confidenza e fiducia. Ma per amare così è necessario contenere la prepotenza, la ricerca dell’utilità, comprendere che o si cresce insieme o qualsiasi accrescimento è solo apparenza, è solo un simulacro della potenza, in effetti un fallimento.

Così dovrà ristabilirsi il nostro rapporto con il cibo. L’uomo è un essere che ha fame e tutto il mondo esterno è il suo cibo. Noi dobbiamo mangiare per vivere, dobbiamo assumere il mondo e trasformarlo nella nostra carne e nel nostro sangue. L’uomo è quel che mangia e il mondo è la sua tavola universale. Ma cosa fa di un “tavolo” una “tavola”? Innanzitutto il fatto di incontrarsi guardandosi in faccia, comunicando con il volto la gioia, la fatica, la sofferenza, la speranza che ciascuno porta dentro di sé e desidera condividere. Il pasto è come il sesso: o è parlato oppure è aggressività; o è contemplato e ordinato oppure è animalesco; o è esercizio in cui si tiene conto degli altri oppure è cosificato e svilito; o è trasfigurato in modo estatico oppure è condannato alla monotonia e alla banalità. Prima di toccare il cibo dovremmo chiederci: “Da dove viene? Chi ha coltivato questi frutti? Chi li ha procurati con il suo lavoro? Chi li ha cucinati?”. Parlando del cibo lo assaporiamo e, con amore e in comunione con altri, lo facciamo diventare parte di noi. Il sacro – cioè la nostra umanizzazione – si riacquista e si espande aprendoci ad una sessualità e convivialità gioiose, fondate sulla fraternità delle relazioni.