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Roma, la Caporetto della politica

A quasi cento giorni dall’insediamento di Virginia Raggi come Sindaco di Roma, la città ha vissuto ieri l’ennesima giornata di teatralizzazione della politica. La messa in scena – di questo si tratta: una rappresentazione mediatica di un processo decisionale, da fruire nel palcoscenico delle piattaforme comunicative dei social media – riguardava il voto dell’Assemblea capitolina sulla candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024.

La giornata di ieri rappresenta la sintesi perfetta del quadro politico romano e dell’approccio alla gestione del potere delle sue classi dirigenti, quelle emergenti – i 5 Stelle – e quelle tradizionali, impersonate dal presidente del Coni Giovanni Malagò. Il ruolo di quest’ultimo nelle vicende della Capitale venne descritto magistralmente dal giornalista economico Alberto Statera su «Repubblica», nell’ormai lontano 2007: «Giovanni Malagò, detto affettuosamente “Megalò”, figlio di una nipote dell’antico ministro democristiano Pietro Campilli, ex concessionario-principe della Bmw e ora di Ferrari e Maserati, ha fatto negli ultimi anni del Reale Circolo Canottieri Aniene, nato nel 1892 da una costola del Tevere Remo (considerato allora troppo nero e papalino) la più formidabile concentrazione di upper class della capitale. Una sorta di stanza di compensazione dei poteri borghesi dei ruoli e della ricchezza, il melting-pot perfetto di commercianti e professionisti, costruttori e alti burocrati, personaggi dello sport, dello spettacolo e imprenditori».

Ieri, insomma, si rappresentava la lotta di classe 2.0 nella sua declinazione romana, quella tra i «cittadini» dell’uno vale uno e la Roma del generone. Ha vinto la piccola borghesia avvocatizia -assurta oggi a «classe generale» – di Virginia Raggi (residente nella borgata, sebbene adottiva, di Ottavia), contro lo strapotere dei quartieri bene: Parioli, Flaminio e Trieste-Salario. Impossibile comprendere quanto avvenuto ieri senza avere chiara la geografia simbolica della città.

Ma ieri si è inscenata, questa volta nella sostanza, la Caporetto della politica e dei buoni processi decisionali. Si sono palesati i limiti e il carattere di queste due anime di Roma, e si è persa l’ennesima occasione per avviare un dibattito acceso e informato sul futuro di una città priva – letteralmente – di progetti o piani strategici. Non sapremo mai se Roma avrebbe potuto disegnare con successo un grande evento internazionale; ma non sappiamo nemmeno se essa sarebbe stata in grado di discuterne in modo sufficientemente maturo da portare a una decisione adeguata, almeno per approssimazione (come sappiamo essere avvenuto per Londra 2012 o per Boston 2024, dove si è invece deciso di rinunciare alla candidatura attraverso un dibattito pubblico serrato).

Oggi, per capire Roma, vanno esaminati con attenzione i comportamenti di questi due contendenti. Partiamo da quello in sella da maggior tempo, il Comitato Roma 2024 di Giovanni Malagò (nell’epoca della personalizzazione della politica non può non personalizzarsi anche la «comitatologia»). Il peccato originale del Comitato è stato quello di non voler coinvolgere in modo reale la città. Gli strumenti e i software per dibattere e partecipare sono ormai innumerevoli, e sono stati testati in moltissimi processi decisionali attorno al globo: poteva essere punto di vanto sperimentarne uno, o più di uno, al fine di coinvolgere uno città diffidente ed esausta come Roma, senza limitarsi a un semplice piano di marketing e comunicazione.

In un recente seminario tenutosi nell’Università di Roma Tre sul tema della «Lezione olimpica», è stato dimostrato come gli eventi di promozione e presentazione della candidatura olimpica non abbiano mai visto coinvolto in prima persona il Comune di Roma; partner, di fatto, non strategico del Comitato. È stato trascurato, insomma, persino il fronte istituzionale della città. Con lo stesso Comune, prima del suo commissariamento dell’ottobre 2015, è nato un forte conflitto attorno al progetto di sviluppo infrastrutturale dei Giochi, anch’esso mai discusso con la città: metà del budget previsto era destinato all’area universitaria di Tor Vergata (periferia sud), dove si sarebbe concentrata la «legacy» dei giochi. Un villaggio olimpico che sarebbe divenuto sede di abitazioni per studenti, in un numero tale da coprire metà del fabbisogno nazionale di case per lo studente (ma per la sola Roma 2).

Un progetto che fa a pugni con la logica di sviluppo strategico di Londra 2012, orientato a ridisegnare la periferia dell’East End, ma anche con quella di Parigi 2024, che ruota attorno alla riqualificazione di un’altra area difficile come quella di Saint Denis. Entrambi inseriscono l’evento olimpico all’interno di una progettazione strategica della città, nella quale i Giochi divengono parte di un disegno più ampio: una pianificazione condivisa con la città – tanto che il processo decisionale a più voci di Londra 2012 è oggetto di analisi «da manuale», per esempio in Le decisioni di policy di Bruno Dente (Il Mulino, 2011, p. 179) – che sembra regalare una visione di metropoli più ampia di quella rappresentata dall’eredità degli studentati.

La debolezza del progetto e l’assenza di un processo di discussione partecipata – attraverso il quale poter coinvolgere la città in un percorso di individuazione di idee, proposte, problemi, desideri… – ha caratterizzato il progetto Malagò: tanto forte la mancanza di «connessione sentimentale» con la città, tanto più forte l’autoreferenzialità del sistema di relazioni che ne ha sostenuto l’azione. Quanto meno un grave errore strategico, che mostra però la crisi della classe dirigente locale di lungo corso.

E quella di recentissimo insediamento? Per ora agisce per rimozioni. Rimosso il vecchio establishment, opera anche la rimozione dei problemi complessi. Grazie a un apparato ideologico che premia una versione molto semplicistica della idea della decrescita e del conflitto contro la casta: il «grande» (evento, in questo caso), è sempre nemico del «piccolo» e della cura del micro, come se la gestione quotidiana di una metropoli non avesse a che fare con i grandi disegni di indirizzo strategico (cosa deve essere la Roma del 2025 per la Sindaca in carica? Di cosa vivrà?). Uno scorciatoia che porta allo stesso risultato di quella operata dal vecchio establishment (quello del «non disturbate il navigatore»): la città, per colpa di tutti, non viene messa in condizione di discutere, dibattere e confliggere in modo articolato e informato, rimanendo senza occasioni di pensarsi proiettata nel futuro.

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Elezioni amministrative 2016. Quale cambiamento?

Sala-consiliareSe 771 mila romani su un milione e 147 mila elettori, che consegnano una scheda votata validamente, decidono di affidare l’amministrazione del Campidoglio ad una esponente del M5S, significa che qualcosa di molto profondo pervade la società. E non riguarda solo Roma ma l’intero Paese. È vero, a Roma c’è stato lo scandalo di Mafia Capitale e il fallimento della giunta Marino. Ma da soli, questi elementi non bastano a spiegare quanto è avvenuto.  Già nel 2013 si erano manifestate le avvisaglie del ciclone. Non era mai accaduto che una forza politica alla prima esperienza elettorale raggiungesse il 25,5 per cento dei voti. Un consenso uniforme su tutto il territorio nazionale e proveniente da elettori di destra e di sinistra, da comuni ricchi e da quelli poveri, dalle grandi città e dai centri più piccoli e rurali. Un consenso proveniente dai giovani in misura maggiore rispetto al Pd e al Pdl che non a caso persero meno dove c’erano più vecchi. Al successo del M5S corrispose la scomparsa dei partiti identitari della Prima Repubblica e il serio ridimensionamento dei principali partiti sorti nella Seconda.

Poi è arrivato Matteo Renzi con le riforme istituzionali più alcune misure innovative sul terreno socioeconomico, messe a punto dal suo governo. E si è ravvivata la speranza. Già alle europee del 2014 sembrava che il PD avesse ripreso il suo percorso di cambiamento. Ma era un abbaglio. Era il canto del cigno. Qualcosa di molto simile a quanto capitato al PCI in occasione delle elezioni europee del 1984 sull’onda emotiva della morte improvvisa di Enrico Berlinguer. Non c’è da meravigliarsi se fino a qualche decennio fa i partiti duravano settanta anni e oggi meno di dieci.

Cosa non ha funzionato?

Il cambiamento ha bisogno di facce nuove e di politiche nuove che nascono da processi sociali che partono concretamente dalle comunità territori. Altrimenti l’elettorato s’accontenta delle facce nuove e non bada alle proposte. Non già perché sono di destra o di sinistra, ma perché non le avvertono come qualcosa che nasce nel dialogo che le comunità territori organizzano e orientano. Una politica è giusta non perché è astrattamente razionale ma perché nasce da esigenze reali. E tali esigenze devono essere lette con idonei strumenti. Una politica è giusta se viene sperimentata e monitorata socialmente, organizzando in modo scientifico l’analisi dei suoi impatti sociali con il coinvolgimento sistematico delle comunità territori.

Abbiamo imparato sulla nostra pelle che la giustizia sociale non è frutto di una teoria ma di un metodo. E il metodo è l’organizzazione dell’analisi sociale con la partecipazione democratica delle comunità territori. È per questo che i partiti e le organizzazioni di rappresentanza non hanno più senso se restano come sono. E la gente li percepisce e sempre più li percepirà come un intralcio e una zavorra.

Queste strutture nascono con la società di massa quando erroneamente si pensava che la giustizia sociale fosse frutto di una teoria o di un’ideologia e che le soluzioni derivassero da una razionale applicazione di ricette astrattamente e collettivamente elaborate sulla base di un progetto organico di società. Ma oggi anche la politica e non solo la sfera religiosa è stata inondata da una inarrestabile secolarizzazione e laicizzazione. Restano evidentemente i valori di libertà e di eguaglianza ad orientare l’approccio ai problemi. Ma questi sono appunto semplicemente dei valori che ci caricano e motivano sul piano etico ma non ci offrono in sé alcuna soluzione ai problemi. Da ricercare, invece, laicamente, con il dialogo paziente e l’ascolto reciproco.

Cosa cambiare allora?

Intanto, bisogna completare alcuni cambiamenti già avviati, scongiurando ripensamenti e arretramenti che ci farebbero tornare indietro. La riforma costituzionale va, dunque, confermata al referendum perché è attesa da decenni. Essa chiude la fase dell’instabilità dei governi e apre quella di una democrazia decidente, che si può realizzare solo rendendo più efficaci le funzioni dell’esecutivo e quelle legislative e di controllo del Parlamento. È bene semplificare il percorso per fare le leggi, superando il bicameralismo paritario che è causa di lentezze ingiustificabili. E poi non se ne può più dell’eterno conflitto tra Stato e Regioni che ritarda ogni decisione importante per i cittadini. È giusto, dunque, eliminare le competenze concorrenti tra Stato e Regioni e dare dignità costituzionale alle autonomie con il nuovo Senato.

Inoltre, i risultati elettorali dimostrano che il sistema maggioritario permette effettivamente il cambiamento – almeno quello che si realizza con l’alternanza di facce nuove – e non è affatto un modello che perpetua le rendite di posizione e il potere di chi già ce l’ha. La riforma costituzionale e l’Italicum, dunque, non sono affatto l’anticamera del fascismo ma costituiscono opportunità concrete per ricambiare i gruppi dirigenti del Paese.

Tuttavia, il cambiamento non è soltanto governabilità e facce nuove. È anche fatto di politiche nuove che permettano ai cittadini di migliorare le proprie condizioni di vita. E dunque si parta dalla sussidiarietà nei rapporti tra cittadino e istituzioni e tra i diversi livelli istituzionali, principio quest’ultimo introdotto nella riforma costituzionale del 2001 e non ancora attuato. Si dia all’individuo la possibilità di levarsi la veste di suddito e indossare quella di cittadino e così edificare da protagonista, dal basso e con vero spirito federalista, insieme agli altri cittadini, un’articolazione variegata degli istituti della democrazia, dalla comunità autogovernata di strada e di quartiere in cui vive e dal diversificato tessuto della società civile in cui opera al municipio metropolitano che deve poter acquisire la dignità di Comune, dal Comune piccolo o grande che deve volontariamente associarsi con altri per gestire funzioni complesse, alla Regione che deve dismettere improprie funzioni di gestione ed esercitare solo quelle di programmazione, dallo Stato che deve acquisire efficienza, semplicità e capacità di orientamento agli Stati Uniti d’Europa la cui utopia rimane, per ciascun europeo, la prospettiva concreta e realistica affinché si realizzi finalmente lo “status” di cittadino del mondo.

Ma queste proposte resteranno bei proponimenti senza alcuna possibilità di realizzazione, se non si introducono nel dibattito pubblico due riforme da fare urgentemente: quella dei partiti e quella delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi, che oggi costituiscono un blocco all’innovazione. I partiti devono diventare, con un’apposita legge, case di vetro capaci di accogliere tutti coloro che ne condividono programmi e regole. E le organizzazioni di rappresentanza degli interessi non devono temere che una legge dello Stato le regolamenti come lobby. Finendola una volta per tutte con la pretesa di rappresentare, contestualmente, interessi particolari di una categoria o di un gruppo e un interesse generale che inevitabilmente può entrare in conflitto con le esigenze di una cerchia ristretta di persone. C’è già il Terzo Settore che, con la riforma appena varata, dovrà mettere insieme e sviluppare esclusivamente le forme associative che sono tenute a svolgere – costituzionalmente – attività di interesse generale. I partiti, invece, sono per definizione delle parzialità che devono formare nuovi gruppi dirigenti da lanciare nelle consultazioni elettorali e devono saper intercettare i bisogni sociali delle comunità territori per elaborare politiche efficaci. Le lobby, a loro volta, devono dichiarare con precisione gli interessi che rappresentano e intendono tutelare, le risorse che utilizzano per farlo e sottoporsi a procedure trasparenti nel loro rapporto con le istituzioni. Nel frattempo, sia gli uni che le altre potrebbero autoriformarsi e contribuire spontaneamente al cambiamento. Altrimenti si prospetterà inevitabilmente per loro un destino di irrilevanza e marginalità. E la società civile, con le sue immense e vivide risorse, operanti spesso nel silenzio senza ricercare visibilità e contropartite, si abituerà a farne a meno e inventerà altre forme per supplirne le funzioni.

Fonte : afonsopascale.it apri l’articolo originale



Aiuti diretti agli agricoltori: una cattiva politica che distrugge l’idea di Europa

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Il Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) ha adottato una relazione informativa su “La riforma della PAC: modalità, diversità, effetti redistributivi e altre scelte degli Stati membri nell’applicazione della riforma dei pagamenti diretti” (relatore Mario Campli) e l’ha trasmessa alle istituzioni della UE. È auspicabile che su questo documento si apra un dibattito pubblico e non si continui a tenere la testa sotto la sabbia. La PAC non è una politica qualsiasi. Il suo bilancio, pari a EUR 408 miliardi per il periodo 2014-2020, rappresenta il 38% dell’intero bilancio dell’UE. Il primo pilastro, pari a 313 miliardi, rappresenta il 77% della spesa totale PAC. I pagamenti diretti, pari a 294 miliardi, rappresentano il 94% del primo pilastro. Questa tipologia di intervento pubblico è la più importante (in termini finanziari) politica “comune” dell’UE. Se questa non funziona, non fallisce solo una politica ma è l’insieme dell’idea di Europa che è messa in discussione e perde di credibilità.

Il testo diffuso dal CESE è  molto articolato perché esamina le decisioni prese dagli Stati membri nell’ambito delle settanta aree di intervento attribuite alla loro discrezionalità. Nella proposta legislativa della Commissione gli ambiti in cui gli Stati membri avevano piena autonomia decisionale erano venti. Il regolamento uscito dalla negoziazione tra il Parlamento, il Consiglio e la Commissione accresce di altre cinquanta le aree di intervento degli Stati membri. Qual è il significato di tale evoluzione? Come mai si è giunti ad un esito siffatto? Quali conseguenze si prevedono per la stessa tenuta del processo di costruzione europea?

Una PAC senza strategia come merce di scambio politico

Da una semplice lettura della lista delle attribuzioni risulta che si tratta di un insieme disorganico di materie e di scelte, alcune di maggiore rilevanza, altre di dettaglio. Con tutta la buona volontà non è possibile individuare alcuna strategia sottostante la flessibilità offerta agli Stati membri. E le decisioni adottate dai governi nazionali non fanno altro che produrre automaticamente, nell’insieme dell’Unione, un effetto moltiplicatore sia nella quantità delle scelte sia nella diversità delle stesse. Un effetto domino che accresce a dismisura la complessità e la farraginosità di questa tipologia di intervento pubblico.

Per procedere ad una lettura d’insieme di tali decisioni il CESE ha adottato una metodologia di analisi articolata in tre passaggi: a) individuazione delle decisioni veramente cruciali; b) individuazione di un sistema di misurazione per esprimere una visione complessiva delle scelte effettuate nell’insieme del territorio dell’Unione, di tipo quali-quantitativo (su una scala da 1 a 5); c) applicazione dell’analisi fattoriale, come tecnica di analisi finalizzata a sintetizzare la complessità delle relazioni tra le variabili trattate. Il sistema di misurazione è basato sulla rilevazione delle scelte adottate, collocate tra i due estremi della scala.

Ne vien fuori un’articolazione molto ampia di modalità che produce effetti redistributivi non valutabili in quanto manca una chiara strategia a livello comunitario e manca anche un quadro coerente e credibile delle presunte strategie nazionali adottate.

L’impressione generale che se ne ricava è quella di un grande e confuso scambio politico (una volta si chiamava, con linguaggio greve ma efficace, “clientelismo”) che vede protagonisti, da una parte, i governi nazionali e i parlamentari europei disponibili a soddisfare qualsiasi richiesta, e, dall’altra, le organizzazioni agricole che rivendicano cose anche contraddittorie tra loro, pur di mettere in bella mostra un ruolo di rappresentanza che di fatto da tempo hanno dismesso.

Elementi costitutivi di una politica dannosa

La relazione informativa del CESE rileva che già la riforma in sé contiene elementi fortemente discutibili.

Il primo elemento risiede nella stessa scelta di conservare una PAC basata su due pilastri, e soprattutto di assegnare, nell’ambito del primo, un ruolo prevalente ai pagamenti diretti. La formula dei pagamenti diretti presenta il difetto di una vaga e poco definita relazione tra obiettivi della politica agraria e strumenti adottati per perseguirli, con il rischio di un’inefficiente distribuzione delle risorse. D’altra parte, il loro frazionamento in una serie di misure (pagamento base, inverdimento, giovani, ecc.) ha aggiunto complessità all’intervento.

Il secondo elemento si lega alla scelta di assumere l’ettaro di superficie come misura dell’equità distributiva tra agricoltori europei. Seppure tale soluzione può apparire quella più facilmente praticabile, non è sulla base dell’unità di superficie che si possono comparare tra di loro le agricolture europee. La scelta dell’ettaro si traduce in un premio alle agricolture più estensive e a più basso valore aggiunto, oltre che, indirettamente, in un rischio importante di trasferire l’aiuto diretto dall’agricoltore affittuario al proprietario della terra. Inoltre, l’aumento dei valori fondiari costituisce un ostacolo alla mobilità fondiaria e al rinnovo generazionale.

Il terzo elemento risiede nella duplicazione e sovrapposizione delle misure tra 1º e 2º pilastro. Segnatamente nei due pilastri sono contemporaneamente comprese misure per la sostenibilità ambientale, i giovani e le aree con vincoli naturali. A parte quest’ultima opzione, che è stata attivata soltanto (ed in misura modesta) dalla Danimarca, le altre due, e soprattutto l’inverdimento, pongono non pochi problemi di compatibilità tra obiettivi e strumenti.

In aggiunta alle suddette criticità insite a monte della stessa riforma della PAC, il CESE ha individuato altri elementi problematici che fanno molto riflettere.

Il primo è che se le politiche comuni europee sono il risultato di scelte così farraginose e rese ancor più disarticolate e contraddittorie con il sistema di governance messo in piedi – che prevede una laboriosa ed estenuante negoziazione tra le tre istituzioni – è evidente che la tela dell’unicità delle politiche tenderà nel tempo a lacerarsi. In altre parole, il sistema decisionale sperimentato con la riforma della PAC contiene in sé un virus che determina automaticamente un processo di rinazionalizzazione di politiche che i Trattati definiscono “comuni”.

C’è poi un altro rilievo importante che la relazione informativa contiene e che va sottolineato. Tutti i regolamenti base sulla riforma della PAC prevedevano un coinvolgimento della società civile nel suo complesso nelle decisioni autonome adottate dagli Stati membri. Da una indagine condotta dal CESE attraverso i suoi membri, risulta al contrario che questa mobilitazione della società civile non è avvenuta. In realtà hanno partecipato alle scelte dei governi nazionali solo le organizzazioni degli agricoltori. In altre parole, il maggior capitolo di spesa del bilancio comunitario viene utilizzato attivando canali partecipativi opachi e ristretti che impediscono ai cittadini europei organizzati di esprimere le proprie valutazioni sulle decisioni politiche che li riguardano.

Dunque, la politica agricola comune risulta meno “comune” che in passato; l’analisi delle informazioni relative alle scelte compiute delinea chiaramente questa percezione. Il lungo processo decisionale ha portato a ritardi nell’accordo politico e nell’applicazione della PAC. Basti ricordare che la nuova PAC si applica dal 1° gennaio 2015 (ovvero, un anno dopo rispetto alla data prevista inizialmente) e che, date le difficoltà di implementazione, gli agricoltori devono presentare le richieste di aiuto senza una completa conoscenza delle nuove norme, a rischio di incorrere in errori che non andrebbero penalizzati.

La PAC che si praticherà nei prossimi anni non sarà più spedita. La relazione del CESE registra che il risultato finale della riforma e delle successive scelte effettuate dagli Stati membri, sulla base di una platea di oltre settanta opzioni delegate, non è una PAC più semplice. La scomposizione dei pagamenti diretti in una serie di misure (pagamento base, inverdimento, ecc.) rischia di tradursi, altresì, in maggiori complicazioni amministrative. In alcuni casi, peraltro, la flessibilità non è poi stata utilizzata, anche in ragione della complessità burocratica. Ne sono un esempio le “pratiche equivalenti” all’inverdimento, introdotte nel corso del negoziato sulla riforma, ma di fatto applicate nel 2015 solo da cinque paesi.

Nel corso della realizzazione concreta della riforma e delle scelte applicative degli Stati membri, le cui conseguenze nelle dinamiche concrete delle aziende agricole e dei mercati agricoli devono ancora manifestarsi, sarà necessario monitorare e verificare puntualmente se l’ampia diversificazione definita nella procedura di co-decisione risulti compatibile con i principi di una politica agricola che i Trattati stessi definiscono ancora “comune”.

Dinanzi a tutte queste incertezze, incongruenze e contraddizioni, forse è davvero giunto il tempo di decidere di chiudere una volta per sempre questo capitolo degli aiuti diretti – che sempre più si rivela un inutile spreco di risorse pubbliche – e di finalizzare i finanziamenti a concreti ed efficaci progetti di sviluppo rurale, gestiti localmente in modo condiviso dalle comunità.

Quello che dovrebbe rimanere come utile politica “comune” andrebbe racchiuso in un’unica azione: assicurare la sicurezza alimentare (garanzia delle forniture e tutela degli agricoltori e dei consumatori) nei confronti della crescente volatilità dei prezzi, attraverso la gestione del rischio fondata su schemi assicurativi e fondi mutualistici, anche in relazione alla necessità della regolazione dei mercati, sempre più aperti e non regolati. È questa la vera riforma della PAC che si attende da 25 anni. Gli aiuti diretti introdotti dalla riforma MacSherry del 1992 dovevano durare solo cinque anni. Ma ancora oggi non riusciamo a liberarcene perché su questa tipologia di intervento pubblico abbiamo costruito un apparato faraonico di gestione che non sa come riciclarsi. Il tutto sulla testa degli ignari cittadini e degli stessi agricoltori europei che subiscono silenti e rassegnati.

 

 

 

 

 

 

Fonte : afonsopascale.it apri l’articolo originale



Senza europei non ci sarà mai un’Europa

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Se non si costruisce prima una società civile forgiata da comunità di cittadini e formazioni sociali che imparino a riconoscersi reciprocamente come europee e appartenenti ad una stessa comunità politica, al di là dei confini nazionali, e che svolgano attività d’interesse generale europeo, non potranno mai nascere istituzioni politiche europee di governo legittimate democraticamente. Ma al momento non c’è una sola associazione europea che svolga effettivamente un’attività di interesse generale sovranazionale.

Se non si costruisce prima un’opinione pubblica europea capace di creare un orizzonte culturale comune, non potranno mai nascere istituzioni politiche europee di governo legittimate democraticamente. Ma al momento non c’è nemmeno un quotidiano che contribuisca a formare un’opinione pubblica effettivamente europea orientata ad elaborare una cultura europea comune.

Se non si costruiscono prima partiti effettivamente europei in grado di elaborare proposte di politica estera e di politica economica di dimensione europea, non potranno mai nascere istituzioni politiche europee di governo legittimate democraticamente.

Siamo in molti ad auspicare la nascita degli Stati Uniti d’Europa. Ma cosa facciamo concretamente e personalmente perché società civile, opinione pubblica e partiti politici evolvano effettivamente nella dimensione europea?

Siamo in molti ad avvertire l’esigenza di una nuova classe dirigente di rango europeo. Ma dobbiamo essere consapevoli che questa si forma inizialmente nella società civile. Non potrà mai nascere né nei partiti, né nelle istituzioni. Allora cosa facciamo concretamente e personalmente per contribuire a formarla?

La costruzione degli Stati Uniti d’Europa non ha nulla a che vedere con la costruzione di un super-Stato a cui trasferire la sovranità degli Stati nazionali. L’esasperata conflittualità che la vicenda greca ha fatto esplodere  è il sintomo più evidente che il percorso federativo dell’ideale europeo è stato tradito.  È  illusorio pensare di evitare i conflitti fra Leviatani (gli Stati nazionali europei) costruendo una sorta di super-Leviatano europeo. Rimarremmo dentro la stessa logica hobbesiana che concepisce la società partendo dal presupposto homo homini lupus. Se non ci liberiamo di questo pregiudizio non faremo nessun passo avanti.

La crisi dell’Unione Europea è l’esito di un’insofferenza delle popolazioni nei confronti di un potere, quello dei burocrati di Bruxelles, che cercano di integrare l’Europa costruendo una sorta di super-Stato, anziché cercare di realizzare una federazione di Stati che lasci il massimo delle libertà a ciascuno di essi e unifichi solo gli interessi comuni.

Quali sono questi interessi comuni da unificare? Innanzitutto l’interesse a relazionarsi insieme verso il resto del mondo per promuovere lo sviluppo delle aree da cui provengono le migrazioni. L’altro interesse comune è la pace interna ed esterna, attraverso una maggiore solidarietà e cooperazione interna e la costruzione di partnership con altri Stati o organismi sovranazionali. Gli Stati Uniti d’Europa devono avere in comune due grandi politiche: la politica estera e la politica economica.

Per realizzare una siffatta unità europea, un criterio di governance globale non può che essere la sussidiarietà. Questo significa che ciascuno deve agire in modo da aiutare l’altro a fare ciò che l’altro deve fare. Non sostituirlo, ma capacitarlo.

L’Europa potrà diventare Unione politica se sarà una rete di reti di relazioni fra soggetti di società civile che creano una cittadinanza europea dal basso e sono sostenuti da un sistema politico (l’Unione) che agisce in modo sussidiario verso di essi. Non si può non vedere che oggi avviene del tutto il contrario.

Pochi sanno che l’UE non ha mai voluto riconoscere le associazioni europee, perché teme le formazioni sociali intermedie. L’attuale UE vuole controllare tutto e tutti attraverso un potere economico e politico invasivo. C’è un intento non detto nell’idea di super-Stato con una moneta unica che attraversa trasversalmente le culture politiche di tutti i raggruppamenti: in un super-Stato si applicherebbe esclusivamente la norma del voto democratico; cioè la regola secondo la quale il più forte imporrebbe la sua volontà.

Una federazione fondata, invece, anche sul principio di sussidiarietà tutelerebbe le singole comunità politiche. Le quali creano beni relazionali per sé, ma li rendono disponibili e fruibili per altri, a patto che essi accettino le regole del rispetto reciproco e della responsabilità verso la socialità che costituisce il tessuto di quella comunità. Si tratta di abbandonare l’idea di integrazione livellatrice e omologante e realizzare quella di interazione tra le culture fondata sulla reciprocità e il mutuo aiuto. Se gli europei non si riconosceranno prima come europei non ci sarà mai un’Europa.

 

Fonte : afonsopascale.it apri l’articolo originale



Come cambia la politica al tempo de “l’inconscio digitale”

Le esperienze psicofisiche formano il sistema conoscitivo attraverso mappe naturali e mappe culturali.
Mappe disegnate attraverso i sensi che costruiscono la nostra idea di realtà.
Ora che gli HoloLens della Microsoft ci permettono di vedere ologrammi tridimensionali mischiati alla realtà e di modificarli e guidarli con il movimento delle mani che li “toccano” e li spostano e li modificano, l’equilibrio tra queste due specie di mappe si sbilancia a favore di quelle culturali.
Se De Kerckhove dice che “ogni volta che il linguaggio umano cambia di medium cambia anche l’etica” vuol dire che siamo in “un cambiamento di civiltà” perché “il sapere della rete (che è la somma dei dati di tutti i nostri movimenti e azioni on e off-line inseriti nei social network) orienta la definizione della realtà … e del mondo sociale … alla base dei nostri processi mentali e delle nostre azioni.” (*)
E non importa che singolarmente siamo o no presenti nei social network o che v’inseriamo o meno i nostri movimenti e le nostre azioni, dal momento che l’insieme dei movimenti e delle azioni altrui determina di fatto anche la nostra visione del mondo e quindi la nostra percezione della cosiddetta realtà che costituirà la mappa culturale attraverso cui noi ci costruiamo la “nostra” idea di mondo e il “nostro” conseguente modo di comportamento.
Passiamo quindi da una realtà dominata dall’inconscio individuale (quell’insieme di istinti e desideri che guida i comportamenti individuali) a una realtà dominata da un “incoscio digitale” caratterizzato da una “portata globale e da una straordinaria velocità di accesso a una collezione infinita d’informazioni” (*)
Questo cambio di paradigma non può non modificare radicalmente i modi della politica che oscilla tra l’estrema personalizzazione e identificazione nel leader e una “massa interattiva” completamente diversa dalle storiche maggioranze silenziose ma egualmente dominata da impulsi irrazionali.
La capacità dei nuovi soggetti politici deve quindi indirizzarsi verso quella “richiesta globale di correttezza politica, di società della condivisione, di collaborazione interculturale, di preoccupazione per la salute del mondo”(*).

(*) Derrick De Kerckhove Inconscio digitale




Mandela: il compagno con il cappello in testa

MandelaLa Morte di Mandela sguarnisce terribilmente il fronte della politica e chiude storicamente la storia del movimento comunista internazionale. Era l’ultimo leader carismatico sulla scena. L’ultima icona che non doveva arrossire dinanzi a nessun cassetto. Una biografia  di un’integrità paralizzante. Un popolo, un continente, una etnia globale, una classe mondiale, ha confidato nella sua determinazione e rigore. E nel suo sorriso. Forza e dolcezza, più ancora del Che, hanno avuto in Mandela una interpretazione concreta, continua, assidua e suadente. Ma non violentiamolo da morto. E’ stato un grande leader nazionale perchè ha scelto politicamente quella strada politica,la strada che portava alla liberazione di una nazione. Ma era un grande capo politico, era un grande militante della sinistra.Era un grande uomo comunista. Mandela continuava ad alzare il suo pugno sinistro dopo il 1989, senza imbarazzo, perchè nulla aveva da spartire con il mondo sovietico, niente aveva avuto da chiedere a quelli del Muro e nulla da scusarsi dopo il muro. Non possiamo dimenticarlo. Ma non per alimetare stucchevoli giustificazioni storiche. Solo per capire meglio cosa è stato il ‘900, il secolo corto di fuoco e di sangue, dove  milioni di uomini hanno creduto  e bruciato per l’idea egualitaria. Per un partito che li vendicava, per una forza che li avrebbe riscattati. Mandela fu uno di quegli uomini. Che non si fermò  furbescamente  a cambiarsi la camicia dopo il muro di Berlino, ne cocciuttamente  si voltò dall’altra parte, giocando con le parole per rimanere eguale a se stesso. Uso la propria passione per ricominciare, per dare un senso pulito, moderno, efficacie e democratico al suo essere comunista, alla sua radicalità dolce e sorridente.E quando vince, spossato si mise  da parte, a volte sconsolato, forse anche deluso, ma sempre conscio che un intero popolo  lo guardava mentre viveva. Questa è la lezione che vorrei condividere: un comunismo etico, morale , concreto, e originale.Che servì a liberare un continente, che spiegò all’occidente che la politica e’ rinnovamento, è nuotare in mare aperto, ma sapendo dov’è il porto. Vorrei che mio figlio  pensasse a lui quando sentirà ripetersi, un giorno, che suo padre è stato comunista,che ha voluto conservare il calore di quella passione, ma se l’è giocata , insieme a relazioni e consensi, nel cambio di scena,con il passaggio dalla fabbrica alla rete per trovare il modo di non togliersi il cappello dinanzi al padrone di turno. Come Mandela,come  milioni di uomini che, in silenzio, hanno tenuto e tengono il cappello in testa. Ciao compagno Mandela tene vai con il cappello ben dritto sulla tua meravigliosa testa.
6 dicembre 2013 alle ore 0.26