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Periferie del terrore

La recente cronaca politica internazionale è stata ampiamente contrassegnata da tragici eventi strettamente collegati a due concetti fondamentali, affinché la pacifica convivenza nelle e fra le comunità politiche sia data per possibile.
La strage di Nizza da una parte e il presunto tentavo di golpe militare nella Turchia di Erdogan dall’altra, consentono, infatti, di riportare alla mente dei più attenti i grandi interrogativi e problemi circa i concetti di sicurezza e di effettivo controllo da parte dello Stato nei confronti del proprio territorio.
Le analisi di numerosi giornalisti, professori ed intellettuali, apparse sui più noti mezzi di informazioni in questi giorni, hanno tentato di spiegare più nel dettaglio le varie dinamiche sottostanti a tali eventi drammatici. Approfondimenti e spiegazioni di per sé già esaustivi, a cui non occorre replicare o aggiungere altro.

Piuttosto, vale la pena trattare nuovamente il tema (tanto dimenticato) dello status in cui versano, sempre più spesso, le grandi periferie cittadine. Ancora una volta, queste non esitano a mostrarsi al mondo come veri e propri casi esemplari di luoghi dimenticati dal potere definito legittimo, quindi date bellamente in pasto a forme di barbarie ed inciviltà assolute e spaventose. Sporche, vuote, esteticamente orribili. Sono il ritratto di una realtà degradante, la quale non sarà forse causa immediata, ma certamente fattore complice nella nascita e nel consolidamento costante di gruppi terroristici capaci di insanguinare mezza Europa.

Nelle periferie manca lo Stato. È spesso volatile, incostante e frammentato l’esercizio di quella che più propriamente viene definita come la “sovranità” statuale. Dominano, insomma, il caos e l’indifferenza totale nei confronti di atteggiamenti favorevoli ad un degno senso di legalità e di pacifica, ma soprattutto reciproca, integrazione. Una condizione deprimente che innesca un grande circolo vizioso e pericoloso, fatto di criminalità e terrorismo. Il rischio (in parte ampiamente già realizzatosi nella città di Bruxelles, come si è appurato durante i giorni di cattura di Salah Abdeslam in marzo) è, insomma, il prevalere d’una anarchia totale, congiunta alla ghettizzazione degli spazi che diventano invalicabili a qualsiasi forma di un “sentire comune” che unisce popolo e popoli.

Appare assurdo e vergognoso che, anche in Italia, le stesse forze dell’ordine non possano entrare in certi quartieri perché temono insubordinazioni eccessive nei loro confronti da parte dei residenti. Appare altrettanto assurdo e vergognoso che questi stessi quartieri siano dimenticate dalla politica e da chi ha il compito primario di garantire la sicurezza e il benessere della propria città. Non sono forse le periferie parte dello stesso centro che si è chiamati ad amministrare? Non sono forse le periferie zone in cui, comunque, vivono persone con gli stessi diritti e doveri civili, politici e morali che tutti, indipendentemente da dove abbiano casa, possiedono? Anche qui, lo Stato deve essere presente e la politica ha il compito e l’autorevolezza di assicurare questa presenza. Del resto, uno Stato che non è in grado di garantire la sicurezza e il controllo del proprio territorio è decisamente fallimentare, oltre che politicamente inconcepibile.

Occorrerebbe quindi ripristinare un’autorità pubblica legittimata, fortemente capace di sanzionare chi viola le norme socialmente diffuse e, in particolare, fortemente in grado di riaffermare un comune sentire, un senso di appartenenza condiviso in quanto membri di una stessa comunità. È una sfida prima di tutto culturale e di civiltà, oltre che prettamente politica e giuridica. Il cui positivo esito sarebbe certamente un presupposto essenziale per eliminare eventuali nuclei terroristici o potenziali cospiratori.

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Le periferie d’Europa e la profezia (inascoltata) del Papa

Da Molenbeek e Saint Denis, le periferie delle capitali europee sono associate al terrorismo. Ma Francesco aveva avvertito: nessuna ’intelligence’ ci salverà se abbandoniamo una parte della società. Il degrado facilita la manipolazione da parte di organizzazioni criminali. La necessità di abbattere le barriere dell’egoismo per costruire legami solidali e comunità aperte.
Le periferie, tema chiave del magistero di papa Francesco, sono tornate di stringente attualità nel corso dell’ultimo anno e mezzo, da quando cioè una serie di attentati terroristici sanguinosi e drammatici, ha devastato due grandi capitali europee – Parigi e Bruxelles – e le indagini condotte dalle forze dall’ordine hanno portato a ricercare gli autori delle stragi nelle periferie delle stesse città colpite. In particolare di Bruxelles abbiamo imparato a conoscere il quartiere di Molenbeek, della capitale francese è tornato più volte il nome dell’area di Saint Denis, piena banlieue, già centro negli anni passati di proteste e scontri. Entrambe le zone, come molte altre in vari Paesi europei, sono segnate da una forte concentrazione di immigrati di nuova o vecchia generazione, dove un crescente disagio sociale fatto di disoccupazione, degrado ambientale e sociale, assenza di politiche per l’integrazione, si è sommato a fattori endogeni quali resistenze culturali, fondamentalismi, rifiuto del concetto di cittadinanza, un collasso crescente della legalità.
Secondo il parere convergente di molti osservatori e studiosi, è in contesti come questi che è cresciuto un islam settario, più ideologia politica totalizzante che fede religiosa, più simile a una forma di sfogo anti-sistema criminale e violento che a una lettura tradizionalista del Corano. Francesco, da parte sua, ha parlato fin dal principio del suo pontificato, delle periferie sociali, urbanistiche, degli scartati, e poi delle periferie esistenziali, avvertendo per tempo il nostro mondo – che forse non l’ha saputo ascoltare – di come le periferie del mondo non fossero solo quelle di Paesi africani o asiatici, ma di quanto anzi erano vicino a noi, bastava sollevare lo sguardo verso i confini delle nostre città.
E’ allora da rileggere per la sua clamorosa attualità e preveggenza uno dei passaggi forse più difficili da assorbire per un lettore europeo del documento «Evangelii gaudium», nel quale il papa a pochi mesi dalla sua elezione, tracciava un programma per il pontificato. Francesco affrontava il tema della violenza in rapporto a temi come l’urbanizzazione e l’integrazione: «Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence – spiegava – che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice».
«Come il bene tende a comunicarsi – aggiungeva – così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire. Se ogni azione ha delle conseguenze, un male annidato nelle strutture di una società contiene sempre un potenziale di dissoluzione e di morte». Difficile non vedere la precisione dell’analisi che forse poteva apparire troppo forte e dura, ma oggi ci accorgiamo corrisponde in modo fin troppo preciso alla realtà. Non per caso, allora, Francesco, da Scampia a Napoli, a Manila, a Ciudad Juarez, a Castelnuovo di Porto frequenta le periferie, incontra le persone e distingue fra terroristi e vittime, scegliendo di umanizzare e non di criminalizzare i territori e coloro che ci vivono.
Importante poi come il tema periferia veniva affrontato anche nell’enciclica «Laudato sì», sotto il profilo del rapporto fra condizione umana e ambiente circostante, fra qualità della vita, modelli di comportamento e valori condivisi. «…E’ provato inoltre – affermava il pontefice – che l’estrema penuria che si vive in alcuni ambienti privi di armonia, ampiezza e possibilità d’integrazione, facilita il sorgere di comportamenti disumani e la manipolazione delle persone da parte di organizzazioni criminali. Per gli abitanti di quartieri periferici molto precari, l’esperienza quotidiana di passare dall’affollamento all’anonimato sociale che si vive nelle grandi città, può provocare una sensazione di sradicamento che favorisce comportamenti antisociali e violenza». «Tuttavia – aggiungeva – mi preme ribadire che l’amore è più forte. Tante persone, in queste condizioni, sono capaci di tessere legami di appartenenza e di convivenza che trasformano l’affollamento in un’esperienza comunitaria in cui si infrangono le pareti dell’io e si superano le barriere dell’egoismo. Questa esperienza di salvezza comunitaria è ciò che spesso suscita reazioni creative per migliorare un edificio o un quartiere».
Insomma la risposta era in una comunità virtuosa e non chiusa, nella costruzione di legami solidali. Anche per questo il papa indicava alla Chiesa la strada delle periferie, cioè dell’uscita verso gli altri e il mondo, anche se, aggiungeva, occorre farlo in modo non casuale. Allo stesso tempo, spiegava Francesco, la periferia è alla base stessa dell’esperienza cristiana: «Tutto il cammino della nostra redenzione – afferma Bergoglio in un altro brano di Evangelii Gaudium – è segnato dai poveri. Questa salvezza è giunta a noi attraverso il ’sì’ di una umile ragazza di un piccolo paese sperduto nella periferia di un grande impero».

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Le periferie dove nasce il jihadismo europeo

Da Saint Denis a Molenbeek, sono quartieri dove esiste un forte controllo del territorio. Come a Scampia o nelle Little Italy americane degli anni Venti. Per l’Italia, invece, il pericolo viene dalla provincia.

Molenbeek, Saint Denis. I francesi le chiamano “Zus”, Zone urbane sensibili. O banlieue. Gli inglesi preferiscono “no-go zone”, dove i poliziotti non possono entrare senza creare tensioni. Quartieri con una forte presenza musulmana, che hanno fatto da base operativa per gli ultimi attacchi terroristici all’Europa. Stati nello Stato, nati nelle periferie degradate delle città, tra alienazione sociale e disoccupazione.

Da Saint Denis, Parigi, venivano gli attentatori di Charlie Hebdo e gli stragisti del Bataclan. A Molenbeek, Bruxelles, Salah Abdeslam si è nascosto per quattro mesi. Quartieri che, negli anni, sono diventati gli incubatori del jihadismo di casa nostra. Mentre la coalizione internazionale era impegnata a colpire i terroristi in Medio Oriente e Nord Africa, nelle roccaforti europee il radicalismo islamico faceva proseliti. E se è vero che «la radicalizzazione franco-belga ha radici culturali e storiche diverse da quelle del resto dell’Europa, è anche vero che la combinazione del proselitismo dello Stato islamico e dell’alienazione socio-economica di una parte della popolazione musulmana potrebbe favorire la radicalizzazione anche altrove», dice Marco Di Liddo, analista del Centro studi internazionali (Cesi). Di potenziali Molenbeek e Saint Denis è piena l’Europa. Da Londra a Berlino. Italia compresa.

In queste aree si è creata una filiera jihadista con un forte controllo del territorio paragonabile ai quartieri italiani in mano alla camorra come Scampia o alle Little Italy americane degli anni Venti

Dall’ideologia marxista all’Isis

«Le banlieue parigine sono sacche in cui una popolazione diversa da quella francese, proveniente per lo più dalle vecchie colonie, ha trovato casa a prezzi più bassi, creando così le proprie comunità», spiega Di Liddo. La distanza dal centro, per questi quartieri, non è solo geografica ma anche sociale. Non è un caso che «le banlieue in passato erano le periferie rosse della protesta socialista». L’ideologia marxista, poi, è stata sostituita dal revival islamico della rivoluzione di Khomeini. «E così la popolazione franco-maghrebina ha iniziato a cercare il proprio riscatto attraverso la rivalutazione delle radici culturali e religiose, in uno Stato il cui modello di cittadinanza si basa invece sul laicismo e sull’assimilazione delle diversità». Le prime proteste nelle banlieue parigine sono montate negli anni Ottanta, e si sono ripetute nel 2005, quando Nicolas Sarkozy era ministro degli Interni. In questi anni, prima al Qaeda, poi l’Isis, «qui hanno saputo manipolare il malcontento sociale e i problemi legati alla disoccupazione», dice Di Liddo. Mentre l’Islam moderato non è riuscito a fare breccia. Solo in Francia, le Zus censite sono 750. Concentrate anche tra Marsiglia e Lione.

E in Belgio, il meccanismo è stato simile. «Con la differenza», spiega Di Liddo, «che non solo si sono creati quartieri ghetto come Molenbeek, ma anche sacche estremiste nei centri rurali». Come Verviers, dove nel gennaio 2015 è stata smantellata una cellula terroristica il cui capo proveniva proprio da Molenbeek.

Il problema per l’Italia potrebbe venire dai paesini della provincia spopolati che si stanno ripopolando con l’immigrazione. Accade per esempio nelle campagne venete e nelle zone prealpine, dove gli affitti delle case sono più sostenibili

Il controllo del territorio come quello camorristico

«In queste aree si è creata una filiera jihadista con un forte controllo del territorio paragonabile ai quartieri italiani in mano alla camorra come Scampia o alle Little Italy americane degli anni Venti», dice Di Liddo. «Salah a Molenbeek è stato protetto per quattro mesi. E lo stesso quartiere ospitava l’intera regia degli attacchi di Parigi, dalla fabbricazione di giubbotti esplosivi allo stoccaggio delle armi, fino al controllo delle operazioni. Simili attività sono possibili esclusivamente se la vigilanza dello Stato è debole e se c’è il controllo del territorio». Magari con l’omertà di alcuni, e la paura di ritorsioni di altri. Quando il 18 marzo la polizia è entrata a Molenbeek per arrestare Salah Abdeslam, alcuni abitanti del quartiere hanno protestato.

D’altronde Molenbeek non nasce oggi. Il quartiere ha fatto da base operativa per jihadisti del calibro di Abdessatar Dahmane, uno degli assassini di Ahmad Shah Massoud, combattente contro il regime talebano in Afganistan, e anche per Youssef e Mimoun Belhadj e Hassan el-Haski, i cervelli degli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004. E Amedy Coulibaly, tra gli attentatori di Parigi nel gennaio 2015, si è procurato armi ed equipaggiamento proprio dove Salah Abdeslam è stato catturato.

Eppure «anche Londra, Francoforte, Berlino hanno le proprie enclave a rischio», dice Di Liddo. Il Foglio le ha chiamate “le mille e una Molenbeek d’Europa”. In Gran Bretagna si parla di “Londonistan” per indicare città come Birmingham, Liverpool e Leeds. L’Olanda ha censito 40 “no-go zone”. Mentre a Berlino il quartiere sotto la lente dell’intelligence è Neukolln, a sud del centro. «Le periferie delle grandi città tedesche, danesi, olandesi, inglesi, svedesi e italiane potrebbero presentare analoghe problematiche», spiega Di Liddo.

Le periferie italiane

Con una differenza. «In Italia non abbiamo periferie paragonabili a quelle parigine. Ci sono quartieri più o meno problematici, ma non abbiamo le banlieue. Le nostre città sono più piccole e hanno conformazioni urbanistiche differenti». Il problema per l’Italia «potrebbe venire invece dai paesini della provincia spopolati che si stanno ripopolando con l’immigrazione». Accade per esempio nelle campagne venete e nelle zone prealpine, dove gli affitti delle case sono più sostenibili che nelle città. «Se su tremila abitanti, mille sono musulmani, l’identità del paese cambia», dice Di Liddo. «Ed è qui che potrebbe annidarsi il rischio di radicalizzazioni». Anche se, precisa, «la religione non c’entra. Non è uno scontro di civiltà, piuttosto uno scontro di classe su cui gli estremisti soffiano».

La Fondazione Leone Moressa nel 2015 ha realizzato una mappa delle città italiane a “rischio banlieue”, cioè le città in cui l’integrazione degli immigrati è più a rischio. Incrociando dati le differenze retributive tra italiani e immigrati, grado di integrazione, tasso di acquisizione della cittadinanza e disoccupazione, è venuto fuori che le città più “a rischio banlieue” sono Bologna, Trieste e Trento. A Nord, più che al Sud, si registra mediamente un divario socioeconomico maggiore tra italiani e stranieri, che aumenta il rischio di esclusione sociale. Solo a Bologna, ad esempio, gli immigrati guadagnano in media 3mila euro in meno degli italiani.

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Perchè Europa

C‘è un articolo di Francesco Merlo sulla Repubblica che, più di tutte le analisi, individua il nucleo della partita in atto: “Il terminal luogo simbolo della nostra laicità”:
“da Bruxelles, in un’ora o poco meno, arrivi a Londra e a Francoforte, a Milano e a Copenaghen, ad Amsterdam e a Vienna, a Parigi e a Zurigo. È appunto lo snodo non solo geografico di una rete che ha trasformato l’Europa in una Città-Continente, come aveva intuito la migliore architettura già negli anni Sessanta (Yona Friedman). Solo l’Europa realizza così la mescolanza. Gli altri Continenti sono fatti di megalopoli perse nella natura, spaventosi assembramenti urbani”
Come in Italia l’irrompere del terrorismo delle brigate rosse modificò gli schieramenti politici da “arco costituzionale”/”fuori dall’arco” a “linea della fermezza”/”partito della trattativa”, così la dichiarazione di guerra dell’Isis all’Europa modifica gli schieramenti in “difendersi come Europa”/”difendersi come stati”.
L’unico tratto comune tra i populismi di vario genere che attraversano il continente è, infatti, la ripulsa con più o meno generiche motivazioni della dimensione europea a favore di un rinchiudersi nei propri confini.
Questa netta divisione di campo dovrà essere ben presente a tutti quando ci saranno da fare scelte a cominciare da quelle elettorali.
Oggi, nel tempo in cui non c’è più spazio per le idee (dove i progetti come – cito a memoria – Mi-To, Gioia Tauro mediterranean tranship, sud come Costa Brava, Italia hub europeo del metano? l’unico odierno è il “rammendo delle periferie” di Renzo Piano), è necessario costruire un’egemonia delle forze dell’ “ottimismo della volontà ” a discapito delle formazioni a vario titolo rinunciatarie e disgregatrici.
La scelta di partire dalle periferie puntando sull’animazione sociale per la battaglia della legalità e della sicurezza è la strategia che ci permette di unire le forze di chi vuole vincere questa guerra senza perdere l’identità per cui si combatte.
Anche nella nostra città, quella immaginata capitale della pace mediterranea diventata nel frattempo front line della partita in atto, non si può consegnare il governo a chi pensa che le buche siano il primo problema o che l’Europa sia il nemico.
Questa la partita in atto per chi decide di giocarla e di non fare, come spesso e volentieri è capitato ma in tempi meno cruciali, solo testimonianza di frustrazione e velleitarismo.
“Perché Europa” non è quindi una domanda ma la risposta.




Renzi: “Contro il terrorismo diamo tanti soldi alla cultura”

Il premier alla riunione sulla sicurezza con i capigruppo «Al momento nessuna minaccia specifica all’Italia».
Cultura, cultura e ancora cultura: per contrastare l’emergenza terrorismo bisogna anche «mettere denari veri sulle aree urbane», parola del premier Matteo Renzi, che così ha voluto aprire la riunione sulla sicurezza con i capigruppo parlamentari a palazzo Chigi. «Serve un gigantesco investimento in cultura, sulle periferie urbane, un investimento sociale – ha sottolineato il premier – Continuo a pensare che l’aspetto educativo per sconfiggere minacce nate e cresciute in Europa sia fondamentale».

E ancora: «Abbiamo, come tutti i partner, messo in campo tutte le misure di sicurezza necessarie, anche se non risulta ad ora una minaccia specifica in Italia», è stata una lunga riunione, oltre due ore, ieri mattina a Palazzo Chigi con i capigruppo di maggioranza e opposizione sulla sicurezza interna del Paese, all’indomani degli attentati che hanno colpito aeroporto e metropolitana di Bruxelles.

«Occorre stringere sui meccanismi di intelligence fra i Paesi europei e non solo, valorizzare Europol, lavorare su una struttura condivisa. E mettere denari veri sulle aree urbane. Serve un gigantesco investimento in cultura, sulle periferie urbane, un investimento sociale. Continuo a pensare che l’aspetto educativo per sconfiggere minacce nate e cresciute in Europa sia fondamentale», ha specificato il premier.

Il presidente del Consiglio ha ribadito ancora la necessità di superare le «divisioni politiche e partitiche» per poter recuperare il «senso di comunità» necessario a fare fronte alla minaccia terroristica. Ecco, allora, la decisione di riconvocare il vertice che, in passato, è seguito alle giornate drammatiche di Parigi, ma che era stato convocato più volte per tenere aggiornati i gruppi Parlamentari sullo stato dell’arte per quel che riguarda la sicurezza.

Allo stesso tavolo, oltre ai capigruppo, sedevano il premier, i ministri Alfano e Gentiloni, il sottosegretario con delega ai servizi Marco Minniti. Nella stessa riunione è stata data anche la notizia che ci sarebbe – il condizionale è d’obbligo a verifiche in corso – una vittima italiana tra quanti hanno perso la vita negli attentati. Si tratterebbe di una donna, che ha perso la vita nell’esplosione della metro di Molenbeek, risultata dispersa e il cui corpo è stato reso irriconoscibile dalla violenza della deflagrazione. I famigliari sono ora al consolato per avviare le procedure per il riconoscimento, ha riferito il presidente dei deputati Ncd, Maurizio Lupi.

«Ci hanno aggiornato sulle ultime notizie e una riunione riservata e compito nostro non divulgare informazioni delicate», ha tenuto a dire il capogruppo di FI al Senato, Paolo Romani: «Ci è stato fornito un aggiornamento efficace ed efficiente. Il ministro Alfano ci ha rassicurato su un’opera di prevenzione che viene fatta nel nostro Paese».

«Il problema è capire se l’attentato avvenuto ieri è stato in conseguenza dell’arresto di Salah o se fosse preordinato. Probabilmente c’era una progettualità già in campo che ha subito una accelerazione dall’arresto», è stata la risposta di Alfano. «Il fatto sorprendente è che Salah è rimasto lì a poche centinaia di metri da casa sua…».

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Come frenare le sirene maligne delle periferie

Il presidente del Consiglio sta guardando con grande temperanza alla terribile crisi che l’attacco terroristico a Parigi ha aperto. L’uso misurato delle parole, l’insistenza sulle prevenzioni e sulla costruzione di alleanze e lo sguardo che dalla politica estera sa riandare alle crisi delle nostre periferie sono indirizzi politici sensati.

Le immagini di St. Denis, dei quartieri di Bruxelles, le biografie dei terroristi, le nostre paure mentre camminiamo nelle zone meno protette delle nostre città ci evocano le periferie in senso negativo. E stentiamo ancor più a viverle come «nuovi centri», luoghi di promesse e invenzioni da esplorare, anche quando lo sono. Al contempo, proprio le promesse già in campo e gli attori positivi delle nostre periferie si confrontano davvero con territori più sofferenti, dove non vi è stata inclusione e vera cittadinanza e dove può crescere e poi esplodere una tremenda carica distruttiva.

Ben prima degli eventi parigini, i dati Istat, le nostre cronache, le esperienze diffuse di tanti esperti sul campo ci consegnano, al contempo, storie di riscatto e storie di difficoltà e frustrazione.

Ci sono migliaia e migliaia di storie di vita, spesso di giovani – in tanti le seguiamo in ogni parte d’Italia – nelle quali l’esclusione multi-dimensionale che si protrae nel tempo a un certo punto conosce un peggioramento e fa entrare in una zona di maggiore fragilità e pericolo. Per molte ragioni: il grado elevato della fatica di «stare a galla» dal punto di vista del lavoro e del reddito, il ripetersi di frustrazioni severe che offendono l’amor proprio, il mancato consolidamento, in età precoce, di uno «spazio pensante» e anche di regole interne sufficienti per dare parola alle cose, trovare una strategia per «aspirare a» e per sostenere il peso di difficoltà continue, il venire meno sia dell’accoglienza che dei limiti che può dare la comunità perché anche essa è troppo frammentata e impoverita di sapienza e di risorse.

Molte storie così si trascinano, malamente. Minano la fiducia e la coesione sociale, allontanano dalla partecipazione alla formazione, al lavoro, al progetto comune, alle regole.

Una politica troppo distante da questi territori e sciatta e burocratica nel proporre misure e azioni certo non aiuta, anzi…

Poi – in questo paesaggio – un numero minoritario ma purtroppo crescente di storie conoscono uno scarto. Vanno oltre. Prendono, per strani o futili o apparentemente secondari motivi, le vie maligne dell’esplosione folle individuale o delle bande violentemente fuori controllo o del malaffare. Sirene estreme chiamano ad andare oltre. Nascono sintomi feroci di malattie divenute croniche e poi aggravate.

Nei territori dell’esclusione, qualcosa oggi può andare – più facilmente che in passato – oltre gli ultimi argini. E siamo in tanti a pensare che già da tempo stiamo entrando in una nuova dimensione del pericolo, al quale vanno date risposte nuove.

Fa bene il presidente del Consiglio a ritornare a parlare al Paese delle nostre periferie. Perché il loro sviluppo è volano di sviluppo generale. Perché i tessuti ricostruiti della coesione sociale favoriscono crescita economica e lavoro nelle sue nuove forme. Perché la potente crisi che viviamo in questi giorni ci sta confermando che bisogna presto riprendere – proprio nelle periferie – a pensare a come migliorare scuola e formazione, dare reddito chiedendo responsabilità, trovare vie nuove per creare lavoro insieme ai nostri ragazzi. Lo si fa già in tante parti d’Italia. Lo si può fare di più e meglio se si abbandona un sistema di stereotipi e vincoli che non funziona più, se si ricreano circuiti di confronto sulle cose da fare nel concreto, se si creano regìe in ogni quartiere e città. E se si costituisce presto una vera regìa nazionale per usare più fondi ottimizzando le risorse anziché sprecarle in mille rivoli e indirizzandole verso ciò che già funziona, verso chi sa fare, controllando i risultati. Ma, per fare questo, dobbiamo riguardare a come siamo, come educhiamo i nostri ragazzi, come si discute e si impara a scuola, e anche a cosa dobbiamo tenere per sacro, a come presidiare i limite nella vita di ogni giorno, a come mettere insieme norma e accoglienza, a come ridare luoghi, lavoro e parole alle comunità, a come sostenere adesso e non domani i sogni dei nostri ragazzi di periferia.

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La scoperta dell’Europa e della sua periferia

Venti anni fa usciva il film “l’Odio” di Kassovitz, film che prendeva spunto dalle rivolte nelle banlieues parigine seguite all’uccisione di un loro abitante. Quel film è stato un punto di riferimento per tutta una generazione, soprattutto per chi allora era attivo nei movimenti e negli spazi sociali delle periferie metropolitane in Italia. Quella rivolta a Parigi era qualcosa di nuovo, qualcosa in cui vedevamo forti continuità e ancor più forti discontinuità col ciclo di lotte degli anni 70/80: ribellismo pauperistico e anarcoide, lotta di classe primitiva, rivendicazione comunitaria, riot americaneggiante (più Malcolm che Martin), dialettica conflittuale centro-periferia…c’era, o ci vedevamo, un po’ di tutto questo.
Anche l’Islam c’era, ma era, o lo vedevamo come, solo uno dei collanti comunitari, testimonianza di una condizione subalterna, grammatica comune degli esclusi.
Dieci anni dopo un’altra rivolta in banlieue. Tornando trovammo una situazione meno anarchica e più organizzata, una coscienza magari non di classe ma di comunità subalterna molto forte, direi una coscienza di luogo, se la intendiamo come categoria geo-socio-culturale.
Una rivolta più organizzata, più indirizzata e con delle leadership che si confrontavano e scontravano in nome di culture politiche e indirizzi diversi. Il fondamentalismo islamico era uno di questi.
Non maggioritario e sicuramente politicamente non attrezzato a dirigere quella rivolta, ma capace di legami profondi in quella comunità, in orizzontale e in verticale, e soprattutto capace di unire, idealmente ma anche nella predicazione, quella comunità con altre comunità subalterne nelle periferie metropolitane europee.
Tra questa rivolta e la strage di Parigi ci passano altri dieci anni e la storia contemporanea: la globalizzazione, l’11 settembre, internet, i social, i drammatici errori di guerra e gli ancor più drammatici errori di dopoguerra dell’Occidente in Medio Oriente.
I protagonisti del film di Kassovitz sono i fratelli maggiori dei protagonisti della seconda rivolta e i padri degli attentatori del 13 novembre.
A scanso di equivoci: per la maggior parte sono i padri di tantissimi ragazzi per bene, di musulmani pacifici, di persone che cercano di uscire dalla subalternità banlieuesard con i percorsi che le democrazie europee mettono a disposizione. Ma sono i padri anche di quella minoranza in cui la predicazione jihadista attecchisce.
Ma qui vanno dette alcune cose per capire il fenomeno, e in questo ci aiutano le biografie degli attentatori: molti hanno in comune la piccola criminalità e il carcere, e proprio in carcere si viene in contatto con la predicazione jihadista, molto più che in moschea. Questo dato dovrebbe dirci molto sul fenomeno che abbiamo davanti, almeno nella sua incarnazione nelle metropoli europee (diverso è naturalmente il caso dell’arruolamento negli altopiani afgani o nel deserto libico). Per questi giovani l’adesione alla jihad è un sentirsi finalmente parte di qualcosa, è una giustificazione alla violenza e all’odio con cui vivono e l’estremo sacrificio è vissuto come un momento di protagonismo reale altrimenti negato dalla società in cui vivono.
C’è un secondo profilo di jihadista europeo oltre a quello sopra descritto ed è quello più evidente nelle stragi di Londra del 2005. Non più giovani subalterni ma seconde o terze generazioni integrate, colte, con profili lavorativi dignitosi o proprio di successo, fedina penale intonsa: una sorta di media borghesia dell’immigrazione. In loro non c’è una rivolta verso la società che li esclude, piuttosto un romanticismo naif, un’adesione ideale ad una comunità globale, ad un progetto mondiale e persino non transeunte. Come i giovani borghesi europei dell’800, sono pronti a partire, in nome di quell’ideale, verso la Siria o l’Iraq.
Ora il punto centrale sta proprio qui, in questo paralleo politicamente asimettrico: i giovani Europei dell’800 partivano per la Grecia o l’Italia in nome della libertà, i giovani Europei del ‘900 si rivoltavano nelle periferie in nome dell’emancipazione. E gli ideali di libertà ed emancipazione si sono concretizzati nella costruzione europea nelle forme della democrazia e dei diritti, i Paesi Europei, l’Europa stessa è stata per lunghi decenni la Patria della democrazia e dei diritti, questi erano la sua identità, il motivo per cui i tanti senza diritti e libertà venivano da noi.
Lo sono ancora?
Formalmente sì, ma sostanzialmente il modello europeo di promozione sociale è in crisi in tutti i suoi Paesi (ognuno col suo modello specifico, ognuno in crisi) da almeno 20 anni, da quando cioè Kassovitz gira il suo film ma soprattutto da quando comincia la costruzione dell’Unione Europea. Non voglio dire che quella costruzione mette in crisi quei modelli, al contrario, dico che si è cominciata quella costruzione unendo Paesi con i rispettivi modelli sociali in crisi, si sono sommate debolezze sperando che la semplice unificazione monetaria, con la sua mano invisibile, le facesse superare.
Le ha invece approfondite, così da venti anni abbiamo società in cui la ricchezza si redistribuisce verso l’alto, la forbice ricchi-poveri si allarga, la classe media scompare, i pochi che hanno accesso alle reti (globali, finanziarie, sociali, culturali, perfino dei diritti) le difendono come privilegi e chi ne è escluso, chi non ha l’accesso si sente estraneo, straniero.
Le nuove forme dell’esclusione, figlie della crisi del modello di promozione sociale europeo, producono un deficit di cittadinanza: ci si sente stranieri nel posto in cui si vive, a prescindere da dove si è nati. Quanti Italiani se ne vanno sentendosi non voluti dalla loro patria?
E se va in deficit il concetto di cittadinanza col corredo di diritti che porta con sé allora saltano i patti sociali.
E se si inceppano i meccanismi di emancipazione e di promozione sociale, allora si incrina l’edificio della democrazia.
Un edificio che ha due pilastri: libertà e emancipazione, ma quest’ultimo è quello dinamico, concreto, è la democrazia operante nelle vite di ciascuno. Se salta questo pilastro la democrazia non si riconosce più, non basta la libertà, questa è un ideale sacrosanto e irrinunciabile, ma senza emancipazione rischia di essere percepita come un lusso dai subalterni, da chi non ha accesso ai suoi benefici.
Se si vuole sconfiggere lo jihadismo in Europa, l’Europa deve lavorare su questa sua identità, deve rinnovarla, rimetterla in moto, ritrovare un modello di promozione sociale (e culturale) efficace e brandirlo come la prima delle sue forze e dei suoi tratti identitari.
Non dico che basti questo, dico però che questo è essenziale.
Non serve brandire la croce, e il Papa lo va ripetendo da molto, come vorrebbero gli imprenditori della paura, serve invece quella giustizia sociale che proprio i partiti di quegli imprenditori hanno smantellato in tutta Europa. Solo che anche questo sembra dirlo solo il Papa.
E questo è un male: le forze laiche, civili, politiche, istituzionali, sono afasiche, sanno parlare solo di guerra (e non sto dicendo che non serva anche un livello militare, magari aiutando le Kurde e i Kurdi al confine del califfato), sanno parlare solo di ipersorveglianza, di libertà in cambio di sicurezza.
Nella Roma ormai invasa dai barbari, Rutilio Namaziano scrive che “gli uomini della fede sono feroci e gli uomini del dubbio sono stanchi”, si sa come andò a finire.
Ma non è scritto che debba finire così anche stavolta, c’è stato un tempo, ed era poco tempo fa, che gli uomini del dubbio erano fieri di esserlo e su questo hanno costruito società più aperte, aperte a tutti, più ricche e libere per tutti.
È su questo per tutti (fur alle-fur ewig) che si vince la sfida.

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La guerra dei nostalgici del mito dell’Armageddon alla società aperta

eiffel
Il dibattito che si è avviato a seguito dei fatti sconvolgenti avvenuti a Parigi una settimana fa, presso la sede di Charlie Hebdo, a Montrouge, e nel supermercato Kosher di Porte de Vincennes, rischia di perdersi nel nulla se non si hanno chiari alcuni passaggi storici di fondamentale importanza per comprendere le vicende odierne.
Il terrorismo islamico ha poco a che vedere con la religione musulmana ma ha molto in comune con le filosofie e i movimenti romantici, irrazionalisti e nazionalisti partoriti in Europa tra la seconda metà dell’ottocento e i primi decenni del novecento e che hanno dato vita ai totalitarismi (stalinismo, fascismo, nazismo). Non siamo in presenza di uno scontro di civiltà tra il sud e il nord del mondo o tra occidente e oriente. Siamo ancora una volta, in forme nuove, allo scontro frontale tra lo spirito di autodistruzione, che è figlio dell’Europa e che dal vecchio continente è stato esportato altrove, e i valori fondanti dell’Illuminismo che hanno portato nel tempo al riconoscimento dei diritti umani, all’idea della democrazia come processo in divenire di errori e correzioni di errori, all’importanza dello sviluppo scientifico-tecnologico e degli scambi, guidato  da una politica responsabile, e all’idea che una singola vita umana non debba mai essere sacrificata per un ideale politico o un sentimento religioso o un’esigenza comunitaria. È per questo che il terrorismo islamico incrocia ovunque un’area estesa di connivenza e di simpatia in individui e gruppi che continuano a coltivare pulsioni e idee autodistruttive e palingenetiche. Dinanzi al riemergere di questo scontro, la battaglia culturale, etica e morale da condurre è contro la riesumazione di queste pulsioni e idee in cui alle vecchie contrapposizioni di classe, di razza o di religione si aggiungono nuovi binomi: oppressi/oppressori, imprese locali/multinazionali, naturale/artificiale, nord/sud. Conflitti generalizzati costruiti astrattamente e mai verificati e differenziati, caso per caso, nelle situazioni concrete.

Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, in concomitanza con lo sviluppo delle culture europee che hanno dato vita ai totalitarismi, nascono in Medio Oriente e si espandono nel mondo arabo i movimenti fondamentalisti che si richiamano all’identità di razza e/o di religione. Essi sono figli dei primi movimenti di massa europei. Uno dei maggiori analisti americani del terrorismo islamico, Paul Berman, nel saggio Terrore e liberalismo. Perché la guerra al fondamentalismo è una guerra antifascista ha raccontato in modo puntuale i legami culturali e politici tra i primi movimenti di massa europei e le organizzazioni fondamentaliste ancora oggi attive nel mondo.  Negli anni trenta del secolo scorso, si sviluppa in tutte le maggiori città del mondo arabo una presenza comunista significativa collegata a Stalin e alla sua concezione totalitaria del potere. Il socialismo Ba’th è una branca del grande movimento panarabo fondato negli anni successivi alla prima guerra mondiale da Satia al-Husri, sulla base dei suoi studi filosofici, condotti in Occidente e focalizzati su Fichte e sui romantici tedeschi: i filosofi del destino nazionale, della razza e dell’integrità delle culture nazionali. I suoi interlocutori in Europa sono i fascisti e i nazisti. Uno dei testi più in voga nei paesi arabi è I fondamenti del diciannovesimo secolo di H. S. Chamberlain, che tratta la questione razziale. Il fondamentalismo che si sviluppa in Pakistan sorge negli anni trenta (con un’organizzazione nel 1941). I Fratelli Musulmani nascono come setta politica in Egitto nel 1928. E questi movimenti hanno contatti molto stretti con il franchismo e con il nazismo. I “Fratelli Musulmani” chiamano le loro unità organizzative “Falangi”. Gli scrittori islamici di quel periodo si abbeverano alle idee di Heidegger. Lo scrittore più influente della tradizione fondamentalista è l’egiziano Sayyid Qutb che nasce nel 1906, sette anni prima di Camus. Egli riceve nell’infanzia una rigorosa educazione religiosa. Ma ben presto accarezza l’idea del socialismo e si immerge nella letteratura occidentale, va a studiare negli Stati Uniti, ottenendo un master in pedagogia presso l’University of Northern Colorado, a Greeley. Torna in Egitto ed entra nei “Fratelli Musulmani”. Egli scrive una gigantesca opera di esegesi in trenta volumi dal titolo All’ombra del Corano. Emerge in quest’opera il concetto dell’islam come “totalità”. Anche per George Lukacs, il marxismo si distingue dal pensiero borghese per “il primato della categoria della totalità”. Come perspicuamente ha rilevato di recente il giornalista Giuseppe Sarcina, nel testo sacro dell’islam i riferimenti espliciti alla dimensione politica sono solo due. Il primo è il “versetto dei potenti” (Sura delle Donne, 4, 58-59): «Iddio vi comanda… quando giudicate fra gli uomini, di giudicare secondo giustizia… O voi che credete! Obbedite a Dio, al suo Messaggero e a quelli di voi che detengono l’autorità». L’altro passaggio, brevissimo, si trova nella Sura della Consultazione, la 42ª, versetto 38: «Coloro che obbediscono al loro Signore… delle loro faccende decidono consultandosi tra di loro». Tutta la costruzione teorica di Qutb e dei fondamentalisti islamici sull’identificazione tra politica e religione sembra poggiare su questi esigui dettati coranici. Ma in realtà poggia sul mito biblico della guerra dell’Armageddon, secondo il quale gli abitanti ricchi, corrotti e sovversivi di Babilonia saranno sterminati e con loro verranno soppresse tutte le loro abominazioni. Terminato il terribile sterminio di queste “forze sataniche”, si stabilirà il regno di Cristo e il popolo di Dio vivrà nella purezza.

Si possono riconoscere in questo mito i temi di base e lo spirito di questo mito in poeti come Rimbaud e ancor più in Rubén Darìo. Dopo la prima guerra mondiale, dalla letteratura e dalla poesia, il mito primordiale di Armageddon e di Babilonia passa alla teoria politica in versioni aggiornate: una “parte sana” della società che si vede minacciata dal “male”, il quale deve venire eliminato – a tutti i costi – e, per rendere possibile questa eliminazione, è necessario il sacrificio che si traduce di fatto in “licenza di uccidere”. A comporre la “parte sana” sono i proletari o le masse russe per i bolscevichi di Lenin e gli stalinisti, i figli della lupa romana per i fascisti di Mussolini,  la razza ariana per Hitler, i guerriglieri di Cristo re per la Falange di Franco, i musulmani per Qutb.  Mentre gli abitanti corrotti e sovversivi di Babilonia, che commerciano beni di tutto il mondo e corrompono la società coi loro abomini, sono la borghesia e i kulak per i bolscevichi e gli stalinisti, sono i massoni e le tecnocrazie cosmopolite per i fascisti e i falangisti, sono gli ebrei per i nazisti, e in misura minore per gli altri fascisti, e infine anche per Stalin, e sono i falsi musulmani, gli “ipocriti”, in combutta con gli ebrei e i “crociati” cristiani per Qutb. In ogni versione del mito avviene sempre il bagno di sangue dello sterminio totale per raggiungere il regno, cioè una società perfetta, unita su tutta la faccia della terra, ripulita dagli elementi corrotti e dagli abomini, capace di durare mille anni. La gihad non è altro che lo sterminio totale del mito biblico della guerra dell’Armageddon. Il culto totalitario della morte è figlio dell’occidente.

L’attacco all’idea di libertà e di democrazia da parte del fondamentalismo islamico coincide con la critica radicale al capitalismo che deriva dalle culture originarie dei totalitarismi del novecento e che ancora oggi imperversano. Ma il capitalismo non è più quello descritto da Karl Marx. Esso si è trasformato nella “società aperta”, secondo la più appropriata definizione data da Karl Popper agli attuali meccanismi economici, sociali e politici presenti nei paesi occidentali, in cui i sistemi giuridici, da perfezionare continuamente attraverso la democrazia, regolano il mercato e il libero scambio. E la società aperta è tale perché tutti nel mondo possono concorrervi e orientarla mediante procedure democratiche. Ha ragione Claudia Mancina quando scrive: «Basta con il senso di colpa dell’occidente, che produce un pacifismo autolesionista. Basta con il multiculturalismo banale, relativista, privo di principi». C’è in questo atteggiamento dimesso il senso di sfiducia nella democrazia e l’idea che la messa in campo di nuovi soggetti mondiali possa riaprire la strada per un sovvertimento totale. Non si ha l’ardire di richiamare l’idea di sterminio o il bagno di sangue, ma l’antefatto è quello. In un mondo di grandi migrazioni, la battaglia politica e culturale per difendere la società aperta è oggi tutt’uno con quella per il reciproco riconoscimento tra persone e gruppi di diversa cultura o fede religiosa. Concordo con Silvia Costa quando afferma che la via della interazione, ideata ma poco praticata in Italia, è quella più promettente per realizzare questo reciproco riconoscimento, rispetto all’idea del  multiculturalismo britannico e dell’assimilazione francese. Una interazione da fondare però sulla base di valori e diritti comuni, e a patto che non comporti la rinuncia alla propria identità, il relativismo culturale o la superbia intellettuale. Accanto alla sfida della sicurezza, della pacificazione e della cooperazione allo sviluppo, dobbiamo ripartire insieme in Europa e in Italia dalla educazione e dalla cultura inclusive, fondandole su valori di una comune dignità e libertà, sui diritti umani scolpiti nella Carta dell’Onu e sulla capacità di creare fraternità.

 




Jihad di periferia

periferieCe l’hanno raccontato in lungo e in largo, come la biografia degli autori degli attentati di Parigi sia inscindibile dall’ambiente della banlieu. E del resto da qualche anno, con notevole puntualità e regolarità, che siano i saccheggi dei negozi perbene a Londra, o le manifestazioni surreali tra le villette e i fast food di Ferguson, o qualche comportamento oltre i limiti della demenza dalle nostre parti italiane, non si manca mai di collegare un certo tipo di spazi ad alcuni problemi. Il collegamento però deve essere preso molto alla lontana, non perché non esista, e non sia per certi versi diretto, ma perché ha bisogno di una serie fin troppo lunga di precisazioni e contestualizzazioni. Infatti se solo ci pensiamo un istante, la nostra testa quando evoca quelle arterie commerciali britanniche, ai parcheggi del suburbio americano, a certe nostre distese di prati spelacchiati tra palazzi razionalisti, ricostruisce spazi diversissimi, chiamandoli nello stesso modo. E dicendoci in modo piuttosto chiaro, che se hanno qualcosa indubbiamente in comune, non si tratta delle forme fisiche.

Hanno tutte la capacità di produrre quel genere di disagio che spesso sfocia, seguendo un canale o l’altro, nelle psicopatologie violente e senza sbocco non autoreferenziale. Che siano i saccheggi e gli incendi di negozi per rubacchiare stupidaggini da consumi infantili, o urlanti confuse spesso autolesionistiche manifestazioni contro tutto e contro tutti, o addirittura di innescare l’altrettanto confusa conflittualità estrema che poi sfocia nella criminalità organizzata o nelle varie forme di terrorismo, a seconda del caso che fa incontrare i disagiati con questo o quel maître à penser. Questo plasmare cervellini particolarmente fragili è un carattere delle periferie che, evidentemente non proporzionale alla distanza tra gli edifici, agli standard a parcheggio o verde, allo stato di manutenzione delle tubature, o degli spazi comuni. Ovvero tutti quegli aspetti che, attraverso processi partecipativi o meno, con assemblee nelle scuole, urla di casalinghe, riunioni pensose al centro civico, affrontano i vari cosiddetti piani per le periferie, puntualmente focalizzati nel risolvere tutto ciò che evidentemente, almeno così da solo, non produce affatto disagio.

Del resto basta a volte spostarsi di qualche centinaio di metri, nel medesimo quartiere, per scoprire che il disagio pare svaporato per miracolo, pur restando immersi nei medesimi spazi fisici, tipi di edifici, strade, verde. A volte esiste qualche indizio abbastanza chiaro almeno a indicare un percorso di riflessione: come le case in proprietà anziché in affitto, ad esempio, che secondo molto pensiero conservatore sono sinonimo di identità e stabilità, delle famiglie e degli individui. Oppure l’epoca di costruzione e tipo di occupazione dei fabbricati, o presenza o meno di attività economiche. In qualche pianterreno. Altre volte neppure un indizio labile del genere, salvo la constatazione che in un posto c’è il disagio, nell’altro no, e che di sicuro gli spazi fisici sono identici. Ma una cosa è certa: quegli spazi, da soli, non cambiano nulla. E chissà che quest’ultima traumatizzante esperienza, di pochissimi balordi psicopatici terroristi, che si sono maturati tutto il loro disadattamento nel brodo di coltura del periferia, non convinca qualcuno di importante. Non lo convinca sul serio a piantarla per sempre, ogni qual volta succede qualche manifestazione di disagio nelle periferie, ad uscirsene con la solita pensata: chiamiamo un bravo architetto!

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Parigi: felice di esserci. Purtroppo

ragazza

Appuntamento ore 13 a place de la République. Esco alle 13.45 per prendere la métro 5. Ce la faccio ma alla seconda fermata, il treno si blocca e l’altoparlante annuncia che le métro marcerà doucement, dolcemente, causa grande afflusso alla manifestazione (che si rivelerà poi essere stata la più grande di sempre: almeno due milioni di persone nelle strade e quattro in Francia per manifestare contro il terrorismo islamico che ha ucciso 17 persone nella metropoli transalpina). Per farla breve il “dolcemente” dura oltre un’ora e si scende tutti molto prima, a Gare de l’Est.

Usciti dalla stazione, il grande viale che porta a place de la République è pieno di gente. Cammino per 100 metri, con la strada che si come quei torrenti in piena che hanno funestato l’Italia negli ultimi mesi e d’improvviso mi accorgo che il muro di persone è pressoché impenetrabile.

Immobile mi guardo intorno: giovani, anziani e poi trentenni, quarantenni, cinquantenni, sessantenni, donne. Tante donne e tanti bambini, di ogni età: in carrozzina, a tracolla, sulle spalle, per mano. Famiglie che si passano il testimone tra generazioni.

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L’aria profuma di allegria, di voglia di esserci, di sorrisi, di abbracci, di sguardi e carezze scambiati per affetto, per dirsi che non siamo intimoriti e che non ci chiuderanno nelle nostre case. Intanto i battimani e i cori scandivano il tempo.

Con la sua fisicità, con la sua presenza, con il calore di corpi, la piazza dà il segno ufficiale che, il popolo c’è, esiste, è visibile e cammina a schiena diritta.

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Alcune bandiere, francesi ma anche spagnole, italiane, turche, bengalesi, brasiliane e altre che non conosco. Pochi gli striscioni. Tanti i cartelli. Dominano i volantini e manifesti con «Je suis Charlie». Tanti stampati, molti “fai da te”, in bianco e nero, colorati con pennarelli o con le bombolette, inchiodati e scocciati su legni improvvisati, sui giacconi, cappotti, maglioni, nei cappelli e tra i capelli. E tante matite colorate che legano le trecce, tanti volti disegnati e scritti per dire che ci mettevano la faccia.

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Quello che unisce questo popolo è la parola libertà. E ognuno la sostiene come citoyen, cittadino, perché libertà si coniuga con democrazia, dignità, legalità, regole, stato di diritto, cultura, conoscenza dei temi sociali della nostra Europa.

Una parola conquistata con la rivoluzione che ha ritrovato una giovinezza, ancora una volta sul campo e su Charlie che non ha chinato la testa. Di fronte alle barbarie che la storia ci consegna in questo inverno, la parola libertà che avevamo messo in soffitta dandola ormai per acquisita, nonostante i tanti segnali avuti e gli occhi chiusi dagli egoismi politici ed economici, ha ritrovato il senso pieno con cui ci era stata consegnata.

E quando i tantissimi giovani con la pelle di tanti colori hanno abbracciato fisicamente la statua della Marianne, cantanto ripetutamente la Marsigliese scandendo Charlie con battimani, mi hanno dato, oltre che commozione, la speranza che ci sarà un futuro anche per loro.

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