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La signora Anna, 80 anni, sotto sfratto: io, vittima del governo Renzi

sfratti roma

Il no dell’esecutivo alla proroga del blocco degli sfratti rischia di far finire in strada migliaia di anziani soli e malati. Solo a Roma ci sono 3mila le famiglie con l’intimazione a andare via per contratto scaduto non per morosità.

Il 29 gennaio busserà alla porta di Anna Badatin l’ufficiale giudiziario. Non è la prima volta, la donna ha 80 anni e già da tempo il proprietario di casa sta provando a mandarla via nonostante paghi ogni mese con grande puntualità l’affitto, i canoni accessori e tutti i conguagli richiesti. Finora il governo aveva prorogato il blocco degli sfratti e offerto una possibilità a chi era in difficoltà. Quest’anno il governo ha scelto di cambiare verso e dire addio alle proroghe. “Il ministro Lupi non vuole, e noi che fine faremo?”, si chiede la signora. Il ministro ha spiegato di aver stanziato fondi e di voler risolvere il problema in modo diverso ma quando il 29 gennaio l’ufficiale giudiziario busserà alla porta che cosa gli dirà la signora Betadin? Che il governo ha promesso una cifra che sembra sostanziosa ma in realtà è la somma degli stanziamenti fino al 2020? E che cosa gli dirà il signore del piano di sopra che si trova nella stessa situazione e con un tumore da curare e anche un giorno di tranquillità in meno perché da lui l’ufficiale arriverà già domani?

Siamo a via Giolitti in quelle che un tempo erano le case dei ferrovieri. In cambio della loro piena disponibilità, e quindi della possibilità di chiamarli a qualsiasi ora della notte oltre al normale lavoro durante il giorno, gli operai ottenevano un appartamento a due passi dalla stazione. In caso di incidenti o guasti, in cinque minuti erano sul posto, pronti ad intervenire. Nulla di lussuoso. Visto dall’esterno il palazzo sembra un blocco di marmo circondato dai binari: quelli del tram lungo la strada e quelli dei treni sul lato opposto. Il marmo è lo stesso della stazione Termini perché della stazione l’edificio è sempre stato il prolungamento naturale.

Il marito della signora Anna, Ubaldo Urbani, aveva ottenuto uno dei 12 appartamenti del palazzone. Era uno dei più piccoli, al piano terra, 80 metri quadrati circa, una cucina e due stanze con vista sulla mensa delle ferrovie e unite sul lato opposto da un lungo corridoio buio. Quello che basta per crescere tre figli e vivere in modo dignitoso a chi, per anni, è stato costretto a correre nel cuore della notte, prima come operaio poi come verificatore.

All’inizio degli anni Novanta arriva il momento di andare in pensione. Purtroppo due anni dopo una malattia si porta via Ubaldo, la signora Anna rimane da sola con la pensione di reversibilità del marito nella piccola casa dal corridoio buio e la vista sulla mensa dei ferrovieri.

Un giorno arriva una lettera. Il proprietario del palazzo fa capire che c’è una possibilità di acquistare ma promette di lasciare comunque gli inquilini in affitto nell’appartamento, a patto che paghino e abbiano un reddito inferiore a 58 milioni di euro l’anno. “E chi li aveva! Magari avessimo avuto una cifra simile, saremmo andati a vivere altrove. E, quindi, non ci siamo preoccupati” racconta la signora Anna. Nel frattempo, però, le Ferrovie sono state spezzettate, gli immobili sono diventati di proprietà della società Metropolis poi passeranno a Grandi Stazioni, una Spa controllata al 60% da Ferrovie dello Stato e al 40% dalla società Eurostazioni Spa, di cui fanno parte Edizione Srl (Gruppo Benetton), Vianini Lavori Spa (Gruppo Caltagirone), Pirelli & C. Spa (Gruppo Pirelli) e Sncf Partecipations S.A. (Société Nationale des Chemins de Fer).

Non è solo una questione di nomi, per gli inquilini del palazzo cambia tutto. Siamo nel nuovo Millennio, la signora Anna ha settant’anni e un’invalidità all’80%: non le toglie la possibilità di camminare ma gli acciacchi si sentono. I figli sono lontani, ognuno di loro ha la sua famiglia. Nel 2006 scade anche l’ultimo contratto stipulato con Metropolis. La signora Anna e Marino Riva, l’inquilino del piano di sopra, mandano lettere su lettere per chiedere il rinnovo, nessuna risposta. La signora Anna inizia a preoccuparsi: senza contratto non ha più alcuna protezione. Fa domanda per un alloggio popolare, le assegnano un punteggio abbastanza alto: invalida, vedova e con un reddito non alto come potrebbe essere diversamente? Se il Comune di Roma assegnasse delle case popolari potrebbe anche ottenerne una. Ma in Campidoglio nulla si muove.

La signora Anna è costretta a rimanere dov’è. Se potesse lascerebbe quest’appartamento dove la vita diventa ogni giorno più difficile. In bagno e in quella che un tempo era la stanza dei figli sono pure scoppiati i tubi del riscaldamento, la casa si è mezza allagata e nessuno è venuto ad aggiustarli. Ma di affitto paga 96 euro, più altri 116 di oneri accessori. Se si sommano anche i conguagli, le spese di gas, luce, telefono, riscaldamento e nettezza urbana ogni mese vanno via almeno 400 euro. Ne entrano poco meno di mille grazie alla pensione del marito, vuol dire rimanere con 500 euro per vivere. “Va bene così ma non ho i soldi per andare ad affittare un’altro appartamento con i prezzi che ci sono a Roma”, spiega. Invia altre lettere per proporre un aumento di affitto, vorrebbe pagare anche il doppio, ma nessuno risponde. E’ un dialogo fra sordi. Grandi Stazioni non ha alcuna intenzione di lasciare lei e l’altro ex-ferroviere dentro quelle case, e non importa se anche Marino Riva ha un’invalidità all’80% e ora un tumore accertato per cui sta iniziando a curarsi. A poco a poco è riuscito a mandare via la gran parte dei vecchi inquilini dal palazzone di marmo, per riempirlo di uffici e di affitti che nemmeno l’intera pensione della signora Anna basterebbe per pagare.

Nel 2008 arriva il primo ordine di sfratto, nel 2011 la sentenza che rende lo sfratto esecutivo. Da quel momento a salvare la signora Anna e Marino Riva sono solo il governo e la proroga del blocco agli sfratti per persone in condizioni di particolare bisogno come loro. Quest’anno la proroga non è stata riconfermata, il governo ha annunciato misure di sostegno ma quando la settimana prossima l’ufficiale giudiziario busserà alla porta la signora Anna che cosa gli dirà per evitare di finire sotto un ponte? ‘Gli dirò che il governo ha promesso un sostegno – mormora fa sé la signora Anna – ma finirà che prima o poi ci manderanno via come bestie’.

articolo di FLAVIA AMABILE

 

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Sfratti, Lupi ai Comuni: pronti a collaborare, ma no a proroga

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Piena disponibilità a collaborare con gli enti locali per risolvere i circa 2000 casi interessati dalla mancata proroga del blocco degli sfratti. Ad assicurarla è stato il ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Maurizio Lupi, che nel corso di un’audizione presso la Commissione Ambiente del Senato, ha ribadito però, ancora una volta, il suo no a un provvedimento di proroga. Uno strumento, ha evidenziato, che «non risolve il disagio abitativo» e che ha «effetti devastanti sulle politiche abitative messe in campo dal Governo» per affrontare l’emergenza casa. «Non si può più ricorrere a palliativi – ha detto Lupi – ma non siamo contrari a dare una mano alle grandi città con altri strumenti innovativi».

Lupi: pronti a collaborare su casi specifici  Il titolare del dicastero ha assicurato l’impegno a risolvere i casi interessati dalla mancata proroga, che si attestano intorno alle 2000-2.200 unità («sono dati oggettivi sui quali non si può discutere», ha puntualizzato Lupi) e che sono concentrati soprattutto in tre grandi città Roma, Napoli, Torino. «Stimiamo che le risorse necessarie si aggirino intorno ai 10 milioni di euro. Siamo disponibili a risolvere la questione», ha spiegato il ministro, che questa sera affronterà la questione con il presidente dell’Anci, Piero Fassino. Lupi ha poi aggiunto: «Non siamo contrari a dare una mano alle grandi città con altri strumenti per risolvere problemi puntuali».

L’appello degli assessori  Erano stati Francesca Danese, Daniela Benelli e Alessandro Fucito, assessori alle Politiche abitative di Roma, Milano e Napoli, le tre aree metropolitane più grandi d’Italia, a lanciare lo scorso 6 gennaio un appello al ministro a favore della proroga degli sfratti anche nel 2015, per scongiurare rischi sociali e problemi di ordine pubblico. Le famiglie a rischio di sfratto esecutivo per la mancata proroga degli sfratti di fine locazione in tutta Italia sono tra 30mila e 50mila

 

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Emergenza abitativa, niente proroga agli sfratti

senzatetto

Nell’anno in cui si sconta la maggiore crisi degli ultimi decenni, non si fanno sconti a nessuno, nemmeno a chi si ritrova non solo senza lavoro ma anche senza un tetto.
A differenza degli scorsi anni, nel 2015 non ci sarà la proroga del blocco degli sfratti: il decreto Milleproroghe 2015 (D.L. 192/2014) pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 31 dicembre scorso, non ha previsto la proroga del blocco degli sfratti, ossia lo slittamento dei termini dello sfratto per quegli inquilini in difficoltà nel pagare i canoni di locazione. Gli inquilini in difficoltà al posto della tradizionale proroga potranno rivolgersi ai due Fondi recentemente rifinanziati dal Governo: il Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione e quello per la morosità incolpevole.

Ma il problema persiste, soprattutto nelle grandi città, perché le risorse previste per il Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione sono ripartite tra le varie Regioni e spetta poi ai singoli Comuni attivarsi con la pubblicazione di un bando che indichi i criteri per poter essere ammessi alla garanzia del Fondo, i tempi e le modalità…senza dimenticare la burocrazia. Tanto che le tre città a maggiore densità abitativa, Milano, Roma e Napoli, hanno fatto un appello per la proroga degli sfratti. La richiesta arriva da Francesca Danese, Daniela Benelli e Alessandro Fucito, assessori alle politiche abitative di Roma, Milano e Napoli in una lettera al governo per rivedere la decisione presa.

Dall’inizio della crisi, cinque anni fa, Roma ha registrato oltre diecimila sentenze per fine locazione; 4500 a Napoli e 4mila le sentenze di sfratto a Milano sempre tra il 2008 al 2013. Il 70% di queste famiglie avrebbe i requisiti di reddito e sociali (anziani, minori, portatori di handicap) previste dalla legge per la proroga.
Sul problema degli sfratti è intervenuto oggi il ministro Lupi durante il question time alla Camera: “Il disagio abitativo è un’emergenza che il governo ha posto come grande priorità” ma una proroga degli sfratti avrebbe “un effetto devastante sulla politiche innovative e concrete che il governo ha adottato in questo campo. La Consulta ha sancito per ben due volte che si tratta di uno strumento incostituzionale”. Il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti ha aggiunto: “Non è pensabile tornare indietro, con un piccolo provvedimento, nella politica dell’emergenza abitativa”.

Il presidente dell’Anci, Piero Fassino, ha inviato una lettera al ministro Maurizio Lupi in difesa della proroga: “In assenza della proroga degli sfratti, la già grave emergenza abitativa generata dalla crisi in atto da diversi anni rischia di acuirsi. Per far fronte a ciò, Ti ribadisco la necessità di inserire la questione in sede di conversione del decreto legge Milleproroghe”.

Nella missiva il presidente dell’Anci sottolinea “la crescente preoccupazione dei Comuni, in particolar modo delle grandi Città, per la mancata proroga degli sfratti per finita locazione, in specie a tutela delle persone e delle famiglie in situazione di grave disagio. Pur apprezzando l’attenzione che hai riservato alle tematiche inerenti le emergenze abitative – da ultimo l’istituzione e i riparti del Fondo Affitto e Fondo Morosità incolpevole (annualità 2014) – rimane alto l’allarme, in quanto le risorse appaiono inadeguate ed erogate con procedure non celeri”.

Il problema dell’emergenza abitativa va a braccetto con altro problema, quello degli affitti in nero e dei relativi sfratti, cui aveva rimediato il Governo Monti con il provvedimento della “cedolare secca” ma lo scorso anno la Consulta con la sentenza n. 50 depositata il 14 marzo 2014, ha cancellato gli “sconti” previsti per gli affittuari che denunciavano contratti in nero e permettevano agli inquilini di registrare di propria iniziativa il contratto d’affitto presso un qualsiasi ufficio delle Entrate.

Inoltre le pronunce della Corte Costituzionale hanno effetto anche per il passato, quindi finiranno nel nulla anche i contratti che sono stati registrati dagli inquilini e dai funzionari del Fisco a partire dal 6 giugno 2011. Le super-sanzioni, infatti, sono scattate 60 giorni dopo l’entrata in vigore del decreto, che era il 7 aprile 2011. A ciò si aggiunge che i proprietari potranno chiedere agli inquilini di liberare l’abitazione, perché il contratto cadrà insieme alla norma di legge che lo prevedeva.

Maria Teresa Olivieri

 

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FOTO:  By Aaron Logan (from http://www.lightmatter.net/gallery/albums.php) [CC BY 1.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/1.0)], via Wikimedia Commons


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L’urlo di Khomeini: “L’Islam è tutto, la democrazia no”; intervista di Oriana Fallaci

La scrittrice intervistò   il leader della rivoluzione   iraniana nel 1979. Indossava il chador. Ma alla fine dell’incontro se lo tolse. L’ayatollah scavalcò il velo e sparì.

Oriana Fallaci, il terrorismo, il rapporto dell’Occidente con il mondo islamico. La grande giornalista ha affrontato questi temi molte volte nei suoi articoli e nelle sue interviste. Con l’iniziativa «Le parole di Oriana» abbiamo scelto di ripubblicare alcuni di questi suoi interventi, che mantengono – a distanza di molti anni – una forza, un valore e un fascino straordinari. Ecco l’intervista all’ayatollah Khomeini, uscita per il «Corriere della Sera» il 26 settembre 1979.

Nella stanzaccia, assiso con le gambe incrociate sul tappetino bianco e blu, immobile come una statua e coperto da una tunica di lana marrone, stava il padrone dell’Iran, il gran condottiero dell’Islam: Sua Eccellenza Santissima e Reverendissima Ruhollah Khomeini.

Era un vecchio molto vecchio. E appariva così remoto dietro la superbia, così vulnerabile, insieme solenne, da farti dubitare che avesse soltanto gli ottant’anni dichiarati secondo un calcolo approssimativo, comunque ipotetico, visto che lui stesso ignorava la sua data di nascita. Era anche il più bel vecchio che avessi mai incontrato. Volto intenso, scolpito ad arte, con quelle rughe che lo incidevano a colpi d’ascia in solchi legnosi, quella fronte altissima sul naso importante e ben disegnato, quelle labbra sensuali e imbronciate da maschio che ha molto sofferto a reprimere le tentazioni della carne o forse non le ha represse mai. E quella barba candida, compatta, davvero michelangiolesca. Quelle sopracciglia severe, di marmo, sotto le quali cercavi i suoi occhi con una specie di ansia. Gli occhi infatti non si vedevano perché teneva le palpebre semiabbassate, lo sguardo ostentatamente fisso sul tappetino, quasi volesse dirmi che non meritavo nessuna attenzione. O quasi che dedicarmi attenzione offendesse il suo orgoglio, la sua dignità. Traboccava dignità, questo è certo. Non potevi immaginarlo in mutande, attribuirgli il ridicolo che caratterizza i dittatori. Anzi, al posto di esso coglievi una misteriosa tristezza, un misterioso scontento che lo consumava come una malattia. E in tale scoperta registravi sbalordito i sentimenti che suscitava a osservarlo: un rispetto ineluttabile, una tenerezza inspiegabile, una scandalosa attrazione di cui provavi invano vergogna. Lo aveva scritto proprio lui il Libro Azzurro? Era stato proprio lui a scaraventare tutti nella catastrofe, dipendevano proprio da lui tante infamie, tanti obbrobri? Sì, e che non me ne dimenticassi. Che non mi lasciassi distrarre dal suo enigmatico carisma, sedurre dal suo fascino di antico patriarca. E mentre Bani Sadr si insediava al suo fianco, Salami si sistemava a riguardosa distanza, mi accucciai dinanzi al nemico: decisa ad attaccarlo subito, ignara dell’altrui viltà che all’inizio avrebbe turbato il progetto.

Imam Khomeini, l’intero paese è nelle sue mani. Ogni sua decisione, ogni suo desiderio è un ordine. E sono molti ha portato la libertà, semmai ha finito di ucciderla.
Rimase con le palpebre semiabbassate, lo sguardo fisso sul tappetino, e con voce talmente fioca da sembrare l’eco di un sussurro compilò una risposta che Bani Sadr riferì in preda a uno strano imbarazzo. «Conosciamo il suo lavoro e il suo nome. Sappiamo che lei ha viaggiato per molti Paesi e molte genti vedendo guerre, interrogando uomini forti. La ringraziamo dunque degli omaggi che ci porge e delle sue condoglianze per la scomparsa dell’ayatollah Talegani.» Stava prendendomi in giro oppure Bani Sadr non gli aveva tradotto la mia domanda? Mi rivolsi smarrita a Salami. Con un lieve cenno della testa, Salami mi fece capire che il vigliacco non aveva tradotto la domanda. «Traducila tu!» La tradusse, sia pure impallidendo. Ma le palpebre rimasero semiabbassate, le invisibili pupille continuarono a fissare il tappetino, e non un cenno di emozione incrinò la voce fioca che centellinava ogni parola. «L’Iran non è nelle mie mani. L’Iran è nelle mani del popolo. Perché è stato il popolo a consegnare il paese al suo servitore, a colui che vuole il suo bene. Lei ha ben visto che dopo la morte dell’ayatollah Talegani la gente s’è riversata nelle strade a milioni e senza la minaccia delle baionette. E questo significa che in Iran c’è libertà, che il popolo segue gli uomini di Dio. E questo è simbolo di libertà.»  
Bè, sapeva difendersi. Aveva perfino neutralizzato possibili provocazioni sulla natura di quella morte facendo per primo il nome di Talegani, quindi impedendo su tal soggetto un colpo alla mascella. Lanciai un’occhiataccia a Bani Sadr per avvertirlo di non combinare altri scherzi e continuai.

No, Imam Khomeini: forse non mi sono spiegata bene. Mi permetta di insistere. Volevo dire che siamo in molti, in Iran e fuori, a definirla un dittatore. Anzi il nuovo dittatore, il nuovo tiranno, il nuovo scià della Persia.
Ma dalla risposta che Bani Sadr mi dette fu chiaro che anche stavolta aveva inventato una domanda innocua, e per questo era venuto a Qom, s’era imposto come traduttore: per manipolar l’intervista e non correre rischi. «Sì, la sconfitta del tiranno ci ha portato un’epoca densa di valori e di moralità. Noi ce ne rallegriamo e ci sentiamo onorati di interpretar quei valori e tale moralità. Apprezziamo dunque la seconda domanda e…» «Stop!» Zittii Bani Sadr e di nuovo mi rivolsi a Salami che di nuovo confermò il tradimento con un lieve cenno della testa. Allora mi chinai su Khomeini cercando di farmi capire in qualche lingua al di fuori del farsi. «No, Imam, no! Il signor Bani Sadr non mi traduce. Il ne me traduit pas. He does not translate me. Understand, comprì? Ho detto che oggi è lei il dittatore, il tiranno, lo scià. Aujourd’hui c’est vous le dictateur, le tyran, le nouvel shah. Vous. Comprì? Today it is you the dictator, the tyrant, the new shah. Understand?» Capì. O almeno intuì. Infatti le sue palpebre si sollevaron di colpo, e mentre un lampo feroce mi trafiggeva con la violenza di una coltellata vidi finalmente i suoi occhi: intelligentissimi, duri, terrificanti. Però fu un attimo, e passato quello tornarono a concentrarsi sul tappetino. Fissando il tappetino sibilò a Bani Sadr qualcosa che doveva esser tremendo perché il visuccio malinconico diventò grigio, i baffetti parvero vibrare di panico, e rivoli di sudore presero a colare giù per le tempie, le guance, il collo. Poi una mano michelangiolesca come la barba si levò con sdegno a indicargli che era destituito dall’incarico e un indice imperioso ordinò a Salami di sedergli accanto per sostituirlo. Tremando d’emozione Salami si alzò e sedette alla sua destra. «Non aver paura, traducigli quello che ho detto. E chiedigli se ciò lo addolora o lo lascia indifferente» lo incoraggiai. Salami tradusse coraggiosamente. Khomeini restò imperterrito. «Da una parte mi addolora, sì, perché chiamarmi dittatore è ingiusto e disumano. Dall’altra invece non me ne importa nulla perché so che certe cattiverie rientrano nel comportamento umano e vengono dai nemici. Con la strada che abbiamo intrapreso, una strada che va contro gli interessi delle superpotenze, è normale che i servi dello straniero mi pungano col loro veleno e mi lancino addosso ogni sorta di calunnie. No, non m’illudo che i paesi abituati a saccheggiarci e divorarci si mettano zitti e tranquilli. Oh, i mercenari dello scià dicono tante cose: anche che Khomeini ha ordinato di tagliare i seni alle donne. Dica, a lei risulta che Khomeini abbia commesso una simile mostruosità, che abbia tagliato i seni alla donne?».

No, non mi risulta, Imam. E io non l’ho accusata di tagliare i seni alle donne. Però anche senza tagliare i seni alle donne lei fa paura. Il suo regime vive sulla paura. Hanno tutti paura e fanno tutti paura. Anche questa folla che la invoca fa paura. La sente?
Dalla finestra alle sue spalle giungeva il frastuono degli scalmanati dietro il primo e il secondo posto di blocco. «Zandeh bad, Imam! Payandeh bad!» E spesso soffocava le nostre voci. «Lo sento eccome. Lo sento anche di notte».

E che cosa prova a sentirli gridare così anche di notte? Che cosa prova a sapere che per vederla un istante si farebbero ammazzare?
«Ne godo. Non si può non goderne. Sì, godo quando li ascolto e li vedo. Perché il loro grido è lo stesso con cui cacciarono l’usurpatore, perché sono i medesimi che lo cacciarono, e perché è bene che continuino a bollire in quel modo. Finché i nemici interni ed esterni non saranno domati, finché il Paese non si sarà assestato, bisogna che bollano. Devono essere accesi e pronti a marciare quand’è necessario. E poi il loro è amore».

Amore o fascismo, Imam? A me sembra fanatismo, e del genere più pericoloso. Cioè quello fascista. Chi potrebbe negare che oggi esiste in Iran una minaccia fascista? E forse un fascismo s’è già consolidato.  
«No, il fascismo non c’entra. Il fanatismo non c’entra. Io ripeto che gridano così perché mi amano. E mi amano perché sentono che voglio il loro bene, che agisco per il loro bene, per applicare i comandamenti dell’Islam. L’Islam è giustizia, nell’Islam la dittatura è il più grande dei peccati, quindi fascismo e islamismo sono due contraddizioni inconciliabili».  

Forse non ci comprendiamo sulla parola fascismo, Imam. Io parlo del fascismo come fenomeno popolare, per esempio del fascismo che gli italiani avevano al tempo di Mussolini quando le folle applaudivano Mussolini come ora applaudono lei. E gli obbedivano come ora obbediscono a lei.  
«No, quel fascismo si verifica da voi in Occidente, non tra i popoli di cultura islamica. Le nostre masse sono masse mussulmane, educate dal clero e cioè da uomini che predicano la spiritualità e la bontà, quindi quel fascismo sarebbe possibile soltanto se tornasse lo scià oppure se venisse il comunismo. Gridare il mio nome non significa esser fascisti, significa amare la libertà».
Ora che le mie domande gli venivano riferite, l’attacco era facile. Però a ciascuna si difendeva meglio, con la bravura di un campione che riesce a schivare qualsiasi colpo cattivo o imprevisto, la resistenza di un incassatore che non si piega nemmeno se gli tiri un pugno nel basso ventre, e faceva questo usando due tecniche rare: l’imperturbabilità e la sincerità. Dopo avermi trafitto con quel lampo feroce non aveva più alzato gli occhi e, senza mai staccare lo sguardo dal tappetino, senza mai muovere un dito o un muscolo, senza mai cambiare il tono della sua voce fioca, rispondeva a ogni accusa o insolenza. Non riuscivo a scomporlo. E non ci riuscivo perché, ecco il punto, credeva fermamente in ciò che diceva: credendoci, non aveva bisogno di ricorrere alle furbizie o alle bugie con cui si difendono sempre gli uomini di potere. Quasi ciò non bastasse, gli piaceva il duello con la straniera che aveva viaggiato per molti Paesi e per molte genti ma ora se ne stava ai suoi piedi ingoffata da chili di cenci a lei estranei, e in segreto gioiva dei suoi assalti.

Allora parliamo della libertà, Imam Khomeini. In uno dei suoi primi discorsi lei disse che il nuovo governo avrebbe garantito libertà di pensiero e di espressione. Tuttavia questa promessa non è stata mantenuta e basta che uno vada contro i suoi precetti perché lei lo maledica e punisca. Per esempio, chiama i comunisti Figli di Satana, le minoranze curde Male sulla Terra…
«Lei prima afferma e poi pretende che io spieghi le sue affermazioni. Addirittura pretenderebbe che io permettessi i complotti di chi vuol portare il Paese alla corruzione. La libertà di pensare e di esprimersi non significa libertà di congiurare e corrompere. Per più di cinque mesi io ho tollerato coloro che non la pensano come noi, ed essi sono stati liberi di fare ciò che volevano, ciò che gli concedevo. Attraverso il signor Bani Sadr qui presente ho perfino invitato i comunisti a dialogare con noi. E in risposta essi hanno bruciato i raccolti di grano, hanno dato fuoco alle urne elettorali, hanno reagito con armi e fucili, riesumato il problema dei curdi. Così quando abbiamo capito che approfittavano della nostra tolleranza per sabotarci, quando abbiamo scoperto che erano nostalgici dello scià, ispirati dall’ex regime nonché dalle forze straniere che mirano alla nostra distruzione, li abbiamo messi a tacere.»

Imam Khomeini, ma come può definire nostalgici dello scià uomini che contro lo scià si sono battuti, che dallo scià sono stati perseguitati e arrestati e torturati, che insomma hanno tanto contribuito alla sua caduta? I vivi e i morti a sinistra, dunque, non contano nulla?
«Non contano nulla perché non hanno contribuito a nulla, non hanno servito in nessun senso la rivoluzione. Non hanno né combattuto né sofferto, semmai hanno lottato per le loro idee e basta, i loro scopi e basta, i loro interessi e basta. Non hanno pesato per niente sulla nostra vittoria, non hanno avuto nessun rapporto col movimento islamico, non hanno esercitato alcuna influenza su di esso. Anzi, gli hanno messo i bastoni fra le ruote. Durante il regime dello scià erano contro di noi quanto lo sono ora, e ci odiavano più dello scià. Non a caso l’attuale complotto ci viene da loro e il mio punto di vista è che non si tratti nemmeno di una vera sinistra ma di una sinistra artificiale, partorita e allattata dagli americani per lanciare calunnie contro di noi e per distruggerci».

In altre parole, quando parla di popolo, lei si riferisce soltanto ai suoi fedeli. E secondo lei questa gente s’è fatta ammazzare per l’Islam, non per avere un po’ di libertà.
«Per l’Islam. Il popolo s’è battuto per l’Islam. E l’Islam significa tutto, anche ciò che nel suo mondo viene chiamato libertà e democrazia. Sì, l’Islam contiene tutto, l’Islam ingloba tutto, l’Islam è tutto».

Non capisco. Mi aiuti a capire. Che cosa intende per libertà?
«La libertà… Non è facile definire questo concetto. Diciamo che la libertà è quando si può scegliere le proprie idee e pensarle quanto si vuole senza essere costretti a pensarne altre… E anche alloggiare dove si vuole… Esercitare il mestiere che si vuole…». Bè, incominciava a barcollare e con un po’ di sforzo si poteva forse colpirlo alla mascella.

Alloggiare dove si vuole, fare il mestiere che si vuole, e nient’altro. Pensare quanto si vuole ma non esprimere e materializzare quello che si pensa. Ora capisco meglio, Imam. E per democrazia cosa intende? Perché, se non sbaglio, indicendo il referendum per la repubblica lei ha proibito l’espressione Repubblica Democratica Islamica. Ha cancellato l’aggettivo Democratica, ha ridotto l’espressione a Repubblica Islamica, e ha detto: “Non una parola di più, non una di meno”.  
Si riprese subito. «Per incominciare, la parola Islam non ha bisogno di aggettivi. Come ho appena spiegato, l’Islam è tutto: vuol dire tutto. Per noi è triste mettere un’altra parola accanto alla parola Islam che è completa e perfetta. Se vogliamo l’Islam, che bisogno c’è di aggiungere che vogliamo la democrazia? Sarebbe come dire che vogliamo l’Islam e che bisogna credere in Dio. Poi questa democrazia a lei tanto cara e secondo lei tanto preziosa non ha un significato preciso. La democrazia di Aristotele è una cosa, quella dei sovietici è un’altra, quella dei capitalisti un’altra ancora. Non potevamo quindi permetterci di infilare nella nostra Costituzione un concetto così equivoco. Poi per democrazia intendo quella che intendeva Alì. Quando Alì divenne successore del Profeta e capo dello Stato Islamico, e il suo regno andava dall’Arabia Saudita all’Egitto, e comprendeva gran parte dell’Asia e anche dell’Europa, e questa confederazione aveva ogni tipo di potere, egli ebbe una divergenza con un ebreo. E l’ebreo lo fece chiamare dal giudice. E Alì accettò la chiamata del giudice. E andò, e vedendolo entrare il giudice si alzò in piedi. Ma Alì gli disse, adirato: “Perché ti alzi quando io entro e non quando entra l’ebreo? Davanti al giudice i due contendenti devono essere trattati nel medesimo modo”. Poi si sottomise alla sentenza che gli fu contraria. Chiedo a lei che ha viaggiato per molti Paesi e per molte genti: può fornirmi un esempio di democrazia migliore?».

Sì. Quella che permette qualcosa di più che alloggiare dove si vuole, fare il mestiere che si vuole, e pensare senza esprimere ciò che si pensa. E questo lo dicono anche gli iraniani che, come noi stranieri, non hanno capito dove vada a parare la sua Repubblica Islamica.  
«Se non lo capiscono certi iraniani, peggio per loro. Significa che non hanno capito l’Islam. Se non lo capite voi stranieri, non ha importanza. Tanto la cosa non vi riguarda. Non avete nulla a che fare con le nostre scelte.» Menomale: l’atmosfera incominciava a riscaldarsi. Quindi non era impossibile fargli perder le staffe. Bastava tener testa alla sua resistenza di incassatore. Rincarai la dose.

Forse la cosa non ci riguarda, Imam, però il dispotismo che oggi viene esercitato dal clero riguarda gli iraniani. E, visto che siamo qui per parlare di loro, vuol spiegarmi il principio secondo cui il capo del Paese dev’essere la suprema autorità religiosa e cioè lei? Vuol spiegarmi perché le decisioni politiche devono esser prese soltanto da coloro che conoscono bene il Corano e cioè da voi preti?.
«Il Quinto Principio sancito dall’Assemblea degli Esperti nella stesura della Costituzione stabilisce ciò che lei ha detto e non è in contrasto col concetto di democrazia. Poiché il popolo ama il clero, ha fiducia nel clero, vuol essere guidato dal clero, è giusto che la massima autorità religiosa sovrintenda l’operato del primo ministro e del futuro presidente della Repubblica. Se io non esercitassi tale sovrintendenza, essi potrebbero sbagliare o andare contro la legge cioè contro il Corano. Io oppure un gruppo rappresentativo del clero, ad esempio cinque saggi capaci di amministrare la giustizia secondo l’Islam».

Ah, sì? Allora occupiamoci della giustizia amministrata da voi del clero, Imam. Cominciamo con le cinquecento fucilazioni che in questi pochi mesi sono state eseguite in Iran. Mi dica se lei approva il modo sommario con cui vengono celebrati questi processi senza avvocato e senza appello.
«Evidentemente voi occidentali ignorate chi erano coloro che sono stati fucilati. O fingete di ignorarlo. Si trattava di persone che avevano partecipato ai massacri, oppure di persone che avevano ordinato i massacri. Gente che aveva bruciato le case, torturato i prigionieri segandogli le braccia e le gambe, friggendoli vivi su griglie di ferro. Avremmo dovuto forse perdonarli, lasciarli andare? Quanto al permesso di rispondere alle accuse e difendersi, glielo abbiamo concesso: potevano replicare ciò che volevano. Una volta accertata la loro colpevolezza, però, che bisogno c’era dell’avvocato e dell’appello? Scriva il contrario, se vuole: la penna ce l’ha in mano lei. Si ponga le domande che desidera: il mio popolo non se le pone. E aggiungo: se non avessimo ordinato quelle fucilazioni, la vendetta popolare si sarebbe scatenata senza controllo. E i morti, anziché cinquecento, sarebbero stati migliaia».

Lo saranno, di questo passo, Imam. E comunque io non mi riferivo ai torturatori e agli assassini della Savak. Mi riferivo alle vittime che con le colpe del passato regime non avevano nulla a che fare. Insomma, le creature che ancora oggi vengono giustiziate per adulterio o prostituzione o omosessualità. È giustizia, secondo lei, fucilare una povera prostituta o una donna che tradisce il marito o un uomo che ama un altro uomo?
«Se un dito va in cancrena, che cosa si deve fare? Lasciare che vada in cancrena tutta la mano e poi tutto il corpo, oppure tagliare il dito? Le cose che portano corruzione a un popolo devono essere sradicate come erbe cattive che infestano un campo di grano. Lo so, vi sono società che permettono alle donne di regalarsi in godimento a uomini che non sono loro mariti, e agli uomini di regalarsi in godimento ad altri uomini. Ma la società che noi vogliamo costruire non lo permette. Nell’Islam noi vogliamo condurre una politica che purifichi. E affinché questo avvenga bisogna punire coloro che portano il male corrompendo la nostra gioventù. Che a voi occidentali piaccia o non piaccia, non possiamo permettere che i cattivi diffondano la loro cattiveria. Del resto voi occidentali non fate lo stesso? Quando un ladro ruba, non lo mettete in prigione? In molti Paesi, non giustiziate forse gli assassini? Non lo fate perché, se restano liberi e vivi, infettano gli altri e allargan la macchia della malvagità? Sì, i malvagi vanno eliminati: estirpati come le erbacce».  
Aveva detto questo con la solita imperturbabilità. Era venuta anche una mosca, mentre parlava, ed era andata a posarsi sulla sua mano sinistra: grattandosi il capino con le zampette e abbandonandosi a ogni sorta di capriole e di danze. Ma lui non aveva neanche fatto il gesto di liberarsene, le aveva addirittura permesso di salire fino alla sua barba dove ora giocava tutta contenta fra i peli bianchi. E mi faceva impazzire perché mi distraeva e perché stava diventando il simbolo della mia impotenza. Possibile che non barcollasse almeno un poco, che non si arrabbiasse almeno per un secondo? L’unico segno di cedimento era il respiro che di risposta in risposta diventava più fievole denunciando la debolezza del vecchio che ogni tanto ha bisogno di un sonnellino. Sicché, oltre all’irritazione, c’era l’angoscia che mi si addormentasse sotto il turbante. Bisognava impedirlo.

«Imam Khomeini, come osa mettere sullo stesso piano una belva della Savak e un cittadino che esercita la sua libertà sessuale? Prenda il caso del giovanotto che ieri è stato fucilato per pederastia…»  
«Corruzione, corruzione. Bisogna eliminare la corruzione».

Prenda il caso della diciottenne incinta che poche settimane fa è stata fucilata per adulterio.
«Bugie, bugie. Bugie come quelle dei seni tagliati alle donne. Nell’Islam non accadono queste cose, non si fucilano le donne incinte».

Non sono bugie, Imam. Tutti i giornali iraniani hanno parlato di quella ragazza incinta e fucilata per adulterio. Alla televisione c’è stato anche un dibattito sul fatto che al suo amante fosse stata inflitta soltanto una pena di cento frustate sulla schiena.
«Se a lui hanno dato cento frustate e basta, vuol dire che meritava le frustate e basta. Se a lei hanno dato la pena di morte, vuol dire che meritava la pena di morte. Io che ne so. Lo chieda al tribunale che l’ha condannata. E poi basta parlare di queste cose: libertà sessuale eccetera. Non sono cose importanti. Uhm! Libertà sessuale. Che cosa significa libertà sessuale. Tutto questo mi stanca. Basta!» Ecco, succedeva. Si addormentava.

Allora parliamo dei curdi che vengono fucilati perché vogliono l’autonomia, Imam. Parliamo…
«Quei curdi non sono il popolo curdo. Sono sovversivi che agiscono contro il popolo come quello che ieri ha ammazzato tredici soldati. Io quando li catturano e li fucilano ne provo un gran piacere. Basta. Non voglio parlare neanche di questo, basta. Sono stanco. Voglio riposare».  
Intervenne Ahmed, con l’aria del principe ereditario cui spetta applicare i desideri del re. «L’Imam ha ripetuto basta. L’Imam è stanco e vuole riposare. L’Imam non vuole più parlare di queste cose». «Allora parliamo dello scià». «No, deve salutarlo e lasciar che riposi. L’ora è passata da almeno mezz’ora. Lo saluti e se ne vada». Ma la parola «scià» era giunta ai divini orecchi. E aveva ottenuto quello che neanche la mosca sulla mano poi sulla barba era riuscita a ottenere con le sue danze e le sue capriole. Inaspettatamente l’immobile turbante si mosse e gli immobili occhi dimenticarono il tappetino per posarsi su Salami. «Ha detto scià?». «Sì, Eccellenza Santissima e Reverendissima». «Che cosa vuol sapere dello scià?». «Ha chiesto che cosa vuoi sapere dello scià» sospirò Salami con espressione preoccupata.

Questo, Imam. Qualcuno ha ordinato di ammazzare lo scià all’estero e ha chiarito che il giustiziere verrà considerato un eroe. Se poi morirà nell’azione, andrà in Paradiso. È lei quel qualcuno?  
«No! Io non voglio che sia giustiziato all’estero. Io voglio che sia catturato e riportato in Iran e processato in pubblico per cinquant’anni di reati contro il popolo, inclusi i reati di tradimento e di furto. Furto di capitali. Se muore all’estero, quel denaro va perduto. Se lo processiamo qui, ce lo riprendiamo. No, no: io lo voglio qui. Qui! Lo voglio tanto che prego per la sua salute come l’ayatollah Modarres pregava per la salute dell’altro Pahlavi, il padre di questo Pahlavi che era fuggito anche lui portandosi dietro un mucchio di soldi. So che è malato. Me ne dispiace perché potrebbe morire di malattia. Guai se morisse di malattia e mentre sta all’estero».

Ma se vi desse quei soldi, lei smetterebbe di pregare per la sua salute?  
«Se ci restituisse il denaro, quella parte del conto sarebbe saldata. Ma resterebbe il tradimento che egli ha commesso contro l’Islam e contro il suo Paese. Resterebbe il massacro del Venerdì Nero, il massacro del 15 Kordat cioè di sedici anni fa, e non si può perdonargli i morti che ha lasciato dietro di sé. Soltanto se i morti resuscitassero io mi accontenterei di riavere il denaro che lui e la sua famiglia hanno rubato».

Intende dire che l’ordine di catturarlo e riportarlo in Iran vale anche per la sua famiglia?
«Colpevole è colui che ha commesso il reato. Se la famiglia non ha commesso reati, non vedo perché dovrebb’essere condannata. Appartenere alla famiglia dello scià non è un crimine. Non mi risulta ad esempio che il figlio Reza si sia macchiato di colpe verso il popolo, quindi non ho nulla contro di lui. Può rientrare in Persia quando vuole e viverci come un normale cittadino. Che venga».

«Io dico che non viene».  
«Se non vuol venire, non venga».

E Farah Diba?
«Per lei deciderà il tribunale».

E Ashraf?
«Ashraf è la gemellaccia dello scià, ladra e traditrice come lui. Per i crimini che ha commesso dev’essere processata e condannata come lui. Sì, voglio anche la gemellaccia».

E l’ex primo ministro Bakhtiar? Bakhtiar dice che ha già pronto un governo per sostituire il governo di Bazargan. E aggiunge che presto tornerà.  
«Che torni, che torni. Magari a braccetto del suo scià. Così in tribunale ci vanno insieme. Se Bakhtiar dev’essere fucilato o no, ancora non posso dirlo. Però so che dev’essere processato, e devo ammettere che mi piacerebbe molto vedermelo riportare insieme allo scià, mano nella mano. Lo aspetto».

A morte anche Bakhtiar, dunque. A morte Ashraf la gemellaccia, a morte Farah Diba, a morte tutti. Imam Khomeini mi permetta una domanda che naturalmente esula dalla morale di una rivoluzione: è noto che le rivoluzioni non perdonano, non conoscono la pietà. Lei come uomo, anzi come prete, ha mai perdonato nessuno? Ha mai provato pietà, comprensione per un nemico?
«Che cosa, che cosa?»

Ho chiesto se sa perdonare, provar pietà, comprensione. E, visto che ci siamo, le chiedo anche questo: ha mai pianto?
«Io piango, rido, soffro. Sono un essere umano. O crede che non lo sia? Quanto al perdono, ho perdonato la maggior parte di coloro che ci hanno fatto del male. E quanto alla pietà, ho concesso l’amnistia ai poliziotti che non avevano torturato, ai gendarmi che non s’eran resi colpevoli di abusi troppo gravi, ai curdi che hanno promesso di non attaccarci più. Ma per coloro di cui abbiamo parlato non c’è perdono, non c’è pietà, non c’è comprensione. Ora basta. Sono stanco. Basta». Sembrava irritato, e davvero deciso a congedarmi. Tentai di trattenerlo.

La prego, Imam. Ho ancora molte cose da domandarle. Su questo chador, per esempio, che lei impone alle donne e che mi hanno messo addosso per venire a Qom. Perché le costringe a nascondersi sotto un indumento così scomodo e assurdo, sotto un lenzuolo con cui non si può muoversi, neanche soffiarsi il naso? Ho saputo che anche per fare il bagno quelle poverette devono portare il chador. Ma come si fa a nuotare con il chador?
E allora i terribili occhi che fino a quel momento mi avevano ignorato come un oggetto che non merita alcuna curiosità, si levarono su di me. E mi buttarono addosso uno sguardo molto più cattivo di quello che m’aveva trafitto all’inizio. E la voce che per tutto quel tempo era rimasta fioca, quasi l’eco di un sussurro, divenne sonora. Squillante. «Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non riguardano voi occidentali. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene.»

Prego?  
Credevo d’aver capito male. Invece avevo capito benissimo. «Ho detto: se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene». Poi rise. Una risata chioccia, da vecchio. E rise Ahmed. Rise Bani Sadr. Risero, uno a uno, i bruti con la barba: sussultando contenti, sguaiati. E fu peggio che consegnarmi a Khalkhali perché subito i tormenti e le umiliazioni e gli insulti che m’avevan ferito in quei giorni vennero a galla per aggrovigliarsi in un nodo che comprendeva tutto: la birra negata, il dramma del parrucchiere, la via crucis di Maria Vergine che cerca con san Giuseppe un albergo, una stalla dove partorire, fino alla carognata del mullah che m’aveva costretto a firmare un matrimonio a scadenza. E il nodo mi strozzò in un’ira sorda, gonfia di sdegno. «Grazie, signor Khomeini. Lei è molto educato, un vero gentiluomo. La accontento sui due piedi. Me lo tolgo immediatamente questo stupido cencio da medioevo». E con una spallata lasciai andare il chador che si afflosciò sul pavimento in una macchia oscena di nero. Quel che accadde dopo resta nella mia memoria come l’ombra di un gatto che prima se ne stava appisolato a ronfare e d’un tratto balza in avanti per divorare un topo. Si alzò con uno scatto così svelto, così improvviso, che per un istante credetti d’esser stata investita da un colpo di vento. Poi, con un salto altrettanto felino, scavalcò il chador e sparì.
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Richiesta urgente d’incontro al Ministro Lupi per ripristino della sospensione degli sfratti per finita locazione nell’anno 2015

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Riduzioni delle Regioni , a gennaio in Parlamento

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Emergenza rifiuti in Campania

TRIBUNALE DI NAPOLI Sez.V 1 febbraio 2014 Sentenza n.16316
 RIFIUTI – APPALTI – Emergenza rifiuti in Campania – Servizi di trasporto – Violazione del divieto di subappalto – Assenza di prova certa – Fattispecie – Art. 18 D.L. 17.3.1995 n.157 in rel. all’art. 18 L. 19.3.1990 n.55.
Nei casi in cui il dibattimento non offra prova certa dell’esistenza di un contratto di subappalto relativo alla gestione di servizi deve pervenirsi ad una pronuncia assolutoria, in quanto la semplice condotta realizzata non integra gli estremi del reato contestato per insussistenza dello stesso, non essendo ravvisabile alcuna violazione del divieto di subappalto della gestione del servizio, con riferimento all’attività di trasporto dei materiali prodotti a valle degli impianti.(Fattispecie: attività di trasporto di materiali prodotti dagli impianti CDR ai siti di stoccaggio CDR e Fos, effettuata da ditte terze, inquadrabile in dubbio a possibili contratti di subappalto in eventuale violazione dell’art. 18 D.L. 17.3.1995 n.157 in rel. all’art. 18 L. 19.3.1990 n. 55).
Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Impo. Romiti ed altri
RIFIUTI – Certificazione – Omissione di un dato – Reato di falsa “certificazione” – Configurabilità – Dolo generico – Necessità – Artt 110, 479 cp..
 Ai fini dell’integrazione del reato di cui agli artt 110, 479 cp concernente la falsa “certificazione”, nella specie relativa alla FOS prodotta nell’impianto di produzione di cdr, è sufficiente, sul piano soggettivo, il dolo generico. Tuttavia è pur sempre indispensabile accertare che vi sia volontarietà e consapevolezza della falsa attestazione, e che ciò non sia dovuto a semplice leggerezza dell’agente o ad una sua incompleta conoscenza e/o errata interpretazione. (Nel caso di specie, vi sarebbe stata l’omissione del dato relativo all’umidità, richiesto con ordinanza commissariale, tuttavia, in detta omissione non è dato ravvisare il falso ipotizzato in quanto non sono stati riscontrati, in dibattimento, elementi certi per affermare che effettivamente l’imputato non conoscesse tale ordinanza, circostanza o errore idonea ad escludere la sussistenza del dolo).
Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri 
RIFIUTI – Traffico illecito di rifiuti – Attività organizzata di gestione dei rifiuti – Elementi – Codici CER utilizzati per lo smaltimento – Reale trattamento del rifiuto – Art. 260 Dlgs n.152/06 .
Il carattere abusivo dell’attività organizzata di gestione dei rifiuti, si ha non solo quando le autorizzazioni manchino del tutto, ma anche quando esse siano scadute o palesemente illegittime e comunque non commisurate al tipo di rifiuti ricevuti (Cass. Pen. Sez. V, 7/12/2006, n. 40330). Pertanto occorre verificare se i codici CER utilizzati per lo smaltimento dei rifiuti abbiano in qualche modo inciso sulla destinazione finale degli stessi. Nella specie, l’utilizzo di un codice diverso da quello previsto per Compost fuori specifica ed in particolare del codice CER 19.05.01 previsto per la frazione non composta di rifiuti urbani e simili, non ha comportato una destinazione del rifiuto diversa dalla discarica, siano esse discariche di servizio gestite o discariche pubbliche o gestite da terzi. In altri termini, il trattamento del rifiuto è avvenuto esattamente nello stesso modo.
Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri 
  RIFIUTI – Attività di recupero soggette a procedura semplificata – Art. 214 d.lgs. n.152/06.
 Il decreto ministeriale del 1998 è riferibile esclusivamente alle attività di recupero soggette a procedura semplificata, come è indicato nel titolo e come si rileva dall’esame del preambolo, dall’articolato e dal richiamo ad esso effettuato dall’articolo 214 d.lgs. n. 152/06 (Cass. Pen. Sez. III n. 19955 del 09/05/2013).
  Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri
RIFIUTI – Gestione dei Rifiuti – Trasferimento di CDR e di altri residui – Concorso nel reato con condotte successive – Imprese iscritte all’albo nazionale speciale – Necessità.
 Il trasferimento di CDR e di altri residui della lavorazione in siti di stoccaggio, secondo legge deve avvenire a mezzo di imprese che siano iscritte all’albo nazionale speciale delle Imprese Esercenti Servizi di Gestione dei Rifiuti (art. 10 D.L. 31, VIII, 1987 n. 361 convertito in art. 1, comma 1 1.29, X 1987 n. 441 ). Pertanto, anche nella gestione dei rifiuti, può configurasi il concorso nel reato con condotte successive e senza la necessità di un previo accordo (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18745 del 15/01/2013), tuttavia, occorre pur sempre che ciascun agente abbia conoscenza, anche unilaterale, del contributo recato alla condotta altrui.
Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri
RIFIUTI – Rifiuto combustibile – CDR conforme al DM 5\2\1998, o non conforme – Regime autorizzativo – D.Lgs. n.152/06.
 Solo dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 152/06 il rifiuto combustibile ricavato dai rifiuti che presentava caratteristiche qualitative difformi dal DM 5.2.98, ha cominciato a dover essere qualificato come “frazione secca”, e non più CDR e a dover essere individuato nel CER (Catalogo europeo dei rifiuti) con il codice 191212, laddove quello conforme manteneva la denominazione di CDR e il codice 191210. Pertanto, anteriormente al Dlgs n.152\06, tutti i tipi di combustibili derivati dai rifiuti, conformi o meno che fossero al DM 5\2\98, dovevano essere qualificati come CDR. L’unica differenza tra i due rifiuti -conforme al DM 5\2\1998, o non conforme- si riferiva, infatti, al regime autorizzativo al quale erano sottoposti: (anche)- procedure semplificate per il CDR conforme, solo quelle ordinarie per il CDR non conforme, secondo la distinzione esplicitata.
  Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri
RIFIUTI – Incenerimento rifiuti – Potere calorifico all’incenerimento – Direttiva europea 2000/76/CEE e d.L.vo n.133/05 –  Termovalorizzatore di Acerra e Santa Maria la Fossa.
 La direttiva europea sull’incenerimento (2000/76/CEE) e il d.L.vo n.133/05 che la recepisce non prevedono limitazioni sul potere calorifico all’incenerimento. Così, se all’epoca dei fatti il CDR: non raggiungeva le specifiche stabilite dal DM 5.2.98, il recupero poteva essere effettuato solo nell’ambito del regime autorizzatorio ordinario mentre se rispettava le specifiche stabilite dal DM 5.2.98, il suo recupero poteva usufruire delle procedure semplificate.
 Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri
RIFIUTI – Realizzazione dei termovalorizzatori – Recupero energetico del CDR prodotto nelle more della costruzione – Smaltimento di rifiuti – C.d. eco balle – Definizione del temine “ambientalizzazione” – Responsabilità dell’appaltatore – Limiti – Uso di cementifici. 
 In tema di smaltimento di rifiuti, con il temine “ambientalizzazione” si intende l’attuazione delle modifiche agli impianti per consentire di rispettare il raggiungimento dei valori di alcuni parametri impiantistici (tempi di permanenza e tenori di ossigeno e temperature di combustione) ed ambientali previsti nelle norme per la conduzione degli inceneritori specificamente dedicati alla combustione di rifiuti o CDR. Nella specie l’uso di cementifici nei quali smaltire immediatamente il CDR prodotto nelle more della costruzione dei termovalorizzatori, non poteva considerarsi idoneo a tale scopo in quanto avrebbero provocato danni concreti che ne avrebbero reso sconsigliabile l’utilizzo, oltre ai reali problemi di fattibilità. Tuttavia, non sussiste alcuna esponsabilità quando, l’atteggiamento dell’appaltatore è teso al miglioramento tecnico e funzionale degli impianti, anziche’ alla riduzione dei costi.
Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri
APPALTI – Contratti di appalto di servizi – Violazione degli obblighi assunti – Inadempimento di un contratto con la Pubblica Amministrazione – Frode nelle pubbliche forniture – Elementi per la configurabilità – Natura – Giurisprudenza. 
 Ai fini della configurabilità del delitto di frode nelle pubbliche forniture non è sufficiente il semplice inadempimento del contratto, richiedendo la norma incriminatrice un ” quid pluris ” che va individuato nella malafede contrattuale, ossia nella presenza di un espediente malizioso o di un inganno, tali da far apparire l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 36567 del 09/05/2001; Sez. 6, Sentenza n. 11144 del 25/02/2010; Sez. 6, Sentenza n. 5317 del 10/01/2011). Quanto all’elemento soggettivo, esso è costituito dalla consapevolezza di effettuare una prestazione diversa per quantità e qualità da quella dovuta, a meno che vengano scoperti ed allegati ulteriori elementi che attribuiscano all’oggettivo inadempimento una valenza colposa (Cass. Sez. 6, Sentenza n.34952 del 23/05/2003). La giurisprudenza non è, invece, univoca nella affermare se si tratti di reato di evento, ritenendo tale anche il mero pericolo, (Cass. Sentenza n. 16428 del 05/12/2007) ovvero di pura condotta: in tale secondo caso, non è ipotizzabile in relazione ad esso una responsabilità da causalità omissiva (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 771 del 31/10/2006).
  Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri
APPALTI – Inadempimento di un contratto e frode nelle pubbliche forniture – Natura civile e penale dell’inadempimento – Elementi per la configurabilità.
 Nella accezione civilistica del termine per inadempimento contrattuale si intende la mancata esecuzione della prestazione da cui dipende la realizzazione del diritto del creditore. La prestazione potrà dirsi esattamente eseguita in quanto realizzata in conformità del contenuto dell’obbligazione descritta nel contratto ed il diritto del creditore sia integralmente e tempestivamente soddisfatto. In generale, l’inadempimento può essere anche parziale, allorquando la prestazione venga resa in modo difforme da come dovuto e con realizzazione di una frazione più o meno limitata dell’interesse del creditore. In tal caso occorrerà valutare l’importanza dell’inadempimento in relazione all’incidenza che abbia avuto sul piano della realizzazione dello jus credendi ed andrà quindi esclusa la rilevanza penale di quelle condotte che, quantunque integrative di una inesatta prestazione contrattuale, abbiano però consentito al committente una pur imperfetta, ma sostanziale soddisfazione del bisogno cui è finalizzato l’obbligo di fare del contratto di fornitura. Di sicuro, poi, l’inadempimento rilevante è solo quello privo di giustificazioni. Lo stesso deve, invece, escludersi quando la prestazione del privato sia divenuta impossibile per caso fortuito o forza maggiore, ovvero per altra causa non imputabile al debitore, secondo la formula dell’ad 1256 cc. (Cass. Sentenza n. 1174 del 17/11/1998). D’altra parte, la fattispecie penalistica, attraverso il richiamo che l’art.356 cp. fa al precedente articolo 355, descrive l’inadempimento penalmente rilevante nella condotta in conseguenza della quel vengano a mancare cose o opere che siano necessarie ad uno stabilimento pubblico o ad un pubblico servizio. Il requisito della necessità delle cose od opere deve essere inteso in senso assoluto: le cose od opere sono quelle che in via immediata soddisfano le necessità del pubblico servizio (Cass Sentenza n. 9525 del 19/06/1998). Ciò fa sì che rientri nell’alveo della fattispecie incriminatrice non qualsiasi difficoltà operativa ma ciò che rende inattingibile lo scopo cui Il servizio era demandato. Non ogni inesatto adempimento o ritardo vale a concretare un fatto lesivo, dovendosi invece determinare un rapporto di congruità offensiva tra inadempimento ed il venir meno delle opere necessarie per la PA. Da un punto di vista squisitamente penalistico, v’è da aggiungere che la giurisprudenza sul 356 cp. indica un criterio rigoroso di valutazione dell’inadempimento: si richiede una speciale intensità lesiva dell’interesse del creditore. Occorre, quindi, una valutazione sulla intensità lesiva dell’inadempimento. Dev’esservi una intollerabilità verificando che l’inadempimento deve tener conto anche della natura del contratto in questione.
 Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri
APPALTI – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Clausole generali di buona fede – Prestazione divenuta inesigibile – Artt. 1175, 1256, 1218 e 1375 c.c..
 Non può dirsi sussistente un’ipotesi di inadempimento, neppure colposo, a ragione dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1256 e 1218 c.c.) o – quanto meno – della sua inesigibilità da parte del presunto creditore committente alla stregua delle clausole generali di buona fede e di doverosa collaborazione del creditore artt. 1175 e 1375 c.c.). Infatti, gli artt, 1175 e 1375 cc. spiegano con chiarezza, che è contraria alla correttezza la pretesa del creditore di voler ottenere l’inadempimento anche quando la prestazione è divenuta inesigibile (Cass. 2007 n 26958; n 21994/20121; Cost. 19/94).
 Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri
APPALTI – Contratto di appalto e quello di trasporto – Differenze.
 Il discrimen tra il contratto di appalto e quello di trasporto prevede che il primo ha per oggetto il risultato di un facere, il quale può concretarsi nel compimento di un’opera o di un servizio che l’appaltatore assume verso il committente dietro corrispettivo; esso, inoltre, è contrassegnato dall’esistenza di un’organizzazione d’impresa presso l’appaltatore e dal carico esclusivo del rischio economico nella persona del medesimo; invece, si ha contratto di trasporto, quando un soggetto si obbliga nei confronti di un altro soggetto a trasferire persone e cose da un luogo ad un altro mediante una propria organizzazione di mezzi e di attività personali e con l’assunzione a suo carico del rischio esclusivo del trasporto e della direzione tecnica dello stesso (Cassazione 17.10.1992 n.11430; Cass: 16.10.1979 n.539).
  Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri
 
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Responsabilità Amministrativa da reato – Illeciti amministrativi – Responsabilità degli enti collettivi – D. L.vo n.231/2001.
 Il sistema sanzionatorio e le disposizioni processuali introdotte dal d. lgs. 8.6.2001 n. 231 limitano la responsabilità degli enti ad un numero ristretto di reati. In particolare gli artt. 23 e 24 individuano le sanzioni irrogabili agli enti come conseguenza di una pluralità di delitti contro la Pubblica Amministrazione, distinti, ai fini della sanzione, per fasce di grandezza. Ovviamente in tale costruzione l’illecito amministrativo è legato al fatto di reato delle persone fisiche poste ai vertici della società o che si trovano in una posizione subordinata rispetto a questi ultimi che esercitano poteri di vigilanza e/o controllo. Ne consegue che l’accertamento delle sussistenza dell’illecito amministrativo in capo agli enti è strettamente dipendente dall’accertamento della sussistenza del reato presupposto, non a caso il Pubblico Ministro nella contestazione all’ente dell’illecito amministrativo deve esattamente indicare il reato da cui l’illecito dipende (art. 59). A fronte di tale costruzione della responsabilità amministrativa degli enti è evidente che il mancato accertamento della sussistenza del reato presupposto non può che comportare una pronunzia di esclusione della responsabilità dell’ente (art. 66). (Nella specie viene annullata l’imputazione sulla responsabilità, ex D. L.vo n.231/2001, essendosi pervenuti ad una pronunzia assolutoria in ordine al contestato reato di truffa.
  Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – DANNO AMBIENTALE – Profitto del reato – Sequestro preventivo funzionale alla confisca – Artt. 19 e 53 del Dlgs n.231/01 .
 Il profitto del reato nel sequestro preventivo funzionale alla confisca, disposto ai sensi degli artt. 19 e 53 del Dlgs n.231\01 nei confronti dell’ente collettivo, è costituito dal vantaggio economico di diretta ed immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente.
  Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Reato di abuso d’ufficio – Elementi per l’integrazione – C.d. “doppia ingiustizia”.
 Ai sensi dell’art 323 cp, il reato di abuso d’ufficio non può configurarsi se non “in presenza di una violazione di norma di legge o di regolamento”, (ovvero di una omissione del dovere di astenersi ricorrendo un interesse proprio dell’agente o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti) (requisito sub  A). Ne consegue che é stata espunta dall’area della rilevanza penale ogni ipotesi di abuso dei poteri o di funzioni non concretantesi nella formale violazione di norme legislative o regolamentari o del dovere di astensione. Inoltre, l’ingiustizia del vantaggio -che prima rientrava tra le finalità che l’agente doveva proporsi nel momento della condotta, in tal modo delineando una figura di reato a dolo specifico- rappresenta, in virtu’ della richiamata modifica normativa, l’evento del reato, contribuendo a configurare l’elemento oggettivo della fattispecie astratta (Cass. 6561/98) (requisito sub B). Sicché, ai fini dell’integrazione del reato di abuso d’ufficio, é necessario che sussista la c.d. “doppia ingiustizia”, nel senso che ingiusta deve essere la condotta, in quanto connotata da violazione di legge, ed ingiusto deve essere l’evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia (Cass. II 2754 del 21\1\2010).
  Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Abuso d’ufficio – Svolgimento della funzione amministrativa del pubblico ufficiale – Artt. 323 e 110 cp..
 In tema di abuso d’ufficio, nella formulazione dell’art. 323 cp, l’uso dell’avverbio “intenzionalmente”, per qualificare il dolo ha voluto limitare il sindacato del giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad arrecare un ingiusto danno. Ne deriva che, qualora nello svolgimento della funzione amministrativa il pubblico ufficiale si prefigga di realizzare un interesse pubblico legittimamente affidato all’agente dall’ordinamento (non un fine privato per quanto lecito, non un fine collettivo, ne’ un fine privato di un ente pubblico e nemmeno un fine politico), pur giungendo alla violazione di legge e realizzando un vantaggio al privato, deve escludersi la sussistenza del reato (Cass. n. 18149 del 16\5\2005, n 33068 del 5\8\2003, n 42839 del 18\12\2002, n 38498 del 18\11\2002). Inoltre, quando, come nel caso di specie, é ipotizzato il concorso del privato, é necessaria la dimostrazione certa della collusione tra il pubblico ufficiale e il richiedente l’atto illegittimo, la quale deve risultare dal contesto fattuale che dimostri che la richiesta – coincidente col provvedimento adottato- é stata preceduta, accompagnata o seguita da un’intesa con il pubblico funzionario o, comunque, da sollecitazioni poste in essere dal privato per l’ottenimento del provvedimento favorevole (Cass. VI 11\10\2007 n 37531, Cass 21/10/2004 n 43205, Cutino; 14/10/2003 n 43020). Inoltre, puo’ concorrere nel reato proprio di abuso d’ufficio, ex art.110 cp, anche la persona che non abbia la qualità soggettiva pubblica, quando conosca la qualità dell'”intraneo” e pone in essere una condotta che contribuisca alla realizzazione dell’evento (Cass sez. VI, 11/2/99). Ma perché possa configurarsi un contributo efficiente, idoneo a fondare la responsabilità concorsuale, occorre che il privato abbia posto in essere una condotta tale da avere svolto un ruolo causalmente rilevante’ nella realizzazione della fattispecie criminosa (Cass. VI pen. 29/5/2000). Pertanto, quando, come nel caso di specie, é ipotizzato il concorso del privato, é necessaria la dimostrazione della collusione tra il pubblico ufficiale e il richiedente l’atto illegittimo. La prova che un atto amministrativo sia il risultato di collusione tra privato e pubblico funzionario, non può essere dedotta di per se’ sola dalla mera coincidenza tra la richiesta del primo ed il provvedimento posto in essere dal secondo, essendo invece necessario che il contesto fattuale sia desunto, al di là dei rapporti personali tra le parti, da un quid pluris il quale dimostri che la presentazione della domanda è stata preceduta, accompagnata o seguita da un’intesa col pubblico funzionario o, comunque, da sollecitazioni poste in essere dal privato per l’ottenimento del provvedimento favorevole (Cass. 21/10/2004 n 43205, Cutino; 14/10/2003 n 43020)
Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Restituzione del bene sequestrato a favore dell’avente diritto – Soggetto diverso al quale il bene è stato sequestrato.
 La restituzione del bene sequestrato che consegue come effetto della perdita di efficacia di esso, a seguito di sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, va disposta a favore dell’avente diritto che, in ipotesi, puo’ essere anche un soggetto diverso da quello al quale il bene è stato sequestrato (Cass. VI 2/5/-22 /8/2013 n.35320).
  Pres. Est. Scaramella Est. Sassone, Napolitano Tafuri, Imp. Romiti ed altri
  Testo integrale della sentenza
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La Monsanto sfrutta ed utilizza l’India per contaminare il mondo con sementi OGM. Tratto dal sito EFFEDIEFFE.com, traduzione a cura di Massimo Frulla

 

 

 

Jeffrey Smith – attivista anti-OGM – ha dichiarato ad Russia Today che la Monsanto, essendo riuscita a costringere gli agricoltori indiani ad acquistare le sue sementi geneticamente modificate, grazie a loro sta diffondendo nel mondo organismi alterati in maniera tale che in futuro nessuno possa più competere sul mercato con sementi pure.
È stato stimato che [a causa della Monsanto] in India, ogni 30 minuti, un agricoltore si toglie la vita. Stando a CHRGJ (Center of Human rights and global justice), per la disperazione di non poter più provvedere alle proprie famiglie, negli ultimi 16 anni si sono suicidati oltre 250.000 agricoltori indiani.

Russia Today: Migliaia di agricoltori indiani si sono suicidati a causa delle sementi geneticamente modificate della Monsanto. Cosa li spinge a tanto?
Jeffrey Smith: è accertato che in India vi sia un gran numero di agricoltori che si è suicidato a causa delle sementi Monsanto. La cosa è stata ampiamente documentata da indagini indipendenti e da documenti ‘sfuggiti’ al Governo Centrale Indiano. Indagini porta a porta condotte in quella che ormai è tristemente nota come “la cintura dei suicidi” hanno confermato che l’85% dei suicidi fra agricoltori era collegato direttamente al fallimento della produzione di cotone Bt; ed un altro 10% era collegato sempre al cotone Bt ma in modo indiretto. Sappiamo che il numero dei suicidi in India è altissimo: si calcola sia vicino ai 300.000, 250.000 di essi sono per certo collegati al cotone Bt.

RT: Quali le implicazioni di un fallimento di tali proporzioni del cotone Bt?
JS: Quando un agricoltore acquista dei semi e questi non germinano, o producono un raccolto scarso o danno problemi, l’agricoltore non riesce più a ripagare gli alti interessi sui propri debiti e si suicida. Una brutta storia che continua a ripetersi. Se ne parla sui giornali ed in televisione e si conducono inchieste: noi che indaghiamo sul campo sappiamo di centinaia di suicidi nelle nostre zone e sappiamo quanti problemi dia il cotone Bt: problemi di germinazione, di raccolti ridotti, favorisce il marcire delle radici, l’arricciarsi delle foglie o le infestazioni. La qualità del cotone può essere bassa o richiedere maggior lavoro del “normale” per essere raccolta. Gli agricoltori si lamentano poi di prurito e reazioni cutanee quando toccano il cotone e di morie di bufali, pecore e capre se brucano le piante dopo che c’è stato il raccolto dalle piantagioni di cotone. È tutto documentato, ed un gran numero di suicidi ha una documentazione di prima mano.

RT: Ci puoi dare altri dettagli? Com’è che la Monsanto riesce ad indurre gli agricoltori ad acquistare i semi geneticamente modificati del cotone Bt?
JS: Tale cotone da una resa maggiore con una perfetta irrigazione, ma la maggior parte degli agricoltori, per irrigare, si affida alle piogge. In tal caso una simile resa è impossibile. Le prove effettuate dalla Monsanto e dalla sua sussidiaria Mahyco, sono state condotte in condizioni di irrigazione ideale; inoltre, stando a al parerei di molti esperti, hanno manipolato i dati in modo da poter affermare che le loro sementi OGM “assicurassero” di “diventare ricchi”. Si sono spinti fino ad assicurare quale volume di raccolto dovevano attendersi se gli agricoltori avessero adottato queste costose sementi geneticamente modificate. Gli agricoltori sono andati in banca a farsi fare dei prestiti per acquistare sia queste sementi più costose che i prodotti chimici ad esse collegati. Molti non hanno ottenuto i prestiti e si sono pertanto rivolti al mercato secondario dove gli interessi possono salire fino al 7% al mese. Quando il raccolto non li ha ripagati nemmeno dei soli interessi da restituire – ed avrebbero quindi dovuto affrontare la vergogna di vendere delle terre che magari erano di famiglia da generazioni – molti si sono suicidati andando nei propri campi e bevendo i pesticidi che erano stati costretti ad usare.

RT: Ma perché non sono semplicemente andati avanti a lavorare come facevano da sempre? C’è un qualche monopolio del mercato?
JS: Ci sono degli Stati dove è impossibile non coltivare il cotone OGM. È documentato. C’è poi un monopolio tale per cui i semi non-OGM o sono completamente spariti o sono molto difficili da trovare. C’è anche una fortissima disinformazione che circonda il cotone e che parte dalle promesse stesse di arricchimento: ci sono dei cartelloni che pubblicizzano agricoltori che avrebbero fatto un sacco di soldi con il cotone Bt. Si è indagato su di loro e si è scoperto che o non erano agricoltori o non avevano mai dichiarato quanto veniva fatto loro dire sui cartelloni. Uno era un venditore di sigarette! È saltato fuori poi che la Monsanto, quando ha voluto divulgare le statistiche dei risultati ottenibili con il Bt, non è ricorsa ad un’organizzazione scientifica bensì ad un società di marketing, la quale ha gonfiato alcuni dati anche di 100 volte. Dunque non sono dati attendibili né dei quali ci si possa fidare, eppure sono risultati molto efficaci nel convincere con l’inganno gli agricoltori e nel creare una situazione di monopolio che li ha obbligati ad acquistare le sementi OGM.

RT: Quale ritiene sia più in generale lo scopo della Monsanto?
JS: La Monsanto vorrebbe introdurre sul mercato molti altri tipi di sementi geneticamente manipolate. C’è un gruppo di società del settore delle biotecnologie che vorrebbe introdurre semi geneticamente modificati di melanzana, cipolla, cavolfiore, senape ed altri. Il Governo ha da poco autorizzato delle prove sul campo per i semi di melanzana e di senape; una cosa piuttosto pericolosa perché non appena semini un campo, i semi possono sfuggire al controllo e si rischia d’infettare il materiale genetico praticamente per sempre. E questo è il piano della Monsanto, lo sappiamo da informazioni provenienti da insiders: vogliono contaminare con il proprio materiale geneticamente modificato il mondo, in modo che poi nessuno possa competere sul mercato con prodotti completamente puri. Potremmo dire che lo scopo più generale della Monsanto è quello di sfruttare l’India – che è una delle aree con la maggior concentrazione di agricoltori sul pianeta – quale fonte di guadagni e luogo dove introdurre molte altre varietà di sementi geneticamente modificate che possano dilagare per l’intero pianeta. Una volta che introducono in un’area i propri semi OGM – come hanno fatto per il cotone – prendono il controllo dei prezzi e della disponibilità in quanto si appropriano facilmente delle altre aziende produttrici di sementi. Lo hanno già fatto in tutto il mondo. Negli Stati Uniti 2/3 delle sementi non-OGM disponibili sul mercato, prima che la Monsanto ed altre aziende biotech iniziassero ad impestare con gli OGM, sono scomparsi mentre le tipologie di sementi OGM sono aumentate in modo incredibile per quantità e varietà disponibili. La cosa è confermata sia direttamente dagli agricoltori americani che da inchieste condotte sul campo. Non si trovano più sementi non-OGM di alta qualità.

RT: Ma ci sono casi “positivi”? Non ci sono agricoltori che hanno beneficiato delle sementi Bt? Che hanno avuto raccolti maggiori?
JS: In alcuni casi, con particolari irrigazioni, si possono avere raccolti di cotone più abbondanti con il Bt. Spesso tali aumenti sono addirittura esagerati facendo confronti con qualità “povere” di cotone non-OGM. Comunque sì, alcuni agricoltori hanno notato un aumento dei raccolti in condizioni ideali d’irrigazione e di crescita; ma se si guarda all’insieme degli agricoltori, questi non hanno tali condizioni d’irrigazione. Non mi sento di dire che la Monsanto menta in assoluto quando parla di raccolti più abbondanti, ma a sua volta la Monsanto non dovrebbe negare che in migliaia e migliaia di casi, per l’esattezza quasi ¼ di milione, gli agricoltori si sono suicidati per i risultati in senso contrario ottenuti con le sementi Monsanto.

Traduzione per EFFEDIEFFE.com a cura di Massimo Frulla

http://www.disinformazione.it/monsanto_india.htm

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Storage, nuove gigafabbriche e super-batterie rivoluzioneranno il mercato?

Dopo la gigafactory di Tesla e Panasolic, arriva l’annuncio di un nuovo grande progetto di produzione di batterie. Non senza destare dubbi, la società svizzera Alevo prevede di realizzare una mega-fabbrica di accumuli al litio che abbatterebbero il costo di stoccaggio dell’elettricità, tanto da sostituire le centrali elettriche come regolatori della rete.

Il boom del fotovoltaico e il crollo verticale dei suoi prezzi cominciò quando nel campo, tenuto fino ad allora per lo più da piccole e medie fabbriche europee, piombò come un rinoceronte la potenza industriale cinese, che in pochi mesi mise in funzione fabbriche in grado di sfornare GW di pannelli fotovoltaici, a prezzi così bassi che ben presto misero fuori mercato quasi tutti i competitori. Se succederà lo stesso per le batterie , pare che stavolta la rivoluzione partirà dagli Stati Uniti.
Molti sanno che Elon Musk, il proprietario di Tesla Motor , uno dei massimi produttori di auto elettriche del mondo, si è accordato con Panasonic per costruire una “gigafabbrica” in Nevada, i cui 6500 operai saranno in grado entro il 2020 di produrre ogni anno 500.000 batterie per auto elettriche, per una capacità totale di 50 GWh. In questo modo praticamente la produzione mondiale di batterie al litio raddoppierebbe e il prezzo delle batterie crollerebbe, permettendo a Tesla di diminuire drasticamente il costo delle proprie auto.
La preparazione del sito è già partita non appena lo Stato del Nevada ha fornito gratuitamente il terreno, la costruzione di una strada a 4 corsie che lo colleghi alla più vicina highway e altri benefici fiscali, come la rinuncia alle tasse locali nei primi anni di attività, per 1,3 miliardi di dollari. Da parte loro Tesla e Panasonic investiranno 5 miliardi nel nuovo impianto che sarà del tutto alimentato da fonti rinnovabili: un impianto eolico da 140 MW, moduli solari installati sui 64 ettari del tetto della fabbrica e un impianto geotermico.
Ma se la Gigafactory di Musk è stata pubblicizzata su tutta la stampa del mondo, molta meno risonanza ha avuto un’altra notizia simile , apparsa in questi giorni: la società svizzera Alevo (da ALEssandro VOlta) ha annunciato anch’essa l’apertura negli Usa di un’altra fabbrica in grado di impiegare, a pieno regime, 6000 operai e produrre 16,2 GWh di batterie al litio ogni anno.
Alevo vorrebbe trasformare in modernissima fabbrica di accumulatori un vecchio impianto per la fabbricazione di sigarette nel Nord Carolina, già acquistato al prezzo di 68,5 milioni di dollari. Il prodotto che dovrebbe uscire da questa nuova fabbrica, forse già dalla fine del 2015, è veramente particolare, persino più interessante delle batterie per auto di Musk. Si tratta di superbatterie da 1 MWh l’una , costituite da un container pieno di accumulatori al litio-fosfati realizzati con una nuova tecnologia tedesca, che grazie a elettrodi al nickel-grafite sovradimensionati e un elettrolita a base di biossido di zolfo, secondo Alevo, permettono la scarica completa della batteria senza danni, evitano surriscaldamento e incendi e portano la vita utile dell’accumulatore ad almeno 40.000 cicli di carica-scarica, contro i 3-4.000 delle attuali batterie al litio .
Alevo afferma di avere già ordini per 200 dei suoi container-batteria, abbastanza per far operare la nuova fabbrica nel suo primo anno di attività, e sostiene che, accoppiati al loro particolare software di gestione, questi accumulatori abbattono così tanto il costo di stoccaggio dell’elettricità, da poter sostituire le centrali elettriche come regolatori della rete, recuperare quel 30% di energia sprecata per eccesso di produzione e rendere programmabili le rinnovabili intermittenti.
Troppo bello per essere vero? Forse sì. Il problema con Alevo è che nessuno nel mondo delle batterie e dell’accumulo l’aveva mai sentita nominare prima del clamoroso annuncio di apertura della loro Gigafarm. In effetti la società esiste solo dal 2009 ed è essenzialmente una startup nata per sfruttare i brevetti tedeschi su elettrodi e elettrolita di un’altra startup, la Fortu, che ha fallito il suo tentativo.
Creata da un originale manager norvegese , Jostein Eikeland, che ha cominciato la sua carriera come promoter musicale, per divenire poi fornitore di software per Internet e, infine, passare a una fabbrica di ricambi per auto, senza mai troppa fortuna. Alevo dichiara ora nel suo sito di avere 9 sussidiarie in giro per il mondo, dalle quali fornirà accumulatori e tecnologie per gestirli, ma ammette anche che la sua prima fabbrica sarà quella ancora da costruire in Nord Carolina, mentre tutta la sua attività sembra consistere per ora in ricerca e sviluppo.
Per costruire la fabbrica in Nord Carolina Alevo avrà bisogno di almeno un miliardo di dollari , ma pare ne abbiano raccolti, per adesso, solo 350 milioni, e secondo molti analisti dovranno darsi molto da fare per trovare il resto. Devono convincere gli investitori delle eccezionali qualità di prodotti che, per ora, non esistono ancora. Questo perché il settore delle batterie è notoriamente molto ostico da sviluppare per la diffidenza dei clienti nell’accettare nuove tecnologie non ancora testate.   Ma anche per la difficoltà di passare da novità, che in laboratorio funzionano benissimo, al prodotto industriale, che può rivelarsi molto complesso da assemblare e far funzionare in modo affidabile su grande scala.
Già diverse startup con programmi simili a quelli di Alevo, sono cadute al momento di entrare nel mercato, mentre una grande società nata proprio per produrre batterie di potenza per auto e rete, l’americana A123, è fallita ed è stata acquistata recentemente dalla giapponese NEC.
Insomma, come capita a molte start up desiderose di farsi notare, pare che anche questa svizzera le stia, almeno per ora, sparando un po’ grosse. Vedremo se diventerà la ‘Tesla delle batterie per la rete’ o solo un vago ricordo sulla tortuosa strada verso il sistema elettrico a fonti rinnovabili.

Alessandro Codegoni
01 dicembre 2014

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fonte: quale energia.it

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Monitoraggio e automazione: come ti taglio la bolletta di 500mila euro l’anno

Un semplice sistema di monitoraggio può far risparmiare a una famiglia 100-200 € all’anno sulle bollette, mentre un sistema di controllo automatizzato riesce a tagliare la bolletta annuale di un supermercato di 12-15mila € a fronte di un investimento di 30-40mila. Il nuovo Energy Efficiency Report esplora il potenziale di risparmio energetico delle soluzioni ICT.

Conoscere i consumi per individuare le azioni da intraprendere e magari adottare soluzioni tecnologiche che correggano automaticamente gli sprechi: la strada dell’efficienza energetica passa anche da qui. In Italia, limitandoci ad installare in maniera massiva semplici sistemi di monitoraggio, ogni famiglia potrebbe spendere tra 100 e 200 euro in meno all’anno di bolletta e a livello nazionale potremmo risparmiare annualmente tra calore ed elettricità circa 0,86 Mtep (milioni di tonnellate di petrolio equivamente).
Se poi affiancassimo a questi interventi delle tecnologie “intelligenti” capaci di prendere in automatico i provvedimenti più cost-effective la bolletta nazionale potrebbe essere ridotta del quadruplo, 3,4 Mtep l’anno , dato che queste soluzioni basate sull’automatizzazione possono tagliare le spese energetiche di un’industria per centinaia di migliaia di euro all’anno. Per dare un’idea del potenziale, 3,4 Mtep sono poco meno di un sesto dell’obiettivo di risparmio al 2020 stabilito dalla Strategia Energetica Nazionale, 20 Mtep, mentre il consumo finale lordo di energia in Italia nel 2012 è stato di 124 Mtep.
L’interessante stima viene dal nuovo Energy Efficiency Report , il rapporto sull’efficienza energetica dell’Energy Strategy Group del Politecnico di Milano, che sarà presentato il prossimo 11 dicembre a Milano , ma che QualEnergia.it ha potuto sfogliare in anteprima.
Quella della corretta realizzazione dell’ energy audit , si legge nello studio, è una delle grandi barriere allo sfruttamento del potenziale dell’efficienza energetica. La buona notizia è che c’è una crescente offerta di soluzioni tecnologiche basate sull’ICT che permettono di fare molto: dal semplice monitoraggio fino alla risposta correttiva automatica per ridurre i consumi e, quindi, spendere meno.
Tre le famiglie di interventi il cui potenziale viene indagato dal report ci sono i “sistemi di monitoraggio” , che permettono la raccolta delle informazioni sullo stato di un’utenza energetica e la rielaborazione di queste attraverso analisi di benchmark rispetto a situazioni ideali di funzionamento; i “sistemi di controllo” , che oltre a questo compito possono implementare automaticamente eventuali azioni correttive, e i “sistemi di supervisione” , che condensano le funzionalità degli altri due, ma scelgono ogni volta le eventuali azioni correttive in base ai risultati di analisi tecnico-economiche.
Per capire meglio ecco l’esempio che ci fa uno degli autori del report, Marco Chiesa: il sistema di monitoraggio si limita a rilevare che in una stanza della casa c’è una temperatura che si discosta da quella impostata come ideale e saranno poi gli utenti a dover intraprendere eventuali azioni, come chiudere o aprire una finestra o migliorarne l’isolamento; il sistema di controllo, una volta rilevata l’anomalia, interviene automaticamente , ad esempio abbassando la tapparella o chiudendo la finestra; il sistema di supervisione, invece, non solo interviene automaticamente per ridurre i consumi, ma sceglie anche quale è il modo più economico di farlo: ad esempio per abbassare la temperatura di una stanza, a seconda che fuori ci sia o meno il sole, decide se abbassare le tapparelle, aprire la finestra o far partire il condizionatore.
Tutte e tre le tipologie di intervento possono far risparmiare molto e l’Energy & Strategy Group ce lo mostra con alcune simulazioni. Ipotizzando ad esempio una casa di 100 m2 con consumi annui di 3.000 kWh elettrici e 13.000 kWh termici, l’implementazione di un sistema di monitoraggio, che informa l’utente dei consumi energetici dell’impianto di riscaldamento/produzione di acqua calda sanitaria e degli apparati di illuminazione, potrebbe comportare una riduzione della bolletta energetica di circa 160-220 euro all’anno , a fronte di un investimento iniziale di circa 1.500-2.000 euro.
Per quel che riguarda i “sistemi di controllo”, prendendo in considerazione un supermercato – 2.500 m2 di superficie – l’implementazione di un sistema di controllo, che gestisce automaticamente il funzionamento dei compressori di 30 impianti di refrigerazione, potrebbe favorire una riduzione della bolletta elettrica di circa 12.000-15.000 euro all’anno, corrispondente a circa 85-95 MWh, a fronte di un investimento complessivo di circa 30.000-40.000 euro.
Venendo, infine, ai “sistemi di supervisione”, l’esempio che si fa è quello di un impianto di assemblaggio di autoveicoli , dal quale escano 15.000 auto all’anno. Qui l’implementazione di un sistema di supervisione, che gestisce automaticamente il funzionamento di motori elettrici, inverter e sistemi di fornitura di aria compressa presenti negli impianti di assemblaggio di motore-telaio e di verniciatura, potrebbe comportare una riduzione della bolletta energica di circa 500.000-550.000 euro all’anno , a fronte di un investimento complessivo di circa 250.000-300.000 euro.
Appare evidente come una diffusione capillare di queste soluzioni potrebbe portare un notevole beneficio energetico ed economico e lo si vede bene dagli scenari che il report ipotizza. Considerando i sistemi di monitoraggio , il potenziale di risparmio energetico annuo, ovvero la quantità di energia (elettrica e termica) che può essere mediamente risparmiata ogni anno grazie all’adozione di questa soluzione, a livello nazionale è stimabile in circa 0,86 Mtep, che genererebbe un volume di mercato medio annuo di circa 480 milioni di euro. Per i sistemi di controllo , il potenziale di risparmio energetico medio arriverebbe a circa 2,1 Mtep , a cui si associa un volume di mercato annuo medio di circa 810 milioni di euro. Infine, con i sistemi di supervisione la quantità di energia che potrebbe essere mediamente risparmiata ogni anno sarebbe di circ 3,4 Mtep , e il volume di mercato medio annuo sarebbe di circa 1.680 milioni di euro .
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fonte: qualenergia.it


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