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La rivolta gentile del Trullo, quartiere metroromantico

Non solo degrado, scarabocchi e insulti sui muri, palazzi grigi e strade lerce. Non solo rabbia, conflitto, disfattismo. Una periferia può essere anche altro. Colori, versi, solidarietà, relazioni amicali. È la lezione del Trullo, quartiere difficile di Roma in cui si scrivono storie esemplari. Qui sono nati i Poeti e i Pittori Anonimi, qui si organizzano festival di poesia di strada e street art, qui si insegna il senso del rispetto per i luoghi e le persone. Dove la politica non arriva, i cittadini si organizzano da sé.
QUANDO L’ARTE RISCATTA LA PERIFERIA
Ci sono luoghi che raccontano un’altra verità. Antagonisti per definizione, dove l’essere “contro” diventa l’essere “con”, e le ragioni del conflitto incontrano le modalità del dialogo, un codice condiviso, un ordine alternativo fiorito nel disordine stratificato.
Luoghi che all’emergenza sociale rispondono con l’urgenza della cultura. Intitolati a una realtà ruvida, di aculei, di strappi e di improvviso tepore. È da qui, da questi centri vitalissimi e marginali, che sorge l’idea di quel nuovo “realismo” a volte divenuto una faccenda estetica, filosofica, intellettuale. Ma questo è un passaggio successivo, che attiene giusto alla teoria. Qui, intanto, si registrano i fatti. Cronaca di un quartiere che rinasce, a suon di versi e di immagini sui muri. Fenomenologia di una periferia in transito, fuori dai cliché politico-mediatici.
Il Trullo è un posto così. Roma, municipio XI, una realtà popolare con tutte le asprezze del caso: tra piccola borghesia in lotta contro i colpi della crisi, disoccupazione, criticità sociali, spaccio, emarginazione, solitudini e scarsezza di servizi, il Trullo racconta anche storie di solidarietà, di generosità, di militanza, di genuinità. E soprattutto di coraggio, laddove non si lascia spazio alla resa. E racconta, sorprendentemente, storie di rinascita dal basso, mediate dalla pratica dell’arte. Fra scrittura e pittura.

I POETI DER TRULLO. VERSI FRA LE STRADE DI UN QUARTERE
Nel 2010 nascevano, un po’ per caso e un po’ per urgenza d’espressione, i Poeti der Trullo. Ragazzi del quartiere ma anche di zone limitrofe, come Corviale, trovatisi a condividere l’amore per il verso. Non la droga, non le aggressioni pseudo-ideologiche tra fazioni rosse e nere, non il vuoto quotidiano e la disillusione. La poesia, piuttosto, come provocazione dolce e scommessa affilata.
Loro sono Er Bestia, Er Quercia, Er Pinto, Inumi Laconico, ‘A Gatta Morta, Marta der III lotto, Er Farco. Giovani, ironici, cocciuti sognatori metropolitani. O come amano definirsi: “metroromantici”. Che sono i figli di un romanticismo urbano, senza fronzoli né metriche polverose, senza retoriche, artifizi e stilemi: un modo contemporaneo d’essere ottocenteschi, impastati d’emotività e di inquietudine, di empatie e di minime ispirazioni, d’infinito, d’utopia e di malinconia sottile, scegliendo la strada come spazio d’avventura.

I Poeti der Trullo restano anonimi, scrivono parole sui muri, sfrecciano su Internet e impazzano sui social, raggiungendo oggi quasi 150mila like sulla loro pagina Facebook. Nel 2015 pubblicano un libro, totalmente autoprodotto e andato letteralmente a ruba. Perché i Poeti diventano, prestissimo, un fenomeno mediatico. Aiutati dal gioco della segretezza, insoliti nella loro vocazione lirica, intimamente popolari, seducono, conquistano, spargono mucchietti di parole fra i cieli di una Roma proletaria e i muri sgualciti di un quartiere-nido, giardino, isola, rifugio.
“Il Trullo è un luogo della mente”, scrive Inumi, “e tutta la periferia esistente può essere seme e frutto di poesia. Noi esistiamo per dimostrarlo. Noi esistiamo per sporcare i passanti e i vicini del colore che ci è esploso dentro. Abbiamo deciso di lasciarlo fluire e di non arginarlo”.
Quei versi mezzo romaneschi e mezzo italiani – di un italiano un poco ruvido, screziato d’amarezza e joie de vivre– hanno inseguito l’obiettivo: parlare alla gente, attecchire fra il cemento e la distrazione diffusa, incidere gli interstizi dello spazio pubblico con versi, storie, assalti laterali, pause d’introspezione. Roba che richiede attenzione e che provoca stupore.

I PITTORI ANONIMI DEL TRULLO. TUTTE LE STORIE DIETRO I COLORI
In principio fu il verbo. Il verso poetico come pozione insolita, per curare l’apatia di un quartiere, il suo grigiore. Poi, qualche tempo dopo, seguirono i colori: rulli, pastelli, acrilici, pennelli. I Pittori Anonimi del Trullo sono un’altra germinazione felice di questo tessuto sociale disagiato, solo apparentemente infruttuoso.
Era il 2013 quando Mario D’Amico, un sessantenne dalle lunghe chiome canute e gli occhi infinitamente buoni, decideva di aprire un nuovo capitolo della sua vita un po’ sbilenca, da combattente e solitario freak, ai margini del mondo e nel cuore del quartiere. Così, perseguì il suo credo: agire, invece di voltare lo sguardo; unire, anziché distruggere; seminare, per non soccombere al degrado. Un luogo lo si ama anche e soprattutto prendendosene cura. E insegnando agli altri come si fa.

Mario, nato e vissuto al Trullo, amabile sciamano dalla vita irregolare, insieme a un gruppetto di coetanei prese a dipingere i muri dei palazzi, le panchine, le scale, preoccupandosi prima di pulire, cancellare, sistemare le aiuole. Operazioni di riqualificazione notturna, svelando al risveglio piccoli teatri variopinti. Il Trullo diventava, via via, un altro luogo. Monocromi pastello, intrecci geometrici, rettangoli rosa, azzurri, verdi e gialli, pattern e raggiere: una serie di esperimenti d’astrazione divoravano lo scempio di scritte politiche, ingiurie, scarabocchi, cartacce.
La nuova legge era stabilita, prima tacitamente, poi chiarita a gran voce: niente svastiche, falci e martelli, scritte calcistiche, manifesti. L’armonia del colore sanciva la deposizione delle armi. Basta gang, fazioni, piccoli branchi di pischelli o adulti rabbiosi. Basta alla tirannia del brutto e del volgare.
Mario e i suoi amici, a un certo punto, uscirono alla luce del sole. E iniziarono a discutere coi residenti. Perché la conseguenza migliore di tutto questo non fu la bellezza ritrovata del quartiere, quanto l’energia che ne veniva. Qualcuno, afferrando un pennello, ritrovava la voglia di evadere dal baratro quotidiano; qualcuno iniziava a scambiare opinioni coi vicini sulla scelta di un colore, sulla facciata pulita, sul Trullo che cambiava. E c’era chi offriva un piatto di spaghetti ai pittori in azione, chi si fermava a sbirciare, chi si lasciava contagiare partecipando al gioco. La pittura come attivatore sociale.

C’erano – e ci sono – ragazzini incattiviti, che alle tinte pastello preferiscono lo sfregio e il pugno duro; a questi ragazzi Mario mette i colori tra le mani e prospetta un’alternativa, sul piano della creatività e della partecipazione. Certi si salvano, altri restano attaccati al loro destino di micro criminalità e di vuoto affettivo. Ma la battaglia è in atto: Pittori e Poeti stanno provando a costruire una comunità. E versi e colori non sono che la scorza. Dietro ci sono storie, vicende private, possibili riscatti, distanze e appartenenze.
I Pittori Anonimi del Trullo, oggi, vanno in giro per tutta Roma. Li chiamano le scuole per colorare le pareti insieme ai bambini. E loro vanno, spesso senza nemmeno una copertura spese. Una specie di missione. Là dove lo Stato non c’è, il cittadino – a volte – risponde con l’esempio. Lo scontro politico è già bypassato. Perché mentre la politica muore, fra talk show e manifesti elettorali (abusivi), magari sta già risorgendo in forme autonome e micro comunitarie.

STREET POETRY E STREET ART. IL FESTIVAL
“Ecco la Street Art, ar popolo appartiene / Potenza nelle vene che spezza le catene / Ner monno che se spegne è foco nella strada / Che ‘n giorno apre l’occhi e se trova tatuata / Non conosce serrature e orari de chiusura / De ‘n museo a cielo aperto indomabile creatura”. Così si chiude una poesia di Er Bestia, che bene racconta il legame resistente del quartiere con l’arte di strada. Amicizie, frequentazioni, passaggi di artisti e progetti comuni. Come nel caso di Solo, street artist con la passione per i fumetti, anche lui figlio del Trullo, nato qui 33 anni fa, cresciuto in mezzo a quei ragazzini che oggi si reinventano Poeti e in mezzo a quei Pittori che un tempo erano gli amici del papà, prima che la vita se lo portasse via, prematuramente. Legami e ancora legami, tra biografie private e intrecci professionali.
Solo, nel 2014, insieme ai Poeti, i Pittori, allo studio Trasformazioni Urbane e al lettering artist Pepsy, ha regalato al suo quartiere la splendida Nina, opera corale e simbolica, divenuta simbolo di questa rigenerazione attiva.

E c’è anche la Street Art al centro della terza edizione del Festival Internazionale di Poesia di Strada, approdato – dopo Milano e Genova – proprio in questo angolo di Roma, fra il 17 e il 19 ottobre scorso. Declinando il tema dei “Viandanti”, street artist e street poet hanno lavorato in coppie, tra muri di palazzi e saracinesche di negozi. Effetto didascalico evitato. Pittura e scrittura si sono tenute insieme a partire da un’urgenza di fondo: leggere l’anima del Trullo e restituirla in una forma creativa. L’alchimia è sgorgata da sé.
Dal ritratto di Mario nei panni di scrivano, magistralmente dipinto da Gomez sul filo di un toccante componimento del Poeta del Nulla – opera dedicata alla potenza dell’ombra come altro da sé, racconto intimo, linguaggio notturno – all’efficace intervento dei milanesi Ivan e Piger: una membrana di calligrammi rossi e azzurri, a ricalcare un frammento architettura, nascondendo parole chiave e versi di resistenza lungo un tappeto di scrittura goticheggiante, preziosamente contemporanea.

E poi Solo – parte attiva dell’organizzazione del Festival – che nella piazza principale ha dipinto un ritratto oversize di Laura, vecchia amica del quartiere, scomparsa di recente; Moby Dick, col suo omaggio allo sguardo magnetico delle donne d’Oriente, creature in fuga, in cammino, in trincea; Diamond, che sulla facciata di una scuola ha tracciato con maestria i profili di un uomo e una donna, agganciati in un romanico stemma d’antan; Mr. Klevra, col suo angelo custode, raffinata apparizione spirituale; Bol23, col suo iconico pappagallo; Marcy, che ha sospeso un funambolo nello spazio, sulle orme di un “coraggio clandestino”; Gio Evan, col suo inno alla gioia per i ragazzi di strada, impreziosito da un dipinto di Jerico… Giunti da tutta Italia i poeti – tra gli altri anche Ste-Marta, Factory Wrting, M.E.P, Mr. Caos, Alfonso Pierro… – per una piccola Woodstock di periferia nutrita di parole, ritmi, haiku. sonetti. Una grande festa creativa, ma soprattutto umana.

I concerti al Cso Il Faro, intanto, hanno supportato l’operazione con gli incassi, grazie alla generosità dei musicisti, privatisi dei cachet. Cantautorato romano, indie, tanto rap e come special guest i Colle der Fomento, sempre travolgenti.
“Ci ancoriamo per navigare altrove” è il verso di Poesie Pop Corn inciso sul muro di Diamond. Forse la sintesi migliore di questo festival e di tutta la mitologia urbana fiorita intorno al Trullo. Essere insieme, per affrontare traversate difficili, per inventare viaggi collettivi, laddove è nella collettività che si definiscono la rotta, le pratiche di navigazione, i codici d’attraversamento, gli orizzonti possibili e le traiettorie giuste. Immaginando d’essere guerrieri di una guerra di quartiere, di una rivolta gentile. Combattuta a colpi di piccole poesie e di visioni monumentali.

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La Rivoluzione artistica delle periferie

Nell’immaginario comune, la periferia è quella parte della città meno importante, che non merita attenzione.

Ed è proprio questo il motivo della “rivoluzione delle periferie”: crearsi un’identità, una buona fama, riqualificare il quartiere e i suoi spazi attirando l’attenzione di un vasto pubblico e specialmente dei suoi abitanti.

Infatti attorno a noi, le periferie stanno cambiando.

Siamo stati testimoni della rinascita del quartiere Tormarancia, grazie al progetto Big City Life, che ha trasformato i lotti in “musei a cielo aperto” chiamando artisti di tutto il mondo a realizzare le opere di Street Art che troviamo sulle facciate dei palazzi.

Progetto analogo è avvenuto al Trullo (tra via Portuense e la Magliana), dove però i finanziatori sono gli abitanti stessi del quartiere.

Quelli che una mattina si sono svegliati ignari e hanno trovato un’esplosione di colori aprendo la finestra.

Opera del gruppo dei Pittori Anonimi del Trullo, che con i loro mezzi, la notte dipingono e rallegrano gli spazi comuni del quartiere al grido di “Non cambiamo quartiere, cambiamo il quartiere!”.

Questo gruppo, coinvolgendo studenti, bambini e ragazzi, ha avuto subito un notevo successo e supporto dagli abitanti del quartiere che hanno istituito nel bar del mercato rionale un salvadanaio per raccogliere fondi destinati al materiale per dipingere: vernici, pennelli, pennarelli. Per informazioni sul loro operato: pagina Facebook “Pittori Anonimi der Trullo”.

I Pittori hanno subito trovato una collaborazione con i Poeti der Trullo (www.poetidertrullo.it), un gruppo di sette ragazzi in anonimato che manifesta le proprie riflessioni ed emozioni sulla vita e sulla città attraverso una poesia calata nell’ambiente: scritta in dialetto romano.

E così questi due gruppi (sostenuti anche da Poesie Pop Corn, Solo e il Municipio XI) hanno dato vita ad un evento che ha richiamato molta attenzione anche fuori dal Trullo: il Festival Internazionale di Poesia di Strada.

Sviluppatosi il 16, 17 e 18 Ottobre attorno via del Trullo e al CSO Ricomincio dal Faro (di cui si possono trovare gli eventi sulla sua pagina Facebook “Cso Ricomincio dal Faro”), l’evento aveva come tema “i Viandanti” e organizzava attorno a questo argomento installazioni, reading poetici e laboratori.

Era inoltre possibile vedere all’opera famosi Street Artist, accompagnati da poeti provenienti da tutta Italia, realizzare nel quartiere murales monumentali basati sulle poesie e sulla libertà di espressione.

L’emblema di quest’unione tra poesia e pittura è un coloratissimo murales realizzato da Solo: la Nina. E’ una ragazza che piange la scomparsa dell’arte dal Trullo. Accanto alla figura, una poesia: “Poeti e pittori non so stati vinti,

so vivi’n colori, frammenti, dipinti.”

E’ la dedica con cui i poeti consolano la Nina: l’arte non sparirà.

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Quadraro: la Street Art nella quotidianità del quartiere

Estate, momento di vacanze, tempo libero e maggiore disponibilità per approfondire i propri interessi. Per chi rimane in città gli stimoli a Roma non si può proprio dire che manchino e anzi, se ne aggiungono altri in luoghi fino a poco fa trascurati.

Stiamo parlando del Quadraro, storico quartiere della capitale che da qualche tempo è divenuto meta di turisti stranieri attirando l’attenzione dei cittadini romani stessi e finendo anche sulle guide turistiche di ultima edizione.

Il motivo? La valorizzazione di un posto può avvenire in vario modo. Qui al Quadraro si è scelta l’arte, nello specifico la Street Art, molto in voga negli ultimi anni sdoganandosi dalla sfera dell’illegalità e del graffitismo per assumere connotati artistici veri e propri. Ad aprire la strada più di tutti il noto urban artist Banksy, che già dai primi anni del 2000 ha iniziato a diffondere messaggi su tematiche sociali.

MuraleQuadraroL’arte di strada offre infatti la possibilità di avere un pubblico vastissimo, spesso molto maggiore di quello di una tradizionale galleria d’arte e tale concetto si sposa bene con il Quadraro, quartiere popolare per eccellenza dove ora prolificano queste opere a cielo aperto.

MuraleQuadraro1Nasce dunque il Mu.Ro Museo di Urban Art di Roma, ideato da David Daviù Vecchiato, museo integrato nel tessuto sociale in quanto gli artisti si relazionano con la conformazione e la storia dei luoghi e degli spazi stessi dove esprimono la loro arte in accordo con le storie e le idee di chi questo quartiere lo vive quotidianamente. Infatti le opere vengono proposte e discusse insieme ai comitati di quartiere stessi.

Mu.Ro è un progetto gratuito a cui collaborano vari artisti che hanno operato anche al MAAM (Museo dell’Altro e dell’Altrove), gratuito e che nasce dal basso appunto dove l’Arte Contemporanea possa integrarsi alla vita di quartiere in un percorso di rinascita.

MuraleQuadraro2Il Mu.Ro organizza anche percorsi con visite guidate raccontando gli aneddoti della lavorazione, la storia degli artisti e del quartiere.

Anche i bambini sono coinvolti tanto che sono organizzati tour su misura per i più piccoli, raccontando l’arte come una grande fiaba.

Sul loro sito la mappa completa delle opere e l’elenco degli artisti che le hanno realizzate http://muromuseum.blogspot.it/

Un nuovo livello culturale dunque in una Roma conosciuta solo per le sue bellezze antiche in un progetto di riqualificazione territoriale e modernizzazione del concetto stesso di arte. La Street Art come nuovo linguaggio per comunicare emozioni, evocare memoria e costruire una nuova identità attraverso il linguaggio visivo.

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La Street Art nelle periferie di Roma e il caos della retorica

Al Pigneto, passeggiando, può capitare di incrociare lo sguardo extralage di Pier Paolo Pasolini, che fa capolino dalla grondaia di una palazzina a tre piani. Tra le tapparelle azzurre dei palazzi, sotto le piante curate dal pollice verde della signora del secondo piano, dalle archeologie industriali di Ostiense al museo a cielo aperto MURO del Quadraro, Roma sta vestendo, nell’ultimo anno, una vocazione underground inaspettata. La Street Art si sta arrampicando sui muri dei palazzi e sta entrando a gamba tesa nelle nostre vite, insinuando nell’immaginario collettivo la possibilità di un’Urbe diversa, non più esclusivamente rafferma in una scala cromatica che è quella delle rovine, bensì tela di una palètte eccentrica e straordinariamente viva. Lo dicono a gran voce i toni accesi del murales El renacer dell’artista Liqen in Via Maiolati, zona San Basilio, che potremmo eleggere manifesto della rinascita: un rastrello spazza via i detriti di una città in cui l’indifferenza al decoro e il gioco facile al degrado sono ormai morti, lasciando spazio a nuovi germogli. Da Roma Nord a Sud, a sbocciare è l’iniziativa di cittadini privati, enti pubblici, associazioni, progetti o realtà che producono cultura indipendente, organizzano e commissionano opere, all’unisono col nuovo ossigeno dei rinati Comitati di Quartiere. È dei mesi di gennaio e febbraio il progetto Roma Creativa, promosso dall’Assessorato alla Cultura allo scopo di “riqualificare spazi pubblici attraverso progetti di arte pubblica e street art”. Insomma, la capitale non gioca più a fare la bella addormentata e l’arte emerge come un toccasana nell’ottica di una riqualificazione di periferia a basso costo. Il pericolo, però, è di riempire le periferie romane di tante belle macerie colorate.
Perché sì, quel che deriva dall’invasione di Street Art è indubbiamente positivo – non può che essere meraviglioso che su Via dei Pisoni, a Porta Furba, spunti un nudo di Modigliani “a tutta facciata”- e sì, non c’è niente di più incantevole di una rivoluzione colorata che è nata “dal basso”, genuina e potente. Ma è proprio nelle rivoluzioni genuine, quelle che mettono tutti d’accordo, che si rischia lo scivolone nella retorica e nella malìa. La Street Art è oro per gli occhi di chi di arte se ne intende e ne guarda l’attestazione nelle altre capitali europee, ed è ben vista anche dalla suddetta signora del secondo piano, che magari di arte non è appassionata ma è felice di riempirsi gli occhi di colore dopo anni di abitudine al degrado di periferia. Il trend de “Il quartiere Tal dei Tali rinasce con la street art” riempie le prime pagine dei quotidiani da qualche mese, ma fino a che punto è così? Nessun cinismo, attenzione. Solo un po’ di perplessità nei confronti dell’enfasi con cui le istituzioni poco (pochissimo) presenti nei quartieri più disagiati di Roma calano l’asso nella manica, presentando la Street Art come riqualificazione, con un tono di retorica che suona quasi come ‘assoluzione’ da altro. Lungi dal voler cadere nel leitmotiv de “i problemi sò artri”, va detto che, ora, spetterebbe a chi di dovere regalare alla città un contorno adeguato a tante aspettative colorate. Riqualificazione è anche programmazione, pianificazione. Da che mondo è mondo prima del colore serve un disegno, e a Roma manca un progetto che accompagni all’enfasi artistica una realtà progettuale in senso più ampio. Manca che la Street Art non diventi occultare altri problemi, legati ad esempio alla manutenzione degli edifici, di biblioteche, di centri anziani, di impianti sportivi, di parchi, cioè di progettazione, architettura e di investimenti a lungo termine. Manca che mentre il Pigneto (per dirne uno) si riempie di meravigliose opere di Street Art, qualcuno pensi anche a proteggere la lotta di quei cittadini che nel quartiere si sono battuti per la nuova e sacrosanta Isola Pedonale, e poche settimane dopo si sono ritrovati 300 grammi di hashish nascosti tra le aiuole.

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I rischi della “muralizzazione” delle periferie

Street art come trompe l’oeil dello stato sociale.

I murales stanno riempiendo le periferie delle città italiane. Soprattutto Roma negli ultimi anni ha visto decine di grosse opere d’arte murarie disseminate per quartieri popolari, spesso difficili, come San Basilio, Torpignattara, e Tormarancia, e altri nel tempo diventati più residenziali come Garbatella, Quadraro e Ostiense. Oltre agli aspetti indubbiamente positivi, esistono rischi della “muralizzazione” delle periferie, su cui è bene tentare una riflessione.

A differenza dei graffiti che a partire dagli anni Ottanta, per un buon ventennio, hanno colorato i muri delle metropoli italiane, la nuova ondata di murales non ha nessun legame (se non rintracciabile in alcune delle biografie degli artisti) con il movimento hip hop, e non rappresentano l’autoaffermazione estetica di una precisa comunità underground. Di fattura artistica più intellegibile, hanno raggiunto a livello internazionale un gusto di massa precluso, tranne rare eccezioni, ai vecchi graffiti.

Un esempio su tutti è quello di Banksy, il misterioso artista britannico ormai diventato il più potente simbolo della Londra moderna. Tornando all’Italia, che siano partiti dal basso, in maniera spontanea, o sempre più spesso programmati da associazioni o istituzioni territoriali, i murales nelle periferie hanno una funzione di riqualificazione urbanistica e culturale.

Agiscono, cioè, in quartiere sviluppatisi nei decenni in maniera spontanea e non pianificata, in certi casi tramite edifici frutto di autocostruzione, spesso sgradevoli esteticamente. Sono quartieri che alla natura di dormitorio e di borgata con le sue leggi e i suoi valori estranei e di difficile comprensione all’esterno, hanno nel tempo fatto spazio a successive ondate migratorie che ne hanno reso sempre meno intellegibile il codice di interazione comune, che hanno sfaldato il tessuto sociale antico, senza sostituirlo con uno nuovo.

Quartieri come Torpignattara, che in pochi decenni si è trasformato da borgata pasoliniana, a quartiere della mala, a periferia multi-etnica per eccellenza, con tutte le problematiche del caso, come le tensioni e i conflitti più o meno scoperti tra comunità diverse. In questo contesto di smarrimento della visione che una borgata non più borgata ha di sé, in cui i palazzoni hanno sostituito e si sono affiancati alle baracche nel giro di qualche decennio, i murales vengono utilizzati come elemento ricombinante delle differenze socioculturali del quartiere.

Il linguaggio del murale, ibrido, informale, non legato a una lingua in particolare, e soprattutto, destinato alla strada, dunque al passaggio casuale, diventa il migliore strumento per veicolare la rinascita di un quartiere.

In luogo delle grigie facciate dei palazzoni di San Basilio, quartiere conosciuto nel resto della città per lo spaccio di droga, sorgono enormi murales firmati da artisti apprezzati a livello nazionale e internazionale, stessa cosa avviene a Tormarancia e a Torpignattara. Sten&Lex, Blu, Alice, Diavù, Jef Aérosol, solo alcuni dei nomi impegnati in questa riscrittura dei muri delle periferie romane.

Qual è il risultato principale, oltre a dare un po’ di colore dove colore non c’è, di queste opere, spesso finanziate dai municipi, come il progetto Mu.Ro al Quadraro, da associazioni locali tramite bandi, o persino da gallerie d’arte, come nel caso di Wunderkammer a Torpignattara? È il contributo in termini di auto-percezione positiva che il quartiere ha di sé.

Dunque, non più, o per lo meno non solo, il quartiere sporco, “invaso dagli stranieri”, area di spaccio, ma il centro di sviluppo di arti urbane, di fermento culturale. Ormai nelle periferie muralizzate di Roma si organizzano tour guidati. A fine aprile il Comune di Roma lancia un video promozionale turistico dei murales della città e Artribune e Toyota lanciano la prima app di geolocalizzazione della street art nella Capitale. Tutto questo dà certamente la possibilità all’abitante del luogo, soprattutto a bambini e adolescenti, di intravedere per lo meno questo sviluppo alternativo per il quartiere che gli appartiene.

Il regalo che questa politica di ridisegno delle periferie fa tramite i murales è quindi quello dell’orgoglio dell’unicità, non tramite il meccanismo di stigmi antichi ma attraverso quello di risorse nuove e positive.

Questo corto circuito tra murales e periferie, però, porta con sé dei rischi altissimi, sia per i primi che per le seconde.

Per i primi, o meglio per la street art in generale, il rischio principale è quello di perdere la sua stessa anima. L’arte di strada nasce come differenza rispetto ai prodotti destinati ai musei e agli interni. Questi ultimi nel corso dei decenni sono stati talmente addomesticati dal gusto medio, da essere diventati inerti e inoffensivi.

L’arte di strada nasce per parlare ad altri, ai passanti nelle vie, ai nevrotizzati dai ritmi della città, alle famiglie di migranti. Lo fa stendendosi su un muro e lo fa, quando lo fa bene, creando un cortocircuito disturbante con la cultura dominante, che sia il capitalismo, il consumismo, l’autoritarismo, il fatalismo o il familismo clientelare.

Il successo di Banksy deriva proprio dalla capacità (associata all’abilità di presentare le sue idee con estrema gradevolezza formale) di “stornare” tramite piccoli dettagli nel significante il significato maggioritario in messaggio di rivolta (fosse anche solo esistenziale).

Cose succede però a questo punto? Succede che Banksy è così bravo che piace a tutti, anche a quelli a cui non vorrebbe probabilmente piacere. Succede che i mercatini e i negozi di souvenir di Londra cominciano a vendere più t-shirt e cartoline con la riproduzione pirata (che formidabile contrappasso) dei murales di Bansky, che con l’effige del Big Ben.

Vai a Londra e torni con un ricordo di Banksy. Non è proprio addomesticamento dell’immaginario, ma quasi ci siamo. Addirittura nel 2015 alcune amministrazioni britanniche comunicano l’intenzione di apporre delle lastre di vetro a protezione delle opere più significative della misteriosa primula rossa star della street art, per salvarle dagli atti di vandalismo.

Come una Monnalisa, come una pietà di Michelangelo. Chi non voleva entrare nel museo si è trovato circondato dal museo. Nel caso di Banksy si sono verificati atti di vandalismo e azioni di detournement sulle sue opere da parti di ammiratori e aspiranti writers desiderosi di farsi conoscere.

Meccanismi che testimoniano come ci si trovi di fronte a un’industria culturale in fase di maturità. In zona ostiense, sempre a Roma, esiste un’opera, Wall of fame, dipinta da JB Rock, che rappresenta la personale galleria dei miti dell’artista. Mescola Sergio Leone a Frida Kahlo, a Dante, fino a suo fratello. Riferimenti molto underground, ma finanziamento ricevuto da Mccann Erickson, una delle agenzie pubblicitarie più grandi del mondo, presente in centoventi Paesi.

Legittima l’aspirazione del muralista di vivere della sua arte, ma sorprende la scarsa consapevolezza di come i murales stiano cambiando la propria funzione all’interno della comunicazione pubblica.

Da luogo di critica a luogo di ratifica del potere. Sembra essersene accorto solo Blu, artista tra i più quotati a livello mondiale, tra l’altro uno dei pochi a quei livelli che lavora in sinergia con le vertenze sociali e politiche dei territori in cui opera.

Nel dicembre 2014, un enorme graffito fatto da lui su due muri di Cuvrystraße, nel quartiere di Kreuzberg, a Berlino, vengono cancellati durante la notte. Sui social si grida alla censura, allo sfregio, ma il giorno dopo è lo stesso artista a comunicare di aver eseguito personalmente il gesto.

Il motivo è la gentrificazione, la trasformazione di quel quartiere multietnico e popolare in un luogo radical-chic e a vocazione commerciale, e dunque il decadimento della ragione stessa di quell’opera lì. A memoria, è la prima volta che un artista di murales di quel livello compie un gesto politicamente così forte rispetto alla funzione della propria arte nel contesto urbano in evoluzione. Purtroppo la consapevolezza di Blu, in un contesto ormai dominato dalla stretta esigenza di autoaffermazione, è rara, quasi un’eccezione in un processo che sembra irreversibile.

Procediamo affrontando l’altro rischio, quello che corre la periferia nell’abbraccio asfissiante dei murales organizzati da enti e organizzazioni. È quello della sostituzione dei bisogni strutturali, come i servizi di prossimità, i trasporti, il decoro urbano, gli spazi culturali e di socializzazione, con la colorazione artistica delle facciate.

Laddove per un assessore alla cultura, un presidente di municipio, un sindaco, e in parte anche per un’associazione di territorio, è più semplice e meno dispendioso finanziare la stesura di un murale, facendo leva sull’orgoglio degli autoctoni, che trovare soluzioni efficaci a problemi complessi e di lungo radicamento.

Il murale se lasciato da solo a fronteggiare la deriva delle periferie diventa un vero e proprio trompe l’oeil dello stato sociale. Il restyling della borgata è cosa relativamente semplice e potente nell’immediato, perché contiene in sé tutti i punti di forza di un simbolo.

Evoca un cambiamento, che non è detto si sostanzi del tutto. L’Italia è un Paese profondamente innamorato dei simboli. Ma proprio per la sovraesposizione a forme di comunicazione di questo tipo, la velocità di logoramento e di sostituzione è sempre più rapida. Il simbolo, se non è sostenuto da segni destinati a durare, strutturali, si affloscia e lascia lacune ancora più brucianti.

Roma in particolare ha visto già l’esempio dell’amministrazione Veltroni, un sindaco che ha puntato tutto sul valore simbolico della ricostituzione di un senso di comunità, anche nelle periferie, attraverso incursioni spettacolari del tutto slegate dal tessuto sociale e urbano di destinazione.

Dalla notte bianca ai teatri di frontiera semi-abbandonati a se stessi. Il risultato è che con difficoltà solo pochi anni dopo si trova un romano disposto a dare un giudizio positivo di quell’esperienza, mentre viene ricordata con benevolenza l’amministrazione precedente, di Francesco Rutelli, per le infrastrutture stradali che hanno migliorato la mobilità.

Alla fine dei conti le buche nelle strade contano più dei mega-eventi al Circo Massimo, l’assenza di asili nido infinitamente di più di un bellissimo murale di Blu.

Quello che ci permette di scartare da questa apparente trappola è la consapevolezza che nel caso delle periferie in transizione, smarrite e incerte nell’identità, il lavoro sull’autopercezione delle potenzialità territoriali, cui contribuisce la street art, può favorire l’insorgere di una coscienza diffusa della necessità di reclamare condizioni di vita migliori. Prima individualmente, poi collettivamente, poi in maniera organizzata. Sta già succedendo, anche grazie e nonostante, la street art.

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Tutti i bambini delle periferie in un murales firmato da Jorit

Sospeso nel vuoto tra cielo e terra, per dare un volto bambino alle periferie di Napoli. Jorit Agoch, papà italiano e mamma olandese, è nato è cresciuto nella periferia di Napoli nord. Ha iniziato a dipingere a tredici anni con lo spray sui muri della sua città natale, Quarto e non ha più smesso, diventando uno dei più promettenti graffiti artist della scena italiana ed estera. È famoso per i suoi graffiti iperrealisti, ispirati a star del mondo hip-hop. Ma a Ponticelli ha deciso di dipingere il volto di un bambino: un bimbo per dipingere i tanti bambini che popolano le periferie e raccontare i loro sorrisi, i loro giochi, le loro storie. Un murales di dieci metri. L’intervento artistico, coordinato da Inward- Osservatorio sulla creatività urbana (che da anni promuove la street art), è inserito nel programma dell’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali del dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei Ministri) ed è patrocinato dal Comune di Napoli. In via Aldo Merola, a Ponticelli, Jorit Agoch lavora con le sue bombolette, abbarbicato su un ponteggio mobile messo a disposizione dal Comune di Napoli. Il gruista, Michele, in genere lavora nei cantieri edili, ma per questa volta ha cambiato lavoro e segue, asseconda e dirige con la sua gru i movimenti di Jorit, grazie a una coppia di walkie talkie. I residenti di via Merola, come la signora Mariella, che abita nel palazzo e segue i lavori dal balcone, hanno adottato l’artista e l’operaio, rifocillandoli con succhi di frutta freschi e panini. Per ultimare il graffito ci vorranno dieci giorni. Finito il lavoro Agoch partirà per New York

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La Street art è la strategia per le periferie? Non regge

Nella retorica che accompagna la riqualificazione delle periferie, il continuo ricorrere alla Street art, alimenta le critiche anche dal fronte Municipale. Per Catarci, semplicemente, è una strategia che “non regge”.

La grande enfasi con la quale le istituzioni cittadine, in primis il Vicesindaco Nieri e l’Assessore Marinelli, hanno lanciato mesi fa il tour della Street art, era stato un primo segnale. L’arrivo del Sindaco Marino a Tor Marancia, ne ha rappresentato invece la conferma. L’attuale Giunta di Roma Capitale sembra proprio che abbia deciso d’ investire molto sull’arte murale nelle periferie. Probabilmente anche troppo.

LA STREET ART A TOR MARANCIA – Nei lotti dell’ex Schangai, l’arrivo di pennelli e pittori internazionali, era stata accolta con una certa ritrosia. Le facciate ridipinte nei palazzi dell’Ater, lì come a San Basilio, non potevano in alcun modo occultare altri problemi, legati ad esempio alla manutenzione degli edifici, o alla recente realizzazione di ascensori solo per alcuni fortunati. A pochi passi dalla cerimonia che aveva visto sfilare tutto il gotha capitolino, sotto il pur pregevole murale di Diamond, c’è un parco la cui gestione risulta da anni problematica. Un cittadino in quell’occasione lo ha fatto notare. Si tratta dell’unica area verde del quartiere, se si esclude la Tenuta di Tor Marancia, che sta divenendo una chimera.

GLI INVESTIMENTI NECESSARI – Anche il Presidente del Municipio VIII, accogliendo le lamentele dei cittadini, durante quella passerella aveva lanciato un campanello d’allarme. “Questa  bellissima operazione – aveva sottolineato in quell’occasione il Presidente Catarci – non sostituisce la necessità di tanti interventi primari, dalle fognature ai cornicioni, insieme alla necessaria cura degli spazi comuni. Perchè servono anche queste operazioni in un quartiere semicentrale come Tor Marancia”.

I MUNICIPI IL COMUNE E LE PERIFERIE – Oggi, il Minisindaco, è tornato sul tema. “Bellezza e colori davvero non sono sostitutivi di abitazioni decenti, cortili e marciapiedi praticabili, servizi, biblioteche, centri anziani, impianti sportivi, giardini”  ha ricordato il Presidente Catarci sulla propria pagina facebook.  Il discorso che ha fatto il primo cittadino del Municipio VIII è semplice. Da una parte ci sono “gli Enti municipali, che non hanno un soldo da impiegare in altri significativi interventi di riqualificazione urbana” e quindi fanno di necessità virtù, abbellendo “edifici, muri, sottopassi e sovrappassi” con le opere murarie.  Per loro, rivendicare questo tipo d’iniziative, sembra avere un senso. Diverso è il discorso del Campidoglio che “nella foga di ‘appropriarsi’ centralmente di belle intuizioni sviluppate nei territori sta spendendo fiumi di parole sulla street art – va giù duro Catarci –  spesso ignorando gli stessi Municipi che l’hanno avviata. Si eviti, perlomeno, di trasformarla in una strategia per le periferie”. Perché semplicemente, per dirla con il minisindaco,  “non regge”.

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Tra Lazio e Campania arriva il festival della street art

Da marzo a giugno 40 street artist provenienti da tutto il mondo lavoreranno su altrettanti spazi urbani per trasformare le zone più trascurate in un museo a cielo aperto.

«Un muro è fatto per essere disegnato», diceva Keith Haring. E di muri il festival della street art Memorie Urbane, nato nel 2011 da un’idea di Davide Rossillo, ne ha già trasformati più di 90.
Per la quarta edizione, che coinvolgerà da marzo a giugno ben 7 città tra Lazio e Campania, il programma sembra essere sempre più ambizioso. 40 street artist provenienti da tutto il mondo, alcuni dei quali per la prima volta in Italia, lavoreranno su altrettanti spazi urbani per «trasformare le zone più trascurate della città in un museo a cielo aperto, accessibile a tutti», come afferma il curatore.
La street art si conferma come un brillante strumento per offrire nuova linfa a luoghi solitamente abbandonati o poco noti, per aprire un dialogo sempre nuovo con il territorio e i suoi abitanti.

Tra Lazio e Campania arriva il festival della street art: da marzo a giugno 40 street artist provenienti da tutto il mondo lavoreranno su altrettanti spazi urbani per trasformare le zone più trascurate in un museo a cielo aperto.

Ciascuna opera è accompagnata da una targa con le informazioni riguardanti gli artisti.
Inoltre, grazie all’App Urbancolors dei francesi Urbanmedia sarà possibile geolocalizzare gli interventi e con il sistema Koin Art si potrà avere accesso via smartphone ad approfondimenti su ogni street artist.
Il programma, che si svolgerà secondo diverse tappe temporali lungo i due mesi, prevede anche una serie di mostre personali all’interno di gallerie e spazi museali, come quella, imperdibile, dedicata a Martha Cooper. Una selezione di scatti della grande fotografa americana, che ha documentato la street art a New York sin dagli anni ’70, saranno esposte negli spazi della Pinacoteca comunale di Gaeta dal 29 marzo al 17 maggio.

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The political impact of murals

Murals define our sense of place and neighborhood identity, their disappearance and destruction can therefore evoke a sense of loss. Two cases from Berlin and New York show that reasons for their disappearance are often politically charged and can be understood in the light of the process of gentrification.

A sense of deep loss hit me when I saw that the iconic mural depicting two white human figures trying to rid one another from their masks in Kreuzberg (Berlin) was painted over. The same feeling I had sensed when another famous collection of murals known as 5Pointz was painted over by night, at once abolishing a monument for gratify art work in Queens (NYC). Learning  the diverse reasons for their abolishment provides us with an interesting perspective on politics, murals and the process of gentrification.

Murals, or the art of producing artwork directly on walls and/or other permanent surfaces goes back to ancient times. In modern history, probably the most famous murals originate form the Mexican Mural Renaissance where Diego Rivera, David Alfaro Siqueiros and Joseé Clemente Orozco (also known as the big three) who painted murals with highly social and political messages in both Mexico and Northern America.

Have a look at this impressive 360° overview of one of Orozco’s murals in Dartmouth, depicting familiar themes in his artwork like indigenous people, religion, colonization, greed and modernization.

The political connotation of murals and their existence within the political sphere has been persistent throughout history, from gratify tags expressing dissatisfaction with the system to funded mural projects that take a stand for community rights. Mural art sends out a strong message and can be defining for our understanding of place and neighborhoods. They are present all over the world and express different meanings in different contexts. At the same time murals are vulnerable and, when not commissioned to be painted inside a venue, exists by the merit of the public. Art on public display can always be damaged or destroyed by those who don’t take kind to its meaning.

Queens

This brings us to Queens, New York. Here, next to the MOMA PS1, an iconic building stood for over 2 decades that had become one of the most famous public display of graffiti in the world. The huge building block had been taken over by graffiti artists. Artists rented affordable studio spaces inside the building, but it was their art on the outer walls that had taken a life of its own: 5Pointz had its own curator, artists were commissioned to paint on the walls, and people from all over the world came to visit the overwhelming display of graffiti. The building send out a powerful message of unity, advocated for the importance of graffiti and public art, and brought pride to a deprived neighborhood.

The building had always been the property of Jerry Wolkoff, who had bought the property in the 70’s, but had left it to be for a long time. After the studio’s where summoned to close due to safety issues, the artists kept working on the outer façade.  However, with the neighborhood context gradually changing due to the process of gentrification, the Wolkoff family decided to start the development of their property. Their plan proposed to demolish the iconic gratify museum to build new high rise luxury condos. Understandably the artist community staged protests, but woke up on November 19th 2013 to see their work blatantly whitewashed, wiping all of 5Pointz from its existence.

As artists re-tagged the building in the wake of the whitewashing, a powerful public art project by GILF! raised awareness on the process of gentrification and its effects. The artists draped the former 5Pointz building in a roll of police caution tape that stated “Gentrification in Progress”.  It is a powerful and blatant reference to the process that has clearly taken its tole on a public display of art, and raises questions on the display of power relations within the city.

Berlin

On the contrary, the city of Berlin has embraced public art, realizing that the graffiti and murals have defined the city’s character as authentic and gritty. Characteristics that have drawn so many people to the capital. In Kreuzberg the italian street artist BLU has created two large scale murals that have become an iconic part of the neighborhood, drawing large crowds of tourists. The murals in Kreuzberg referenced to capitalism, and the Eastern and Western divide.

On December 12th 204, Berlin woke up to see its iconic murals had vanished, all that remained were two black walls. Speculations soon arose stating that property developers had taken a stand, but it soon came to light that it had in fact been the artist and his collaborators  who had personally painted over the murals. Stating: “we felt it was time for them to vanish, along with the fading era in Berlin’s history that they represented. The story of the mural is directly linked to the history of this district of the city, which used to border directly on to East Germany.”

As the murals had become a part of what attracts so many to the city. The artist decided that in fact, the murals had become part of the process of gentrification that is turning Berlin in a city that no longer connects to the period when the murals were painted. The process of gentrification in Berlin is often said to minimise the availability of cheap housing and large vacant lots for creativity and experimentation. Characteristics that produced a context in which murals like the ones from BLU could be created.

To conclude, the political mural tradition still prevails in our cities today, in widely different contexts and depicting local and global struggles felt by individuals, neighborhoods or societies on a whole. Their relation to the process of gentrification has become increasingly obvious, and as these two instances show they can interact with one another in different ways. Murals leave a mark on the identity of a neighborhood, and probably for this reason the act of whitewashing is felt so strongly by many, evoking a feeling of loss. Fact remains that the act in itself sends out an incredible powerful message, sometimes even more politically charged than what the mural depicted in the first place.

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Street Art a Roma. l’altro turismo

È una mappa in movimento: mutante, mercuriale, imprevedibile. Cambia di giorno in giorno, anzi dalla notte al giorno. Alzi gli occhi e l’intera facciata di un palazzo ha un altro volto, senso, aspetto. Roma è arrivata tardi rispetto alle altre capitali europee ma oggi è una delle città più sintonizzate sui fermenti della arte pubblica urbana. Un museo a cielo aperto, muri che parlano, quartieri trasformati da artisti di livello internazionale.

Si chiamano Blu , Borondo , Roa , Sten & Lex , Agostino Iacurci , Mr. Klevra , Seth , Lucamaleonte , Tellas , Philippe Baudelocque , Herbert Baglione , Omino71 . Una lista parziale, in continuo divenire, che si accresce grazie a contributi che si intersecano, talvolta in contraddizione, talaltra in aperto conflitto. Tra di loro c’è chi ha scelto la via antagonista della creatività come logo politico, fieramente illegale, senza passaporti, bolli, accrediti ufficiali. Altri invece dialogano con le istituzioni e sul crinale complesso del “media-messaggio” si rivolgono a un pubblico globale, incarnando più istanze. Sia come sia è una vivacità insperata in una metropoli sostanzialmente conservativa come questa, poggiata con statica mollezza su sé stessa e sulla retorica della Caput Mundi.
Benvenuti allora. Benvenuti nell’altra Roma, quella che si batte e combatte. Ieri quasi ghetto, oggi quasi centro nel divenire fluttuante di una città che non ha più ceti sociali ma strappa le distanze, le riduce, le ricuce in forma di grotteschi paradossi, si cresce addosso. Una tavolozza da occupare fuori e dentro i 68,2 chilometri del Gra, Grande Raccordo Anulare, la cinta che dovrebbe contenere senza riuscirci i fianchi dell’Urbe, creatura bulimica che straborda metastatica verso i caselli autostradali, i Castelli, il mare: hinterland perpetuo Gli artisti urbani, attraversando questa Roma mastodontica, le restituiscono in fondo un’interezza smarrita: la possiedono, ne narrano le contraddizioni e le schizofrenie, ne ridisegnano la geografia usando spray, texture, carte veline, stencil, sticker, oppure litri di tempere, acrilici, pennarelli, gessi. Rivoluzione centripeta. Avanguardie dinamiche sostenute da gallerie di creativi come Wunderkammern o 999 Contemporary , oppure che trovano casa, asilo concettuale, rifugio e paradigma sociale nell’unico museo abitato/occupato: il Maam , luogo di frontiera rispetto all’arte ufficiale.
Fuori e dentro. Ogni artista qui ha il suo segno, come un marchio. Realizzano opere destinate a sgretolarsi, alla mercé dei tag dei writers, dei manifesti pubblicitari, dello sfregio o degli agenti atmosferici, ma che sopravvivono sul web anche quando vengono cancellate grazie a foto e video. Arte come atto di rivolta e denuncia, gesto anarchico coniugato al plurale, creatività nata senza mercato e che tuttavia qualcuno cavalca e che fa gola ai mercanti. Arte che ha fatto i conti con denunce, censure, multe e che adesso le amministrazioni hanno sdoganato per colorare pezzi di città, riqualificare l’edilizia popolare, cambiare le prospettive in quartieri dimenticati come San Basilio o Tor Marancia . I risultati sono stupefacenti e spesso realizzati di concerto con chi abita i palazzi dell’Ater, quel popolo di lotte per la casa che ha guadagnato ogni centimetro di tetto sopra la testa attraverso battaglie memorabili, deportazioni, occupazioni, liste, fatica. Dunque Roma ha oggi molte nuove pelli da mostrare. Tanto che anche il turismo d’élite se n’è accorto e cerca oltre il centro-cartolina. Cerca e trova murales immensi, opere minimali, segni da ammirare, fotografare, vedere. E farsi raccontare. Testaccio, Ostiense, Quadraro, Pigneto, Casilina, San Lorenzo, San Paolo, Tor Bella Monaca, Ottavia, Trullo. Avanti il prossimo. Più è periferia, più c’è spazio per dire una storia, interpretare una metafora. Se ne sono accorti i tipi di NotForTourist , agenzia di viaggi specializzata in tour alternativi che organizza visite guidate nelle zone più “calde” dell’arte di strada romana. Esattamente come accade a Berlino, Londra, New York o Parigi. Nessun finto centurione, zero souvenir, un’altra città. C’è richiesta, e loro la soddisfano. Su TripAdvisor gli escursionisti commentano soddisfatti. Scrive FrancYTravel: “Il tour è stato interessante e stimolante… camminando nei quartieri di Ostiense e Garbatella abbiamo scoperto, grazie alla nostra guida, degli angoli nascosti in cui l’arte, libera di esprimersi, è alla portata di tutti. Il percorso era ben organizzato e ci ha permesso di ammirare davvero tanti tesori! Sicuramente lo raccomando per conoscere una Roma diversa e speciale”. Stanchi del Colosseo o di Fontana di Trevi? Provate con Blu al Porto Fluviale. Spiega bene il senso e il concetto David Diavù Vecchiato, artista e insieme curatore del M.U.Ro. Museo di Urban Art al Quadraro che semina colori fino a Borghesiana, Torpignattara, piazza Epiro : “ Dove si dipingono murales si verifica una riappropriazione da parte dei cittadini di territori e spazi spesso dimenticati e lasciati all’incuria. C’è inoltre riappropriazione del concetto stesso di arte, perché possono trovare opere in strada anche coloro che non sono avvezzi a visitare musei e gallerie. E anche gli artisti si riappropriano di qualcosa. Di un ruolo sociale che deve saper creare partecipazione, condivisione, dibattito”. Includere, tracciare linee, riannodare identità. Il M.U.Ro. è visitabile passeggiando, oppure in bici, o grazie a pacchetti speciali pensati per le scolaresche . Fate voi. L’associazione “ Roma a piedi ” naturalmente propone itinerari “per chi viaggia con lentezza”. Sul sito è scaricabile gratuitamente un kit di sopravvivenza che offre consigli e percorsi anche per chi desidera approcciare la street art romana. Così complessa, variegata, esplosiva. Gli ideatori di APPasseggio hanno fatto di più: con il il sostegno dei Go Teller, guide intelligenti e di alto livello, hanno mappato l’arte urbana nei vari quartieri, e creato itinerari appositi, ricchissimi di contenuti, storie, aneddoti. Molti gli incontri anche gratuiti che organizzano. Basta cercare in Rete, le proposte sono molte. Perché sappiate che a Roma c’è un’altra Roma. È una città che ha respiro lungo, ley-lines cangianti. È marginale, furiosa, graffia ogni centimetro a disposizione, ruba spazi, guarda in alto, aggredisce il cielo. Ed è fatta di muri che non dividono.

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