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Un buon proposito per giornalisti

rete(…) Infine un buon proposito per giornalisti, responsabili delle pubbliche relazioni e operatori della comunicazione: compratevi un manuale o, meglio, affidatevi a un’agenzia che vi spieghi bene come funziona l’informazione di settore sulla Rete, come si analizzano i dati, come si capisce il coefficiente di penetrazione di un sito, di un blog o di un profilo Instagram. Il 2014 sarà l’anno di internet, di più, l’anno del sorpasso di internet su tutti gli altri mezzi d’informazione. Dimostrarsi impreparati, fare gli snob, piangere sul latte versato della carta che fu non sarà più tollerato. Da nessuno: primi tra tutti i vostri lettori, clienti e consumatori finali.
Simone Marchetti
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Il giornale che si unisce alla tv per sbarcare sul web

rnewsRNews, il tg che nasce dal web si rinnova
RNews è trasmesso in diretta ogni giorno alle 13.45 su Repubblica.it e su laEffe, canale 50 del digitale terrestre. Il notiziario diventa più dinamico, può contare su tutte le firme del quotidiano e Twitter Time lascia aperta una finestra sui social network
RNEWS si rinnova. Il primo telegiornale online di un grande quotidiano – prodotto da RepubblicaTv, trasmesso da Repubblica. it e in onda su laEffe, la tv Feltrinelli sul canale 50 del dtt – si ripresenta da oggi in una nuova edizione più ricca e più estesa: ogni giorno, dal lunedì al venerdì, 15 minuti di notizie, analisi, approfondimenti e commenti con le firme e gli inviati di Repubblica. La formula elaborata in questi primi mesi, che ha portato RNews a superare la media di 70mila visualizzazioni al giorno, si perfeziona: alle 13.45 va in onda una edizione più lunga (15 minuti di durata contro i 10 attuali) e alle 19.45 la riproposta delle opinioni e delle storie del giorno con il rullo aggiornato delle notizie.

Una formula insieme più asciutta e più elaborata. Più spazio ai commenti delle firme, un notiziario più rapido e dinamico, un maggiore utilizzo dei collegamenti video per garantire la fruizione di un prodotto ancora più televisivo e allo stesso tempo sempre più appetibile per il web, capace di durare – in tv e online – ben oltre l’attuale segmento segnato dalle due edizioni quotidiane. Come nelle edizioni precedenti, ogni giorno RNews continuerà a rilanciare e a far rivivere il giornalismo dell’intero Sistema Repubblica, con le inchieste e i reportage di Affari & Finanza, del Venerdì e di D, le anteprime della Domenica di Repubblica e di Cult, gli approfondimenti di Salute e di Viaggi, le esclusive digitali di Repubblica. it e di RSera.

Riprendendo l’innovazione avviata in questi mesi con Twitter Time, dal lunedì al venerdì RNews continuerà poi a proporre alle 13.45 l’hashstag per commentare le notizie e i temi del giorno. I tweet degli utenti e dei telespettatori verranno quindi raccolti e rilanciati per tutta la giornata su Repubblica. it: esaltando così l’interattività del primo e unico telegiornale prodotto da un quotidiano, trasmesso dalla tv e aggiornato in tempo reale su Internet.

La nuova edizione di RNews è solo l’ultimo passo del lungo cammino di RepubblicaTv, che a novembre 2013 ha registrato 218 mila utenti unici giornalieri, 2,5 milioni di utenti unici nel mese, 431mila pagine viste al giorno e 13 milioni di pagine viste nel mese. Ampliando la straordinaria offerta di dirette e video, nei mesi recenti RepubblicaTv ha lanciato tra l’altro nuovi format televisivi ideati esclusivamente per il web: da WebNotte, il programma di Ernesto Assante e Gino Castaldo che fra diretta e on demand viaggia verso il mezzo milione di visualizzazioni, a WebCorner, lo speciale curato da Fabrizio Bocca e in onda in occasione dei grandi eventi sportivi, fino a RPrima, il programma dedicato alle anteprime al cinema, nella musica e in libreria, in una formula innovativa tra approfondimento e show interattivo.
di FRANCESCO FASIOLO
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Intel stupisce il mondo con il suo minicomputer

intel-edisonIl gigante dei processori entra a gamba tesa nel mercato della wearable e dell’Internet delle Cose
Tutti ne parlano e è le possibili applicazioni sono potenzialmente infinite: Edison è un computer non più grande di una scheda SD con una CPU dualcore e 500MB di RAM su cui gira l’onnipresente Linux come sistema operativo. È stato presentato settimana scorsa al Consumer Electronics Show di Las Vegas dal CEO di Intel Brian Krzanich. Si tratta del primo dispositivo che utilizza la tecnologia Quark, un processore grosso un quinto della precedente serie Atom che utilla soltanto un decimo dell’energia. Il minicomputer si connette alla rete e ad altri dispositivi via wifi e bluetooth ed è il tentativo della storica azienda di microprocessori di mettere il piede nella porta del multimiliardario nascente mercato dell’Internet delle Cose.
Intel Edison è pensato per gli sviluppatori e sarà integrato in vari prodotti nella seconda metà del 2014 e nel 2015. Secondo l’azienda, troverà la sua naturale applicazione nei dispositivi di tecnologia indossabile. Un primo esempio dimostrativo è un body per neonati che, attraverso una piccola tasca che ospita il minicomputer, può tenere monitorati diversi parametri fisiologici nei neonati. La linea di prodotti si chiama Nursey 2.0 e comprende anche un dispositivo connesso per scaldare il latte che si attiva quando il bambino incomincia a piangere.
Quest’ultima device introdotta da Intel è un tangibile punto di svolta: i computer sono diventati così piccoli da poter essere inghiottiti nelle cuciture dei nostri vestiti. Si tratta di una tecnologia quasi invisibile, tanto discreta quanto potenzialmente rivoluzionaria. Non si sa ancora la data precisa i cui Edison sarà lanciato sul mercato, ma sembra che se ne riparlerà verso l’estate ed è gia stata annunciato un contest per sviluppatori dal nome Make It Wearable con un primo premio di 500.000$. I big stanno entrando nel mercato dell’Internet delle Cose, Intel ha le idee chiare e vuole tracciare la via: se le device della wearable e dell’IoT saranno dappertutto, i microprocessori dell’azienda voglio essere in tutti questi gadget: “La tecnologia indossabile non è ancora dappertutto poiché non risolve ancora problemi reali e non è integrata con il nostro stile di vita,” ha detto il CEO di Intel al CES. “Ora siamo concentrati a rispondere a questa sfida dell’innovazione. Il nostro obiettivo è il seguente: qualsiasi cosa che si connette, lo farà meglio con Intel al suo interno”.
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Carlo Peroni




Maker, semplici hobbisti o pionieri della rivoluzione?

stampantiStampa 3D, crowdfunding e tecnologia aperta: ecco gli ingredienti della III rivoluzione industriale
C’è chi la tecnologia la usa e basta e chi invece la smonta per guardarci dentro e capire come funziona. La prima categoria è ancora più consistente della seconda, eppure, anche se veniamo da un periodo dove, soprattutto nel tech, hanno prevalso le più sfrenate tendenze consumistiche, alcuni affermano che entro pochi anni sarà normale fabbricarsi i propri oggetti personali attraverso strumenti come le stampanti 3D, invece che comprali pronti all’uso. Dietro a quest’idea non ci sono solo pochi visionari, ma un intero movimento: il Movimento dei Maker, la cui missione è quella di aprire i cancelli della terza rivoluzione industriale attraverso la democratizzazione dei mezzi di produzione in chiave fai-da-te e l’applicazione di pratiche nate nel web al mondo fatto di atomi degli oggetti fisici.
Ma che cos’è, esattamente, il Maker Movement? Come tutti i movimenti è estremamente eterogeneo: ci sono gli appassionati di robotica, chi preferisce i sistemi di home automation, ci sono i designer, gli smanettatori di hardware opensource come Arduino e Raspberry Pi, ma troviamo anche ingegneri, hacker, amanti dei droni e professori universitari. Ma l’elemento che ricopre il ruolo di simbolo della sottocultura dei maker è la stampante 3D. Epicentro del terremoto del DIY in chiave tecnologica è la vicenda di MakerBot, il primo dispositivo opensource in grado di stampare oggetti tridimensionali, sviluppato con il supporto di una comunità molto attiva e venduto ad un prezzo abbordabile. Se negli anni ’70 per fondare una garage band bastavano poco più di una chitarra elettrica e un amplificatore, oggi per aprire un maker space bastano poco più di un computer portatile e una stampante 3D. In entrambi i casi quello che conta sono creatività e dedizione. Il primo prodotto di MakerBot si chiama Thing-O-Matic e, in effetti, condivide una certa estetica con alcuni degli strumenti musicali cari alla tradizione rock.

Chris Anderson, co-fondatore ed ex-direttore di Wired, ha recentemente abbandonato la rivista per dedicarsi a tempo pieno alla sua attività di maker lavorando all’azienda di droni opensource di cui è cofondatore, 3D Robotics. Ha scritto uno dei testi chiave per capire questo mondo, Maker. Il ritorno dei produttori, pubblicato nel 2012, in cui ci spiega come “negli ultimi dieci anni abbiamo scoperto nuovi modi per creare, inventare e lavorare insieme sul web. Nei prossimi anni ciò che abbiamo imparato verrà applicato al mondo reale”. Secondo Anderson i maker si riconoscono dalle seguenti caratteristiche. Innanzitutto si tratta di persone che utilizzano strumenti di progettazione digitale per creare nuovi prodotti e prototipi con una filosofia DIY (Do It Yourself). Secondariamente un vero maker non lavora da solo, ma in team, che può essere offline (il maker space), ma anche online, attraverso l’utilizzo di forum, blog e piattaforme specifiche (come Adafruit o Make Shed). Di norma poi i progetti vengono condivisi su internet, rendendo possibile agli altri membri della comunità di contribuire. Il DIY diventa così DIWO (Do It With Others). I progetti dei maker, tuttavia, non sono fatti per rimanere nei confini del makerspace. Il modo in cui i prototipi vengono progettati permette di poterli inserire direttamente in produzione: chiunque, se lo desidera, dovrebbe poter mandare il progetto a un service per crearne lotti più o meno grossi.
Anderson impersona alla perfezione il ruolo di araldo dell’incombente terza rivoluzione industriale. Anche grazie a personaggi come lui, il Movimento dei Maker si sta conquistando sempre più spazio sui mezzi di comunicazione. In questi giorni si è tenuto il CES 2014 e il movimento dei maker ha ricevuto l’attenzione che meritava. Dal nuovo modello di MakerBot in grado di stampare oggetti di grande volume fino alla stampante 3D in grado di sfornare caramelle in affascinanti forme geometriche, le sorprese non sono infatti mancate.
L’innovazione, nel mondo dei maker, è anche sociale e un esempio è Kickstarter. La filosofia dei maker applica il modello di sviluppo e condivisione dei contenuti digitali al mondo reale. Il problema è che, mentre è possibile distribuire i bit praticamente gratis, produrre e distribuire gli atomi da un luogo all’altro del mondo fisico ha dei costi che non sono comprimibili. Questo inconveniente può essere aggirato grazie a siti come Kickstarter. Nel 2013 i suoi numeri sono stati davvero notevoli: 3 milioni di persone provenienti da 214 paesi hanno aderito al finanziamento di progetti per un totale di 480 milioni di dollari raccolti. Tra i successi dell’anno ci sono stati lo smartwatch Pebble, il dispositivo per la realtà virtuale Oculus Rift e la prima consolle di gaming indipendente Ouija. Tra le curiosità si possono anche trovare un overcraft a forma di DeLorean e un dispositivo per pilotare aereoplanini di carta attraverso il proprio smartphone (quest’ultimo progetto ha sfondato l’obiettivo iniziale di 50.000$ raggiungendo quasi il milione). Tramite questa piattaforma di crowdfunding, infatti, usando le parole di Chris Anderson, “è possibile rimuovere collettivamente una delle più grandi barriere dell’innovazione promossa dalle piccole imprese: il capitale di investimento iniziale”. Secondo l’ex-caporedattore di Wired, Kickstarter risolve tre grandi problemi per chi vuole tentare la strada dell’imprenditoria. Innanzitutto i ricavi possono essere anticipati nel momento in cui sono davvero necessari. Secondariamente, Kickstarter trasforma la clientela in una community online. Se qualcuno finanzia un prodotto che non esiste ancora, probabilmente sarà anche interessato a seguirne lo sviluppo e a capire in che modo viene utilizzato da altri, che probabilmente condividono almeno in parte i suoi stessi interessi. Infine “Kickstarter fornisce il servizio forse più importante di una società che viene appena fondata: la ricerca di mercato. Se un progetto non raggiunge il target di finanziamento, probabilmente avrebbe fatto fiasco dopo l’entrata in commercio”.

L’importanza della comunità prende forma tramite concetti come l’educazione tra pari. Poiché i maker difficilmente lavorano da soli, ma più spesso, invece, si raggruppano in più o meno piccole comunità di persone che condividono vari progetti, viene incoraggiato un modello di apprendimento condiviso. È la cosiddetta peer education, che ribalta la concezione gerarchica dell’educazione che vede una ferma distinzione tra chi impara e chi insegna. Attraverso internet, la condivisione di progetti opensource ed eventi come le Maker Faire, le varie comunità sparse nel mondo possono condividere informazioni, guide e consigli. La sottocultura dei maker può davvero diventare un modello di educazione aperta. Pensando anche ai bambini, si tratta di nuove e potenzialmente rivoluzionarie possibilità di apprendimento.
Il mondo che ci aspetta sarà fatto di dispositivi interconnessi. Ognuno di noi avrà un network fisico di device a cui sarà collegato: non solo computer e telefono, ma anche il sistema di automazione domestica con tutti i suoi sensori e attuatori, i dispositivi di tracking indossabili e, magari, anche la propria automobile intelligente. Da noi stessi alle città che abitiamo, che diventeranno sempre più smart, saremo circondati da chip e macchine intelligenti che captano e raccolgono dati senza interruzione. Chi meglio dei maker può costruire questo futuro? Il loro spirito collaborativo e la propensione a condividere possono davvero funzionare come garanzia della trasparenza di questi dispositivi.
Mai come oggi la tecnologia dà forma alla nostra quotidianità. Eppure il processo può essere invertito. Noi stessi possiamo tornare a dare forma alla tecnologia. Un eroe contemporaneo come Steve Jobs capì che il suo desiderio era quello di costruire computer quando si accorse che il mondo era fatto da oggetti, e che gli oggetti sono fatti da persone che non sono poi così diverse dalle altre persone che quegli oggetti li usano e basta: “Il fatto che attraverso l’esplorazione e l’apprendimento uno potesse comprendere oggetti appartenenti al proprio ambiente che sembravano molto complessi dava un enorme senso di fiducia in se stessi”. L’ambiente esterno e gli oggetti che lo vanno a comporre sono qualcosa che l’uomo si è sempre trovato a manipolare e modificare: forse essere dei maker è semplicemente insito nella nostra più profonda natura.
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L’auto ad aria compressa è fatta coi Lego: così un ragazzo romeno “costruisce” il futuro

autoUn ventenne ha realizzato un veicolo realmente funzionante con 500.000 mattoncini delle note costruzioni. Arriva a 27 km/h e i risultati dei primi test sono buoni. Ci ha lavorato per 20 mesi
SI POTREBBE dire che vent’anni sono tanti per giocare con le costruzioni. Ma forse sarebbe il caso di non dirlo davanti al risultato di Raoul Oaida, un ragazzo romeno che a quell’età ha scelto di utilizzare i mattoncini Lego per realizzare un veicolo realmente funzionante. Con l’aiuto dell’imprenditore australiano Steve Sammartino e con una grande quantità di mattoncini, Raoul è riuscito a realizzare una automobile ad aria compressa a grandezza reale e perfettamente in grado di muoversi. Tutto, tranne ovviamente le ruote, è costruito con i Lego, da sempre giocattolo votato ai piccoli ma anche ai grandi ingegneri. Non è la prima volta che Raoul stupisce il mondo coi mattoncini: nel 2012 il ragazzo aveva già realizzato uno shuttle in costruzioni.

Metti un Lego nel motore. Il risultato dell’impresa è una monoposto Hot Rod capace di raggiungere una velocità massima compresa tra 19 e 27 chilometri orari, e non solo: va ad aria compressa, un progetto quindi impatto zero sull’ambiente. L’auto è dotata di un sistema di propulsione composto da quattro motori orbitali a loro volta formati da 256 pistoncini, ovviamente realizzati anch’essi usando i popolari mattoncini dell’azienda danese. La costruzione di questo originale prototipo rientra in quello è stato chiamato “Super awesome micro project”, un’idea avviata ad aprile 2012 e costata complessivamente 60.000 dollari finanziati da 40 persone conquistate dalla genialità di Oaida.
L’auto ad aria compressa ha richiesto 20 mesi di lavoro e l’impiego di oltre 500.000 pezzi di Lego. Necessari a realizzare tutta la carrozzeria, l’abitacolo e il motore, con la sola eccezione di cerchi, pneumatici e i manometri della strumentazione. Una volta realizzata in Romania, la vettura è stata spedita in un luogo segreto in Australia al fine di poter effettuare un test su strada, facendo registrare però qualche danneggiamento durante il viaggio che Oaida ha prontamente sistemato. Rimettendo i mattoncini dove si erano staccati. Probabilmente la Lego Hot Rod non diventerà un progetto commerciale. Ma forse la soluzione della crisi dell’automobile passa dai sogni d’infanzia, quelli in cui si immaginavano le macchine da costruire, e che magari potessero viaggiare senza inquinare e far rumore.
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Il sogno americano di Vincenzo: “Come ho conquistato Amazon”

amazonDi Nicola, giovane ingegnere abruzzese, ha venduto la sua startup a Bezos per una cifra top secret. Ma adesso dice: “Credo che tornerò in Italia e ricomincerò daccapo, la mia casa è lì”
Per il mondo dell’innovazione, e quindi per chi ancora crede nel futuro dell’Italia, è stato il botto di fine anno. Qualche giorno fa Vincenzo Di Nicola, 34 anni, ingegnere informatico, abruzzese, ha venduto la sua startup ad Amazon, ovvero a Jeff Bezos, 49 anni, il 19esimo miliardario del pianeta ma soprattutto il più grande venditore di tutti tempi. Apparentemente è come vendere un frigorifero agli eschimesi, più che una impresa parrebbe un miracolo; ma in realtà i colossi del web comprano ogni anno decine e decine di imprese innovative. È il modo migliore per comprare l’innovazione là dove si palesa: dove i ragazzi inventano il futuro. E in questo campo gli italiani se la cavano piuttosto bene. Lo scorso anno era accaduto almeno altre due volte: al giovanissimo Andrea Vaccari, “comprato” da Facebook con la sua app di geolocalizzazione, Glancee; e ad Andrea Gozzi da Correggio che durante i giorni del terremoto in Emilia aveva venduto la Redmatica nientemeno che ad Apple.

Ora tocca a GoPago, la startup di pagamenti mobile che Vincenzo Di Nicola racconta di aver inventato perché una volta, nel 2009, era allo stadio, l’AT&T Park a New York, per un incontro dei San Francisco Giants, e il suo amico si è perso il record di homerun segnati nella storia del baseball americano (firmato nientemeno che dal grande Barry Ponds) perché si era alzato a prendere una birra e ci aveva messo troppo a pagare… Solo che l’amico, come Vincenzo, è una specie di genio dell’informatica: si chiama Leo Rocco, è nato in America da genitori siciliani ed ha un curriculum con nomi pesanti come Boeing, Ferrari, Nasa e Ibm. E visto che quel giorno i due si erano resi conti che mancava una app per prenotare un bene o un servizio, pagarlo con un clic e ritirarlo senza fare la fila, hanno deciso di svilupparla.

La storia di GoPago è davvero bella come una fiaba. Anche perché inizia in un borgo minuscolo che sembra un presepe in questi giorni di Natale. Si chiama Sant’Atto, trecento abitanti più o meno, in provincia di Teramo. È da qui che l’omonimo nonno di Vincenzo partì nel 1922 per andare in America. Emigrante, minatore sui Monti Appalachi. Ci restò dieci anni esatti, e poi tornò a casa. A Villa Turri di Sant’Atto. E qui nel 1979 nacque il futuro startupper che conquisterà una parte (piccola, per carità) del portafoglio di Jeff Bezos (la cifra dell’affare non è stata rivelata ed anzi, per un paio di mesi almeno a Vincenzo è stato chiesto di non dire nulla sui dettagli dell’affare). Ma torniamo indietro: liceo scientifico Albert Einstein a Teramo e da qui il salto; ingegneria informatica a Bologna e poi gli Stati Uniti, prima ancora di laurearsi. Lo stesso viaggio del nonno, insomma, ma tutto molto, molto diverso. In America Vincenzo si rende conto subito di una cosa fondamentale: “Fino a quel momento in Italia avevo studiato in maniera astratta. Troppa teoria”. Prima Stanford, poi Microsoft e Yahoo!, il curriculum di Vincenzo è costellato di riconoscimenti come miglior studente e ricercatore. Poi GoPago che va online alla fine di luglio del 2011. Un sistema di pagamento mobile lanciato in un momento in cui sul settore di sfidano degli autentici colossi. Ma la app di Di Nicola e Rocco sembra avere una marcia in più. Nell’agosto del 2012, in occasione del lancio in tutti gli Stati Uniti, il blog Business Insider celebra questo “meraviglioso servizio” che riesce a fare cose che nemmeno Square (fondata dall’ex creatore di Twitter Jack Dorsey) e la catena di caffé Starbucks riescono a fare: “Nessun altro ti fa ordinare e pagare un latte a casa e ritirarlo senza fila al bar”.

Da lì in poi il successo è stato inarrestabile: grazie a un investimento della banca JP Morgan, GoPago è arrivata in un baleno a 70 dipendenti e più di mille installazioni mentre le star delle squadre di baseball e football di San Francisco sono diventate i testimonial del servizio. Insomma, la exit (così si chiama l’acquisto di una startup da parte di un grande gruppo) era nell’aria ed è arrivato: lo staff e la tecnologia di GoPago passano ad Amazon, Vincenzo Di Nicola no. Proprio il giorno dopo la conclusione dell’affare ha sostenuto il colloquio per ottenere la cittadinanza americana, ma pensa di tornare in Italia, esattamente come accadde al nonno: “È lì la mia casa” ha detto a chi glielo ha chiesto, “anche Garibaldi emigrò in America ma quando l’Italia ebbe bisogno di lui, non ci pensò due volte”. Non sono parole vuote: se andate sulla pagina del liceo scientifico Einstein, scoprirete che dai sei anni Vincenzo sponsorizza una piccola borsa di studio “perché sento un forte debito di riconoscenza per quegli anni del liceo e nella logica del give back americano ho deciso di istituire questo premio”.

di RICCARDO LUNA

http://www.repubblica.it/rubriche/startup-stories/2013/12/16/news/sogno_americano_vincenzo_di_nicola_amazon-73709099/




Il vademecum per le smart cities

smart-cityPer dare sostegno e supporto alle amministrazioni che vogliono intraprendere la strada dell’innovazione e del cambiamento, lo Smart Cities Council, in collaborazione con la business school ESADE di Barcellona, ha elaborato delle linee guida da seguire per trasformare qualsiasi città in una smarrì city.

Il vademecum, che prende il nome di “Smart Cities Readiness Guide”, contiene oltre 50 casi studio di città intelligenti che affrontano alcune delle problematiche più comuni legate al passaggio da “normale” città a smart city.

CONTENUTI. Nello specifico, le linee guida contengono informazioni su: energia, telecomunicazioni, trasporti, acqua e acque reflue, rifiuti, servizi sanitari e sociali, sicurezza ed aspetti economici. Tra le città studio troviamo invece Malta, Londra, Indiana City, Sino-Singapore Tianjin Eco-City, PlanIT (Portogallo e Barcellona e moltissimi altri.
guida per le smart city
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L’impresa 3.0 che favorisce la rilocalizzazione

3.0Parlare di rivoluzione e di Terza Rivoluzione Industriale è appena descrivere ciò che sta succedendo con l’arrivo delle stampanti 3D. Ciò che stanno introducendo nei processi produttivi dell’industria ha dell’incredibile: un oggetto che si forma, anzi che prende forma nello spazio, un sottilissimo strato alla volta. Cambierà tutto. Non solo perché per creare una pala di turbina o un intero blocco motore ci vorrà molto meno tempo perché non bisogna più fare stampi e colate, ma soprattutto perché con questo sistema non si getta più via l’80% del materiale. Vengono tagliati drasticamente i tempi dall’ordine di un prodotto alla sua consegna. Vengono tagliati gli spostamenti, stravolte le esigenze logistiche. Ridisegnata la mappa delle localizzazioni industriali. Un recente studio del Boston Consulting Group azzarda che in determinati settori come macchinari, computer, produzione di componenti metalliche una quota non indifferente di prodotti (tra il 10 e il 30%) che oggi gli Usa importano dalla Cina potrebbero invece essere di nuovo prodotti sul suolo americano entro il 2020. Roba da raddoppiare l’output industriale degli States. E’ una rivoluzione così grande che la si può provare a descrivere solo per approssimazioni successive. L’altro grande aspetto dell’industria 3.0 è la svolta ad U che compie rispetto alle due precedenti rivoluzioni. Sia la prima, quella del 18esimo secolo che meccanizzò la tessitura, sia quella
del fordismo agli inizi del secolo scorso, con l’introduzione della catena di montaggio, andavano infatti nella stessa direzione: quella di una produzione di massa. Entrambe hanno permesso di moltiplicare in quantità sempre crescenti le repliche di un unico prodotto: il paradigma è la Ford T, che all’epoca potè abbattere i prezzi a patto di averla di un solo colore, ossia nera. Oggi invece si va all’opposto: se non c’è più uno stampo che va progettato e poi a sua volta prodotto e che dà i suoi frutti quante più repliche dello stesso oggetto è in grado di sfornare, se tutto questo è ormai solo un software e una stampante 3D e un po’ di materia prima, allora si può tornare a variare un pezzo, la sua forma, le dimensioni, in pochi attimi, solo al pc. E il concetto di economia di scala andrà drasticamente riscritto. La nuova tecnologia abbatte in modo significativo i costi e i tempi di produzione
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La ripresa vuole efficienza

amici terraLa prima giornata di lavori della Quinta Conferenza Nazionale per l’efficienza energetica organizzata da Gli Amici delle Terra si è focalizzata sulla riduzione dei consumi energetici che sta interessando il nostro Paese e le nostre imprese: crisi o efficienza?
I consumi di energia calano oltre gli obiettivi indicati dalla direttiva europea sull’efficienza energetica e gli impegni sulle fonti rinnovabili sono raggiunti con circa due anni di anticipo. Va tutto bene, allora?
Non proprio: la decrescita non è “felice” e il persistere della crisi economica in Europa non permette più un approccio superficiale ed ideologico alle politiche energetico-ambientali. Ciò è ancora più vero in Italia dove si scontano anche gli errori compiuti nell’incentivazione delle rinnovabili elettriche; errori che oggi gravano sulla promozione dell’efficienza energetica e sulla ripresa economica. Le politiche energetico-ambientali possono essere realmente un’opportunità per uscire dalla crisi solo se si sarà in grado di misurarne l’efficacia attraverso accurate analisi di costi e benefici.
Sottolinea Rosa Filippini, Presidente Amici della Terra: “Fuori dalla retorica della cosiddetta green economy, sono necessarie misure che consentano non solo alle piccole e medie imprese ma anche alla nostre grandi industri energivore di recuperare competitività attraverso investimenti nella qualità ambientale e nell’efficienza energetica, sia dei processi produttivi che dei prodotti. La vera sfida di una politica ambientale avanzata non è chiudere o delocalizzare le produzioni difficili ma renderle ambientalmente sostenibili”.
Dal Dossier sull’Efficienza Energetica realizzato da gli Amici delle Terra e presentato in conferenza è emersa la preoccupazione che, senza una revisione chiara delle politiche energetico ambientali, non si raggiungeranno gli obiettivi 2020.
In Italia, gli indicatori scelti dall’UE per valutare il conseguimento al 2012 dei tre obiettivi 2020 (riduzione dei gas serra, riduzione dei consumi primari e penetrazione delle energie a rinnovabili), mostrano risultati da interpretare con attenzione per evitare facili compiacimenti. I consumi di energia primaria – l’indicatore scelto per l’efficienza energetica – hanno fatto registrare nel 2012 una riduzione del 15% circa rispetto al – 20% indicato come obiettivo per il 2020.
“Apparentemente – spiega Rosa Filippini – sembrerebbe un ottimo risultato ma l’andamento non è positivo come appare perchè l’indicatore del semplice calo dei consumi non è adeguato: si rischia di contrabbandare gli effetti negativi della crisi come risultato delle politiche di efficienza energetica. Sarebbe necessario adottare (e negoziare) nuovi obiettivi che prevedano una effettiva crescita dell’efficienza negli usi dell’energia e che orientino in modo chiaro verso investimenti nel patrimonio abitativo e nei processi produttivi capaci di produrre, insieme al raggiungimento degli obiettivi ambientali anche risultati in termini ricchezza e competitività del Paese”.
Per quanto riguarda poi l’obiettivo 20-20-20 sulle rinnovabili, nel 2012, la penetrazione di queste ultime nei consumi elettrici ha raggiunto il 27,5% e, verosimilmente, nel 2013 raggiungerà il 30% superando quanto indicato dal PAN che prevedeva poco meno del 30% per il 2020. Purtroppo però in Italia sono state privilegiate installazioni non competitive e poco efficienti come le torri eoliche e le grandi estensioni di fotovoltaico. Per questo è presumibile che ora, finiti i soldi per nuovi incentivi, si arresti anche il loro tumultuoso sviluppo. Non finisce invece il peso degli incentivi già assegnati sulle bollette degli italiani con l’effetto di aumentare il costo dell’energia elettrica delle famiglie e delle imprese per i prossimi venti anni, proprio nel momento culminante della crisi economica.
Ma è sul raggiungimento dell’obiettivo di ridurre del 20% i gas serra che si nutrono i maggiori dubbi. Infatti, l’obiettivo 2010 di riduzione dei gas serra, – 6,5% rispetto al 1990 – è stato conseguito solo nel 2012, con due anni di ritardo, nonostante il calo di consumi dovuto alla crisi economica.
“Per poter conseguire il risultato di un calo del 20% al 2020 – spiega ancora Rosa Filippini – ci si dovrebbe , paradossalmente, augurare che la crisi si aggravi perché altrimenti la ripresa economica porterebbe con se un aumento più o meno accentuato di consumi di energia e di emissioni di gas climalteranti”.
Alla luce di queste considerazioni gli Amici della Terra hanno individuato sette proposte per porre su basi solide il raggiungimento degli obiettivi 2020 e la formulazione di nuovi e ambiziosi obiettivi per il 2030 di politica energetico-ambientale che risultino in accordo con una fase di ripresa economica basata sul consolidamento del tessuto produttivo, a partire da quello industriale:
1) Impostare il nuovo Piano nazionale di Azione per l’efficienza energetica con obiettivi 2020 che siano fondati su indicatori effettiva efficienza nei diversi settori di uso dell’energia.
2) Attivare tempestivamente una fase di consultazione sui contenuti del nuovo piano nazionale di Azione per l’efficienza energetica (che dovrà essere approvato entro aprile 2014) e un processo di concertazione con le parti sociali interessate di obiettivi di politica industriale che consenta un rilancio della competitività dell’industria basato su un nuovo ciclo di investimenti nel miglioramento dell’efficienza energetica e della qualità ambientale dei processi produttivi.
3) Interrompere subito le aste per l’incentivazione delle rinnovabili elettriche meno efficienti come l’eolico o le biomasse per la sola generazione elettrica; se già oggi il Governo si propone di attivare meccanismi parzialmente retroattivi per attenuare il costo degli incentivi già assegnati, innanzitutto occorre smettere di assegnarne di nuovi.
4) Concentrare tutte le risorse residue disponibili in iniziative di sostegno alle rinnovabili termiche e all’efficienza energetica attraverso criteri fortemente selettivi.
5) Privilegiare l’uso delle risorse dei fondi strutturali e dei piani di sviluppo rurale della programmazione 2014-2020 per la promozione delle rinnovabili termiche e dell’efficienza energetica;
6) Nell’ambito dei fondi strutturali della programmazione 2014-2020, destinati alla politica industriale dare priorità alle misure di sostegno che rispondano ai criteri di “aiuti di Stato per la tutela ambientale” secondo quanto previsto dalla specifica disciplina comunitaria . Il regime degli “aiuti di Stato per la tutela ambientale” consente un’intensità di aiuto più elevata di quella consentita ordinariamente, nei costi per investimenti nei processi produttivi che abbiano requisiti superiori in termini di prestazioni energetico ambientali a quelli obbligatori secondo la normativa ambientale ed energetica ed è utilizzabile anche per le grandi imprese.
7) Collegare i nuovi regimi tariffari dedicati alle imprese energivore a interventi qualificanti (sistemi di gestione ISO 50001) e investimenti nell’efficienza energetica dei processi produttivi.




La bottiglia con la candeggina che illumina gratis trionfa nelle periferie di tutto il mondo

bottigliaAlfredo Moser è un meccanico brasiliano che ha avuto un’idea brillante nel 2002, dopo aver subito uno dei frequenti black-out che interessano Uberaba, la città dove vive nel sud del Brasile.

Stanco di guasti elettrici, Moser ha iniziato a giocare con l’idea della rifrazione della luce solare in acqua e in poco tempo ha inventato la “lampadina dei poveri”. “Wit” è semplice e disponibile a chiunque: una bottiglia di plastica riempita d’acqua da due litri a cui si aggiunge un po’di candeggina per preservarla dalle alghe. Il flacone è stato posto in un foro nel tetto e dotato di resina poliestere.

Il risultato? Illuminazione libera e organica durante il giorno, particolarmente utile per gli edifici e baracche che a malapena hanno finestre.

A seconda dell’intensità del sole, la potenza di queste lampade artigianali si aggira tra i tra 40 e i 60 watt. “E ‘una luce divina. Dio creò il sole e la sua luce è quindi per tutti “, ha riferito Moser alla BBC . “Non costa un centesimo ed è impossibile che si fulmini.”

Anche se l’inventore ha ricevuto piccole ricompense per le installazioni di Wit nelle case e in aziende locali, la sua idea non lo ha reso ricco.
Un grande senso di orgoglio: «Conosco un uomo che ha inserito le bottiglie e in un mese aveva risparmiato abbastanza per comprare beni di prima necessità per il loro bambino appena nato”, dice soddisfatto.
Un’idea che si è diffusa in tutto il mondo.

Ma la lampadina geniale non si è fermata a Uberaba. Negli ultimi due anni l’invenzione ha subito una grande espansione in tutto il mondo.

Ad esempio, la Fondazione MyShelter (mio rifugio) nelle Filippine ha accolto con entusiasmo l’idea. MyShelter è specializzata in costruzioni alternative utilizzando materiali come il bambù, pneumatici o su carta.

In Cina, dove il 25% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e l’elettricità è particolarmente costosa, ci sono 140.000 famiglie che hanno fatto ricorso a questo sistema di illuminazione.

Il direttore esecutivo del MyShelter, Illac Angelo Diaz spiega che bottiglie-lampadine sono diffuse ad almeno quindici paesi, tra cui India, Bangladesh, Fiji e Tanzania.

“Non ho mai immaginato che la mia invenzione avrebbe avuto un tale impatto”, afferma Moser. “Solo a pensarci mi viene la pelle d’oca.”
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