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Con un cuore stampato in 3D salvato un bimbo di 14 mesi

Con un cuore stampato in 3D salvato un bimbo di 14 mesiNel Kentucky, il chirurgo: ‘con il modello ho seguito una procedura che non mi sarebbe mai venuta in mente’

Un cuore realizzato con una stampante 3D ha aiutato un chirurgo di Louisville, nel Kentucky, a salvare la vita di un bimbo di 14 mesi. La notizia è stata riportata dal quotidiano locale Courier-Journal, secondo cui il modello è risultato indispensabile per decidere come operare.

Roland, il piccolo paziente, era nato con quattro diverse malformazioni congenite al cuore. ”Mentre pianificavo l’intervento – racconta Erle Austin, il capo del team chirurgico – ho mostrato le immagini del cuore ad altri tre colleghi, ottenendo però opinioni contrastanti sul da farsi”. Per riuscire a capire come procedere allora Austin si è rivolto all’università di Louisville, che ha sviluppato un software in grado di tradurre le immagini della Tac e degli altri esami in istruzioni per la stampante 3D. In 20 ore e con 600 dollari di materiali il dispositivo ha realizzato un modello del cuore di Roland in tre parti uguale all’originale ma grande il doppio. ”Il modello mi ha aiutato ad effettuare l’intervento con una procedura che non mi sarebbe mai venuta in mente – spiega il chirurgo – con una grande riduzione dei tagli e delle suture necessarie e quindi del tempo di intervento”.

L’operazione è stata effettuata lo scorso 10 febbraio, e il bambino fino a questo momento sta bene.

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Primo trapianto di bacino stampato in 3D

stampantiCi è riuscito un chirurgo inglese. Curato un paziente affetto da cancro alle ossa.
new york (WSI) – È una prima mondiale: un chirurgo britannico ha impianto con successo il 50% del bacino di un paziente affetto da un cancro alle ossa. L’operazione è stata realizzata grazie alla tecnica di stampa 3D.

Tale tecnica sta rivoluzionando il settore sanitario, permettendo di rimpiazzare qualsiasi osso con un sostituto fabbricato con materiali speciali ma soprattutto a misura di ogni singolo paziente: bastano delle tac per poter ricavare la forma tridimensionale della protesi, con dei tempi di lavorazione massima di due settimane. Non solo. Questa tecnologia è utilizzata con successo anche nella riproduzione di tessuti umani, il cosiddetto “bioprinting”.

Il primo trapianto osseo che ha utilizzato questa tecnica risale al marzo dello scorso anno, quando un paziente statunitense è stato sottoposto al trapianto del 75% delle ossa del cranio.




La stampante 3D per costruire una casa in meno di 24 ore

stampante per casaDagli States e dalla mente di un geniale inventore iracheno, la macchina per realizzare abitazioni (e non solo) in maniera automatizzata
Costruire una casa nell’arco di una giornata? Ora è possibile, grazie alla tecnica Contour Crafting e all’omonima macchina messa a punto dal geniale professor Behrokh Khoshnevis, prolifico inventore emigrato dall’Iran negli States nel ’74 e detentore di diversi brevetti in settori che vanno dall’ottica alla robotica.

IN FASE DI TEST PRESSO LA UNIVERSITY OF SOUTHERN CALIFORNIA. Ma vediamo meglio in cosa consiste questo progetto: attualmente la University of Southern California sta testando una gigantesca stampante 3D che, assicura Khoshnevis, “potrà essere utilizzata per realizzare una casa intera in meno di 24 ore”.

UNO SPECIALE UGELLO INIETTA IL CALCESTRUZZO LUNGO UNA TRACCIA PREDEFINITA. Questo enorme robot sostituisce operai e carpentieri con uno speciale ugello montato su un cavalletto, da cui viene iniettato il calcestruzzo e che, attenendosi a un modello computerizzato, consente di procedere in maniera del tutto automatica alle varie fasi di costruzione. Conosciuta come “Contour Crafting”, questa tecnologia potrebbe rivoluzionare il settore delle costruzioni, gli esperti del settore ne sono certi.
PER ALLOGGI “DI EMERGENZA”. Quali potrebbero essere gli sbocchi di un simile sistema di costruzione? Sicuramente la casa di proprietà potrebbe diventare una realtà “allargata” a prezzi accessibili. Inoltre, spiega il suo creatore, Contour Crafting potrebbe anche essere utilizzato in aree colpite da catastrofi naturali per costruire alloggi di emergenza e sostituire rapidamente le case distrutte. Ad esempio, dopo un evento come il tifone Haiyan nelle Filippine, che ha creato quasi 600.000 profughi, Contour Crafting potrebbe essere utilizzato per la costruzione di abitazioni di ricambio di qualità.

STRUTTURE PARTICOLARMENTE RESISTENTI. Si tratta, inoltre, di soluzioni abitative particolarmente resistenti, molto più che quelle realizzate con i “metodi di costruzione tradizionali”. Una parete realizzata con Contour Crafting ha infatti una resistenza tripla rispetto ad un muro “normale”. Secondo Khoshnevis è, sì, una novità, ma è anche uno sbocco tecnologico “nell’ordine delle cose. Se vi guardate intorno – spiega il professore – oggi praticamente tutto è fatto automaticamente, dalle scarpe, ai vestiti, dagli elettrodomestici, alla vostra auto. L’unica cosa che è ancora costruita manualmente sono, appunto, gli edifici “.

NECESSARI ANCORA GLI OPERATORI UMANI? Due sono le osservazioni che, subito, sono state poste al professor Khoshnevis: per prima cosa il fatto che – rendendo automatica la costruzione di una casa, si rende superfluo il lavoro di moltissimi operai oggi impiegati nel settore costruzioni. Secondo l’International Labour Organisation il settore costruzioni impiega quasi 110 milioni di persone nel mondo e “svolge un ruolo importante nella lotta contro gli alti livelli di disoccupazione e nell’assorbimento del surplus di lavoro proveniente dalle aree rurali.” Quali sarebbero, allora, le conseguenze di un sistema come Contour Crafting sul mercato? “C’è preoccupazione per le persone impiegate nel settore edile”, ammette Khoshnevis, “ma la realtà è con Contour Crafting si creerebbero moltissimi nuovi posti di lavoro, per la manutenzione e gestione della macchina ad esempio, ma anche per la realizzazione dei programmi computerizzati di costruzione”. Khoshnevis ricorda inoltre come nel 1900 quasi il 62% di tutti gli americani erano agricoltori, mentre oggi la percentuale si è ridotta all’1,5%.

RISCHIO DI CASE TUTTE IDENTICHE? Seconda osservazione posta al progetto è anche la paura di “case tutte uguali”, senza alcuna personalità o stile. Ma Khoshnevis risponde che “ogni edificio realizzato tramite “Contour Crafted” può essere differente e personalizzato: basta cambiare il programma per computer per ottenere una casa completamente diversa. Poiché gli edifici vengono stampati con un ugello, possono anche essere molto più “creative” delle costruzioni di oggi, ottenendo effetti particolari senza incorrere in costi supplementari.”
PROSSIMI PASSI. Il futuro del progetto è ancora da definirsi, una volta concluse le fasi di test ed osservazione presso la University of Southern California.
Intanto, però, Contour Crafting è stata nominata una delle 25 migliori invenzioni del 2006 dal National Inventors Hall of Fame. Presto i risultati del test e le possibili applicazioni.
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Intel stupisce il mondo con il suo minicomputer

intel-edisonIl gigante dei processori entra a gamba tesa nel mercato della wearable e dell’Internet delle Cose
Tutti ne parlano e è le possibili applicazioni sono potenzialmente infinite: Edison è un computer non più grande di una scheda SD con una CPU dualcore e 500MB di RAM su cui gira l’onnipresente Linux come sistema operativo. È stato presentato settimana scorsa al Consumer Electronics Show di Las Vegas dal CEO di Intel Brian Krzanich. Si tratta del primo dispositivo che utilizza la tecnologia Quark, un processore grosso un quinto della precedente serie Atom che utilla soltanto un decimo dell’energia. Il minicomputer si connette alla rete e ad altri dispositivi via wifi e bluetooth ed è il tentativo della storica azienda di microprocessori di mettere il piede nella porta del multimiliardario nascente mercato dell’Internet delle Cose.
Intel Edison è pensato per gli sviluppatori e sarà integrato in vari prodotti nella seconda metà del 2014 e nel 2015. Secondo l’azienda, troverà la sua naturale applicazione nei dispositivi di tecnologia indossabile. Un primo esempio dimostrativo è un body per neonati che, attraverso una piccola tasca che ospita il minicomputer, può tenere monitorati diversi parametri fisiologici nei neonati. La linea di prodotti si chiama Nursey 2.0 e comprende anche un dispositivo connesso per scaldare il latte che si attiva quando il bambino incomincia a piangere.
Quest’ultima device introdotta da Intel è un tangibile punto di svolta: i computer sono diventati così piccoli da poter essere inghiottiti nelle cuciture dei nostri vestiti. Si tratta di una tecnologia quasi invisibile, tanto discreta quanto potenzialmente rivoluzionaria. Non si sa ancora la data precisa i cui Edison sarà lanciato sul mercato, ma sembra che se ne riparlerà verso l’estate ed è gia stata annunciato un contest per sviluppatori dal nome Make It Wearable con un primo premio di 500.000$. I big stanno entrando nel mercato dell’Internet delle Cose, Intel ha le idee chiare e vuole tracciare la via: se le device della wearable e dell’IoT saranno dappertutto, i microprocessori dell’azienda voglio essere in tutti questi gadget: “La tecnologia indossabile non è ancora dappertutto poiché non risolve ancora problemi reali e non è integrata con il nostro stile di vita,” ha detto il CEO di Intel al CES. “Ora siamo concentrati a rispondere a questa sfida dell’innovazione. Il nostro obiettivo è il seguente: qualsiasi cosa che si connette, lo farà meglio con Intel al suo interno”.
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Carlo Peroni




Maker, semplici hobbisti o pionieri della rivoluzione?

stampantiStampa 3D, crowdfunding e tecnologia aperta: ecco gli ingredienti della III rivoluzione industriale
C’è chi la tecnologia la usa e basta e chi invece la smonta per guardarci dentro e capire come funziona. La prima categoria è ancora più consistente della seconda, eppure, anche se veniamo da un periodo dove, soprattutto nel tech, hanno prevalso le più sfrenate tendenze consumistiche, alcuni affermano che entro pochi anni sarà normale fabbricarsi i propri oggetti personali attraverso strumenti come le stampanti 3D, invece che comprali pronti all’uso. Dietro a quest’idea non ci sono solo pochi visionari, ma un intero movimento: il Movimento dei Maker, la cui missione è quella di aprire i cancelli della terza rivoluzione industriale attraverso la democratizzazione dei mezzi di produzione in chiave fai-da-te e l’applicazione di pratiche nate nel web al mondo fatto di atomi degli oggetti fisici.
Ma che cos’è, esattamente, il Maker Movement? Come tutti i movimenti è estremamente eterogeneo: ci sono gli appassionati di robotica, chi preferisce i sistemi di home automation, ci sono i designer, gli smanettatori di hardware opensource come Arduino e Raspberry Pi, ma troviamo anche ingegneri, hacker, amanti dei droni e professori universitari. Ma l’elemento che ricopre il ruolo di simbolo della sottocultura dei maker è la stampante 3D. Epicentro del terremoto del DIY in chiave tecnologica è la vicenda di MakerBot, il primo dispositivo opensource in grado di stampare oggetti tridimensionali, sviluppato con il supporto di una comunità molto attiva e venduto ad un prezzo abbordabile. Se negli anni ’70 per fondare una garage band bastavano poco più di una chitarra elettrica e un amplificatore, oggi per aprire un maker space bastano poco più di un computer portatile e una stampante 3D. In entrambi i casi quello che conta sono creatività e dedizione. Il primo prodotto di MakerBot si chiama Thing-O-Matic e, in effetti, condivide una certa estetica con alcuni degli strumenti musicali cari alla tradizione rock.

Chris Anderson, co-fondatore ed ex-direttore di Wired, ha recentemente abbandonato la rivista per dedicarsi a tempo pieno alla sua attività di maker lavorando all’azienda di droni opensource di cui è cofondatore, 3D Robotics. Ha scritto uno dei testi chiave per capire questo mondo, Maker. Il ritorno dei produttori, pubblicato nel 2012, in cui ci spiega come “negli ultimi dieci anni abbiamo scoperto nuovi modi per creare, inventare e lavorare insieme sul web. Nei prossimi anni ciò che abbiamo imparato verrà applicato al mondo reale”. Secondo Anderson i maker si riconoscono dalle seguenti caratteristiche. Innanzitutto si tratta di persone che utilizzano strumenti di progettazione digitale per creare nuovi prodotti e prototipi con una filosofia DIY (Do It Yourself). Secondariamente un vero maker non lavora da solo, ma in team, che può essere offline (il maker space), ma anche online, attraverso l’utilizzo di forum, blog e piattaforme specifiche (come Adafruit o Make Shed). Di norma poi i progetti vengono condivisi su internet, rendendo possibile agli altri membri della comunità di contribuire. Il DIY diventa così DIWO (Do It With Others). I progetti dei maker, tuttavia, non sono fatti per rimanere nei confini del makerspace. Il modo in cui i prototipi vengono progettati permette di poterli inserire direttamente in produzione: chiunque, se lo desidera, dovrebbe poter mandare il progetto a un service per crearne lotti più o meno grossi.
Anderson impersona alla perfezione il ruolo di araldo dell’incombente terza rivoluzione industriale. Anche grazie a personaggi come lui, il Movimento dei Maker si sta conquistando sempre più spazio sui mezzi di comunicazione. In questi giorni si è tenuto il CES 2014 e il movimento dei maker ha ricevuto l’attenzione che meritava. Dal nuovo modello di MakerBot in grado di stampare oggetti di grande volume fino alla stampante 3D in grado di sfornare caramelle in affascinanti forme geometriche, le sorprese non sono infatti mancate.
L’innovazione, nel mondo dei maker, è anche sociale e un esempio è Kickstarter. La filosofia dei maker applica il modello di sviluppo e condivisione dei contenuti digitali al mondo reale. Il problema è che, mentre è possibile distribuire i bit praticamente gratis, produrre e distribuire gli atomi da un luogo all’altro del mondo fisico ha dei costi che non sono comprimibili. Questo inconveniente può essere aggirato grazie a siti come Kickstarter. Nel 2013 i suoi numeri sono stati davvero notevoli: 3 milioni di persone provenienti da 214 paesi hanno aderito al finanziamento di progetti per un totale di 480 milioni di dollari raccolti. Tra i successi dell’anno ci sono stati lo smartwatch Pebble, il dispositivo per la realtà virtuale Oculus Rift e la prima consolle di gaming indipendente Ouija. Tra le curiosità si possono anche trovare un overcraft a forma di DeLorean e un dispositivo per pilotare aereoplanini di carta attraverso il proprio smartphone (quest’ultimo progetto ha sfondato l’obiettivo iniziale di 50.000$ raggiungendo quasi il milione). Tramite questa piattaforma di crowdfunding, infatti, usando le parole di Chris Anderson, “è possibile rimuovere collettivamente una delle più grandi barriere dell’innovazione promossa dalle piccole imprese: il capitale di investimento iniziale”. Secondo l’ex-caporedattore di Wired, Kickstarter risolve tre grandi problemi per chi vuole tentare la strada dell’imprenditoria. Innanzitutto i ricavi possono essere anticipati nel momento in cui sono davvero necessari. Secondariamente, Kickstarter trasforma la clientela in una community online. Se qualcuno finanzia un prodotto che non esiste ancora, probabilmente sarà anche interessato a seguirne lo sviluppo e a capire in che modo viene utilizzato da altri, che probabilmente condividono almeno in parte i suoi stessi interessi. Infine “Kickstarter fornisce il servizio forse più importante di una società che viene appena fondata: la ricerca di mercato. Se un progetto non raggiunge il target di finanziamento, probabilmente avrebbe fatto fiasco dopo l’entrata in commercio”.

L’importanza della comunità prende forma tramite concetti come l’educazione tra pari. Poiché i maker difficilmente lavorano da soli, ma più spesso, invece, si raggruppano in più o meno piccole comunità di persone che condividono vari progetti, viene incoraggiato un modello di apprendimento condiviso. È la cosiddetta peer education, che ribalta la concezione gerarchica dell’educazione che vede una ferma distinzione tra chi impara e chi insegna. Attraverso internet, la condivisione di progetti opensource ed eventi come le Maker Faire, le varie comunità sparse nel mondo possono condividere informazioni, guide e consigli. La sottocultura dei maker può davvero diventare un modello di educazione aperta. Pensando anche ai bambini, si tratta di nuove e potenzialmente rivoluzionarie possibilità di apprendimento.
Il mondo che ci aspetta sarà fatto di dispositivi interconnessi. Ognuno di noi avrà un network fisico di device a cui sarà collegato: non solo computer e telefono, ma anche il sistema di automazione domestica con tutti i suoi sensori e attuatori, i dispositivi di tracking indossabili e, magari, anche la propria automobile intelligente. Da noi stessi alle città che abitiamo, che diventeranno sempre più smart, saremo circondati da chip e macchine intelligenti che captano e raccolgono dati senza interruzione. Chi meglio dei maker può costruire questo futuro? Il loro spirito collaborativo e la propensione a condividere possono davvero funzionare come garanzia della trasparenza di questi dispositivi.
Mai come oggi la tecnologia dà forma alla nostra quotidianità. Eppure il processo può essere invertito. Noi stessi possiamo tornare a dare forma alla tecnologia. Un eroe contemporaneo come Steve Jobs capì che il suo desiderio era quello di costruire computer quando si accorse che il mondo era fatto da oggetti, e che gli oggetti sono fatti da persone che non sono poi così diverse dalle altre persone che quegli oggetti li usano e basta: “Il fatto che attraverso l’esplorazione e l’apprendimento uno potesse comprendere oggetti appartenenti al proprio ambiente che sembravano molto complessi dava un enorme senso di fiducia in se stessi”. L’ambiente esterno e gli oggetti che lo vanno a comporre sono qualcosa che l’uomo si è sempre trovato a manipolare e modificare: forse essere dei maker è semplicemente insito nella nostra più profonda natura.
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Dai reggiseni alle stampanti 3D: “Così la produzione tornerà a casa

stampantiDai ferretti per reggiseni alle stampanti 3D che creano prototipi: l’azienda cambia pelle in modo imprevedibile e ingegnoso per costruirsi il futuro. È la storia della «Jdeal form» di Oleggio, società nata negli Anni ’50 con le stecche per i corsetti e ora arrivata a produrre sistemi utilizzati nel design spagnolo e nell’industria delle calzature sportive tedesche.
Una lunga storia

La principale attività della ditta, che ha 15 dipendenti e un fatturato al di sotto del milione di euro, è ancora incentrata sui componenti dell’abbigliamento intimo: ferretti, inserti push-up e anellini delle spalline dei reggiseni. Nel tempo è cambiata più volte cercando di cogliere al volo le richieste del mercato: «Negli Anni ’60 abbiamo lanciato linee di costumi da bagno, poi vent’anni dopo è tornato in auge il ferretto e noi abbiamo ricominciato a produrlo come facevamo prima – racconta Davide Ardizzoia, figlio del fondatore e uno dei titolari dell’azienda -. Negli Anni ’90 ci siamo concentrati sui componenti per corsetteria. Abbiamo dovuto sempre aggiornarci per combattere la concorrenza prima tunisina e marocchina, poi rumena e quindi cinese davanti a cui purtroppo abbiamo perso quote di mercato terrificanti».

La svolta epocale

Intanto però qualcosa è cambiato ancora nello stabilimento di via Monte Giudeo a Oleggio. Qualche anno fa la «Jdeal form» ha avuto necessità di un prototipo rapido per una macchina automatica che fa anellini: «Ci siamo rivolti a un service lombardo spendendo molto – racconta Ardizzoia -. La situazione si è ripetuta qualche tempo dopo per un ferretto: abbiamo aspettato così tanto che il cliente nel frattempo si è stufato e noi abbiamo buttato via dei soldi – racconta Ardizzoia -. Così abbiamo pensato di fare da soli e creare una stampantina a 3D per qualsiasi polimero termoplastificato».

Export nel mondo

Adesso questo sistema di produzione è stato richiesto dalla Germania per «pezzi» di calzature sportive, dalla Spagna per il design industriale e in Italia per impianti luce: «Siamo specializzati nelle piccole dimensioni ma a febbraio sarà pronta una stampante professionale con misure più grandi».

Per la «Jdeal form» l’innovazione ha un sapore speciale: «E’ una “vendetta” contro i colossi e la delocalizzazione che ha cancellato tante aziende italiane – sorride Ardizzoia -. Con questi sistemi la produzione tornerà vicino a casa perché non sarà più necessario comprare altrove, ad esempio, una scarpa: ce la stamperemo noi su misura».