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Renzo Piano “Ricostruire le periferie per difenderci dalla barbarie”

L’atelier di Renzo Piano è a un passo dal Beaubourg, l’opera che quarant’anni fa lo impose al mondo. Cento ragazzi da 18 Paesi diversi lavorano a un ospedale in Uganda, alla biblioteca di Atene, al museo archeologico di Beirut, al campus della Columbia a Harlem, a un centro culturale alla periferia di Mumbai. Qui si pensano le nuove città contro la barbarie. E’ vuoto il tavolo di Raphael, tedesco ucciso al Peut Cambodge il 13 novembre scorso: era con altri otto colleghi, Emilie si è presa una pallottola nella spalla; nessuno è scappato, tutti si sono aiutati l’un l’altro. Un altro giovane di studio, americano, era al Bataclan, è sopravvissuto. Renzo Piano sulla scrivania tiene le bozze del libro in uscita per il Corriere della Sera.
Renzo Piano spinge sulla riqualificazione delle periferie come lotta al terrorismo

«Le periferie sono sempre associate ad aggettivi negativi. Sono considerate desolanti, alienanti, degradate, brutte. Proviamo invece a guardarle con occhio positivo, a cercare quel che c’è di sano. Le periferie sono ricchissime di una bellezza umana e spesso anche di una bellezza fisica, che è nascosta, che emerge qua e là. Come scrive Italo Calvino nella postfazione delle Città invisibili, anche le più drammatiche e le più infelici tra le città hanno sempre qualcosa di buono. Questo approccio alla periferia è come andare a caccia di perle, di scintille. Viene da lontano, dal mio essere genovese, uno che non butta via niente: Braudel l’aveva capito, Genova stretta tra il mare e la montagna è stata educata a non sprecare nulla. Così, quando Napolitano mi fece senatore a vita, mi è venuto naturale pensare che il mio impegno politico sarebbe stato far lavorare giovani architetti nelle periferie italiane. Quest’estate porteremo i progetti alla Biennale dell’architettura».
Renzo Piano vuole rammendare le periferie italiane

«L’idea della città che cresce diluendosi si è rivelata insostenibile. Come porti i bambini a scuola, come organizzi il trasporto pubblico, come medichi la solitudine? Le città sono luoghi di incontro, di scambio, in cui si sta insieme, si costruisce la tolleranza, l’idea che le diversità non sono per forza un problema, sono una ricchezza. La città ora cresce per implosione, riempiendo i buchi neri. Al Giambellino vivono 6 mila persone, 18 etnie. C’è la signora che d’estate invita la gente a scendere in cortile con la sedia e fa il cinema. L’elettricista egiziano che aggiusta gratis i citofoni rotti dai vandali. Abbiamo abbattuto il muro tra il parco e il mercato. Lavoriamo con la gente del quartiere per costruire una biblioteca».

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Le periferie di Renzo Piano

Il progetto “Rammendare le periferie” dell’archistar per il recupero dei quartieri. E in più i rammendi di Yoko Ono e la scuola di rimaglio di Brunello Cucinelli.
Rammendo: dal Senato alle periferie, dalla scuola di rimaglio alle performance degli artisti che riparano asfalto, identità e memorie: viaggio pindarico alla ricerca dei rattoppi possibili.

Rivoluzione Archipop. Da qualche mese c’è nuova vita al mercato comunale del Giambellino, storico quartiere popolare di Milano, quello del Cerutti Gino di Gaber. È bastato l’abbattimento di un muro – e l’apertura di un nuovo ingresso più comodo dal parco rionale – per ridare ossigeno a un luogo che oggi, tra casse di broccoli e di frutta, ospita anche associazioni culturali, gruppi giovanili. «Un piccolo intervento a costi contenutissimi, studiato dopo 12 mesi di incontri con gli abitanti di un quartiere sdrucito, senza manutenzione da quasi 40 anni: più che una ristrutturazione, un rammendo. Proprio come si fa con i capi più preziosi del guardaroba, recuperati alla funzione originale con piccoli punti sapienti». Chi racconta è Francesca Vittorelli, uno dei quattro giovani “architetti condotti”, spediti sul posto dal senatore Renzo Piano per riparare la periferia. Solo una delle tante declinazioni del rammendo, nuova parola d’ordine che sembra riguardarci sempre più da vicino, rimbalzando dal senato alle periferie, dai tutorial di Pinterest sulla toppa perfetta alle scuole di rimaglio, fino a contagiare laboratori poetici, street artist, performer. E che in queste pagine vi vogliamo raccontare, in una sorta di percorso kintsugi, alla scoperta dei molti rattoppi possibili.

Giambellino calling. Ma torniamo al progetto partito anni fa tra i damaschi e i velluti del senato, subito ricoperti da mappe e rendering del gruppo G124, il team di giovani professionisti e tutor che Piano ha voluto “mettere a bottega” col suo stipendio da senatore, e ribattezzare col numero del suo ufficio a Palazzo Giustiniani. Il diario dei rammendi, che dopo Catania, Roma, Torino e Milano, presto coinvolgeranno Marghera, si può leggere sulla lavagna virtuale di tumblr. «L’idea del G124 è che si può migliorare la vivibilità delle periferie con micro-interventi e piccoli progetti, più che grandi ristrutturazioni che rendono quei luoghi irriconoscibili», spiega Ottavio Di Blasi, tutor del progetto Giambellino. «Anche per questo abbiamo voluto consegnare agli abitanti un manuale di Piccoli consigli per il rammendo: riparare, mantenere e abitare in periferia: utile per riaprire i cortili, ma anche per aggiustare una finestra o togliere la muffa dal bagno».

Undici passi. Ago, filo e nodo, la mega scultura di Oldenburg e Van Bruggen in piazza Cadorna a Milano – è la foto di copertina del Calendario poetico 2016 che mette insieme scatti di Margherita Lazzati e poesie nate in carcere, nel Laboratorio di Scrittura creativa della casa di reclusione di Milano-Opera. «Un’immagine che è anche il simbolo di una possibile ricucitura tra chi è dentro e chi è fuori», dice la scrittrice Silvana Ceruti che da vent’anni conduce il laboratorio. «Ora col progetto Mura Trasparenti del Comune quell’utopia si è realizzata: poesie imperfette e ruvide come Undici passi, da qualche mese vengono affisse sugli spazi comunali. L’altro giorno uno degli autori mi ha detto: “Mi commuove l’idea che quando va a scuola, mio figlio legga una mia composizione: ora ha qualcosa di cui essere fiero”».

Anziché rottamare. Che questa voglia di rammendo corrisponda al declino dell’“asfaltare”? È l’ipotesi del sociologo Mario Abis, presidente dell’Istituto di ricerca Makno oltre che membro del Cda della Triennale di Milano. «Forse perché dopo anni di “rottamazione”, di cultura dissipativa, oggi si sente il bisogno di rimettere insieme i pezzi, ricucire passato e futuro. Viviamo in un paese straordinario, che però non sa valorizzare il suo tesoro di arte, cultura, paesaggio. Ma l’unico modo per reinventarsi è ripartire da questo patrimonio, restituendogli la sua vocazione originale. Come accade quest’anno alla Triennale, che dopo 20 anni riapre finalmente la sua grande Esposizione Internazionale (21st century. Design after Design). Coinvolgendo nuove sedi milanesi di grande prestigio come la Reggia di Monza, l’Hangar Bicocca, la Fabbrica del Vapore. Un rammendo progettuale e manageriale». Ripartire dal rammendo dell’identità di un paese, dalla memoria collettiva o individuale è anche una delle tendenze nell’arte e nel design contemporaneo: dalle performance con i Mend Piece di Yoko Ono, in cui l’artista chiede al pubblico di riavvicinare frammenti di ceramica con spago e colle perché «mentre rammendi per bene la tua tazza», dice «sai che di rammendare alla perfezione ce n’è bisogno in tutto l’universo. E tu in quel momento devi esserne consapevole»; dai pattern colorati cuciti sulle foto di Diane Meyer per dire che un’immagine, per quanto veritiera sia, non potrà mai raccontare la verità. E lei, questo gap emozionale lo colma a colpi di ago e filo.

Giù dal lettino. Gli Hikikomori giapponesi sono sempre più tra noi: i ragazzini chiusi nelle proprie camere con tablet e smartphone hanno costretto gli specialisti a inventarsi nuovi modi per riconnettere alla realtà le loro giovani vite. «La metafora del rammendo è quanto mai efficace in questi casi», racconta lo psicoanalista Gustavo Pietropolli Charmet, responsabile dell’consultorio adolescenti Il Minotauro di Milano. che sul tema ha firmato anche la prefazione del libro Il corpo in una stanza Addolescenti ritirati che vivono di computer (curatori Roberta Spiniello, Antonio Piotti, Davide Comazzi, ed. Franco Angeli).
«Se il lavoro classico dello psicoanalista è quello di aiutare le persone a rammendare la stoffa preziosa della memoria, così che i ricordi rimossi smettano di far male, oggi invece ci troviamo sempre più spesso a ricucire scissioni, a riconnettere parti della mente che sono lacerate, non comunicano più tra di loro. Succede ai serial killer che, come dicono i vicini, sono persone “normalissime e tranquille”. Succede ai ragazzini che si tagliano per trasferire sul corpo il dolore della psiche. Succede agli hikikomori. Il nostro lavoro è quello di aiutarli a ricucire le parti separate: una riparazione lunga e delicata che non avviene più nello studio dello specialista, ma di fronte alla porta chiusa della cameretta, tra mail, musica, biglietti sotto la porta. Un po’ quel che serve alla società, un rammendo tra le parti scisse, che hanno gran bisogno di connessione: città e periferie, nord e sud, nazioni ed Europa. Perché se queste parti smettono di dialogare, poi resta solo la guerra.

A scuola di rimaglio. Può un capo in cashmere lavorato con cura sartoriale e sapienza artigianale (e costato cifre a più zeri), essere abbandonato nel cassonetto al primo buco? A questa cultura dei consumi si oppone l’imprenditore umanista Brunello Cucinelli – acclamato “King of Cashmere” in Italia come all’estero – che nel borgo umbro di Solomeo ha stabilito non solo quartiere generale e azienda, ma anche quattro Scuole di arti e mestieri tra cui un Corso di rammendo e rimaglio. «Non condivido l’idea dell’usa e getta quando tra le cose gettate c’è anche il valore della storia e della tradizione artigianale», spiega Cucinelli. «Penso che un agire garbato sia quello di riconoscere il valore di tutte le cose che ne hanno uno. Accomodare a mano un capo in cashmere fa parte della tradizione artigianale, cioè umanistica, per questo si tratta di un’azione etica e culturale. La stessa che più in larga scala ho voluto realizzare a Solomeo col Progetto per la Bellezza, dove al posto di opifici in disuso ho piantato campi di grano, girasoli, alberi da frutto. Affidando il compito di ricucire, unire i margini a piante, arbusti e prati».

Anonimi veneziani. Erano bastati pochi minuti di scosse del terribile terremoto del 2012 per incrinare i decori floreali del raffinatissimo lampadario in cristallo ambra e oro, alto 5 metri, che dal 1933 illuminava il salone del comune di Santagostino, nel ferrarese (pare messo lì da Italo Balbo). Oggi quelle opere sono tornate al fulgore originario grazie al restauro degli anonimi vetrai del Consorzio Promovetro di Murano e presto saranno restituite all’Emilia. Ma sino a fine febbraio si possono ammirare al Museo del Vetro dell’isola, insieme alle tappe della riparazione artistica col vetro incandescente.

Ri(n)saldare Marghera. Si chiude nella laguna veneta il nostro viaggio tra i rammendi: prossima fermata del cantiere in movimento del G124, Marghera-Mestre. Qui il tutor Raul Pantaleo, cofondatore di TAMassociati – team curatoriale del Padiglione Italia alla prossima Biennale di architettura di Venezia (studio Tam) – sta raccogliendo idee insieme ai giovani di Piano. Il bioarchitetto quell’area la conosce bene: il suo studio ha firmato i progetti di alcuni pluripremiati ospedali di Emergency in Sudan, ma anche il poliambulatorio che Gino Strada ha voluto a Marghera. «Nel nostro rammendo cercheremo di affrontare i temi dell’inquinamento ambientale e della disoccupazione in luoghi al confine tra terraferma e laguna, dove il lavoro cambia, si perde e si trasforma. Stiamo cercando di individuare una piccola azione che possa valorizzare le “scintille” già presenti sul territorio. Stiamo ascoltanto gli abitanti. E ancora una volta ci verranno in aiuto i volontari di Emergency. Che di ricucire i pezzi, se ne intendono parecchio».

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Il rammendo delle periferie di Renzo Piano

Ecco cos’è il G124.
L’architetto destina il suo stipendio da senatore a vita a G124, micro progetti di riqualificazione urbana. Questi gli interventi a Milano, Roma, Torino e Catania.
Quando nell’agosto 2013 l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nomina Renzo Piano senatore a vita insieme al maestro Claudio Abbado, al Nobel per la Fisica Carlo Rubbia e alla farmacologa Elena Cattaneo, l’architetto trasforma il suo studio a Palazzo Giustiniani in una “bottega” di architettura per scommettere sui giovani e sulle periferie. G124 è il nome che sceglie per questo gruppo di lavoro – G sta per Giustiniani, 1 per il piano dove si trova lo studio e 24 per il numero della stanza – composto da sei giovani architetti ai quali Piano destina il suo stipendio da senatore a vita. I progetti pensati dal G124 puntano sul “rammendo” delle periferie italiane attraverso piccoli progetti partecipati. Le aree di intervento sono quelle parti di città dove i piani regolatori non hanno funzionato, dove il rapporto tra servizi e persone si è rotto o non è mai esistito, in cui gli spazi dedicati alla socialità sono stati riempiti nel tempo da emarginazione e abbandono.
Parte da qui il lavoro del G124, dalle periferie, quelle che Renzo Piano chiama “le fabbriche dei desideri” e che lui conosce bene. Nato a Pegli, sobborgo di Genova vicino ai cantieri navali e alle acciaierie, Piano ha dedicato gran parte dei suoi progetti a zone marginali delle città. E lo sta facendo anche oggi con il progetto della sede della Columbia University ad Harlem, New York, con il nuovo Palazzo di giustizia nella banlieue nord di Parigi, Clichy-Batignolles, e con il polo ospedaliero di Sesto San Giovanni a Milano. Quello del rammendo non è un atteggiamento romantico, distaccato e parziale. È tutt’altro. Non si tratta di buttar giù il costruito e il costruito male, né di puntare sulle grandi opere. La sfida urbanistica è quella di trasformare gli spazi sospesi dove i servizi funzionano male e talvolta a rischio ghettizzazione, in periferie urbane dove si possa vivere meglio. Il rammendo si basa su piccole “scintille”, come le chiama l’architetto senatore Piano. Piazze, parchi, piccoli spazi che possono innescare la rigenerazione urbana e sociale.
Il metodo del G124 è sempre lo stesso: si individuano aree deboli spesso a causa di opere incompiute e si elaborano progetti rigorosamente in sinergia con i residenti. Sono loro a sapere cosa non va nel quartiere. Ecco quindi i tavoli di progettazione partecipata. Valorizzando i luoghi storici, come un mercato rionale che rischiava di chiudere e dando ai residenti la possibilità di riviverlo come luogo di scambio e socialità. È quel che è successo a Giambellino Lorenteggio, quartiere della periferia sudest di Milano. L’ultimo intervento del G124 si è rivolto a questo quartiere costruito negli anni 30, in cui oggi, su 6 mila abitanti, il 40 per cento sono stranieri. Bisognava preservare il mercato che rischiava la chiusura, attirare i residenti ma anche gli esterni, anche per evitare fenomeni di ghettizzazione. Gli architetti hanno deciso di abbattere una parete del mercato e di costruire una pedana esterna, per metterlo in dialogo con la Biblioteca comunale, il Laboratorio di Quartiere e il Parco di via Odazio. Obiettivo: ricreare uno spazio comune pubblico e frequentato.
Il G124 opera facendo rete. Era accaduto anche a Torino, tra la primavera e l’estate 2014, a Borgo Vittoria. Quartiere figlio del boom economico, nato per le famiglie degli operai della Fiat, Borgo Vittoria è stato investito poi dall’immigrazione straniera. Oggi tra casi di micro criminalità e poca integrazione è un quartiere che soffre. Al centro del progetto c’è la scuola Cofasso. A riattivare lo spazio è stato il neo Parco senza nome. Un’area diventata polo di aggregazione grazie a piccoli interventi concordati con i residenti. Si tratta di percorsi ciclabili e della trasformazione di un parcheggio in area verde con orti coltivati dai ragazzi. Qui fondamentale è stato l’aiuto dell’associazione Plinto, un gruppo di giovani architetti, la cooperativa sociale Agridea e il parroco Don Angelo Zucchi direttore della scuola Cofasso. Il Parco senza nome è diventato uno spazio di scambio, sul muro si fanno esperimenti di street art.
La scintilla romana è stato il Viadotto dei Presidenti, sogno incompiuto di quella “cura del ferro” che avrebbe dovuto collegare il quadrante nord est della Capitale: Fidene, Serpentara, Vigne Nuove e Porta di Roma. Di quella linea tranviaria progettata negli anni 90 e costruita a metà, rimangono oggi solo 1800 metri di cemento. Lo spazio da cui a partire nell’ottobre 2014 è stato Sotto il Viadotto, all’altezza di quella che sarebbe dovuta essere la stazione Serpentara. Così in attesa che quello spazio potesse essere trasformato in una lunga pista ciclabile, una sorta di High line romana, sulla falsa riga della passeggiata ciclo pedonale che sorge a New York, proprio sotto il viadotto è stata allestita una piazza attraverso il recupero di materiali di scarto e giochi per i più piccoli. Tante le iniziative: concerti, laboratori per bambini e un nuovo punto di incontro in quello che era uno spazio abbandonato.
A Catania, nel settembre 2014, si è cercato di rammendare lo strappo tra la città e il quartiere di Librino, sud ovest della città, sorto per rispondere alle esigenze di alloggi dopo l’espulsione dei residenti da San Berillo Vecchio. La storia di Librino somiglia a quella del Corviale a Roma, il Serpentone di Mario Fiorentino costruito negli anni 70. Un’utopia che si è trasformata in un chilometro di cemento in cui i servizi non hanno mai visto la luce, sostituiti da isolamento e una quotidianità fatta di scarsa manutenzione. Nel 1970, a Librino, l’architetto giapponese Kenzo Tange progettò una città ideale con servizi e spazi verdi. Il risultato fu invece un quartiere irrisolto. Casermoni, il cui simbolo è il Palazzo di cemento, dove le vite delle famiglie fanno i conti il degrado e il malessere sociale. A Librino vivono 80 mila persone e in cui il 55 per cento della popolazione ha meno di 33 anni. La scintilla del G124 viene individuata nelle realtà che da anni tentano di rivitalizzare il quartiere. Qui, infatti, operano associazioni come i volontari Briganti, che con il rugby cercano di togliere i più piccoli dalla malavita. Nel 2012, a San Teodoro di Librino, i Briganti hanno trasformato un terreno incolto in un campo da gioco. Il G124 ha contribuito alla realizzazione del polo di aggregazione con un progetto che si chiama BAL, Buone azioni per Librino. Non c’era l’esigenza di creare un senso di appartenenza, che c’è già, ma di fornire spazi dove riversarlo. Agli anziani sono stati dati gli orti, ai giovani spazi per giocare. Poi, la messa in sicurezza con un terrapieno, un nuovo percorso pedonale che collega la palestra all’Istituto Vitaliano Brancati, dove è sorto il più grande parco d’Italia attrezzato per praticare giochi di strada.
Sembra che il prossimo obiettivo del G124 sia Marghera, a Venezia. Micro progetti in grado di curare le periferie in un Paese apparentemente immobile. Piccoli interventi ed un’azione collettiva perché, come sostiene lo stesso Renzo Piano, “la bellezza salverà il mondo e lo salverà una persona alla volta”.

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La bellezza per fermare il fanatismo distruttivo

Sono figlio della periferia, bisogna portarci la bellezza per fermare il fanatismo distruttivo.
“Settant’anni senza che nessuno se ne occupasse. Parlo del Giambellino, ma da lì il messaggio è universale. Al Giambellino ci sono seimila persone di venti nazionalità diverse”, integrazione e condivisione sono possibili, “sono valori”.

Lo racconta al Corriere della Sera, l’architetto e senatore a vita Renzo Piano, che sta chiudendo in questi giorni un progetto al Giambellino di Milano.

“Io sono un figlio di periferia – spiega Piano -, la periferia genovese, e le periferie sono nel mio cuore”. Sono fabbriche di desideri, dice il senatore avita, “nel bene e nel male. Sono la fonte di energia della città. Ma bisogna buttare acqua, non benzina sul fuoco, in un attimo tutto si infiamma”.

La colpa, aggiunge, è “anche nostra. Bisogna cercare le perle, smetterla di denigrare le periferie e decidersi ad amarle. Giovedì di questo parlerò al presidente Mattarella”. “La vicenda di Parigi – dice anche l’architetto che nella capitale parigina vive – è talmente grande che il silenzio è per me l’unica dimensione ammissibile”.

In un colloquio con la Stampa, Piano invita “a portare la bellezza nelle periferie per fermare il fanatismo distruttivo”. Sul nuovo Palazzo di giustizia che costruirà in una banlieue parigina, osserva: “Bisogna prendere coraggio di fertilizzare le periferie. Nel nuovo Palazzo di giustizia lavoreranno tremila magistrati, ruoteranno diecimila persone… Certamente c’era chi non voleva che fosse costruito in quella zona, e si è opposto, ma non l’ha avuta vinta. Le idee giuste vanno sempre avanti. Il cambiamento trova inevitabilmente degli oppositori, ma non c’è arte che non si alimenti del dovere di cambiare, di rappresentare il cambiamento”.

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Come ripensare le città ritrovando un’unica identità urbana

Il «rammendo delle periferie», secondo la suggestiva formula coniata da Renzo Piano, pare sia opera pubblica destinata a divenire punto programmatico del governo Renzi. Ed è dalla probabilità d’una sua concreta attuazione che viene il decisivo interesse nazionale di questa impresa, al cui fondo credo ci sia il voler riconoscere a quelle stesse periferie il rango d’inedite e autonome città storiche. Un riconoscimento che appare del tutto fondato, visto che la grande maggioranza degli uomini (il trend è infatti planetario) vive oggi in periferie urbane. Ma che male si adatta, fino a essere errore, all’ultramillenario quanto indissolubile e meraviglioso insieme di vere città storiche e di vero paesaggio storico che fanno dell’Italia un unicum nel mondo intero, un insieme in cui le periferie sono quasi sempre infelice o infelicissima presenza; non storica, bensì, per dirla con Alexandre Kojéve, «post-storica». Per quale ragione un grande architetto nato in Italia commette l’errore di non considerare il nostro Paese in primis per la sua facies storica? Perché il suo non è un errore, bensì la semplice presa d’atto, più o meno inconsapevole, del completo fallimento delle politiche urbanistiche finora adottate nel Paese. Un fallimento originato dalla distinzione – sempre presente nei piani regolatori, ancor più, dopo il 1972, dal passaggio alle Regioni delle competenze in materia urbanistica – tra un centro storico rigido e immodificabile e una periferia (post-storica) al contrario flessibile e modificabile; correlando infine il tutto con un’integrazione di funzioni più o meno variamente articolate, ma sempre studiate in modo da far salvo il principio che la flessibilità della moderna periferia post-storica possa compensare la rigidità del centro storico. Tutto ciò con il risultato d’aver creato una crescita metastatica delle periferie intorno ai centri storici, portando infine il tutto a un comune degrado. Il degrado oggi sotto gli occhi di tutti.
Prima però credo vada sottolineato come la crescita metastatica delle periferie rispetto ai centri storici sia avvenuta in Italia soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, cioè proprio nel momento stesso dell’avvento anche da noi della cosiddetta scienza urbanistica, la stessa che diceva d’avere in mano le carte per creare «l’uomo nuovo della Cité radieuse».
Evidentemente perché non erano in grado di capire, gli urbanisti di allora, che l’uomo nuovo era una balla di Le Corbusier e non la sola dell’architetto francese; il suo «modulor» di 2 metri e 40 d’altezza è infatti stabulario e del tutto funzionale «all’uomo nuovo» della speculazione edilizia, non certo all’uomo nuovo d’un nuovo ordine democratico. Balla passata in cavalleria perché mezzo secolo fa il ritardo culturale del Paese era immenso, ma con ancora dei tratti d’ingenuità, cioè non ancora completamente incanaglito verso furto e arroganza come ormai è oggi; e balla perciò fatta ingenuamente propria dalle Regioni, almeno nei primi tempi della loro istituzione, nel 1970; le stesse Regioni che al posto della Cité radieuse ci hanno ammannito nel vero, e direi inevitabilmente, le periferie di cui sopra.

Le ragioni del degrado delle periferie
Tutto ciò premesso, proviamo a cercare le ragioni per le quali un problema di tale evidenza e di così decisiva importanza per il futuro stesso dell’Italia e delle sue giovani generazioni è venuto lievitando in oltre mezzo secolo senza che mai lo si sia, se non risolto, almeno affrontato. Ragioni che sono numerosissime e che provo qui a citare in ordine sparso, ovviamente saltandone per sintesi alcune.
Prima ragione, è il gravissimo ritardo culturale in cui vive oggi il Paese e di cui ho appena detto. Quello soprattutto attestato dalla nostra classe politica che, proprio in causa della sua impreparazione, sempre più è andata scartando dai suoi «doveri» (Mazzini) la realizzazione di tutto quanto fosse complesso da elaborare sul piano delle scelte rispetto a ciò che è pubblico. Quindi mai si è preoccupata di predisporre razionali, coerenti e moderne politiche industriali, agricole, energetiche e quant’altro, come di mettere a punto piani a lungo termine su temi civili e sociali fondamentali quali istruzione, ricerca scientifica, ambiente, giustizia, fisco, sanità, pensioni, mobilità viaria e ferrotranviaria, urbanistica, salvaguardia del patrimonio storico e artistico, eccetera, per invece promuovere e autorizzare la politica economica più semplice, stupida, dannosa e redditizia che c’è: la speculazione edilizia. Ciò per assicurare il lavoro alla popolazione italiana (ma un lavoro, oltretutto infinitamente meno dannoso sul piano socio-economico e ambientale, è anche spostare le pietre da una riva all’altra d’un torrente, come Keynes ci ha insegnato), dove il far lavorare la popolazione fuori da un qualsiasi disegno razionale e coerente per il futuro del Paese ha reso la nostra classe politica compartecipe, non solo della devastazione dell’ultramillenario paesaggio urbano, agricolo e naturale del Paese, ma anche della cementificazione dei suoli, quindi della loro impermeabilizzazione, perciò principale responsabile, sempre la nostra classe politica, anche del dissesto idrogeologico del Paese, quello che sta producendo disastri ambientali con cadenza
sempre più ravvicinata nel tempo e sempre più diffusa sul territorio.
Seconda ragione, la sostanziale incompetenza della nostra università a formare i quadri amministrativi (dai soprintendenti, ai funzionari regionali e comunali) che dovrebbero risolvere – in via tecnica – l’immenso problema organizzativo, giuridico, tecnico-scientifico, urbanistico, viario e architettonico del rapporto tra città storica, periferia e territorio. Noto è che la recente introduzione di nuclei di valutazione della produzione scientifica dei docenti incardinati nelle nostre università ha evidenziato come molti di loro, specie quelli afferenti alle sedi di provincia, abbiano presentato titoli bibliografici dichiarati da quegli stessi nuclei di valutazione irricevibili, perfino articoli sulla cronaca locale del «Resto del Carlino» o sul bollettino della Comunità montana. Mentre, per restare al tema della tutela del patrimonio storico e artistico, sono stati di recente attivati corsi universitari di restauro dei beni culturali affidandone la direzione a docenti che non hanno mai toccato un’opera d’arte in vita loro, né hanno una bibliografia di specie, tanto da essere stati bocciati agli ultimi concorsi da professore ordinario. Da ciò l’evidente impossibilità che un’istituzione universitaria di tale modestissimo livello possa formare persone in grado di dar risposta al decisivo quesito sotteso al nostro vivere in un Paese, come è l’Italia, colmo fino all’inverosimile di storia: quale sia il senso della presenza del passato nel mondo d’oggi.
Terza ragione, a ribadire quanto appena detto, l’insensato numero dei circa 250.000 laureati in architettura e urbanistica (più o meno uno per kmq sul totale dei 301.340 kmq del territorio italiano, togliendo laghi, fiumi e inabitabili monti e valli) prodotti fino a oggi dall’università italiana. Oltretutto, architetti e urbanisti in gran parte formati secondo il principio di Bruno Zevi, per il quale il «nuovo» costruito non deve avere rapporto alcuno con il «vecchio». Una posizione illustrata nel Manifesto dell’architettura organica del 1945, testo fondativo d’una nuova scuola d’architettura, di cui Zevi era magna pars, che trovava forma e funzione nell’ambiente naturale, appunto l’architettura organica teorizzata dall’architetto statunitense Frank Lloyd Wright. Sfuggiva evidentemente a Zevi e ai suoi che, in Italia, la natura non è il luogo mistico di un Walt Whitman o di un Thoreau, bensì è un «ambiente culturale» indisgiungibile da un’ultramillenaria e infinitamente ramificata storia di sedimentazioni di civiltà. Quindi Zevi e i suoi non si resero conto di come, in Italia, da sempre si fosse costruita un’architettura che, per appartenere alla natura, quindi essere organica, mai aveva avuto bisogno di far scorrere al proprio interno una cascata d’acqua, come la «Casa Kaufmann» di Wright, peraltro edificio semi-inabitabile perché troppo umido; e si può andare, per l’architettura «naturalmente organica» italiana, dai Templi di Tivoli all’intera Venezia, a tutte le città storiche che ornano, intatte fino a qualche decennio fa, i profili delle nostre colline in forma di umanissime concrezioni nello stesso colore della terra su cui poggiano per aver da lì tratto i loro materiali da costruzione. Mai dimenticando, però, di là da questo esiziale errore culturale di Zevi e dei suoi, i tentativi svolti da alcuni architetti del secondo dopoguerra per recuperare un rapporto con le preesistenze storiche, come fecero Gustavo Giovannoni, Giuseppe Pagano, Roberto Pane, Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi o Saverio Muratori, per dirne alcuni.
Ciò a conferma di come l’aggressione al paesaggio e alle città storiche avvenuta in Italia nell’ultimo mezzo secolo non possa essere attribuita solo alla terribile miscela tra impreparazione culturale, ignoranza della Storia e volontà di potenza soi-disant creativa dei molti, troppi architetti. Decisiva è stata infatti anche la corresponsabilità d’una insaziabile speculazione edilizia, d’una classe politica troppo spesso ignorante e corrotta, ovvero arrogante e dirigista, e di masse popolari ingenuamente persuase che il comfort piccolo-borghese dei condomini equivalesse al bello.
Quarta ragione, la generale e bovina osservanza alla «istanza storica» (1952) della Teoria del restauro di Brandi. Una posizione per molti versi fondata, quando si tratta d’una lacuna d’un dipinto. Assai più problematica da difendere quando si parli di architettura. Un errore fu infatti la rigida posizione presa da Brandi, sia nell’assurda condanna (ex post) della ricostruzione tal quale del campanile di San Marco realizzata nel 1912 al seguito dell’improvviso crollo dell’originale, sia nella rigida, quanto di nuovo assurda, opposizione al rifare uguale il cinquecentesco ponte di Santa Trinità di Bartolomeo Ammannati, fatto brillare nel 1944 dall’esercito nazista in ritirata da Firenze. Per fortuna campanile e ponte furono ricostruiti tal quali, ma quello stesso principio ideologicamente storicista è stato invece fatto valere per la ricostruzione delle città e dei paesi distrutti da calamità naturali. Al posto di rimetterne in piedi tal quali case e cose, così da restituire a quelle comunità ferite e umiliate almeno il ricordo della loro così brutalmente perduta identità storica, la consueta miscela di soprintendenti, architetti, urbanisti, restauratori e politici (i soliti formati nelle nostre università) ha provveduto alla costruzione di edifici «nuovi», perciò in pace con la «Storia».
Dalle mortuarie casette tutte uguali del dopo-Vajont, alla tanto ideologica quanto velleitaria (e anche un poco fessa) «nuova Gibellina», alla ricostruzione in squallidi condomini, ossia in villette geometrili, tanto dell’Irpinia quanto delle zone tra Umbria e Marche, fino alle sciagurate new towns dell’Aquila e al criminale abbandono a se stessa della città storica – lasciata, dopo il terremoto del 1999, a sciogliersi alla pioggia, al vento, alla neve e al sole –, le istituzioni (soprintendenze, università, assessorati regionali e comunali ecc.), nella loro incapacità e incompetenza, hanno preferito dibattere per anni su temi tanto ideologici quanto privi di veri fondamenti culturali («com’era, dov’era, ma non com’era, lo facciamo stilistico, no post-moderno», e così via farneticando), perché nel vero del tutto impreparate a dare risposte rapide, razionali e coerenti ai cittadini circa un problema ormai endemico in Italia, le distruzioni e le morti provocate, lo ripeto, dalle catastrofi ambientali, d’origine idrogeologica o sismica.
Quinta ragione, la completa farraginosità del quadro legislativo che oggi governa l’urbanistica in Italia. Quello generato dall’ingresso nel 1970 delle Regioni nella politica nazionale. Regioni avviate in grande ritardo rispetto al 1948 della Costituzione che già le prevedeva, quindi non create sulla spinta morale e civile di quegli anni (e qui si torna alla «Costituzione inattuata» di Piero Calamandrei: come sarebbero state le Regioni se varate subito dopo il 1948, sotto il diretto patrocinio dei padri costituenti?). Bensì Regioni avviate sull’onda del cosiddetto «Sessantotto», il movimento che allora in molti credemmo una rivoluzione, mentre era solo l’ultimo sussulto agonico della civiltà occidentale definitivamente vinta dal pop planetario della società post-storica di massa. Quindi Regioni in un primo momento determinate a creare un (sessantottesco) «regno di utopia», vale a dire un nuovo e, appunto, rivoluzionario modello di democrazia diretta, antitetica a quella dello Stato centrale, che in breve si è però rivelato una vana promessa cui si era del tutto incapaci di dare concretezza organizzativa e culturale. Ed è questo un passaggio delicatissimo per il generale tema della tutela del patrimonio storico, artistico e del paesaggio italiano, come del futuro stesso del Paese, passaggio che vede le Regioni assumere una posizione di raddoppio dello Stato centrale, con la delega data loro, nel 1972, della potestà legislativa in materia urbanistica e, nel 1977, in materia ambientale; pensando, sempre le Regioni, di correggere inefficienze e errori dello Stato con il varo d’un rilevante numero di iniziative di decentramento, spesso formalizzate in specifiche leggi.
Una stagione tra utopia, demagogia, dilettantismo e improvvisazione durata una decina d’anni, passando poi, le stesse Regioni, a promulgare leggi in difesa dei ben più fruttuosi e concretissimi interessi clientelari di speculazione edilizia e piccoli proprietari, fin quasi rasentando la demenza, come la legge della regione Liguria che avrebbe consentito di costruire fino a tre metri dalle rive dei torrenti, legge di qualche mese fa e non varata solo in grazia (si fa per dire) della recente e ennesima e disastrosa alluvione. Mai dimenticando però alcuni esempi virtuosi, come i recenti piani paesistici della Puglia e della Toscana, quest’ultimo per molti versi eroico, a onore di chi l’ha così pervicacemente voluto, Anna Marson.
Infine – ma di ragioni per spiegare il completo fallimento della costruzione delle nuove periferie in Italia ce ne sarebbero molte altre – aver fatto le Regioni verbo ideologico della suddetta rigidità dei centri storici rispetto alle periferie, nel nome d’una puerile idea di conservazione a oltranza dell’esistente. L’idea inverata nella politica fatta solo di vincoli e divieti di cui può essere simbolo l’Emilia-Romagna dei primi anni Settanta, politica il cui principale effetto è stato d’aver museificato i centri storici ottenendo la fuga della gran parte dei residenti. Basti, per dire in concreto del fallimento di quella politica, che dagli inizi degli anni Settanta si è avuta nei centri storici italiani una diminuzione di circa il 60% di abitanti e attività produttive. La stessa che passa al 100% nelle molte migliaia di piccoli comuni ormai in via di abbandono in tutt’Italia. Uno spreco di risorse umane ed economiche: basti il problema immobiliare, che grida davvero la vendetta di Dio.

Un’idea di Cavour: le grandi regioni
Soluzioni? Prima cosa, abolire subito le attuali Regioni, portandole a numeri sensati e razionali, ad esempio mutuandone le dimensioni da quelle degli Stati pre-unitari; e sarebbero le stesse che con grande lungimiranza volevano istituire Cavour e Cattaneo al momento stesso dell’Unità d’Italia, ben capendo le difficoltà strutturali nel realizzare quell’Unità, le stesse ancora oggi sotto gli occhi di tutti, peraltro. Secondo, riaffidare allo Stato centrale il compito sia di indicare le linee guida delle politiche urbanistiche, sia di provvedere al coordinamento della loro messa in opera, sia infine di sovrintendere alla verifica dei loro risultati applicativi. Tutto ciò sempre conservando per sé (lo Stato) un ampio potere di censura. Dopodiché, resettare (di nuovo lo Stato) l’attuale quadro legislativo relativo a tutela del patrimonio storico e artistico, ambiente, paesaggio e urbanistica, semplificandolo radicalmente e finalizzandolo a essere un unico strumento organizzativo, così – tra l’altro – da poter favorire con facilità una armonica ricongiunzione tra città storica e periferia, e di questa con ambiente e paesaggio.
Favorire come? Facendo tornare nelle città – a partire dai centri storici – le attività lavorative oggi in genere confinate nelle estreme periferie, quando non disperse senza alcun senso nelle campagne, quindi facendo tornare dentro le città industrie, opifici e quant’altro dia concreta occupazione a operai, impiegati e dirigenti. Il che porterebbe a ridisegnare un rapporto armonico tra nuovo e vecchio costruito, e di questo con il paesaggio, aprendo in tal modo – soprattutto ai giovani – immensi spazi creativi progettuali, con la formazione di molte migliaia di posti di lavoro. Ridisegnare quel rapporto significherebbe, infatti, riprogettare le periferie ponendone le funzioni abitative e i servizi in diretto rapporto con i centri storici; ma al tempo stesso riprogettare i centri storici facendo dei vincoli non più, come è oggi, sempre meno sopportabili provvedimenti solo in negativo, ma trasformandoli in indicazioni in positivo per la progettazione di un nuovo compatibile per forme, tipologie, materiali e quant’altro con l’esistente storico. Quel nuovo costruito che va comunque realizzato per non far morire il «vecchio» patrimonio edilizio italiano di troppo storicismo. Si tratterebbe poi di:
– restituire alla coltivazione il terreno agricolo oggi occupato dai capannoni industriali (dismessi e non) così anche riconsegnando alle città i loro confini, ovvero il loro contesto paesaggistico;
– poter esercitare i cittadini un controllo diretto e immediato sulle emissioni inquinanti di opifici attivi sotto il loro naso;
– far abitare le persone vicino ai luoghi di lavoro, perciò riportando i consumi alimentari, vestiari, eccetera, nei «negozi di quartiere», così come favorendo la creazione di servizi culturali e civili, quali biblioteche, cinema e teatri;
– riportare gli uffici pubblici nelle città, dalle scuole primarie e secondarie, all’università, agli uffici comunali;
– ridurre drasticamente il traffico veicolare privato;
– smettere di dare la solita, ideologica e demagogica e quasi sempre fallita in partenza destinazione museale all’immenso patrimonio immobiliare demaniale di palazzi storici, rocche, caserme, ospedali obsoleti, mercati coperti dismessi, eccetera, progettandone un riuso di concreta utilità sociale;
– perciò favorendo un riuso che inizi dall’insediare in quelle stesse caserme, rocche ecc., le predette attività lavorative, ovvero trasformando le solite rocche, caserme, eccetera, in unità abitative.
Per fare un solo esempio – pur se poco trendy rispetto alle attuali politiche talebane di tutela – una delle principali ragioni della conservazione del Palazzo Ducale di Mantova viene dal suo essere stato ininterrottamente abitato. Dai Gonzaga, che lo fondano, e lo abitano fino al Settecento con i loro famigli o le loro truppe, per poi divenire residenza teresiana, fino a quando, dopo l’Unità, viene occupato dagli «sfollati», tanto che, come mi raccontava tempo fa una «vecchia» soprintendente di Mantova, Giuliana Algeri, prima di diventare negli anni Venti del Novecento l’attuale (e deserto) museo, vi vivevano circa 3.000 persone.

Tornare a una “cultura vissuta”
Obiettivo di questa possibile e auspicabile azione di tutela attiva delle città e del paesaggio – tutela, ribadisco, finalmente non museificante – è il ritorno delle città (centri storici e riconnesse periferie) e dei paesaggi a luoghi di vita, quindi luoghi di relazioni civili, sociali e economiche. Il ritorno a una «cultura vissuta» aperta in mille diversi ambiti di pubblica utilità. Ambiti tutti da progettare e che sono formativi, ambientali, giuridici (si pensi al delicatissimo tema della legittimità degli espropri), economici, fiscali, sociologici, agricoli, idrogeologici, infrastrutturali, storico-artistici, eccetera, fino alla grande sfida d’una azione architettonica e ingegnerile orientata a un riuso compatibile dell’esistente storico, quindi alla ricerca scientifica nella domotica, nelle energie rinnovabili, nei sistemi di trasporto leggero (vettori, loro fonti energetiche e vie di transito) per raccordare rapidamente i piccoli paesi in via d’estinzione con i luoghi di lavoro delle città, così da ovviarne lo spopolamento, fino alla conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, in primis la prevenzione del patrimonio monumentale, o più semplicemente edilizio, dal rischio sismico e da quello idrogeologico.
Sarà questa la ratio sottesa ai rammendi di Renzo Piano e alle future politiche di sviluppo territoriale del governo Renzi? Dar corpo a un grande «progetto nazionale» mirato a realizzare un coerente e razionale riassetto del territorio italiano attraverso una sua de-cementificazione? Un progetto cioè mirato alla fondazione d’una nuova e inedita «ecologia culturale»? Sarà perciò il contrario d’un maquillage estetizzante teso a mascherare ultradecennali e gravissimi errori progettuali, culturali e politici, economici e sociali, errori di cui oggi sono vittime soprattutto le giovani generazioni, come lo saranno ancor più le future, quando nulla dovesse cambiare?
Lo scopriremo. Tenendo però già adesso conto di due cose. Una, l’illuminata decisione di Brunello Cucinelli d’acquistare un piccolo e abbandonato paese storico dell’Umbria, Solomeo, facendone la sede della propria industria, con il risultato che gli operai tornano alla sera malvolentieri a rinchiudersi nei condomini di Perugia, dove perlopiù abitano. L’altra, che se i rammendi di Renzo Piano fossero rivolti solo a mascherare gli errori di cui sopra, sarebbero l’ennesima bugia raccontata agli italiani. Bugia dalle gambe corte, anzi cortissime, perché si risolverebbe nell’applicare alberi e alberelli a vecchi e nuovi condomini speculativi, magari verticali piuttosto che orizzontali, a dipingere di verde i container o i viadotti dismessi, a decorare la facciate in cemento con stecche di legno «ecologico» e così via. Si risolverebbe, cioè, nella definitiva resa del Paese alla speculazione edilizia. Ricordiamolo, industria in gran parte nelle mani di camorra, ‘ndrangheta, sacra corona e mafia. Nel Nord Italia, nel Centro Italia, nel Sud Italia e nelle isole.
Bruno Zanardi insegna Teoria e tecnica del restauro all’Università di Urbino «Carlo Bo». Questo suo saggio, che pubblichiamo per gentile concessione del Mulino, la rivista di cultura e di politica diretta da Michele Salvati, fa parte del dibattito intitolato «Abuso di territorio?».

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La sfida dell’architettura è salvare le periferie

Lezione alla Columbia University di New York: “Qualcosa si muove anche da noi, si va nella direzione giusta”.

«La missione dell’architettura in questo secolo è salvare le periferie. Se non ci riusciamo sarà un disastro, non solo urbanistico, ma anche sociale».

L’auditorium della facoltà di Architettura della Columbia University è pieno. Così pieno che gli organizzatori hanno dovuto aprire altre due sale per proiettare l’incontro con Renzo Piano, e farlo vedere a tutti gli studenti che hanno fatto la fila per ascoltarlo. Lui è venuto a parlare del progetto a cui sta lavorando per il nuovo dipartimento della Columbia dedicato allo studio del cervello, ma il mese prossimo inaugurerà prima la nuova sede di Intesa Sanpaolo a Torino, e poi quella del Whitney Museum a New York. La serata quindi si trasforma in fretta in una conversazione a tutto campo sulla sua carriera, e la sua visione, che parte però dalle radici.

«Ognuno – racconta Piano – viene da un luogo che lo ispira. Poi naturalmente quando lavori in una città devi diventarne parte, per sentirla e capirla, ma l’origine resta il punto di partenza. Io sono nato e cresciuto a Genova, una città mediterranea, e questo ha influenzato la mia vita. Metà della mia città è acqua. E’ un grande porto e tutto si muove: galleggiano le navi, le gru, hai la costante sensazione che ogni cosa sia sempre in movimento». Questo, forse, è uno degli elementi che lo ha spinto ad immaginare «edifici capaci di volare. Davvero, non scherzo. Un edificio secondo me non deve occupare lo spazio su cui sorge, ma restituirlo alla città che glielo ha dato». Per capire cosa intende, basta guardare ai progetti per la sede del New York Times e la Morgan Library a New York, lo Shard di Londra, e adesso anche il nuovo campus della Columbia: «La cosa che mi piace di più del palazzo del New York Times, ma anche della Morgan, è la possibilità di guardare dall’interno oltre l’edificio, oltre l’ingresso, nel traffico della strada. La trasparenza, così, diventa espressione della complessità e dell’appartenenza».

Perché gli edifici che Piano vuole costruire, anche la sede di una università, devono «fondersi con la città. Hanno una funzione da svolgere, naturalmente, ma devono anche essere aperti alla comunità in cui sorgono. Lo Shard, ad esempio, è stato costruito sopra un grande centro di trasporti pubblici, il London Bridge, proprio con l’idea di sviluppare la città in verticale senza aumentare il traffico. Ci sono ristoranti, alberghi, uffici, residenze, che si mescolano al tessuto urbano».

Questo lavoro di integrazione ora va fatto soprattutto nei sobborghi, e questo è il secondo elemento fondamentale di ispirazione che Piano ha preso da Genova: «Io sono cresciuto in periferia, e non vedevo l’ora di scapparne». I ragazzi ridono, ma lui insiste: «Non avete capito, era naturale. Non vuoi scappare perché non ti piace, ma per esplorare. Quando nasci in una città come Genova, e vedi sempre il mare davanti a te, devi essere cretino per non sentire la voglia di andare a vedere cosa c’è dall’altra parte. In una città di mare non puoi mai essere soddisfatto di quello che hai, senti sempre il desiderio di andare a conoscere il mondo».

Piano lo ha fatto, con enorme successo, eppure adesso torna alle sue radici personali per indicare la strada dell’architettura nel prossimo secolo: «Durante gli Anni Sessanta, Settanta, anche Ottanta, in Europa la missione era salvare i centri storici. Ci siamo riusciti, e l’abbiamo fatto bene. Ora, però, la missione di questo secolo deve essere salvare le periferie». Il motivo è chiaro, guardando per esempio alle banlieue di Parigi, che ormai sono diventate anche la culla del terrorismo islamico: «Parigi è una città che ha 6 milioni di abitanti, ma solo 600.000 vivono al centro. Questa segregazione va sanata, altrimenti sarà un disastro. Non solo urbanistico, ma soprattutto sociale».

Piano ha un’idea precisa su come procedere: «Dobbiamo smettere di costruire periferie. Ormai le nostre città sono piene di questi luoghi dove il centro non è più centro, e la campagna non è ancora campagna. Invece di continuare ad espanderli così, dobbiamo intensificare i nostri centri urbani, fecondando e fertilizzando le periferie. Ovunque ci sono grandi buchi neri da recuperare e trasformare, in modo che questi sobborghi diventino luoghi di civiltà, e non solo posti dove si va a dormire. Capisco che con i centri storci era più facile, perché sono fotogenici, ma anche i sobborghi hanno la loro bellezza. La bellezza dei desideri di milioni di esseri umani che li abitano, e dobbiamo aiutarli a realizzare». Anche in Italia, dove Piano è orgoglioso dei progetti di recupero delle periferie avviati a Catania, Roma e Torino: «Qualcosa si muove anche da noi, stiamo andando nella direzione giusta. E’ il momento di avere fiducia».

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Di chi sono le periferie?

Il gruppo Renzo Piano G124, guidato e finanziato dall’architetto attraverso il suo stipendio da senatore*, ha lavorato nei mesi scorsi su tre situazioni localizzate a Catania, Roma e Torino e ritenute emblematiche di molte città italiane, in quanto “l’espansione urbana è stata incontrollata e la realizzazione degli interventi si è fermata alla fase iniziale, lasciando opere incompiute e in uno stato di degrado e abbandono”. Mentre prende il via la seconda fase del progetto, con nuovi architetti e nuovi sviluppi, raccogliamo qualche spunto dall’iniziativa che sicuramente ha fatto parlare di sé (e delle periferie urbane).

Renzo Piano e le periferie

“A doverlo costruire oggi, il Beaubourg sarebbe in periferia”. Non ha dubbi Renzo Piano sulla centralità delle periferie nella vita urbana. Porta la sua firma il nuovo tribunale di Parigi nella periferia nord come pure la nuova sede della École normale supérieure de Cachan à Saclay nella periferia sud della città. E, senza nulla togliere ai giorni caldi di Tor Sapienza, non si può negare che le periferie italiane devono al primo anno di lavoro del suo progetto G124 il forte e rinnovato interesse dei media. Per capirci, dall’intervista di Fabio Fazio al Sole 24 Ore fino al New York Times. Ma cosa sta facendo e come sta lavorando il gruppo Renzo Piano nelle città italiane?

“La bellezza naturale del nostro Paese non è merito nostro. Ciò che può essere merito nostro è migliorare le periferie, che sono la parte fragile della città e che possono diventare belle”.Con queste parole, Renzo  Piano apre il Report 2013 -2014 sul primo anno del progetto di “rammendo” G124, nel quale ha coinvolto sei giovani architetti. “Sviluppando i nostri progetti – spiega Eloisa Susanna, architetto romano del gruppo G124 – non lavoriamo solo per la riqualificazione fisica dello spazio ma per sviluppare un ecosistema aperto al contributo del territorio e della comunità locale, con un approccio estremamente multidisciplinare”.

Missione “rammendo”

Il “rammendare le periferie” di Piano ha fatto già scuola, diventando un’espressione sempre più usata per parlare di processi di “riqualificazione” delle periferie. Nei venti punti – guida” del lavoro del gruppo, redatti dallo stesso Piano, si fa riferimento a questa prospettiva da più punti di vista. Si fa riferimento ai processi di crescita della città per implosione e non per esplosione, così come al rammendo del costruito, al coinvolgimento necessario degli abitanti attraverso processi partecipativi, alla trasformazione delle aree dismesse, all’autocostruzione, ovvero alla promozione di cantieri leggeri e forme cooperative per il rammendo delle periferie. Elementi centrali rimangono l’identità delle periferie, nella diversità di ciascun luogo così come i luoghi e gli edifici iconici della vita urbana, troppo speso posizionati nel centro delle città, il verde urbano, ad uso agricolo o meno, la capacità di  intercettare e “sfruttare” i finanziamenti europei così come il rapporto con la microimpresa, i finanziamenti pubblici diffusi e il regime fiscale dei processi di rammendo.

Agopuntura urbana

Alla base del lavoro di G124 c’è l’idea di intercettare “scintille di energia” all’interno delle stesse realtà periferiche, per valorizzarle e farle crescere. Abbastanza ovvio che questo non potrebbe avvenire senza il coinvolgimento degli abitanti, in fase di definizione, progettazione delle iniziative e attivazione delle stesse. Su questo processo di agopuntura urbana abbiamo chiesto qualche precisazione a Eloisa Susanna, che ci ha raccontato come hanno lavorato a Roma, per il Viadotto dei Presidenti.

Sotto il viadotto‘ è il nome dato al progetto che, promosso dal Municipio III all’interno del progetto europeo Tutur, ha come obiettivo la riconversione del Viadotto Gronchi Viadotto dei Presidenti.Il Viadotto, sorto al Nuovo Salario negli anni’ 90 per fungere da asse di collegamento tra Roma Nord e Roma Sud attraverso l’uso di una ferrovia leggera, è rimasto negli anni incompiuto e abbandonato, rappresentando oggi una vera e propria cesura sul territorio.

“Su questa area – racconta Eloisa – il Municipio aveva già deciso di intervenire con il progetto europeo Tutur, che promuove l’uso temporaneo di edifici in disuso e dismessi come strategia di rigenerazione urbana e, allo stesso tempo, erano già attivi alcuni gruppi locali. Per questo ci siamo ritrovati sull’obiettivo: non si tratta di dare una risposta a problemi strutturali molto più grandi ma di sperimentare nuovi usi e proposte, evitando di investire tanti soldi pubblici in un progetto che non vedrà la fine o non sarà poi percepito come utile e quindi rimarrà non utilizzato”. In questo senso si parla di agopuntura urbana: un modo nuovo di vedere le cose per cui “si sperimentano gli usi anche in base ai bisogni che la comunità manifesta. E’ così che si capisce se un determinato uso può essere adatto al territorio e quindi se il processo di rigenerazione può andare avanti”.

“Sotto il Viadotto”: esperimento romano

“Il progetto – ci spiega Eloisa – si compone di un percorso che permette finalmente una connessione agevole da una parte all’altra del Viadotto. Il primo punto, nel nostro lavoro, è  individuare degli indizi. In questo caso il primo indizio è stato il fatto che i cittadini continuavano a percorrere questo viadotto perché avevano necessità di andare da una parte, dove c’era l’INPS o la Polizia, all’altra dove c’erano altri servizi. Quindi, primo obiettivo: rendere attraversabile il viadotto. Come secondo passaggio abbiamo portato lì delle funzioni. Abbiamo inserito due container: uno è stato trasformato in uno spazio per laboratori di quartiere, un luogo dove vengono elaborate delle proposte di trasformazione e organizzate delle attività, l’altro è un piccolo deposito di attrezzi per la manutenzione ordinaria. Infine, abbiamo creato una piazza attrezzata con piccoli elementi di arredo urbano, che devono essere implementati con il tempo, magari attraverso laboratori per giovani e ragazzi che hanno voglia, attraverso l’autocostruzione, di migliorare lo spazio”. Sono state coinvolte anche aziende private che, in qualità di partner, hanno fornito i materiali e le strutture. Dunque, ora che queste fasi sono concluse, si tratta di osservarne la sostenibilità e il grado di appropriazione da parte degli abitanti.

L’amministrazione e i cittadini: di chi è l’iniziativa?

Ufficialmente promossa dal Municipio III all’interno del progetto europeo Tutur, l’iniziativa ha avuto il sostegno di Roma Capitale, nella figura degli Assessori alla Trasformazione Urbana e alle Periferie. Gli stessi, in occasione dell’inaugurazione, hanno dichiarato che l’iniziativa “si inserisce in un più complesso progetto di pianificazione e trasformazione dell’asse ex carrabile del viadotto in pista ciclabile e ‘Green Line di Roma”.

Un po’ più complicata la relazione con gli abitanti. Come Eloisa raccontava, il progetto è stato fin qui portato avanti con la collaborazione di alcuni gruppi già attivi nel territorio sulle tematiche del riuso dello spazio pubblico e della mobilità. Al tempo stesso non si può tacere che una parte del territorio non si è sentita rappresentata dall’iniziativa, tanto da definire  “l’avvio dell’opera di riqualificazione ‘Sotto il Viadotto’ un vero e proprio schiaffo per tutti i promotori e i firmatari della Delibera del Consiglio Comunale n.37/2006“. La Delibera in questione aveva ad oggetto la progettazione della Tramvia “Saxa Rubra-Laurentina” e prevedeva “entro sei mesi dalla sua approvazione la messa in cantiere della fase di progettazione”.

Con Piano o contro Piano, oltre Piano

E’ evidente che quando scende in campo su un tema tanto delicato e per sua stessa definizione “fragile” un nome “glamour” come quello di Renzo Piano, il dibattito è tutto aperto, soprattutto laddove le periferie lamentano un problema di rappresentatività e legittimazione nelle scelte che le riguardano oltre che di visibilità nel flusso mediatico mainstream.

Lasciando le analisi di dettaglio ai singoli territori e casi, una cosa è certa: il progetto di Renzo Piano ha dimostrato la capacità di accendere i riflettori su una situazione importante e urgente, aprendo una possibile strada e suggerendo un metodo per rendere fattivo un fermento che in alcune realtà già c’è e che, senza necessità di dirlo, va facilitato (più che instradato) per consentirne l’espressione. Nessuno dice che sia facile, nessuno dice che il lavoro di G124 non sia utile e importante.
Non si tratta di essere con Piano o contro Piano, ma in ogni caso e in ogni situazione si tratta di non fermarsi a guardare il dito mentre indica la luna. Oltre Renzo Piano, verrebbe da dire, c’è ogni singola periferia, ogni quartiere, ogni spazio su cui si lavora. Ci sono i cittadini di quella specifica periferia che restano “gli abitanti” e quindi gli “owner” dello spazio in cui vivono, pur potendo sempre più frequentemente beneficiare di una grande e multiforme competenza di esperti, ma anche di visionari e artisti, che arrivano in periferia spesso dal centro.

Banale a dirsi, difficile a farsi ma, tutti noi crediamo, non impossibile.

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Renzo Piano: “Non dobbiamo fare cosmesi”




Renzo Piano, ricostruire le periferie è facile ma bisogna farlo con abilità

A parte un paio di congiuntivi che Renzo Piano ha sbagliato, la sua intervista rilasciata a Italcementi tocca temi importanti, sempre a proposito di periferie da riqualificare.

Una delle prime cose che dice Renzo Piano è che riqualificare le periferie non bisogna crearne di nuove, perché non sono sostenibili dal punto di vista economico, umano e ambientale. Bisogna tenere presente sempre la Green Belt di Londra, oltre alla quale non si può costruire: questo non significa che la città non si può espandere, ma che deve espandersi non per esplosione ma per implosione. Significa, sempre secondo l’esempio di Londra, che la campgan deve rimanere campagna e che su quella non si può costruire. Significa ricostruire, riusare le zone dismesse, aumentare la densità, perché la città è bella quando è intensa, abitata. “Le città troppo diluite non sono belle” (cit.). Ovviamente, utilizzare l’altezza è necessario, il che non vuol dire per forza costruire grattacieli, come dice anche Piano.

 

Costruire sul costruito, continua Renzo Piano, vuol dire “costruire completando”.

 

A questo proposito l’architetto dice che è “facile” ricostruire: bisogna pulire, fare le fondamenta e andare in altezza. Si, quando ci sono i soldi per farlo, si, e anche quando il progetto è di qualità è una soddisfazione ricostruire… Ma quando il progetto è osceno e non ci sono soldi non è così “facile”.

 

Dopo aver detto che è facile, Renzo Piano un po’ si contraddice e sostiene che ricostruire richiede abilità. Chi ha più abilità tenta di vincere anche le sfide più difficili. La difficoltà non è una cosa negativa: i migliori costruttori saranno quelli che trovano il modo per risolverle, con la propria abilità, e l’abilità del costruttore deve diventare più sottile, e più diventa sottile, più avremo capacità di risolvere i problemi della città, del cantiere e delle persone.

 

A proposito di persone, Renzo Piano dice che bisogna “fertilizzare la periferia”, cioè portarci le persone a vivere, non solo a dormirci. È necessario costruirci luoghi d’incontro, per il tempo libero, rendere la periferia abitabile 24 ore. La periferia deve avere una sua bellezza che deve essere costituita anche da questo: dal suo essere abitabile.
Spesso le periferie sono state costruite con disprezzo, con superficialità. Nonostante questo in loro c’è una bellezza. Non solo quella degli sguardi dei ragazzini “eccetera eccetera… questo è molto romantico”, ma anche la bellezza degli scorci, dei tramonti. Perché questo non è romantico Renzo?

I temi toccati sono importanti, come è importante capire bene come bisogna rigenerare le periferie italiane, in modo intelligente e non ottuso, cioè non prendendo la rigenerazione come un dogma ma pensando, riflettendo, trovando modi di costruire per l’uomo, per dargli protezione, per farlo stare bene.

Renzo Piano è una fonte d’ispirazione per molti, ma è anche la tradizione, la regola. Per le periferie servono anche idee nuove, fresche, di architetti che non siano la regola ma che si debbano impegnare al massimo per farsi riconoscere un progetto come buono, perché a loro niente è riconosciuto come bello a prescindere. Quelle sono le forze migliori, e servono anche quelle per rifare le periferie, non solo le idee di Renzo Piano. Sarà stato questo il suo scopo quando ha assunto i 6 giovani architetti? Forse, ma è importante che i Comuni diano importanza ai progetti dei giovani architetti, che i concorsi siano davvero selettivi, che vengano premiate le idee migliori, quelle che nascono dall’impegno matto e disperatissimo, dalla ricerca di lavoro e di riconoscimenti, dalla voglia di imparare e di fare cose, dagli architetti che non sono (ancora) famosi e la cui parola non viene presa come buona a prescindere.

Per fare un progetto e per presentarlo, quegli architetti (che non sono il 100% degli architetti italiani ma una parte della totalità che non vi so quantificare), quelli che hanno un po’ di talento dettato dall’amore per l’architettura, pensano pensano e pensano. Non voglio dire che Renzo Piano non pensi, ma dallo sforzo massimo nascono sempre le idee migliori, e gli architetti non famosi se non si vogliono sputtanare devono sempre sforzarsi al massimo.

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Napoli. Periferie, nasce il polo tecnologico di San Giovanni

Rammendo sociale e rammendo fisico. Si fonda su un intervento di ‘sartoria’ urbanistica ma anche e soprattutto sociologica la ricetta per le periferie presentata oggi al Sabato delle Idee da G124, il “Gruppo di lavoro sulle periferie e la città che sarà”, ideato e fondato dal senatore Renzo Piano, che sin dal suo insediamento a Palazzo Madama devolve integralmente il suo stipendio da senatore ad un gruppo di sei giovani architetti eccellenti che ogni anno vengono selezionati con un bando pubblico proprio per occuparsi dei progetti di “ricucitura” del tessuto urbano e sociale delle periferie italiane.

Una scelta non casuale quella del primo tema del Sabato delle Idee 2015 che, come hanno spiegato i fondatori della manifestazione, Marco Salvatore e Lucio d’Alessandro, “riparte simbolicamente con la sua settima edizione da uno dei luoghi simbolo (Eccellenze Campane) del rilancio economico, sociale ed urbanistico della periferia partenopea, perché è proprio nelle periferie, dove vive il 90% della popolazione urbana, che c’è l’energia umana che deve essere valorizzata per costruire le città ed il Paese del futuro”.

Ed allora ecco che, al cospetto di urbanisti, architetti, accademici, rappresentanti delle istituzioni e studenti universitari che all’Università Suor Orsola Benincasa si occupano specificamente di green economy, il giovane architetto salernitano Roberta Pastore del Gruppo G124 ha illustrato i punti salienti del progetto per “Le periferie della città che sarà”.

Un progetto molto variegato, riassunto in venti punti sintetizzati in sei azioni che miscelano rammendo sociale e rammendo fisico delle periferie: consolidamento e restauro degli edifici pubblici (non solo le abitazioni ma anche le scuole e le strutture sportive), adeguamento energetico, creazione di luoghi d’aggregazione, la funzione sociale del verde, il collegamento efficace con il trasporto pubblico e i processi partecipativi per coinvolgere gli abitanti nella riqualificazione e nella vita sociale del quartiere dove vivono. “Insomma la periferia che cambia faccia da un punto di vista urbanistico – ha spiegato Roberta Pastore – ma anche e soprattutto il cittadino che si riappropria dei suoi spazi, contribuisce alla progettazione della riqualificazione e inizia finalmente a viversi il quartiere”.

Una ricetta teorica che è già diventata un successo concreto nel complesso mondo periferico del “Librino” di Catania, uno dei quartieri periferici più “difficili” e popolati d’Italia, con oltre 80mila abitanti, progettato nel 1970 dall’architetto giapponese Kenzo Tange con un ammasso di blocchi di cemento molto simili a quelli delle Vele di Scampia.

Insomma un progetto esportabile proprio a Napoli come ha spiegato, rivolgendosi proprio sulla questione Scampia all’assessore comunale all’urbanistica, Carmine Piscopo, anche l’architetto Guendalina Salimei, fondatore di T-studio, che ha curato a Roma il progetto di riqualificazione della zona del “Corviale”.Progetti da esportare in Campania anche per rispondere al grido d’allarme sull’immobilismo e l’isolamento delle periferie napoletane lanciato da Antonella Di Nocera, già assessore alla cultura del Comune di Napoli e da anni voce e anima della cooperativa Parallelo 41 Produzione.

E all’immediato interrogativo sul tema delle risorse per avviare simili progetti ha prontamente risposto Edoardo Cosenza, assessore ai lavori pubblici della Regione Campania, con una confortante relazione in cui ha dettagliatamente illustrato l’impiego dei 2,7 miliardi di euro di finanziamenti europei a disposizione della regione Campania per i grandi progetti.

Ben 550 milioni sono destinati allo sviluppo urbano con 226 progetti già ammessi al finanziamento e due grandi progetti in rampa di lancio: il definitivo completamento dell’Ospedale del Mare di Ponticelli (che già a Febbraio aprirà i primi reparti) e la nascita del Polo Tecnologico di San Giovanni nell’area della ex Cirio.

Due primi passi in un mare di progetti da portare a termine con un unico comune denominatore: “fare presto” come ha ben chiosato il vice presidente dell’Associazione dei Costruttori Edili di Napoli, Gennaro Vitale.

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