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Report Artù + Bugo – Villa Ada 2017

Definito negli anni con aggettivi ed etichette che hanno tentato di comprenderlo e collocarlo musicalmente, Bugo viene assorbito, tra tutti, dal termine “fantautore”. Durante il live Bugo ha proposto i suoi più grandi successi insieme ai brani di “Nessuna scala da Salire” il nuovo lavoro discografico (etichetta Carosello Records) uscito in anteprima in vinile il 15 aprile scorso. Scelta non convenzionale e rivoluzionaria che rispecchia a pieno lo spirito e lo stile del geniale cantautore che è stata ripagata immediatamente con un esordio da 1° posto nella classifica dei vinili più venduti. A distanza di una settimana dall’esordio in vinile l’album è uscito anche in cd e digitale. Anticipato dal singolo “Me la Godo”, l’album si compone di 12 tracce dallo stile originale e fresco, che confermano Bugo come uno degli artisti più interessanti della scena contemporanea italiana. 

Finalista di Musicultura, Artù sembra un personaggio di un altro mondo, fuori dagli schemi, un cane sciolto, schietto e sincero ma mai banale. Nel corso degli anni si è esibito in contesti sempre più prestigiosi, affiancando su grandi palchi artisti come Brunori Sas, Niccolò Fabi e Alessandro Mannarino. Con quest’ultimo è nato un legame artistico e di amicizia, che li ha condotti a comporre insieme il brano “Giulia domani si sposa” contenuto nel primo disco di Artù. Il cantautore romano, al secolo Alessio Dari, ha presentato al pubblico i brani del suo nuovo album “Tutto Passa”(pubblicato a maggio per Sony Music), con arrangiamenti studiati per l’occasione ma fedeli alle atmosfere aspre, amare e romantiche dei testi del disco, spaziando da un rock energico e graffiante che riprende a tratti un sound anni ’70 -’80, a ballad dalle sonorità romantiche, sempre in chiave rock.

 




Si scrive legalità, si legge deserto sociale

Due sgomberi, un bando finto, i richiami alla legalità, il rifiuto di ascoltare quelli dell’acqua. L’arroganza della giunta Raggi contro quelli del Rialto, dove aveva sede il Forum dei movimenti dell’acqua, non è solo un’altra brutta storia romana di sgomberi, ma prima di tutto la conferma che l’amministrazione 5 Stelle “sta compiendo una svolta reazionaria – dice Paolo Carsetti del Forum dell’acqua – “L’unico obiettivo è accreditarsi con il sistema, dimostrare ai poteri forti di essere affidabile, così da candidarsi a governare il Paese intero… Poco importa se nel frattempo la legalità sarà trasformata in un simulacro, la trasparenza in opacità, il cambiamento in continuità, la comunità in solitudine competitiva, la città in un deserto sociale. Il Rialto e il Forum sono solo piccoli intralci nel cammino verso il potere…”

Sono passati tre mesi dal primo sgombero e tre giorni dall’ultimo… Quello che segue è un breve racconto di quanto avvenuto. Per chi l’ha visto e per chi non c’era e per chi quel giorno lì inseguiva una sua chimera. Sono tredici anni che chiediamo una soluzione definitiva attraverso l’attuazione della delibera di Consiglio Comunale 40/04 (tuttora vigente) che prevede lo spostamento delle realtà del Rialto all’ex autoparco dei Vigili Urbani (di Via delle Mura Portuensi) del Comune di Roma. Questa è la soluzione che abbiamo sottoposto da oltre due mesi e mezzo anche all’Amministrazione Raggi, già dopo il primo sgombero del 16 febbraio. Ma, in esatta continuità con le passate amministrazioni, non ha mai voluto prenderla realmente in considerazione.

Ci teniamo a ribadire che la soluzione esiste ed è sotto gli occhi di tutti: nulla osta a completare l’iter procedurale e amministrativo di detta delibera avendo già superato i vari passaggi della Conferenza dei Servizi; l’Amministrazione comunale negli anni ha già acquisito i progetti, ha utilizzato soldi pubblici a tal fine ed il mancato completamento dell’opera configura un sicuro danno erariale; la ricollocazione delle realtà del Rialto è, dunque, un atto approvato dal Consiglio comunale e ora necessita solo della volontà politica della Giunta di attuarla.

Il vero danno erariale per il Comune sta proprio nella mancata attuazione di questa delibera e non negli affitti degli spazi sociali che, tra l’altro, laddove fossimo stati messi nelle condizioni, non ci saremo sottratti dal corrispondere. Ma davvero qualcuno pensa di ridurre lo sgombero di uno spazio come il Rialto e della sede del Forum dei Movimenti per l’Acqua al mancato saldo di un affitto? La questione è ben più complessa e negli ultimi mesi gli sgomberi a Roma sono stati un incubo che ha toccato centinaia di realtà. La banalizzazione che sta costruendo l’Amministrazione, trincerandosi dietro il semplice ripristino della legalità, è preoccupante.

Parafrasando un nostro caro slogan referendario potremo dire: si scrive legalità, si legge deserto sociale. Il confronto con l’Amministrazione è stato avviato all’indomani del primo sgombero e in quell’occasione l’assessore Andrea Mazzillo e il suo staff si erano presi l’impegno di approfondire i termini dell’attuazione della delibera 40/04. “Pochi giorni e vi riconvochiamo”: questo era stato l’impegno assunto in quell’occasione.

Il 24 febbraio le catene che avevano chiuso il Rialto vengono spezzate e questo spazio viene restituito alla città. Poi per due mesi, nonostante le nostre reiterate richieste d’incontro, silenzio più assoluto. La risposta dell’Amministrazione è sempre la stessa: “Stiamo ancora studiando”.

All’improvviso, qualche giorno prima di Pasqua, ci giunge notizia fondata di un nuovo sgombero. Richiediamo con urgenza un incontro allo staff dell’Assessore che inizialmente viene negato e infine concesso per sfinimento.Dopo due mesi ci viene comunicato che ancora non si ha la più pallida idea se la delibera sia attuabile.

Due mesi persi, gettati al vento come nella migliore tradizione italica. In cambio ci vengono “offerti” dei locali del tutto inaccettabili. Principalmente per due ragioni: non garantiscono la possibilità di ricollocazione unitaria delle associazioni ora presenti al Rialto, facendo così venir meno il riconoscimento politico dell’insieme del Rialto e dello spazio sociale in sé, del suo percorso e quindi delle attività che lì vengono svolte in sinergia; i locali hanno come finalità di utilizzo l’emergenza abitativa e nessuna delle realtà del Rialto ha intenzione di sottrarre casa a chi ne ha fortemente bisogno, soprattutto alla luce della drammatica situazione degli sfratti che, procedendo incessantemente, vanno ad aggravare un’emergenza abitativa atavica.

Abbiamo sempre ribadito di essere disponibili a soluzioni transitorie nel momento in cui viene individuata la soluzione definitiva attraverso atti formali (delibera di Giunta e protocollo d’intesa). Altrimenti non si capisce perché definire transitorio qualcosa che evidentemente non lo è. Per usare una metafora: abbiamo segnalato a più riprese che non sussistono problemi da parte nostra ad accettare soluzioni ponte, e quindi uscire dal Rialto, purché siano ben definite le due sponde del guado.

Nel frattempo il 18 aprile la Corte dei Conti si è pronunciata dichiarando nullo il danno erariale e non esigibili i canoni di mercato sul patrimonio indisponibile facendo venire meno le motivazioni alla base delle riacquisizioni degli immobili da parte del Comune. Continuiamo per giorni a richiedere un nuovo incontro e a segnalare allo staff dell’assessore Mazzillo la necessità di una risposta chiara su tutto ciò.

Sabato 6 maggio 10.000 persone scendono in piazza, attraversano il centro di Roma per arrivare sotto al Campidoglio e ribadiscono anche alla Giunta Raggi che “Roma non si vende”!

L’8 maggio, all’improvviso, sul sito di Roma Capitale compare un avviso di bando finalizzato alla concessione di un immobile sequestrato alla criminalità per lo svolgimento di attività sul tema dell’acqua e dei beni comuni. Un bando cucito su misura del Forum Acqua che identificando l’oggetto nel solo tema dell’acqua e dei beni comuni cancella la pluralità degli ambiti su cui intervengono da anni le realtà presenti al Rialto.

Ci domandiamo: che differenza passa tra questo bando e le pratiche politiche che hanno portato a Mafia Capitale? Un bando che non è neanche tale fino in fondo in quanto si tratta di un avviso e infatti si afferma “La documentazione del bando di gara per l’assegnazione dell’immobile, in concessione in comodato d’uso gratuito, verrà definita solo al perfezionamento delle procedure di acquisizione e della effettiva disponibilità del bene confiscato e, pertanto, la presente procedura non è vincolante per questa Amministrazione”.

Un bando che svela il trucco: l’immobile non è ancora nell’effettiva disponibilità del Comune ma evidentemente c’era fretta di provare a costruirsi un alibi in previsione dell’imminente sgombero che, guarda caso, avviene il giorno successivo alla sua pubblicazione.

Il 9 maggio, infatti, all’alba veniamo svegliati dalle telefonate delle forze dell’ordine che stavano sgomberando il Rialto. L’assessore Mazzillo dice soddisfatto che si tratta di un atto dovuto volto al ripristino della legalità. Giustizia è fatta. La misura è colma!

Ci sottraiamo convintamente a questo ricatto, a questo tentativo di corruzione e intendiamo denunciarlo con forza. Ora l’Amministrazione può addurre mille altre scuse per lo sgombero, dall’ingiunzione di un fantomatico tribunale (quale, quando, a che titolo, per quali reati?) al rischio crollo dell’immobile. In questi anni, mesi, settimane e giorni non è mai stato notificato nulla, né a noi né all’Amministrazione. Chiunque ha un minimo di onestà intellettuale sa che si tratta solo di un ulteriore tentativo volto a rafforzare l’alibi.

Tutto ciò conferma che l’Amministrazione 5 Stelle di Roma sta compiendo una svolta reazionaria, tinta di nero, il cui unico obiettivo è accreditarsi con il sistema, dimostrare ai poteri forti di essere affidabile, così da candidarsi a governare il Paese intero nel 2018. Purtroppo, la strada intrapresa è quella giusta.

Poco importa se nel frattempo la legalità sarà trasformata in un simulacro, la trasparenza in opacità, il cambiamento in continuità, la comunità in solitudine competitiva, la città in un deserto sociale. Il Rialto e il Forum dell’Acqua sono solo piccoli intralci nel cammino verso il potere, quello vero. Ciò non toglie che la nostra mobilitazione proseguirà senza sosta perché intendiamo arrivare a una gestione pubblica, trasparente, democratica e partecipata dell’acqua a Roma e in tutti gli altri territori.

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opinioni A Torino la politica culturale punta su periferie, biblioteche e teatri

Francesca Leon è la nuova assessora alla cultura della città di Torino. Nel corso della sua vita professionale ha accumulato una serie di esperienze in diversi settori del mondo culturale, dall’editoria alla tivù, occupandosi di promozione della cultura e inventandosi una formula di abbonamento ai musei torinesi e piemontesi che si è rivelata uno strumento efficacissimo per assicurarsi la fedeltà dei visitatori e l’aumento del loro numero.

Non a caso, la cosa è stata replicata altrove. Ora però forse ha di fronte il compito più impegnativo: impostare in veste di assessore alla cultura il lavoro che in questo ambito andrà fatto in una città come Torino nei prossimi cinque anni. Ma se le si chiede quali saranno le sue linee guida, preferisce parlare di metodo di lavoro:

L’esperienza mi ha insegnato che alla base di qualsiasi scelta debba esserci ascolto, conoscenza e condivisione. L’ascolto è indispensabile per capire i bisogni sia dal lato della domanda sia da quello dell’offerta; la conoscenza serve per capire il funzionamento e le interazioni tra i diversi attori del mondo culturale, per analizzarne le dinamiche, l’efficacia delle azioni nel contesto cittadino, i risultati e le ricadute sulla città, non solo in termini economici e strumentali. La condivisione, infine, è lo strumento per individuare gli obiettivi e le azioni da mettere in atto per raggiungerli. La città è un organismo complesso e per questa ragione il mio lavoro di assessore alla cultura sarà in stretta interazione con le politiche urbanistiche, educative, sociali.

Nel corso degli ultimi decenni, al pari di altre realtà europee con un grande passato manifatturiero, Torino è diventata una città postindustriale. E come altrove anche qui si è deciso di “puntare sulla cultura” per dare all’ex capitale dell’auto una nuova identità e nuove prospettive anche dal punto di vista economico.

Oggi però alla voce cultura si sovrappone spesso quello che un tempo si sarebbe detto intrattenimento, che non di rado ha a che vedere con l’effimero. E in molti si chiedono quali carte possa giocarsi una città come Torino per non diventare semplicemente una fabbrica di eventi. Francesca Leon sorride: “Magari fosse una fabbrica di eventi”. Secondo lei, la capacità di programmazione e quella produttiva si sono ridotte in modo più che proporzionale alla riduzione di risorse, anche se non mancano le eccezioni positive.

Alcune grandi istituzioni, teatro Regio innanzitutto, sono riuscite a produrre spettacoli e a farli circuitare; ma nel mondo delle compagnie indipendenti la produzione è limitata, le coproduzioni sono rare così come la loro circolazione di al di fuori del territorio piemontese, anche in questo caso, mi dice, con ovvie eccezioni.

Anche in alcuni ambiti in cui l’intervento pubblico ha avuto incidenza marginale, a Torino come in Italia, esistono realtà importanti, radicate sul territorio e al tempo stesso affermate nel mercato globale, come Club to club, Share festival, Movement, Kappa futur festival, View conference. Lo stesso problema si pone per le istituzioni museali: la linea di indirizzo seguita è stata quella dell’acquisto di eventi espositivi più che la loro programmazione e produzione e questo ha generato un doppio danno: perdita di competenze e perdita di relazioni con musei italiani e stranieri che si alimentano solo attraverso l’ ideazione, la progettazione, la programmazione delle attività e la continuità.

A suo parere, la chiave è tornare a produrre, dare spazio alle idee anche individuando sistemi di finanziamento pubblico legati a bandi che indichino la strada che si intende percorrere: innovazione, collaborazione pubblico privato, allargamento della platea, distribuzione delle attività sulla città, coproduzione, esportazione. Sottolinea:

La competitività e l’attrattività del territorio e la qualità dei servizi ai cittadini non sono obiettivi conflittuali e incompatibili, a patto di inserirli in una visione unitaria. Bisogna rendere protagoniste di questi obiettivi le forze creative e culturali locali, coinvolgendole nella ideazione e nella programmazione anche degli eventi in funzione di attrazione turistica purché in un percorso che costruisca opportunità di crescita professionale, di rafforzamento strutturale della scena creativa cittadina in una dimensione nazionale e internazionale.

Metto da parte i miei trascorsi di curatore del programma dedicato dal Salone del libro agli editori indipendenti, e prima ancora di Bookstock, la sezione dedicata ai ragazzi delle scuole, e a proposito di eventi che non sono stati effimeri ma che corrono oggi seri rischi di sopravvivenza le chiedo che cosa pensi si possa fare per evitare che Torino perda definitivamente questo appuntamento, per 29 anni la manifestazione legata al libro più importante d’Italia e, con la Buchmesse di Francoforte, la maggiore in Europa. La questione ovviamente mi tocca da vicino, volendo anche semplicemente in veste di autore, ma si tratta di un tema che non posso evitare di sollevare.
Francesca Leon in piazza Castello, Torino, il 3 settembre 2016. – Daniele Ratti per Internazionale
Francesca Leon in piazza Castello, Torino, il 3 settembre 2016. (Daniele Ratti per Internazionale)

Francesca Leon si mostra sicura, come peraltro la nuova sindaca Chiara Appendino. “Torino non perde il suo Salone internazionale del libro. Semmai rischiamo che con due appuntamenti in concorrenza perdano tutti”.

Ai suoi occhi è poco lungimirante pensare che basti fare una fiera a Milano per superare i problemi che oggi colpiscono il mondo dell’editoria. “Hanno prevalso gli interessi di pochi contro quelli di molti, in un mercato che in Italia perde terreno. Perché in Italia la lettura è una attività sempre meno praticata, con conseguenze che vanno ben oltre la crisi dell’editoria. Un paese che non legge è un paese che perde coscienza di sé, della sua storia e delle storie degli altri”. Da queste riflessioni, mi spiega, nascerà il nuovo Salone. “Che realizzeremo con i lettori, con le istituzioni formative, con gli editori, con gli autori e con i librai; mettendo al centro del nostro impegno il lettore e lavorando su temi come l’innovazione: oggi ci sono moltissimi modi di scrivere e di leggere, che utilizzano le molteplici opportunità di innovazione rese possibili dal digitale”.

Contrapposizione tra centro e periferia
Secondo Francesca Leon, l’obiettivo della manifestazione sarà lavorare sulla promozione della lettura al livello nazionale costruendo un appuntamento dove trovino spazio i progetti, i festival, le fiere e gli eventi legati al mondo del libro. “Lavorare in cooperazione con uno scopo condiviso è condizione indispensabile per superare le competizioni territoriali che, se non sono inserite in un progetto di respiro nazionale, non riescono a incidere su un paese che legge poco”.

Ma, tornando alla città: non da ora e non solo a Torino quando si parla di cultura salta spesso fuori la contrapposizione tra quanto offre il centro della città e quanto avviene nelle periferie. C’è chi non parla più di periferie ma sostiene l’idea di una città policentrica. Torino ha avuto una storia non facile con le sue periferie: quartieri come Mirafiori o le Vallette hanno solo da poco le loro biblioteche, che peraltro funzionano splendidamente.

E a parere di Francesca Leon, occorre individuare una scala di priorità di intervento che tenga conto dello stato attuale del rapporto tra i cittadini e l’offerta culturale. “Entrando in una biblioteca e partecipando a un evento in piazza San Carlo si scoprono due volti della stessa città. Ma i rispettivi sguardi non si incontrano quasi mai”. Per lei si tratta di rispondere ai bisogni che arrivano dai primi pensando a un sistema culturale più inclusivo, che riesca ad arrivare laddove il grande evento non può farlo. “In questo senso dare priorità al sistema bibliotecario vuol dire rispondere ai bisogni di una moltitudine di persone: le biblioteche sono il principale presidio culturale in città e oggi sono in sofferenza per problemi strutturali, di distribuzione e di personale. Occuparsene vuol dire in primo luogo avere un quadro preciso delle risorse necessarie per affrontare le maggiori criticità, programmando gli interventi nel medio e lungo periodo”.

Naturale che per Leon, che come si è detto in questi anni si è occupata di musei, proprio il sistema museale sia un’altra priorità: lo è del resto a ben vedere in tutta Italia, visto e considerato che proprio all’interno del sistema museale è conservata una parte notevole del nostro patrimonio culturale. “Il fatto è che bisogna collegare maggiormente il lavoro delle istituzioni museali e dei beni culturali ai bisogni della città, sviluppandone la funzione educativa e la capacità progettuale”.

Per quanto riguarda la prima, individuando strumenti per conoscere meglio il rapporto tra scuole e musei, stabilendo un dialogo che ne favorisca una relazione dinamica; quanto alla seconda, favorendo le collaborazioni tra le istituzioni museali torinesi e tra queste e quelle italiane ed europee, allo scopo di produrre eventi espositivi, scambi formativi e di esperienze. Un capitolo a parte è poi quello rappresentato dal mondo dello spettacolo dal vivo. “Che oggi appare cristallizzato, mentre la riduzione di risorse calata anche su questo settore dal 2008 ha portato a una forte riduzione di compagnie e artisti che operano a Torino, imponendo alla maggior parte dei soggetti una contrazione della capacità di produzione e di investimento”.

La città policentrica
Da qui in avanti, mi spiega, le politiche dovranno operare verso una modalità diversa nell’attribuzione delle risorse pubbliche e nella gestione degli spazi, così da recuperare un rapporto virtuoso tra le grandi istituzioni e le compagnie di produzione professionali, tra le grandi orchestre e le organizzazioni musicali più piccole, tra i professionisti e i giovani che si avvicinano a questo mondo. “Ritengo che puntare sulla cooperazione e sulla crescita sia più efficace della mera competizione sulle risorse che, all’inverso, porta chiusura e autoreferenzialità”.
Francesca Leon a palazzo Madama, Torino, il 3 settembre 2016. – Daniele Ratti per Internazionale
Francesca Leon a palazzo Madama, Torino, il 3 settembre 2016. (Daniele Ratti per Internazionale)

Torino è oggi tra le città italiane più visitate. Spesso in un recente passato c’è stato chi ha rilevato come certe piazze auliche della città siamo state usate in modo inappropriato, allo scopo di ospitare manifestazioni simili alle sagre di paese. E in molti si chiedono se sia possibile conciliare il senso estetico e il rispetto del patrimonio urbanistico e architettonico con le esigenze di bilancio. “Torino non è solo le sue piazze auliche, la città è grande e si possono valorizzare altri circuiti coinvolgendo a raggiera altri spazi, creando nuovi circuiti per le manifestazioni che ne hanno bisogno. Questo non configge con le esigenze di bilancio, anzi, vuol dire operare perché Torino diventi effettivamente una città policentrica”.

I doveri di uno stato
Per tornare alla questione del “puntare sulla cultura”, Torino ha nel Politecnico un’eccellenza in grado di attirare studenti anche dal resto del mondo. Forse è questa una delle strade da percorrere, fare di Torino sempre più un luogo dove i giovani vogliano trasferirsi per studiare. Possibilmente non nei cinema o per strada, com’è accaduto ancora di recente a causa dei problemi di agibilità che affliggono palazzo Nuovo…

“Rendere Torino una città accogliente per i giovani è una priorità, non solo per chi studia”, mi dice l’assessora. “Ma perché questo accada non basta avere delle ottime università e una vita culturale dinamica. Occorre che quei giovani una volta finita l’università trovino lavoro in città e decidano di restare, di mettere su famiglia. Torino ha una disoccupazione giovanile altissima e se non si inverte la tendenza la città invecchia e le prospettive di sviluppo peggiorano”.

Uno dei temi più spinosi, per ciò che riguarda il patrimonio architettonico, è stato in questi ultimi anni quello del futuro della Cavallerizza, ovvero delle ex scuderie dei Savoia, un luogo di grande fascino iscritto dal 1997 tra i beni Patrimonio dell’Unesco e attualmente occupato.

Ho seguito le recenti vicende legate alla Cavallerizza e ne conosco la lunga storia dei tentativi di recupero e utilizzo, legata alle vicissitudini dei passaggi di proprietà e delle diverse destinazioni immaginate e percorse dalle giunte che si sono avvicendate negli ultimi 15 anni. A mio parere la destinazione dovrebbe essere a uso culturale, di servizio a enti, organizzazioni culturali e formative, proprio per la sua localizzazione al crocevia tra le più importanti istituzioni della città. A oggi la giunta sta approfondendo lo stato delle decisioni operate finora per capire come sarà possibile tracciare una nuova strada per la Cavallerizza.

Complice la crisi, oggi in Italia si dice che la cultura deve imparare a sostenersi senza più dipendere dai finanziamenti pubblici, convincendo con la bontà dei progetti anche sponsor privati. Ma c’è chi paventa il rischio di veder sopravvivere solo certe grandi realtà, e di vedere l’estinzione di esperienze magari validissime ma magari meno pop e dunque lontane dai grandi numeri. Francesca Leon scuote la testa.

Laddove vi è un patrimonio culturale pubblico da tutelare e valorizzare è dovere dello stato nelle sue diverse articolazioni farsene carico. E per patrimonio non intendo solo i beni culturali. L’obiettivo da porsi è sviluppare con i privati un rapporto di collaborazione che veda un impegno reciproco nel sostegno alla diffusione della partecipazione culturale, allo sviluppo delle idee e della loro realizzazione, puntando sulla capacità della città di diventare un luogo dove si produce cultura, dove le idee innovative prendono forma e crescono puntando alla loro sostenibilità nel tempo.

In questo senso, secondo lei, chi amministra una città ha il dovere di far emergere non solo il singolo ente, evento, manifestazione, ma come questo si inserisca nel progetto culturale complessivo, definendo obiettivi, strumenti e azioni che coinvolgano anche i soggetti privati interessati alla crescita e allo sviluppo della città. Si è fatto tardi, non voglio far perdere altro tempo alla mia interlocutrice, ma decido comunque di farle una domanda alla Marzullo, e le chiedo quale sia il suo sogno di assessora alla cultura. “Da quando sono stata nominata non ho avuto molto tempo per sognare e potrei dire che anche i bilanci non aiutano in questo senso. Preferisco restare con i piedi per terra e dare il mio contributo con il pragmatismo che mi è proprio, lavorando alla costruzione di futuro condiviso con la città”.

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Cultura, ripartire dalle periferie e da una cabina di regia museale

Virginia Raggi e la sua giunta hanno scelto di ampliare l’offerta culturale anche ai quartieri esclusi per anni da spettacoli e festival. Giusto anche ripensare all’Estate Romana spesso trasformata in divertificio commerciale.
Il contrasto è eloquentissimo. Ignazio Marino, Pd, insediandosi, puntò le sue carte mediatiche sulla pedonalizzazione dei Fori Imperiali parlando di archeologia e centro storico. Virginia Raggi e la sua giunta hanno scelto la rotta opposta: la partenza è dalle periferie, che hanno regalato al Movimento 5 Stelle la vittoria. La prima uscita pubblica è stata tra i topi e l’immondizia di Tor Bella Monaca (e qui si potrebbe aprire un dibattito sul fatto che, un tempo, un simile gesto sarebbe stato definito «di sinistra»). Virginia Raggi aveva parlato di periferie anche durante la conferenza stampa di presentazione del cartellone del teatro Stabile all’Argentina, chiedendo un’offerta anche per le «altre Rome» oltre il centro.

L’intervista che il neo assessore alla Cultura, Luca Bergamo, ha rilasciato a Paolo Fallai appare perfettamente su questa linea. Domanda: cosa serve subito alla cultura romana? Risposta: «Prima di tutto che la vita culturale torni a beneficio dei cittadini che la vivono in gran parte fuori dal centro storico: non solo come pubblico, ma partecipando in prima persona». Libertà è partecipazione, cantava Giorgio Gaber. Dunque il programma è chiaro e sarà interessante vedere come si declinerà e raggiungerà davvero le periferie, culturalmente abbandonate da troppi anni.

Altri elementi di interesse nell’intervista. L’aver detto ciò che quasi tutti pensano, cioè che l’Estate Romana è in troppi casi un divertimentificio commerciale assai lontano dalla cultura e dalle intenzioni nicoliniane: va ripensata con coraggio e lungimiranza. Giusto l’invito a Macro e Maxxi a parlarsi (nessuna Capitale al mondo ha due musei di arte contemporanea di tale prestigio anche architettonico, l’uso del denaro pubblico in entrambi i casi obbliga al raggiungimento del bene comune, cioè un’offerta coordinata e non competitiva).

Così come appare corretta l’analisi del sistema museale: da anni si chiacchiera (non si ragiona, magari così fosse) di una cabina di regia che coordini l’offerta e la politica delle mostre temporanee, ma egoismi e burocrazie hanno sempre affossato qualsiasi piano sensato. Meno chiara, invece, l’intenzione del neo assessore sulla Soprintendenza capitolina. Così come il giudizio sulle istituzioni: l’Opera, grazie a Carlo Fuortes, è diventata un’eccellenza internazionale e sarebbe bene dargliene pubblicamente atto. In quanto alle contrazioni di spesa sulla cultura, sarebbe bene non demonizzare il possibile contributo, anche in termini di sponsor, dei privati. Sarebbe un gesto antistorico e autolesionista.

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Renzi: “Contro il terrorismo diamo tanti soldi alla cultura”

Il premier alla riunione sulla sicurezza con i capigruppo «Al momento nessuna minaccia specifica all’Italia».
Cultura, cultura e ancora cultura: per contrastare l’emergenza terrorismo bisogna anche «mettere denari veri sulle aree urbane», parola del premier Matteo Renzi, che così ha voluto aprire la riunione sulla sicurezza con i capigruppo parlamentari a palazzo Chigi. «Serve un gigantesco investimento in cultura, sulle periferie urbane, un investimento sociale – ha sottolineato il premier – Continuo a pensare che l’aspetto educativo per sconfiggere minacce nate e cresciute in Europa sia fondamentale».

E ancora: «Abbiamo, come tutti i partner, messo in campo tutte le misure di sicurezza necessarie, anche se non risulta ad ora una minaccia specifica in Italia», è stata una lunga riunione, oltre due ore, ieri mattina a Palazzo Chigi con i capigruppo di maggioranza e opposizione sulla sicurezza interna del Paese, all’indomani degli attentati che hanno colpito aeroporto e metropolitana di Bruxelles.

«Occorre stringere sui meccanismi di intelligence fra i Paesi europei e non solo, valorizzare Europol, lavorare su una struttura condivisa. E mettere denari veri sulle aree urbane. Serve un gigantesco investimento in cultura, sulle periferie urbane, un investimento sociale. Continuo a pensare che l’aspetto educativo per sconfiggere minacce nate e cresciute in Europa sia fondamentale», ha specificato il premier.

Il presidente del Consiglio ha ribadito ancora la necessità di superare le «divisioni politiche e partitiche» per poter recuperare il «senso di comunità» necessario a fare fronte alla minaccia terroristica. Ecco, allora, la decisione di riconvocare il vertice che, in passato, è seguito alle giornate drammatiche di Parigi, ma che era stato convocato più volte per tenere aggiornati i gruppi Parlamentari sullo stato dell’arte per quel che riguarda la sicurezza.

Allo stesso tavolo, oltre ai capigruppo, sedevano il premier, i ministri Alfano e Gentiloni, il sottosegretario con delega ai servizi Marco Minniti. Nella stessa riunione è stata data anche la notizia che ci sarebbe – il condizionale è d’obbligo a verifiche in corso – una vittima italiana tra quanti hanno perso la vita negli attentati. Si tratterebbe di una donna, che ha perso la vita nell’esplosione della metro di Molenbeek, risultata dispersa e il cui corpo è stato reso irriconoscibile dalla violenza della deflagrazione. I famigliari sono ora al consolato per avviare le procedure per il riconoscimento, ha riferito il presidente dei deputati Ncd, Maurizio Lupi.

«Ci hanno aggiornato sulle ultime notizie e una riunione riservata e compito nostro non divulgare informazioni delicate», ha tenuto a dire il capogruppo di FI al Senato, Paolo Romani: «Ci è stato fornito un aggiornamento efficace ed efficiente. Il ministro Alfano ci ha rassicurato su un’opera di prevenzione che viene fatta nel nostro Paese».

«Il problema è capire se l’attentato avvenuto ieri è stato in conseguenza dell’arresto di Salah o se fosse preordinato. Probabilmente c’era una progettualità già in campo che ha subito una accelerazione dall’arresto», è stata la risposta di Alfano. «Il fatto sorprendente è che Salah è rimasto lì a poche centinaia di metri da casa sua…».

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Indulgenze e dialogo ecumenico

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Uno degli aspetti particolari del Giubileo è la questione delle indulgenze, su cui papa Francesco ha introdotto novità rilevanti che vanno sottolineate. Si tratta di un istituto di origine medievale che, nella teologia cattolica, rappresenta la remissione, per intervento della Chiesa, della pena corporea o spirituale che resterebbe da scontare (sulla terra o in purgatorio) in seguito ai peccati commessi, dopo che sia avvenuto il perdono della colpa e la riconciliazione nel sacramento della penitenza.

La prassi delle “commutazioni” permetteva di collegare un’indulgenza a pagamenti in denaro (elemosine) o a restauri di chiese. La predicazione delle indulgenze in cambio di elemosine per ricostruire la basilica di S. Pietro, con i connessi abusi (vendita delle indulgenze), fu uno dei motivi dello scontro di Martin Lutero con l’arcivescovo Alberto di Magonza e poi con la S. Sede.

Nel 1967 Paolo VI ha confermato la tradizione con la costituzione apostolica Indulgentiarum Doctrina, ripresa dal Catechismo del 1992.

Ora, nella Bolla di indizione del Giubileo, papa Francesco parla di “indulgenza” e non più di “indulgenze” e non si fa più riferimento alla “remissione della pena temporale dei peccati”.

Si può dire che siamo davvero di fronte ad una rottura rispetto al passato, come ce ne sono state altre nella storia della Chiesa?

Ce lo dirà il dialogo che nel 2017 si avvierà tra i cattolici e i cristiani evangelici, a 500 anni dall’inizio della Riforma protestante. Bisognerà forse fare un ulteriore passo avanti, superando nella riconciliazione tra l’uomo peccatore e Dio la dichiarazione dei propri peccati al confessore. Nella Bolla giubilare ancora permane la centralità “sacerdotale” del ministro del culto cattolico come luogo della misericordia. Nelle altre chiese cristiane la remissione del peccato avviene, invece, nella centralità del rapporto diretto con Dio.

Ma, intanto, qualcosa si è mosso e sembra andare nella giusta direzione. Per ben sperare, occorre rimuovere gli intralci nel percorso del dialogo ecumenico.

 

Fonte : afonsopascale.it apri l’articolo originale



Illuminiamo le periferie con la Cultura

In questa calda estate a Roma in modo del tutto spontaneo delle associazioni come Artenova, diretta da Gino Ariuso, hanno organizzato I VIAGGI DELL’ARTE, un’offerta di teatro, musica e più in generale di spettacolo dal vivo, composita e policentrica per una fruizione efficace nel territorio dei Municipi XI e XIV della Capitale. Altre due associazione TAMTAM e Spinaceto Cultura, hanno organizzato a Spinaceto nel territorio del IX Municipio degli incontri culturali sul Film d’autore di Alfred Hichocok.

Esperienze diverse non coordinate che hanno visto un pubblico periferico attento e partecipato. Segnaliamo la disponibilità di Giorgio Albertazzi che alla Magliana e alla Torresina Municipi XI e XIV partecipa invertendo il percorso culturale. Un maestro dell’Arte Giorgio Albertazzi va in periferia ad incontrare le persone con un messaggio di cultura.

Inoltre portare la musica classica con l’ esibizione di due maestri “ Duo Mephisto” con pianoforte a Coda con musiche ritenute erroneamente difficili al pubblico più vasto e popolare altra dimostrazione di domanda di cultura.

Altra esperienza, fatta all’estrema periferia di Roma, Spinaceto Municipio IX, la proiezione di due film muti “ Il giardino del piacere” e il “Pensionante” del maestro del cinema Alfred Hitchcock con una partecipazione molto numerosa rispetto ai film più classici sonori del maestro come “La finestra sul Cortile” e Psyco”.

Esperienze diverse, non coordinate sui territori dei Municipi IX, XI, XIV, alcune con il contributo dell’Estate Romana, altre in modo spontaneo e sperimentale. Il territorio metropolitano di Roma è 14 volte quello della città di Milano, ma queste esperienze ci raccontano centralità diverse della città Eterna, con un desiderio di cultura che se organizzato può portare sviluppo, occupazione e riqualificazione del territorio.

Corviale, Trullo – Montecucco, Magliana, Spinaceto, Torresina, luoghi che per molti non ne conoscono l’esistenza, e/o diventano noti per episodi di criminalità, ma con una domanda di cultura da parte delle persone che vi abitano. Un esperienza, portata in modo sperimentale e senza organizzazione, ha dimostrato che con la “cultura si mangia” intellettualmente e materialmente.

Illuminare le periferie con la cultura, è un modo semplice ed efficace che può avere molte declinazioni, usando anche la tecnologia digitale, con strumenti messi a disposizione dei vari servizi pubblici per la qualificazione dei territori e per l’integrazione sociale tra le diverse culture.

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Papa Francesco: più cultura e più politica per l’ambiente

L’enciclica “Laudato si’” di papa Francesco andrebbe letta più volte per immedesimarsi davvero nel suo estensore. E se ne può comprendere pienamente il senso solo dopo un confronto tra più punti di vista, da sviluppare con un approccio multidisciplinare: teologico, storico, filosofico, antropologico, scientifico. Quello che non bisognerebbe fare è intruppare il papa nelle proprie “guerre sante” ma rispettare lo spirito del documento che apre a tutte le posizioni e invita al dialogo fecondo.

L’impressione che ne ricavo dopo una prima lettura è che ci troviamo dinanzi ad un testo che ambisce, infatti, ad un confronto a tutto campo con tutti, indipendentemente dai convincimenti religiosi, filosofici e politici. Non solo coi credenti e non solo con gli uomini di buona volontà; tutti dovremmo poter dialogare per contaminarci vicendevolmente. Un testo che offre un’analisi della questione ambientale intimamente connessa alla questione sociale e che guarda con rispetto a tutte le posizioni in campo. Un testo che parte da una profonda fiducia nell’uomo e nella sua capacità di produrre un cambiamento e dall’idea che qualsiasi persona che abiti il pianeta possa assumersi la sua quota di responsabilità nell’affrontare la crisi sociale e ambientale, contribuendo a promuovere uno “sviluppo sostenibile e integrale”.

L’enciclica sul rapporto tra uomo e ambiente si colloca nel solco già scavato dalla lettera apostolica di Paolo IV “Octogesima adveniens” del 1971. In quel testo si parlava esplicitamente di “sfruttamento sconsiderato della natura” e del rischio incombente che l’uomo potesse “distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione”. Successivamente, Giovanni Paolo II ha invitato ad una conversione ecologica globale e Benedetto XVI ha proposto di riconoscere che l’ambiente naturale è pieno di ferite prodotte dal nostro comportamento irresponsabile. Gran parte del testo serve dunque a ribadire posizioni già espresse dai predecessori.

Il documento contiene un’ampia panoramica della crisi ecologica e delle ipotesi di soluzione in campo allo scopo di assumere i migliori frutti della ricerca scientifica oggi disponibile: inquinamento, rifiuti, cultura dello scarto, cambiamenti climatici, acqua, perdita di biodiversità, deterioramento della qualità della vita e della mobilità nelle città sono i temi affrontati. E nell’individuare la causa di fondo di tali problemi punta il dito sulla condizione di isolamento in cui oggi si trova l’individuo e la continua erosione delle relazioni interpersonali come esiti diretti del modello di sviluppo economico, fondato sull’idea della crescita illimitata, e delle innovazioni tecnologiche introdotte non più mediante un’osmosi tra conoscenza scientifica e saperi esperienziali ma mediante forme di dominio esercitate da forze potenti.

Non ci sono novità rilevanti

Non si riscontrano novità su diversi temi a partire dall’aborto, la cui giustificazione è ritenuta incompatibile con la difesa della natura (“Non appare praticabile un cammino educativo per l’accoglienza degli esseri deboli che ci circondano, che a volte sono molesti o importuni, quando non si dà protezione a un embrione umano benché il suo arrivo sia causa di disagi e difficoltà”). Anche riguardo al tema delle politiche di controllo della natalità, l’enciclica non mostra aperture: secondo papa Francesco, infatti, “la crescita demografica è pienamente compatibile con uno sviluppo integrale e solidale”, in maniera che “incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni è un modo per non affrontare i problemi”.

Resta, dunque, aperto il problema del rapporto tra crescita demografica e squilibrio nella distribuzione della popolazione nel territorio e, a tale proposito, s’invoca la costruzione di un’etica delle relazioni internazionali per l’uso delle risorse ambientali, ma non si indicano dei principi a cui attenersi.

Tra i temi che non presentano novità merita di essere segnalato quello degli Organismi geneticamente modificati (Ogm). Checché ne dica Carlo Petrini, nel documento non c’è affatto una condanna di questa tecnologia, bensì viene ravvisata la necessità di “assicurare un dibattito scientifico e sociale che sia responsabile e ampio”. Scrive il papa: “Quella degli Ogm è una questione di carattere complesso, che esige di essere affrontata con uno sguardo comprensivo di tutti i suoi aspetti, e questo richiederebbe almeno un maggiore sforzo per finanziare diverse linee di ricerca autonoma e interdisciplinare che possano apportare nuova luce”. C’è qui una critica molto esplicita a talune scelte degli Stati, a partire dal nostro Paese, che da tre lustri non finanziano più linee di ricerca sugli Ogm, come denunciato ultimamente in Parlamento dalla senatrice Elena Cattaneo.

Per quanto riguarda il tema della crescita economica, bisogna fare attenzione a non fraintendere il termine “decrescita” nelle proposte del papa: alcune attività e realtà devono decrescere (quelle ad alto impatto ambientale) e altre devono crescere (quelle innovative a minore o nullo impatto). La critica è rivolta al mito della priorità della crescita economica senza qualità sociale e ambientale e non già alla crescita sostenibile.

Una novità sembra essere il passaggio sulle dinamiche dei media e del mondo digitale, “che, quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità”. E si auspica “uno sforzo affinché tali mezzi si traducano in un nuovo sviluppo culturale dell’umanità e non in un deterioramento della sua ricchezza più profonda”. È del tutto condivisibile l’idea che “la vera sapienza, frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone, non si acquisisce con una mera accumulazione di dati” e che la comunicazione mediata da internet “permette che condividiamo conoscenze e affetti, benché, a volte impedisce di prendere contatto diretto con l’angoscia, con il tremore, con la gioia dell’altro e con la complessità della sua esperienza personale”. Torna anche in questo caso, la giusta preoccupazione per l’esito insoddisfacente nelle relazioni interpersonali e per i rischi di un dannoso isolamento dell’individuo.

Papa Francesco

Papa Francesco

Le responsabilità della politica e della società civile

La forza dell’enciclica va ricercata nelle parole usate per sottolineare l’aggravamento della crisi ambientale e le responsabilità della politica e del mondo della cultura: “Il problema è che non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi e c’è bisogno di costruire leadership che indichino strade, cercando di rispondere alle necessità delle generazioni attuali includendo tutti, senza compromettere le generazioni future”. E l’affondo continua così:  “Si richiede dalla politica una maggiore attenzione per prevenire e risolvere le cause che possono dare origine a nuovi conflitti. Ma il potere collegato con la finanza è quello che più resiste a tale sforzo, e i disegni politici spesso non hanno ampiezza di vedute”. Il papa imputa, dunque, l’aggravamento dei problemi ambientali alla mancanza di una classe dirigente di rilevanza mondiale che sappia agire con lungimiranza e in piena autonomia rispetto ai poteri finanziari.

Ma il dito è puntato anche verso una società civile incapace di confrontarsi rispettosamente su temi di così vasta portata. Il documento del papa riconosce infatti “che si sono sviluppate diverse visioni e linee di pensiero in merito alla situazione e alle possibili soluzioni”. C’è chi afferma – ricorda il pontefice – che i problemi ecologici si risolveranno semplicemente con nuove applicazioni tecniche, senza considerazioni etiche né cambiamenti di fondo. Altri ritengono che la specie umana, con qualunque suo intervento, possa essere solo una minaccia e compromettere l’ecosistema mondiale, per cui converrebbe ridurre la sua presenza sul pianeta e impedirle ogni tipo di intervento. “Fra questi estremi – afferma Francesco – la riflessione dovrebbe identificare possibili scenari futuri, perché non c’è un’unica via di soluzione. Questo lascerebbe spazio a una varietà di apporti che potrebbero entrare in dialogo in vista di risposte integrali”.

Il dialogo tra saperi diversi

L’enciclica dedica poi un capitolo alle convinzioni di fede che derivano dalla sapienza dei racconti biblici e che vengono offerte come contributo fecondo al dibattito tra scienza e fede, tra fede e ragione: elementi questi che si collocano su piani diversi ma possono integrarsi, alimentando una conoscenza reciproca tra culture, religioni, arti, convinzioni filosofiche, acquisizioni scientifiche.  Anche in questo caso non viene stravolta la visione tradizionale della Chiesa sul rapporto tra essere umano e natura ripresa dalla Genesi, che pone l’essere umano al centro del mondo naturale, con la responsabilità di prendersene cura. Una lettura, questa, che – da quando, nel 1967, Lynn White, studioso statunitense di storia medievale, definì il cristianesimo come la religione più antropocentrica del mondo – si è spesso attirata l’accusa di cadere in un eccessivo antropocentrismo, presentando l’essere umano come “signore della creazione”, con il compito di soggiogare la natura e di domarla a suo piacere, e ponendo l’universo semplicemente al suo servizio. Una visione a cui è stata ricondotta, anche, la responsabilità di aver alienato l’essere umano dall’ambiente, in quanto l’unico “a immagine e somiglianza di Dio”, dunque non realmente naturale, e di aver separato in maniera netta Dio dalla natura, spogliando questa di ogni sacralità e in tal modo svalutandola e riducendola a una materialità inerte, senza alcuna rilevanza salvifica.

Anche a giudizio del papa “il pensiero ebraico-cristiano ha demitizzato la natura”, in quanto, “senza smettere di ammirarla per il suo splendore e la sua immensità, non le ha più attribuito un carattere divino”. Ma in ciò egli vede, al contrario, un’ulteriore sottolineatura del “nostro impegno nei suoi confronti”: “Un ritorno alla natura non può essere a scapito della libertà e della responsabilità dell’essere umano, che è parte del mondo con il compito di coltivare le proprie capacità per proteggerlo e svilupparne le potenzialità”. Come pure il papa riconosce all’essere umano, “benché supponga anche processi evolutivi”, “una novità non pienamente spiegabile dall’evoluzione di altri sistemi aperti”, “una singolarità che trascende l’ambito fisico e biologico”: “La novità qualitativa implicata dal sorgere di un essere personale all’interno dell’universo materiale presuppone un’azione diretta di Dio, una peculiare chiamata alla vita e alla relazione di un Tu a un altro tu”.

L’approfondimento serve al pontefice per respingere un’accusa contro il pensiero giudaico-cristiano che avrebbe favorito lo sfruttamento selvaggio della natura, ricavando dal racconto della Genesi un’immagine dell’essere umano come dominatore e distruttore.  “Coltivare” e “custodire” la terra, di cui parla il testo biblico, sono due concetti che si completano a vicenda e implicano una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura. “Ogni comunità – argomenta l’enciclica – può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla e garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future”. La Bibbia non dà adito, dunque, ad un antropocentrismo dispotico che non si interessi degli altri viventi.  E la Chiesa non dice in maniera semplicistica che le altre creature sono completamente subordinate al bene dell’essere umano, come se non avessero un valore in sé stesse e noi potessimo disporne a piacimento. La sapienza biblica è pervasa dalla convinzione che “tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri”. Insomma, il papa prende le distanze dall’”ossessione di negare alla persona umana qualsiasi preminenza”. E nega che “un antropocentrismo deviato” possa lasciare il posto “a un biocentrismo”, perché ciò implicherebbe introdurre un nuovo squilibrio, che non solo non risolverebbe i problemi, bensì ne aggiungerebbe altri.

L’enciclica opera uno sforzo evidente per superare gli aspetti più anti-ecologici della tradizione giudaico-cristiana: sia riconoscendo agli altri esseri viventi un valore proprio di fronte a Dio; sia ricordando “che noi stessi siamo terra”; sia abbracciando una visione olistica, in cui tutto è intimamente connesso, tutto è in relazione, tutti gli esseri formano “una sorta di famiglia universale”.

Rifondare il rapporto tra scienza, tecnica e società

La lettura di questo capitolo sulle convinzioni di fede ci riporta, per molti versi, a quella cultura contadina che compone la linfa vitale delle radici delle nostre società odierne.  La trasformazione della natura a fini di utilità è una caratteristica del genere umano fin dai suoi inizi, e in tal modo la tecnica “esprime la tensione dell’animo umano verso il graduale superamento di certi condizionamenti materiali”.

Del resto, la nascita dell’agricoltura, diecimila anni fa, combinandosi con l’uso di simboli, misure, calcolo e scritture, rese possibile lo sviluppo della scienza applicata.  E ciò ha consentito alle società umane di evolvere verso forme di organizzazione complesse. La cultura agricola esperienziale, propria del mondo rurale, e quella scientifica, agronomica ed economico-agraria, si sono entrambe caratterizzate, fino agli albori degli anni sessanta, per la loro capacità di far convivere una visione economico-produttivistica dell’attività agricola con una visione conservativa delle risorse ambientali.

Nella cultura contadina è presente da un tempo immemorabile l’idea che la terra in determinate condizioni “si stanchi”. Ora, l’idea di stanchezza attiene ad un organismo vivente e il fatto che i contadini abbiano sempre associato questa condizione anche alla terra per rispettarne il decorso è la prova di un profondo senso di responsabilità nei confronti di questo bene.  Il momento in cui avviene la rottura tra la conoscenza scientifica e la cultura agricola esperienziale e, dunque, dell’equilibrio tra visione produttivistica dell’attività agricola e visione conservativa delle risorse ambientali va, a mio avviso, collocata dagli anni sessanta in poi con il venir meno progressivamente di un impegno pubblico nella trasmissione del progresso tecnico e, più complessivamente, nelle politiche territoriali che guardano non solo al sostegno agli investimenti ma anche alle attività educative e di crescita culturale.

Da lì bisogna ripartire, con una visione globale dei problemi ambientali e coinvolgendo l’insieme dei cittadini, per ridefinire il rapporto tra scienza, tecnica e società, rifondandolo sulla responsabilità, sull’educazione e sull’interazione dei saperi. Da questa angolatura, l’enciclica contiene un’impostazione chiara, aperta e fiduciosa. E potrà sicuramente essere di stimolo ad una ripresa del confronto su questioni decisive che riguardano il futuro dell’umanità, se tutti accettiamo l’invito all’ascolto reciproco.

Testo dell’Enciclica


Fonte : afonsopascale.it apri l’articolo originale




Innovare restando fedeli a se stessi

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È difficile parlare di questi tempi agli imprenditori italiani. Soprattutto di argomenti apparentemente astratti, non legati a qualche provvedimento fiscale o a qualche aiuto comunitario. Coloro che fanno impresa in Italia sembrano smarriti e sfiduciati. Al di là degli annunci del governo e di qualche scampolo di riforma che si è riusciti a realizzare, i risultati sono magri e non si avvertono segnali significativi di ripresa. Negli Stati Uniti si è avviato un nuovo ciclo di sviluppo industriale fondato su internet e sulla robotica e, naturalmente, su una trasformazione totale del lavoro sia dipendente che imprenditoriale e su forme totalmente nuove dell’abitare.  Il governo cinese ha varato un programma di costruzione di nuove città dove si trasferiranno entro il 2020 cento milioni di contadini che lasceranno le campagne. I nuovi centri urbani che stanno per nascere non saranno le metropoli fordiste che si sono sviluppate in occidente tra l’ottocento e il novecento. Ma le città-territorio che assorbono gli antichi conflitti tra città e campagna in nuovi equilibri sociali, economici e territoriali, in nuove modalità dell’abitare, mettendo insieme tecnologie digitali, robotica, biotecnologie.  Dove la crisi viene affrontata seriamente, s’investe in sviluppo e innovazione, puntando su ricerca, sperimentazione e istruzione. Si sogna e s’inventa coi piedi per terra. Non si piange e non ci si dispera. Si aguzza il cervello per trovare strade nuove, mai percorse.

In Italia stiamo sulla difensiva

In Italia pensiamo invece di affrontare le difficoltà, stando sulla difensiva. Ci riteniamo l’ombelico del mondo. Interpretiamo il made in Italy come un’arma con cui perseguire improbabili disegni neonazionalisti e, nello stesso tempo, autarchici. Molti sciamani ogni giorno riempiono le prime pagine dei giornali per dispensare a piene mani l’illusione che l’economia italiana possa riprendersi facendo leva esclusivamente sui nostri beni storico-culturali e ambientali e sulle nostre tipicità. Basterebbe – secondo questi venditori di fumo – mettere insieme un po’ di agricoltura e turismo. Niente industria e niente città. Come se l’industria fosse finita con la conclusione del ciclo fordista e la città fosse esaurita con la fine della metropoli. Tra queste lugubri voci che si levano nella foresta preannunciando imminenti catastrofi e improbabili ritorni all’eden, la maggior parte dell’imprenditoria italiana non sa come reagire ed è allo sbando.

È in tale contesto che ho accettato volentieri l’invito di Riccardo e Raoul Ranieri – gestori dell’oleificio fondato nel 1930 a Città di Castello da Domenico Ranieri – ad una iniziativa organizzata a Palazzo Vitelli nella cittadina umbra, in collaborazione con il mio amico oleologo Luigi Caricato, dal titolo significativo: La ricchezza intangibile dell’olivo. Abbiamo così potuto parlare di cultura, crescita, innovazione, futuro in un confronto molto appassionato e non scontato tra giornalisti, scrittori e operatori economici. C’erano con me, oltre naturalmente Luigi Caricato, Giorgio Boatti, Maria Latella e Brunello Cucinelli.

La vocazione originaria dell’agricoltura

Ho raccontato come diecimila anni fa nacque l’agricoltura. Si tratta di ieri se rapportiamo questo tempo ai milioni di anni che ci separano dalla comparsa dei primati sulla terra. Da sempre i gruppi umani si spostavano da un punto all’altro del globo alla ricerca di piante spontanee o di animali da predare per ricavarne del cibo. Allora alcune donne, stanche di quella vita nomade che mal si adattava alle funzioni riproduttive, incominciarono ad osservare come avveniva la crescita e la fioritura di una pianta. Carpendo i segreti della natura, intuirono un fatto straordinario: dal momento della semina di una cultivar di frumento, selezionata tra tante in natura, e il tempo del raccolto, sarebbe trascorso un anno. E rimuginarono che quello era il tempo sufficiente per portare avanti una gravidanza. Gioirono al pensiero di quella intuizione. Finalmente potevano dare un senso e una giustificazione al loro bisogno di fermarsi e di mettere radici in un determinato territorio.  I maschi continueranno ancora per alcuni millenni ad andare a caccia di animali e a raccogliere frutti spontanei. Per loro il mondo non aveva un luogo ma ovunque ci fosse cibo era una meta da raggiungere e poi abbandonare. Le prime comunità stanziali saranno, dunque, formate prevalentemente da donne, bambini e anziani.

Come si può constatare da questo racconto, l’agricoltura non nasce per produrre cibo, come oggi siamo portati a credere per effetto di una comunicazione superficiale e non fondata sulla cultura e sulla scienza. Il cibo già c’era ed era in abbondanza. L’agricoltura nasce per dar vita alle prime comunità umane stanziali. Nasce come forma di vita collettiva, come opportunità per acquisire un primo e rudimentale approccio scientifico nelle attività umane, come ambito di regolazione condivisa per utilizzare le risorse ambientali comuni e così organizzare al meglio le attività comunitarie di cura. La coltivazione della terra sorge come attività di servizio per poter abitare un determinato territorio. Il significato più profondo di coltivare è servire la natura e la comunità al fine di abitare dignitosamente in un luogo. La lingua tedesca chiama con una medesima voce l’arte di edificare e l’arte di coltivare; il nome dell’agricoltura (Ackerbau) non suona coltivazione, ma costruzione; il colono è un edificatore (Bauer). Nel Mediterraneo non sono le città a nascere dalla campagna: è la campagna a nascere dalle città, che è appena sufficiente ad alimentarle. I contadini mediterranei hanno sempre voluto vivere nelle città – i luoghi degli scambi – dove poter svolgere attività molteplici e avere rapporti continuativi e fecondi con altre città, nonché con la cultura e la scienza. Se si legge attentamente il poema di Esiodo Le Opere e i Giorni, scritto tremila anni fa, si può notare che l’attività agricola è considerata come un servizio, un rito religioso. I lavori e gli scambi sono organizzati sulla base del principio di reciprocità. Essi consistono soprattutto nell’aiuto tra i vicini. La terra è ritenuta una divinità da servire. Essa impartisce i propri comandi mediante il rigore delle stagioni e i cicli regolari della vita vegetale. Noi oggi conosciamo bene le modalità e gli effetti dell’asservimento dell’uomo alla macchina. Ma nell’attività agricola c’è un asservimento ancor più avvolgente alle regole di buon vicinato, ai tempi dettati dalla natura, dal clima, alla resistenza del terreno, alle regole per preservare la fertilità del suolo, alle regole per utilizzare l’acqua in modo parsimonioso. Coltivare non è solo manipolare la natura: è prima di tutto servire la comunità e la natura. Il raccolto del prodotto della coltivazione era funzionale ad una pluralità di impieghi che permettevano l’insediamento stanziale. Solo una parte di quel prodotto serviva ad integrare i frutti spontanei e le proteine animali di terra e di mare. Sin dalle origini l’olio da olive è stato impiegato in una molteplicità di usi. La sfera alimentare si mantiene sempre secondaria. Gli impieghi prevalenti sono nell’illuminazione e nell’industria laniera per poter abitare più agiatamente le città e vestirsi in modo più adeguato. La nascita dell’agricoltura ha costituito un potente correttivo di civiltà.

Il cibo come scambio tra culture diverse

Sin dall’invenzione dell’agricoltura, il cibo e l’atto del mangiare hanno costituito un veicolo di pratiche e dispositivi culturali, capaci di fornire una rappresentazione dei mondi altri. Più ancora della parola, il cibo si presta a mediare tra culture diverse aprendo i sistemi di cucina ad ogni sorta di invenzioni, incroci, sincretismi, ibridismi e contaminazioni. Conoscere le culture alimentari di un gruppo e scambiare i cibi può, dunque, costituire una pratica che favorisce l’integrazione.

Educare invece a un’alimentazione autarchica e chiusa agli scambi con altre culture, significa negare in radice l’assunto di fondo della nostra cultura del cibo. È davvero penoso e ignobile che s’insinui nei nostri ragazzi – così come sta accadendo mediante programmi di comunicazione e promozione impropriamente finanziati dal pubblico – un odioso pregiudizio: l’idea che l’olio e le olive degli altri paesi che s’affacciano sul Mediterraneo siano di per sé scadenti. E che lo stigma sia inculcato magari in presenza di ragazzi i cui genitori sono originari proprio di quei paesi. Un’umiliazione inflitta a questi nostri nuovi concittadini senza una qualche plausibile giustificazione, specie ora che l’Italia diventa sempre più multietnica.

L’idea che una specie alimentare del mio giardino sia più buona di un ortaggio che arrivi da terre lontane non appartiene alla nostra storia alimentare. Non era mai accaduto che il cibo costituisse un elemento identitario così forte da essere utilizzato per definire un confine invalicabile tra sé e i “barbari” che ci minacciano. Se guardiamo alle nostre tradizioni culinarie si trova sempre un atteggiamento di grande apertura e curiosità nei confronti di qualsiasi specie esotica. La nostra alimentazione presenta stratificazioni e sedimentazioni originatesi in epoche storiche e in spazi geografici lontani; è riflesso e testimonianza di arrivi, passaggi, incontri, commistioni, fluttuazioni, intensi dialoghi con il mondo mediterraneo, l’Oriente, l’Europa continentale e le Americhe. Insomma, le radici della nostra identità alimentare si diramano molto lontano da noi.

Con l’avvento della globalizzazione ci è sembrato che il cibo potesse subire un processo di appiattimento. E saggiamente abbiamo reagito a questo fenomeno valorizzando le diversità. La normativa europea sulle denominazioni d’origine ci ha voluto rammentare che le identità possono essere molteplici. Il cittadino di Matera (che si riconosce nel cibo della sua città e delle sue campagne) non è solo un membro del villaggio globale ma è anche cittadino di Basilicata, d’Italia, d’Europa. E ciascuna di queste identità – tutte mutevoli e in costruzione – vuole i suoi simboli alimentari.

Ma queste multiformi identità hanno tutte pari dignità. Nessuna possiede, sul piano simbolico, uno spessore culturale che sovrasta l’altra. Anzi convivono pacificamente e vanno sempre più a integrarsi e completarsi a vicenda. Solo da noi la cultura della tipicità, da strumento di affermazione del pluralismo delle identità, viene esasperata fino al punto di trasformarla in arma con cui tentare di difendersi nella competizione globale. Da strumento per far convivere identità diverse, la tipicità è diventata elemento scatenante di conflitti tra chi ritiene di affermare l’identità e chi viene accusato di volerla annientare, tra chi presume di tutelare la vera ed unica identità e chi viene tacciato come il paladino della non-identità. Una concezione che esclude ogni collaborazione con le agricolture di altri Stati, considerate come nemiche da combattere. Il tutto condito di una diffusa avversione alla scienza, dettata spesso da timori egoistici e paure millenaristiche; avversione che impedisce l’innovazione.

La nuova ruralità è un’innovazione sociale

L’innovazione, infatti, non si fonda sullo scambio di prodotti autarchicamente pronti e finiti, ma sullo scambio di idee. È per questo che oggi si tende a definirla come innovazione sociale. Solo mettendo insieme le idee, collaborando tra agricolture di paesi diversi, partecipando culturalmente a un processo e integrando apporti scientifici multidisciplinari, riusciamo a realizzare un’innovazione.

Come diecimila anni fa, una nuova agricoltura sta silenziosamente introducendo un correttivo di civiltà. In una globalizzazione che pare aver smarrito il senso del luogo, dagli anni settanta in poi va riemergendo un’agricoltura di servizi che pochi riescono a scorgere e a valutare nel suo significato più autentico. Un’agricoltura sociale che ricostruisce territori e comunità, sperimenta nuovi modelli di welfare, promuove inserimenti socio-lavorativi di persone svantaggiate in contesti non assistenzialistici ma produttivi. Un’agricoltura civile che reintroduce nello scambio economico il mutuo aiuto e la reciprocità delle relazioni interpersonali.

Ancora una volta sono le donne a guidare questo processo di innovazione: non a caso la loro presenza è significativa proprio nelle attività agricole di servizi. Questa nuova agricoltura non mette in alternativa la dimensione territoriale e quella dell’internazionalizzazione. Non si chiude a riccio contro le multinazionali, l’industria, il commercio, i servizi, la ricerca, la scienza. È consapevole  che la rivoluzione tecnologica in atto offre enormi opportunità per individuare percorsi di sviluppo, costruire reti che si diramano nei territori e nel mondo.  L’importante è restare fedeli a se stessi, alla propria vocazione: quella dell’agricoltura è produrre beni relazionali e legami comunitari e poi viene tutto il resto.

 

Fonte : afonsopascale.it apri l’articolo originale



Estate Romana a Corviale

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CORVIALE CULT

ESTATE ROMANA A COSTO ZERO

Concerti, incontri con scrittori, mostre, cinema, documentari, teatro, fumetti e tanto altro a entrata gratuita.

La conferenza stampa di presentazione si terrà presso Pizzeria Ciro, bene confiscato alla Mafia, in Piazza Della Maddalena, 10 (Pantheon)

Saranno presenti i rappresentanti delle associazioni coinvolte e alcuni degli artisti presenti nel programma.

Corviale: Estate Romana a Costo Zero intende portare all’attenzione dei cittadini e delle Istituzioni la ricchezza socio-culturale della periferia di Corviale e anche di altre realtà periferiche della nostra città. I territori debbono essere ascoltati, conosciuti e valorizzati secondo quanto emerge dalla realtà concreta e dalla capacità di muovere energie e sentimenti.

Indicare spazi su cui fare manifestazioni o eventi e su questi costruirci bandi, iniziative e altro rappresenta un concetto di cultura ”mordi e fuggi” che non sedimenta crescita e sperimentazione nei territori perchè elaborato sulla carta e non sul consumo, come si dice a Roma, di “tacchi e suole” e cervello.

Estate Romana a Costo Zero è un paradigma con cui si deve lavorare per creare cultura strutturata nelle periferie dove gli enti locali possono portare valore aggiunto integrandosi nel vissuto culturale quotidiano. In questo paradigma la nostra realtà ha avuto un pubblico-privato che, seppur con diversità e differenze, ha saputo svolgere il proprio ruolo con passione e competenza mettendoci del proprio. Ci siamo conosciuti con una ricerca territoriale, ci siamo messi in rete e, dopo aver valutato le possibilità, ognuno con il suo contributo ha dato risposte e prodotto attività, eventi, sedimentazioni e relazioni.

Corviale: Estate Romana a Costo Zero è la prima sintesi delle opportunità e delle capacità di rigenerarsi che la Comunità mette in “mostra”. Lo fa all’interno del circuito territoriale e lo porta all’attenzione sia della Comunità cittadina che delle Istituzioni.

Con un programma vario e ricco, di grande interesse e soprattutto ad ingresso gratuito, vogliamo dimostrare che realizzare un programma di eventi interessanti in questo territorio è possibile.

Le Associazioni interessate: Mitreo Iside, Corviale Domani, Calcio Sociale, Stadio del Rugby dell’Arvalia Villa Pamphili, Teatro di Edda Gaber, Polo Internazionale per le Arti e Mestieri Creativi, Corviale. Arci Solidarietà Onlus, Coop. Acquario 85, Biblioteche di Roma.

Info : Pino Galeota 3356790027 galeota.pino@libero.it | Antonella Matranga matranga.antonella64@gmail.com