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Roma, la rivoluzione Raggi cancella l’ufficio periferie

Riorganizzazione in vista: nascono i nuovi dipartimenti al Turismo e allo Sport, soppresso quello per le borgate.

«Ci apprestiamo a fare quello che nessuno ha mai fatto prima», rivendica con orgoglio Virginia Raggi, annunciando «la riforma della macchina amministrativa » studiata «per garantire, come avevamo promesso, un’organizzazione del Comune di Roma più efficace, in grado di offrire ai cittadini servizi efficienti e di qualità». E come primo atto sopprime il “Dipartimento Politiche delle periferie, sviluppo locale, formazione e lavoro” — creato dalla giunta Veltroni per dare un segnale forte ai quartieri di cintura, proprio là dove il M5s ha fatto il pieno di voti — distribuendo le varie funzioni sotto due assessorati diversi. Una decisione che neppure Alemanno aveva mai osato prendere.

Non è l’unica novità nel riassetto prefigurato dalla Raggi. Intanto perché tutti i sindaci che l’hanno preceduta, da ultimo Ignazio Marino, hanno varato a pochi mesi dall’insediamento «il riordino delle strutture capitoline ». Che però stavolta, sostiene l’avvocata grillina, «valorizzerà merito, trasparenza, produttività, producendo innovazione e risparmi». Come? Attraverso la procedura dell’interpello: in sostanza, qualunque dipendente ritenga di possedere i requisiti per dirigere un ufficio o un dipartimento, «avrà la possibilità di proporsi per ricoprire gli incarichi da assegnare e sarà quindi scelto in base al proprio curriculum e alle proprie motivazioni». Ma alla fine a individuare il “vincitore” fra i concorrenti in lizza, sarà comunque la sindaca, a sua completa discrezione.

Ma c’è di più: le “Modifiche al Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi di Roma Capitale”, che Repubblica è in grado di anticipare, introducono alcuni cambiamenti eclatanti. Con la nota inviata ai sindacati da Raffaele Marra, il capo del personale che per conto di Raggi sta mettendo a punto la macrostruttura comunale, non solo si cancella il Dipartimento periferie, che verrà smembrato tra l’ Urbanistica e «l’istituendo Dipartimento turismo – formazione e lavoro», ma pure l’Ufficio città storica, finora governato dall’Urbanistica, viene diviso in due e passa in parte alla Sovrintendenza capitolina, in parte ai Lavori pubblici.

In compenso vengono create tre nuove strutture di vertice, con relativa dotazione dirigenziale: il Dipartimento turismo, di cui s’è già detto; il Dipartimento sport e politiche giovanili, che nasce nonostante il no alle Olimpiadi; soprattutto i Mercati all’ingrosso, destinati a riunire in una «struttura autonoma » il Centro carni, il Centro fiori e le aziende agricole, tutti avviati dalla giunta Marino alla dismissione. La prova dello stop impresso dalla Raggi alla vendita delle partecipazioni non strategiche del Campidoglio. Nonostante il Centro carni perda circa 2 milioni l’anno; il Centro fiori 700mila euro; le
aziende agricole più o meno altrettanto.

Ma la sindaca va avanti. «È pronta, e a breve approderà in giunta, la modifica della macrostruttura per l’allineamento della stessa alle deleghe assessorili », conclude la sindaca.
«Lo scopo è individuare la migliore professionalità disponibile nell’ambito dell’amministrazione capitolina». L’importante è tenersi buoni i 23mila dipendenti comunali.

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Rigenerare le città. Periferie e non solo. Numeri, proposte e strumenti per intervenire nelle grandi aree urbane. Creando Comunità

Legacoop e Legambiente hanno avviato, da diverso tempo un percorso di collaborazione, grazie anche alla firma di un protocollo di intesa, per promuovere progetti d’impresa finalizzati allo sviluppo di una rete diffusa di cooperative di comunità, impegnate nella tutela dei beni pubblici e dei beni comuni, il recupero di luoghi abbandonati, la green economy e la valorizzazione delle comunità locali, stimolando l’autonomia e l’organizzazione dei cittadini.

Questa collaborazione ha portato, in particolare, alla realizzazione di una collana editoriale dedicata alle cooperative di comunità. Il prossimo 18 ottobre a Roma, presso lo “Spazio Diamante” in via Prenestina, con inizio dei lavori alle ore 10.30, verrà presentato il terzo quaderno (dopo quelli sui beni comuni e le aree interne) intitolato “Rigenerare le città. Periferie e non solo. Numeri, proposte e strumenti per intervenire nelle grandi aree urbane. Creando Comunità”.

Il Seminario di presentazione sarà incentrato sul tema della rigenerazione urbana, vista in un ottica di partecipazione, condivisione, trasparenza e protagonismo, che richiede un processo di strategie, politiche e azioni finalizzate alla realizzazione di uno sviluppo urbano sostenibile.

Oltre la partecipazione del Presidente Nazionale di Legacoop Mauro Lusetti e della Presidente di Legambiente Rossella Muroni, sono previsti gli interventi del direttore dell’Agenzia del Demanio, Roberto Reggi, del Segretario Generale di CittadinanzaAttiva Antonio Gaudioso, del Responsabile Nazionale Cooperative di Comunità di Legacoop, Paolo Scaramuccia, e del Responsabile Nazionale Economia civile di Legambiente, Enrico Fontana. Verranno presentate alcune buone pratiche attraverso le quali si sta cercando di dare concretezza al tema della rigenerazione urbana: i progetti del bando Culturability, il Motovelodromo di Torino, il Cinema Postmodernissimo di Perugia, le esperienze di Corviale, il Progetto CantiereImpero e la rete di TorpignaLAB.

Per partecipare all’evento è indispensabile accreditarsi compilando la scheda di registrazione in allegato, rinviandola a cooperativecomunita@legacoop.coop.

Programma

Scheda-di-registrazione




Bellezza, perché non sia una postilla

Non basta rifiutare l’idea di bellezza imposta dal mercato, da coloro che dividono le città in centro e periferia e da quelli che decidono cos’è arte e cosa non lo è. Possiamo prenderci cura delle periferie ogni giorno senza ridurle a luoghi in perenne attesa di interventi dall’alto. “Parchi, giardini, luoghi di studio e di scambio vanno inventati nella logica del bisogno di bellezza che noi abbiamo – scrive Antonietta Potente – E questo lo dobbiamo fare noi; dobbiamo inventare, forse anche con atti di disobbedienza civile, senza chiedere il permesso a nessuno…”.
Vorrei ricordare una sensibilità particolare dell’umano che è l’amore alla bellezza, non a una bellezza decisa da canoni culturali specifici; non quella comprata perché è il mercato ad offrirla e nemmeno solo quella donata dall’arte, come tradizione, ma quella ancora da costruire, quella da fare ancora emergere, che fa parte comunque della cura della realtà reale.

È qualcosa che mi inquieta tutte le volte che cammino nel centro delle nostre bellissime città e tutte le volte che raggiungo o mi trovo negli spazi periferici, sempre delle nostre città.

Penso questo soprattutto per quelle situazioni che a prima vista sembrano essere state private di tutto e anche della bellezza. Penso a certi luoghi in cui abitiamo, quasi sempre al margine. Nati nell’urgenza della sopravvivenza; un’alluvione, un terremoto, ma anche a quelle periferie costruite appositamente da chi pensa che certa parte di umanità va sopportata, ma comunque isolata per essere piano, piano dimenticata.

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E mentre la natura ci circonda di bellezza diffusa, diversa o plurale, gli esseri umani sembrano aver circoscritto il dono. Forse perché se ne sono appropriati e l’hanno messa a servizio del potere e del mercato.

Mi colpisce e mi inquieta molto il fatto che l’arte sia collocata nei nostri centri città, quasi come se fosse ormai conclusa; belle reliquie da conservare.

E mentre le città sono cresciute, si sono estese, la bellezza non si è moltiplicata, le periferie sono delle specie di depositi umani, agglomerati i case senza forma; scelte con il criterio dell’ammucchiamento umano, della compravendita immobiliare.

Luoghi pensati perché la gente ci stia solo per dormire, ma non per abitarli, per amarli, quando, addirittura non divengono discariche per i rifiuti. Come per far sì che l’essere umano che abita questi luoghi abbia solo tempo per adattarsi. Minimalismo assoluto, falsa efficienza ed essenzialità. Lo sguardo subito fa fatica e poi si abitua. Ma questo non va d’accordo con l’umano più umano come sensibilità profonda, come desiderio di nuove evoluzioni esistenziali. Eppure non sarà solo la passione per la giustizia che trasformerà la realtà, ma anche la passione per la bellezza o, certamente, sono la stessa cosa, una sfumatura di uno stesso mistero.

La bellezza, questo particolare diritto così sconosciuto nelle nostre quotidiane rivendicazioni. Allora i nostri luoghi non vanno lasciati a se stessi, non vanno nemmeno ridotti a luoghi in attesa di eventi pubblici.

Siamo noi che dobbiamo conoscere, come direbbe Simone Weil, i bisogni terrestri del corpo e dell’anima umana. Parchi, giardini, luoghi di studio e di scambio vanno inventati nella logica del bisogno di bellezza che noi abbiamo… E questo lo dobbiamo fare noi; dobbiamo inventare, forse anche con atti di disobbedienza civile, senza chiedere il permesso a nessuno.

Non possiamo più permettere che i nostri spazi evochino solo l’elemosina che altri ci hanno fatto, con interventi sporadici, quando la bellezza è un dolcissimo desiderio del corpo e dell’anima umana.

È sintomatico, nelle periferie delle grandi città i nomi delle piazze e delle vie vengono attribuiti a personaggi sintonici con percorsi di giustizia: Che Guevara, Martin Luther King, o con date che ricordano gesti di liberazione e resistenza, come per darci un contentino. Come se, nella memoria di chi vive in quei luoghi, dovessero esistere solo pochi pezzi di storia, strappati in qualche modo alla storia ufficiale dedicata in dei conti ai veri eroi e ai veri esempi.

Perché chi percorre una strada di una qualsiasi periferia, non deve sapere che sono esistiti Leonardo da Vinci, Vincent Van Gogh, una mistica come Teresa d’Avila o un evento che nel mondo della fisica si chiama: scoperta del principio di indeterminazione.

Nelle nostre periferie sembra che tutto sia legato a un’elemosina di sopravvivenza o forse all’azione di qualche sporadico rivoluzionario: forse due alberelli e una panchina, nella piazzetta dedicata a qualche eroe. Ma perché non si può passeggiare e appoggiare il nostro sguardo su abbondanti alberi, fiori, fontane?

Perché chi lotta per l’acqua pubblica non deve aver la gioia di farsi spruzzare, in un bel giardino, da una fontana zampillante? Perché i musei sono solo nei centri delle nostre città? Come se in una periferia non fossimo adatti a conservare la bellezza a prendercene cura e a condividerla.

Questa situazione resta un monito per la nostra passione per la giustizia, per l’amore che vorrebbe ricreare dei rapporti diversi; curarne alcuni, farne nascere altri e, insomma partecipare alla trasformazione della vita, perché la bellezza è scintilla dell’umano più umano.

Chiudo queste pagine con una poesia di Drummond de Andrade:

“Il marziano mi ha incontrato per strada e ha avuto paura della mia impossibilità umana. Come può esistere, ha pensato tra sé, un essere che nell’esistere mette un così grande annullamento dell’esistenza?”.

Tratto da Umano più umano. Appunti sul nostro vivere quotidiano, edizioni Piagge. Per acquistare i libri i edizioni Piagge, tel. 055 373737, edizionipiagge.it.

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Bruno Manghi: “Il problema delle periferie è la qualità demografica”

«La particolarità di Torino sta nel fatto che per alcuni secoli è stata governata da un forte potere centrale. Dopo un periodo di smarrimento, ha sostituito in parte quel potere pubblico con l’auto, con la grande fabbrica, che è stata a sua volta un riferimento autoritativo. Tutto questo è finito, ma ha lasciato una traccia nella mentalità del territorio, per cui ci si aspetta sempre dalle autorità qualcosa di particolarmente rilevante, e invece non è così. Siamo entrati in una situazione nuova che si è accompagnata anche ad un grande cambiato territoriale di natura demografica»: Bruno Manghi, sociologo, una vita passata nel sindacato (Cisl), collaboratore di Prodi, attualmente presiede la Fondazione Mirafiori promossa dalla Compagnia di San Paolo. Sabato, in occasione dell’assemblea annuale di Confartigianato Imprese Torino, è intervenuto trattando il tema delle periferie, ma anche il ruolo dell’associazionismo. «Partiamo da una banalità: se le periferie sono i luoghi dove vivono le persone meno abbienti, dopo 7 anni di crisi le loro condizioni di vita non possono certo essere migliorate. La crisi colpisce in maniera più seria coloro che sono svantaggiati in partenza. La novità sta, invece, nel grande cambiamento territoriale avvenuto. Quando ero ragazzo la cintura torinese era un posto da evitare, ora, invece, a Grugliasco, Collegno, Nichelino, Settimo, ecc., abbiamo assistito ad una trasformazione positiva e ad un ringiovanimento medio della popolazione. Mentre nella cintura torinese è avvenuto un netto miglioramento reddituale, demografico e di attivismo, la povertà si è concentrata nella cerchia urbana, e questa è una novità di non poco conto. A Mirafiori Sud il nostro problema numero uno è strettamente demografico, nel senso che le periferie torinesi sono invecchiate, magari dignitosamente, ed i giovani si allontanano perché non hanno opportunità di qualità. Ad eccezione di Barriera di Milano, che fa caso a sé anche per la sua vastità, il problema di questi quartieri non è la delinquenza, ma l’invecchiamento, cioè la qualità demografica. Come ha spiegato bene Enrico Moretti nel suo saggio sulla nuova geografia del lavoro – dove traccia un’analisi comparata delle città americane – normalmente ciò che fa la differenza è la qualità del capitale umano che si insedia in un luogo. Per questo a Mirafiori Sud tra le attività più interessanti promosse dalla Fondazione, a parte gli orti urbani, c’è il sostegno a 130 studenti stranieri del Politecnico che vivono in via Negarville. Perché se in un luogo arrivano giovani in gamba con aspirazioni di reddito e di qualità della vita, questo non può non avere influenza su tutti i servizi di quel luogo».
Ma Bruno Manghi ha colto l’occasione dell’assemblea degli artigiani per una riflessione sul ruolo delle associazionismo. «A Mirafiori incontro tante persone, ma le associazioni sono poche e poco presenti. In pochi si presentano come associazione, con l’orgoglio di essere un’associazione e i valori di un’associazione. Confartigianato come le altre associazioni di categoria dà servizi cruciali, è una tecnostruttura importante, fa lobby verso le istituzioni, ma non è solo questo a fare un’associazione. Da Confindustria al sindacato, tutte le associazioni hanno attraversato momenti difficili, però ci sono alcuni esempi in controtendenza. Pensiamo alla Coldiretti: vent’anni fa era un’associazione finita, perché erano finite le relazioni con il mondo politico, erano cambiati gli interlocutori. Un gruppo di giovani l’ha presa in mano e l’ha riformata fornendo una identità professionale e non generica e intercettando la nascita della curiosità per l’ambiente e per l’agricoltura. Oggi le sue bandiere le conoscono tutti. Quando l’autorità centrale diventa più debole e meno decisiva, la parola torna alle associazioni, ma solo se sono associazioni e non semplici coalizioni di lobby. Gli artigiani, per esempio, sono anche degli educatori, perché quando trasmetti la bottega non trasmetti solo un’attività economica, ma trasmetti il senso di quella bottega, il gusto di fare qualcosa. Oggi si è riscoperto il valore del maker, del fare, c’è una grande ripresa del lavoro che non va confuso con il posto di lavoro ma con il senso di un’esistenza. Da questo, dall’orgoglio del fare, devono ripartire le associazioni».

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A Verona le periferie si mettono in mostra

Se non fosse per la “serenissima” Venezia, nel Veneto la gloria spetterebbe tutta a Verona. Città d’arte, di storia, di tradizioni e contraddizioni. E’ la città dell’amore (finito male), della musica e dell’Arena. E’ la città del sindaco Tosi (leghista), di un Chievo che si gode l’alta classifica, di un Hellas gloriosa scivolata in B e che è troppo spesso ricordata per certi cori razzisti. Verona è anche una città solidale, capace di grandi progettualità sociali. E così, oggi, sposta la periferia al centro. Letteralmente. La città inverte canoni, stereotipi, luoghi comuni. Facendo leva sulla sensibilità di fotografi amatoriali lancia una provocazione capace di accendere un riflettore sui territori senza luce. L’occhio che racconta, stavolta, è quello della gente comune. Persone che vivono e conoscono la periferia, artisti invisibili che hanno quei luoghi negli sguardi e nel cuore. Ogni giorno. Fotografi che con i loro scatti riportano l’attenzione sulle periferie abitate ma dimenticate. DeniSGiusti1 Dal progetto culturale (con risvolto sociale) alla mostra, be’, il passo è breve. E così la periferia diventa “Periferika”. Cinque fotografi non professionisti hanno messo in gioco loro stessi e la città offrendo una personale visione della vita al di là del cuore della città (dal 3 al 29 ottobre). Grazie ai loro occhi e ai loro scatti, stavolta la periferia si posta al centro. La mostra fotografica sarà infatti allestita nella vetrina della Biblioteca Civica in via Cappello. Le foto? Saranno visibili di giorno e di notte, 24 ore su 24. Perché rivolte all’esterno, quindi fruibili “dal di fuori”. MarcoSempreboni Insomma, per una volta almeno la periferia diventa il centro. E viceversa. Ecco quindi un’esposizione da cui nasce un catalogo da cui nascono riflessioni. Come quella di Giorgio Massignan, ad esempio. Lui, architetto e urbanista, ha curato il volume che accompagna la mostra realizzata dall’associazione “Verona Off” (di cui fa parte) in collaborazione con il Comune e con la Fondazione Toniolo. «Le periferie rappresentano il luogo-non-luogo, residuo di una non pianificazione del territorio che ha sempre privilegiato gli interessi speculativi all’equilibrio urbanistico della città», dice Massignan. Eccole le periferie ritratte da Denis Giusti, Flavio Castellani, Marco Sempreboni, Mauro Previdi e Stefano Franchini. Periferie notturne o in bianco e nero, dove l’uomo è quasi fisicamente assente ma dove i suoi “effetti” sono ben visibili. Periferie sinonimo di ghetto, periferie dormitorio, periferie degradate e abbandonate. Periferie che diventano “Periferika” e che con quest’azione assumono il significato del riscatto rientrando di diritto nel cuore e negli sguardi della comunità e, perché no?, anche della politica.] Se non fosse per la “serenissima” Venezia, nel Veneto la gloria spetterebbe tutta a Verona. Città d’arte, di storia, di tradizioni e contraddizioni. E’ la città dell’amore (finito male), della musica e dell’Arena. E’ la città del sindaco Tosi (leghista), di un Chievo che si gode l’alta classifica, di un Hellas gloriosa scivolata in B e che è troppo spesso ricordata per certi cori razzisti. Verona è anche una città solidale, capace di grandi progettualità sociali. E così, oggi, sposta la periferia al centro. Letteralmente.
La città inverte canoni, stereotipi, luoghi comuni. Facendo leva sulla sensibilità di fotografi amatoriali lancia una provocazione capace di accendere un riflettore sui territori senza luce. L’occhio che racconta, stavolta, è quello della gente comune. Persone che vivono e conoscono la periferia, artisti invisibili che hanno quei luoghi negli sguardi e nel cuore. Ogni giorno. Fotografi che con i loro scatti riportano l’attenzione sulle periferie abitate ma dimenticate.

Dal progetto culturale (con risvolto sociale) alla mostra, be’, il passo è breve. E così la periferia diventa “Periferika”. Cinque fotografi non professionisti hanno messo in gioco loro stessi e la città offrendo una personale visione della vita al di là del cuore della città (dal 3 al 29 ottobre).

Grazie ai loro occhi e ai loro scatti, stavolta la periferia si posta al centro. La mostra fotografica sarà infatti allestita nella vetrina della Biblioteca Civica in via Cappello. Le foto? Saranno visibili di giorno e di notte, 24 ore su 24. Perché rivolte all’esterno, quindi fruibili “dal di fuori”.

Insomma, per una volta almeno la periferia diventa il centro. E viceversa. Ecco quindi un’esposizione da cui nasce un catalogo da cui nascono riflessioni. Come quella di Giorgio Massignan, ad esempio. Lui, architetto e urbanista, ha curato il volume che accompagna la mostra realizzata dall’associazione “Verona Off” (di cui fa parte) in collaborazione con il Comune e con la Fondazione Toniolo.

«Le periferie rappresentano il luogo-non-luogo, residuo di una non pianificazione del territorio che ha sempre privilegiato gli interessi speculativi all’equilibrio urbanistico della città», dice Massignan.

Eccole le periferie ritratte da Denis Giusti, Flavio Castellani, Marco Sempreboni, Mauro Previdi e Stefano Franchini. Periferie notturne o in bianco e nero, dove l’uomo è quasi fisicamente assente ma dove i suoi “effetti” sono ben visibili. Periferie sinonimo di ghetto, periferie dormitorio, periferie degradate e abbandonate. Periferie che diventano “Periferika” e che con quest’azione assumono il significato del riscatto rientrando di diritto nel cuore e negli sguardi della comunità e, perché no?, anche della politica.

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Proposta di legge: Piano nazionale per la rigenerazione delle periferie delle città metropolitane

Secondo le Nazioni Unite entro il 2050 soltanto una persona su otto vivrà nel centro urbano, in quelle che vengono ancora classicamente definite « città », mentre i restanti vivranno nella periferia urbana.

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Renzi da Sala per la firma del Patto per Milano. Metrò, militari, periferie Seveso: i punti dell’accordo

Sul tavolo anche la richiesta di creare una ‘no tax area’ dove una volta c’era Expo. Messi tutti insieme, i progetti e i desiderata della città rappresentano un conto che supera il miliardo di euro.
A due mesi (quasi) esatti dalla riunione straordinaria di giunta alla presenza del premier, Matteo Renzi torna a Milano per firmare con il sindaco Beppe Sala il Patto Milano: il documento che segna i fronti strategici per la città e su cui governo e Comune si impegnano a lavorare insieme. Dall’ambizione in chiave post Brexit di candidarsi come alternativa a Londra per diventare sede dell’Agenzia europa del farmaco al futuro delle aree Expo; dai prolungamenti delle metropolitane alla sicurezza, dalla casa al welfare. Fino al nodo, ancora irrisolto, del destino anche economico della Città metropolitana.

È lungo l’elenco di proposte che si è trasformato in un documento spedito a Roma. Tra cui la parte che riguarda la possibilità di utilizzare i militari, solo su base volontaria, per scopi di polizia locale, che è ancora in discussione. Il motivo: la possibilità sulla carta esiste, ma non è semplice da realizzare e soprattutto non ci sono fonti di finanziamento precise. L’architettura generale, però, c’è. Così come la volontà di Renzi, sono convinti in giunta, di mettere la faccia anche politicamente su questa operazione puntando le proprie carte su Milano.

Messi tutti insieme, i progetti e i desiderata della città rappresentano un conto che supera il miliardo di euro. In Comune si respira un generale ottimismo. Anche perché, è il ragionamento, l’importanza del patto è nella sua visione strategica e i fondi, a cominciare da quelli per le metropolitane, non devono essere trovati nell’immediato. Solo far viaggiare per i primi tratti i treni del metrò fino a Monza e Settimo Milanese (l’allungamento di M5) e Buccinasco (la 4) vale centinaia di milioni. Ma quello che deve partire ora, appunto, è solo il percorso.

Tra i punti c’è anche la protezione dal rischio esondazione del Seveso e del Lambro, con gli ultimi pezzi del piano che ancora mancano. Altri impegni del governo, però, non prevedono assegni da staccare, ma sponde politiche, legislative e diplomatiche. A cominciare dall’orizzonte più ampio. Per conquistare l’Agenzia europea dei medicinali o quella delle banche in fuga da una Londra fuori dall’Ue, servirà la volontà dell’esecutivo di spendersi a livello internazionale. Così come sarà Roma a dover studiare strumenti per attirare investimenti sulle aree Expo dedicati all’innovazione o fare di quel luogo una “no tax area”.

Infine, i campi in cui è Milano a candidarsi come modello nazionale: la casa e il welfare, con progetti pilota contro le povertà. Nel primo caso, la città conterà sulle proprie forze per trovare i 130 milioni necessari per curare periferie e quartieri popolari. Al governo si chiedono interventi normativi per velocizzare, ad esempio, le procedure per assegnare gli appartamenti che verranno ristrutturati. E una discussione dovrà essere aperta anche sulla questione degli arrivi dei profughi.

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Programma Straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie di Roma

Deliberazione n. 29
Programma Straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle Città Metropolitane e dei Comuni capoluoghi di provincia – partecipazione da parte di Roma Capitale al “Bando Periferie 2016” (DPCM 25/05/2016).

Deliberazione n. 30

Bando per la presentazione di progetti per la predisposizione, da parte della Città Metropolitana di Roma Capitale, del “Programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia”. Approvazione del progetto pilota di azioni integrate “Una strategia olistica per la rigenerazione delle aree periurbane del quadrante nord-ovest di Roma” e dei relativi progetti di fattibilità tecnica ed economica. Nomina del R.U.P.

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#periferiealcentro: il Book del nuovo numero di VITA

È la sfida decisiva per il futuro delle città. Il Book del nuovo numero di VITA, in edicola e nei Mondadori store da venerdì 9 settembre, raccoglie tutte le idee, i progetti e i sogni in campo
Matteo Renzi lancia il piano “Casa Italia”, mettendo in cima all’agenda politica ed economica una scommessa infrastrutturale che, nel quadro di una regia unica con linee guida chiare, mette insieme scuole, ricostruzioni, bonifiche, banda larga e dissesto idrogeologico. Accorpando così quelle voci che, riguardando argomenti non mediatici, da anni erano relegate in fondo ad ogni classifica programmatica.
VITA ha deciso di «provare a pensare fuori dal contesto», come scrive il nostro blogger Guido Bosticco, dedicando il numero del Bookazine di settembre, in edicola da venerdi 9, alle periferie, le vere protagoniste di questo piano del Governo.

L’indice del Book del nuovo VITA

1. Pensare oltre gli stereotipi

Marc Augé, al lavoro per “fare luoghi”
Alejandro Aravena, perché faccio le case a metà
Andrea Riccardi, la città secondo Bergoglio
Eraldo Affinati, ritorno al mio Tiburtino Terzo

Il bookazine si apre con una serie di riflessioni che aiutano a ribaltare gli schemi. Perché, come dice Marc Augé nell’intervista che apre questo numero, «l’uso delle parole non è mai innocente. Noi associamo la parola alle immagini della miseria e delle difficoltà urbane». E se invece fosse vero, come scrive Guido Bosticco nel suo intervento, che «in periferia nascono modelli di progettazione partecipata, si tentano strade per coinvolgere gli abitanti, per costruire edifici di avanguardia, convivenze possibili». Infatti, conferma Alejandro Aravena, grande architetto, in periferia si stanno sperimentando anche nuovi modelli di concepire l’abitare. Dove la co-progettazione con la popolazione è fattore di innovazione. Il capitolo si conclude con una grande presa diretta di Eraldo Affinati, che torna nel suo quartiere, il Tiburtino Terzo a Roma, e ci ricorda che la periferia prima di essere terreno di analisi è carne di chi la vive.

2. Governo e sindaci alla prova

Matteo Renzi, Casa Italia, solida se solidale
Beppe Sala, periferie, cominciamo dalle case
5stelle, partecipazione, la chiave di volta
Franco La Cecla, rammendare non basta

L’attesa è grande. Le risorse non sono più solo annunciate o premesse. Matteo Renzi, in occasione dell’inaugurazione della Biennale Architettura 2016, aveva annunciato di aver firmato il decreto che prevede il Bando da 500 milioni di euro per il recupero delle periferie introdotto dalla Legge di Stabilità 2016. E ora con quali programmi e con quali idee i nuovi sindaci si preparano a cogliere questa opportunità? Il presidente del Consiglio nell’intervista delle prossime pagine spiega le ragioni del perché il Cantiere sociale, di cui anche il Bando periferie è parte, è strategico per il governo. Beppe Sala, sindaco a Milano, indica nel ripristino dell’edilizia popolare la priorità della sua giunta. Virginia Raggi e Chiara Appendino hanno presentato progetti molto sostanziosi per il Bando, tutti all’insegna della partecipazione dei cittadini. Infine Franco La Cecla, autorevole osservatore delle dinamiche delle città, avverte: «Dobbiamo andare ben oltre l’idea di rammendo».

3. La periferia cambia dal basso
Straordinari laboratori di buone pratiche e di innovazione sociale. Sono tantissime e sorprendenti le esperienze che si incontrano appena ci si inoltra nel vissuto delle periferie. C’è la preside di Scampia, Rosalba Rotondo, che con determinazione e passione quest’estate ha tenuto aperte le aule con laboratori per ragazzi e anche mamme. Oppure c’è il grande quartiere romano, Tor Bella Monaca, capace di generare un nuovo immaginario, grazie ad eroi come Jeeg Robot. C’è tanta energia e tanta creatività, come quella che porta il teatro in angolo a San Berillo, ai margini di Catania. O quella dei percussionisti che a Tamburi, quartiere di Taranto, dettano i tempi di una possibile rinascita. A Napoli, quartiere Barra, una squadra di calcio arruola ragazzi di tutte le etnie, rom compresi. E dimostra di saper vincere. E nella piccola Mantova, al quartiere Lunetta, si può andare a vedere cosa significa far davvero intercultura. Come dice Arjun Appadurai, oggi le periferie sono davvero il luogo del “possibile”.

Scampia, Rosalba, la preside sempre aperta
Tor Bella Monaca, l’orgoglio di Jeeg Robot
Esperienze dalle periferie, sei best practice
Arjun Appadurai, dal probabile al possibile
L’antropologo e docente di “Media, culture & Communication” della New York University: «Dobbiamo favorire ciò che può accadere, non attendere passivamente ciò che, grazie alla nostra inerzia, è probabile che accada. La periferia va sottratta a fatalismo e vittimismo. Anche perché, in molti casi, è da ciò che chiamiamo periferia che arrivano sguardi concretamente innovativi sul futuro»

IL FUMETTO
Gianni Biondillo Story. Milano, da Quarto Oggiaro a via Padova – di Giulia Sagramola

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opinioni A Torino la politica culturale punta su periferie, biblioteche e teatri

Francesca Leon è la nuova assessora alla cultura della città di Torino. Nel corso della sua vita professionale ha accumulato una serie di esperienze in diversi settori del mondo culturale, dall’editoria alla tivù, occupandosi di promozione della cultura e inventandosi una formula di abbonamento ai musei torinesi e piemontesi che si è rivelata uno strumento efficacissimo per assicurarsi la fedeltà dei visitatori e l’aumento del loro numero.

Non a caso, la cosa è stata replicata altrove. Ora però forse ha di fronte il compito più impegnativo: impostare in veste di assessore alla cultura il lavoro che in questo ambito andrà fatto in una città come Torino nei prossimi cinque anni. Ma se le si chiede quali saranno le sue linee guida, preferisce parlare di metodo di lavoro:

L’esperienza mi ha insegnato che alla base di qualsiasi scelta debba esserci ascolto, conoscenza e condivisione. L’ascolto è indispensabile per capire i bisogni sia dal lato della domanda sia da quello dell’offerta; la conoscenza serve per capire il funzionamento e le interazioni tra i diversi attori del mondo culturale, per analizzarne le dinamiche, l’efficacia delle azioni nel contesto cittadino, i risultati e le ricadute sulla città, non solo in termini economici e strumentali. La condivisione, infine, è lo strumento per individuare gli obiettivi e le azioni da mettere in atto per raggiungerli. La città è un organismo complesso e per questa ragione il mio lavoro di assessore alla cultura sarà in stretta interazione con le politiche urbanistiche, educative, sociali.

Nel corso degli ultimi decenni, al pari di altre realtà europee con un grande passato manifatturiero, Torino è diventata una città postindustriale. E come altrove anche qui si è deciso di “puntare sulla cultura” per dare all’ex capitale dell’auto una nuova identità e nuove prospettive anche dal punto di vista economico.

Oggi però alla voce cultura si sovrappone spesso quello che un tempo si sarebbe detto intrattenimento, che non di rado ha a che vedere con l’effimero. E in molti si chiedono quali carte possa giocarsi una città come Torino per non diventare semplicemente una fabbrica di eventi. Francesca Leon sorride: “Magari fosse una fabbrica di eventi”. Secondo lei, la capacità di programmazione e quella produttiva si sono ridotte in modo più che proporzionale alla riduzione di risorse, anche se non mancano le eccezioni positive.

Alcune grandi istituzioni, teatro Regio innanzitutto, sono riuscite a produrre spettacoli e a farli circuitare; ma nel mondo delle compagnie indipendenti la produzione è limitata, le coproduzioni sono rare così come la loro circolazione di al di fuori del territorio piemontese, anche in questo caso, mi dice, con ovvie eccezioni.

Anche in alcuni ambiti in cui l’intervento pubblico ha avuto incidenza marginale, a Torino come in Italia, esistono realtà importanti, radicate sul territorio e al tempo stesso affermate nel mercato globale, come Club to club, Share festival, Movement, Kappa futur festival, View conference. Lo stesso problema si pone per le istituzioni museali: la linea di indirizzo seguita è stata quella dell’acquisto di eventi espositivi più che la loro programmazione e produzione e questo ha generato un doppio danno: perdita di competenze e perdita di relazioni con musei italiani e stranieri che si alimentano solo attraverso l’ ideazione, la progettazione, la programmazione delle attività e la continuità.

A suo parere, la chiave è tornare a produrre, dare spazio alle idee anche individuando sistemi di finanziamento pubblico legati a bandi che indichino la strada che si intende percorrere: innovazione, collaborazione pubblico privato, allargamento della platea, distribuzione delle attività sulla città, coproduzione, esportazione. Sottolinea:

La competitività e l’attrattività del territorio e la qualità dei servizi ai cittadini non sono obiettivi conflittuali e incompatibili, a patto di inserirli in una visione unitaria. Bisogna rendere protagoniste di questi obiettivi le forze creative e culturali locali, coinvolgendole nella ideazione e nella programmazione anche degli eventi in funzione di attrazione turistica purché in un percorso che costruisca opportunità di crescita professionale, di rafforzamento strutturale della scena creativa cittadina in una dimensione nazionale e internazionale.

Metto da parte i miei trascorsi di curatore del programma dedicato dal Salone del libro agli editori indipendenti, e prima ancora di Bookstock, la sezione dedicata ai ragazzi delle scuole, e a proposito di eventi che non sono stati effimeri ma che corrono oggi seri rischi di sopravvivenza le chiedo che cosa pensi si possa fare per evitare che Torino perda definitivamente questo appuntamento, per 29 anni la manifestazione legata al libro più importante d’Italia e, con la Buchmesse di Francoforte, la maggiore in Europa. La questione ovviamente mi tocca da vicino, volendo anche semplicemente in veste di autore, ma si tratta di un tema che non posso evitare di sollevare.
Francesca Leon in piazza Castello, Torino, il 3 settembre 2016. – Daniele Ratti per Internazionale
Francesca Leon in piazza Castello, Torino, il 3 settembre 2016. (Daniele Ratti per Internazionale)

Francesca Leon si mostra sicura, come peraltro la nuova sindaca Chiara Appendino. “Torino non perde il suo Salone internazionale del libro. Semmai rischiamo che con due appuntamenti in concorrenza perdano tutti”.

Ai suoi occhi è poco lungimirante pensare che basti fare una fiera a Milano per superare i problemi che oggi colpiscono il mondo dell’editoria. “Hanno prevalso gli interessi di pochi contro quelli di molti, in un mercato che in Italia perde terreno. Perché in Italia la lettura è una attività sempre meno praticata, con conseguenze che vanno ben oltre la crisi dell’editoria. Un paese che non legge è un paese che perde coscienza di sé, della sua storia e delle storie degli altri”. Da queste riflessioni, mi spiega, nascerà il nuovo Salone. “Che realizzeremo con i lettori, con le istituzioni formative, con gli editori, con gli autori e con i librai; mettendo al centro del nostro impegno il lettore e lavorando su temi come l’innovazione: oggi ci sono moltissimi modi di scrivere e di leggere, che utilizzano le molteplici opportunità di innovazione rese possibili dal digitale”.

Contrapposizione tra centro e periferia
Secondo Francesca Leon, l’obiettivo della manifestazione sarà lavorare sulla promozione della lettura al livello nazionale costruendo un appuntamento dove trovino spazio i progetti, i festival, le fiere e gli eventi legati al mondo del libro. “Lavorare in cooperazione con uno scopo condiviso è condizione indispensabile per superare le competizioni territoriali che, se non sono inserite in un progetto di respiro nazionale, non riescono a incidere su un paese che legge poco”.

Ma, tornando alla città: non da ora e non solo a Torino quando si parla di cultura salta spesso fuori la contrapposizione tra quanto offre il centro della città e quanto avviene nelle periferie. C’è chi non parla più di periferie ma sostiene l’idea di una città policentrica. Torino ha avuto una storia non facile con le sue periferie: quartieri come Mirafiori o le Vallette hanno solo da poco le loro biblioteche, che peraltro funzionano splendidamente.

E a parere di Francesca Leon, occorre individuare una scala di priorità di intervento che tenga conto dello stato attuale del rapporto tra i cittadini e l’offerta culturale. “Entrando in una biblioteca e partecipando a un evento in piazza San Carlo si scoprono due volti della stessa città. Ma i rispettivi sguardi non si incontrano quasi mai”. Per lei si tratta di rispondere ai bisogni che arrivano dai primi pensando a un sistema culturale più inclusivo, che riesca ad arrivare laddove il grande evento non può farlo. “In questo senso dare priorità al sistema bibliotecario vuol dire rispondere ai bisogni di una moltitudine di persone: le biblioteche sono il principale presidio culturale in città e oggi sono in sofferenza per problemi strutturali, di distribuzione e di personale. Occuparsene vuol dire in primo luogo avere un quadro preciso delle risorse necessarie per affrontare le maggiori criticità, programmando gli interventi nel medio e lungo periodo”.

Naturale che per Leon, che come si è detto in questi anni si è occupata di musei, proprio il sistema museale sia un’altra priorità: lo è del resto a ben vedere in tutta Italia, visto e considerato che proprio all’interno del sistema museale è conservata una parte notevole del nostro patrimonio culturale. “Il fatto è che bisogna collegare maggiormente il lavoro delle istituzioni museali e dei beni culturali ai bisogni della città, sviluppandone la funzione educativa e la capacità progettuale”.

Per quanto riguarda la prima, individuando strumenti per conoscere meglio il rapporto tra scuole e musei, stabilendo un dialogo che ne favorisca una relazione dinamica; quanto alla seconda, favorendo le collaborazioni tra le istituzioni museali torinesi e tra queste e quelle italiane ed europee, allo scopo di produrre eventi espositivi, scambi formativi e di esperienze. Un capitolo a parte è poi quello rappresentato dal mondo dello spettacolo dal vivo. “Che oggi appare cristallizzato, mentre la riduzione di risorse calata anche su questo settore dal 2008 ha portato a una forte riduzione di compagnie e artisti che operano a Torino, imponendo alla maggior parte dei soggetti una contrazione della capacità di produzione e di investimento”.

La città policentrica
Da qui in avanti, mi spiega, le politiche dovranno operare verso una modalità diversa nell’attribuzione delle risorse pubbliche e nella gestione degli spazi, così da recuperare un rapporto virtuoso tra le grandi istituzioni e le compagnie di produzione professionali, tra le grandi orchestre e le organizzazioni musicali più piccole, tra i professionisti e i giovani che si avvicinano a questo mondo. “Ritengo che puntare sulla cooperazione e sulla crescita sia più efficace della mera competizione sulle risorse che, all’inverso, porta chiusura e autoreferenzialità”.
Francesca Leon a palazzo Madama, Torino, il 3 settembre 2016. – Daniele Ratti per Internazionale
Francesca Leon a palazzo Madama, Torino, il 3 settembre 2016. (Daniele Ratti per Internazionale)

Torino è oggi tra le città italiane più visitate. Spesso in un recente passato c’è stato chi ha rilevato come certe piazze auliche della città siamo state usate in modo inappropriato, allo scopo di ospitare manifestazioni simili alle sagre di paese. E in molti si chiedono se sia possibile conciliare il senso estetico e il rispetto del patrimonio urbanistico e architettonico con le esigenze di bilancio. “Torino non è solo le sue piazze auliche, la città è grande e si possono valorizzare altri circuiti coinvolgendo a raggiera altri spazi, creando nuovi circuiti per le manifestazioni che ne hanno bisogno. Questo non configge con le esigenze di bilancio, anzi, vuol dire operare perché Torino diventi effettivamente una città policentrica”.

I doveri di uno stato
Per tornare alla questione del “puntare sulla cultura”, Torino ha nel Politecnico un’eccellenza in grado di attirare studenti anche dal resto del mondo. Forse è questa una delle strade da percorrere, fare di Torino sempre più un luogo dove i giovani vogliano trasferirsi per studiare. Possibilmente non nei cinema o per strada, com’è accaduto ancora di recente a causa dei problemi di agibilità che affliggono palazzo Nuovo…

“Rendere Torino una città accogliente per i giovani è una priorità, non solo per chi studia”, mi dice l’assessora. “Ma perché questo accada non basta avere delle ottime università e una vita culturale dinamica. Occorre che quei giovani una volta finita l’università trovino lavoro in città e decidano di restare, di mettere su famiglia. Torino ha una disoccupazione giovanile altissima e se non si inverte la tendenza la città invecchia e le prospettive di sviluppo peggiorano”.

Uno dei temi più spinosi, per ciò che riguarda il patrimonio architettonico, è stato in questi ultimi anni quello del futuro della Cavallerizza, ovvero delle ex scuderie dei Savoia, un luogo di grande fascino iscritto dal 1997 tra i beni Patrimonio dell’Unesco e attualmente occupato.

Ho seguito le recenti vicende legate alla Cavallerizza e ne conosco la lunga storia dei tentativi di recupero e utilizzo, legata alle vicissitudini dei passaggi di proprietà e delle diverse destinazioni immaginate e percorse dalle giunte che si sono avvicendate negli ultimi 15 anni. A mio parere la destinazione dovrebbe essere a uso culturale, di servizio a enti, organizzazioni culturali e formative, proprio per la sua localizzazione al crocevia tra le più importanti istituzioni della città. A oggi la giunta sta approfondendo lo stato delle decisioni operate finora per capire come sarà possibile tracciare una nuova strada per la Cavallerizza.

Complice la crisi, oggi in Italia si dice che la cultura deve imparare a sostenersi senza più dipendere dai finanziamenti pubblici, convincendo con la bontà dei progetti anche sponsor privati. Ma c’è chi paventa il rischio di veder sopravvivere solo certe grandi realtà, e di vedere l’estinzione di esperienze magari validissime ma magari meno pop e dunque lontane dai grandi numeri. Francesca Leon scuote la testa.

Laddove vi è un patrimonio culturale pubblico da tutelare e valorizzare è dovere dello stato nelle sue diverse articolazioni farsene carico. E per patrimonio non intendo solo i beni culturali. L’obiettivo da porsi è sviluppare con i privati un rapporto di collaborazione che veda un impegno reciproco nel sostegno alla diffusione della partecipazione culturale, allo sviluppo delle idee e della loro realizzazione, puntando sulla capacità della città di diventare un luogo dove si produce cultura, dove le idee innovative prendono forma e crescono puntando alla loro sostenibilità nel tempo.

In questo senso, secondo lei, chi amministra una città ha il dovere di far emergere non solo il singolo ente, evento, manifestazione, ma come questo si inserisca nel progetto culturale complessivo, definendo obiettivi, strumenti e azioni che coinvolgano anche i soggetti privati interessati alla crescita e allo sviluppo della città. Si è fatto tardi, non voglio far perdere altro tempo alla mia interlocutrice, ma decido comunque di farle una domanda alla Marzullo, e le chiedo quale sia il suo sogno di assessora alla cultura. “Da quando sono stata nominata non ho avuto molto tempo per sognare e potrei dire che anche i bilanci non aiutano in questo senso. Preferisco restare con i piedi per terra e dare il mio contributo con il pragmatismo che mi è proprio, lavorando alla costruzione di futuro condiviso con la città”.

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