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Concerto libero al Mitreo

23 gennaio uno copy

L’artista romano proporrà una selezione di brani scelti dal suo vasto repertorio e tratti dai suoi album Questa Storia e Tana libera tutti.

Nell’occasione presenterà al pubblico alcuni brani inediti.

L’ingresso al concerto è a sottoscrizione libera.

Andrea Gentili è nato a Roma il 10 Giugno del 1983 ed inizia a suonare all’età di 10 anni. Oggi è chitarrista, arrangiatore e compositore.

È un musicista da sempre interessato al mondo della canzone e, più in generale, alla ricerca musicale. Chitarrista poliedrico, spazia dalla canzone d’autore al jazz fino alla bossa nova e al fusion-rock. Suona stabilmente in formazioni di varia estrazione, riservando particolare attenzione all’ensamble che esegue i suoi brani originali.

Ha studiato e collaborato con alcuni tra i più grandi nomi della scena musicale italiana e internazionale.

www.andreagentili.org

email: ufficiostampa.andreagentili@gmail.com

cell.    3491121079

 




Siamo cresciuti nel ghetto e lo raccontiamo senza paure

Marc-Nammour-La-Citta-Nuova

In un momento storico di grave disagio per le periferie delle nostre città, è naturale cercare il confronto con altri paesi europei, come la Francia, che vivono certe situazioni già da anni. Sappiamo che i sobborghi parigini sono molto diversi dai quartieri di Tor Sapienza a Roma e di Corvetto a Milano, ma parlare con il rapper franco-libanese Marc Nammour, definito spesso “la voce della banlieue”, può aiutarci a capire se esiste qualche tratto in comune e, magari, qualche buona pratica da imitare. A settembre è uscito La nausée, terzo album de La Canaille, la band di Montreuil con la quale Marc Nammour suona dal 2007, mescolando i suoi taglienti testi con una musica ibrida tra hip hop e rock. «Il nome del gruppo deriva da un vecchio poema rivoluzionario, scritto nel 1871 da Alexis Bouvier durante La Comune di Parigi, e descrive perfettamente che cosa e chi è La Canaille. In quel contesto il termine indicava le fasce disagiate della popolazione, che soffrivano in silenzio mentre sulle loro spalle si facevano i grossi profitti, e allo stesso tempo era usato anche come insulto da parte delle classi alte nei confronti dei poveri. La radice è quella di “Canis”, che in latino significa “cane”. Dopo quasi un secolo e mezzo la situazione non è cambiata, la battaglia prosegue.»

Il nuovo album, che segue Une goutte de miel dans un litre de plomb (2009) e Par temps de rage (2011), s’intitola La nausée «perché quello era il mio stato d’animo mentre mi accingevo a scrivere queste canzoni». A provocare la nausea di Marc Nammour è stato «l’eccesso di nazionalismo, razzismo, omofobia, miseria e capitalismo. In Francia, come negli altri paesi europei, la situazione per i lavoratori è diventata sempre più dura durante la crisi. È difficile trovare un lavoro o conservarne uno. È difficile mantenere la propria famiglia, pagare l’affitto e le bollette. Quando scrivo i miei testi ho sempre in mente le classi disagiate, perché è lì che sono nato e cresciuto. Ora è veramente un brutto periodo, così ho scelto di parlare apertamente di certi problemi, invece di ignorarli. L’unico filo conduttore delle dodici canzoni del disco è il mio grande sentimento di tristezza».

La fase di registrazione è avvenuta tra novembre 2013 e marzo 2014 al Music Unit Studio, sempre nel sobborgo parigino di Montreuil, dove Nammour ha lavorato insieme a tre produttori – Mathieu Lalande, Jérôme Boivin e Lorenzo Bianchi – e ad alcuni musicisti, amici di lunga data come Antoine Berjeaut (fiati), dj Pone e dj Fab, Serge Teyssot Gay (chitarra), Lazar e Sir Jean (voci). Ma per un rapper, o poeta di strada, la fase cruciale è quella della scrittura dei testi: «Il mio modo di scrivere canzoni è sempre diverso. Non ci sono regole quando si tratta di ispirazione, viene quando vuole, ed è una sensazione strana. A volte scrivo di mattina, altre volte in piena notte, ma quando l’emozione giusta arriva, la riconosco immediatamente e le parole scorrono con naturalezza e facilità». Le parole non sono indipendenti, dice Nammour, che ha «bisogno della musica per scrivere, anche di un breve loop, per entrare in un certo stato d’animo e immaginare situazioni. Mi dà il tempo e suggerisce il flow per rappare le mie poesie. Posso scrivere con o senza rime, per esempio questo album è diviso a metà, ma senza il vincolo delle rime posso essere molto più preciso ed è interessante scoprire come le parole inseguano il beat».

Come quasi tutti i suoi colleghi, Marc ha scoperto il rap da ragazzino, nella Francia degli anni Novanta. «All’epoca il rap pompava da tutti gli impianti stereo del quartiere. Alcuni ragazzi cominciavano a fare breakdance, altri scratchavano sui giradischi, altri dipingevano sui muri e altri ancora, come me, erano interessati alle parole, alla poesia, alle rime. Ho iniziato a scrivere i miei primi testi per divertimento nel 1996, entrando a far parte di alcune piccole band nella zona orientale della Francia. Poi ho deciso progressivamente di farlo più seriamente quando mi sono trasferito a Montreuil nel 2001.»

In effetti, la storia di Marc Nammour non comincia a Montreuil, ma in Libano. «Sono nato nel 1978, durante quella terribile guerra. La mia famiglia è stata costretta a fuggire dal paese per proteggere mia sorella e me, così siamo arrivati in Francia nel 1986, nella piccola città di Saint Claude, vicino alla Svizzera. Come per tutti gli immigrati, per me non è stato facile crescere in una terra straniera. Ricordo che a scuola facevo sempre a botte con gli altri ragazzini, perché mi prendevano in giro e mi chiamavano “straniero”. Poi mi sono abituato al nuovo posto e alla nuova vita. La mia famiglia viveva in uno di quei grandi agglomerati urbani progettati per i lavoratori e da bambino mi sembrava una fortuna, perché bastava uscire di casa per poter giocare con i miei coetanei. Ancora non potevo capire che si trattava di una strada senza uscita, di un ghetto. Ero l’unico ragazzino libanese della zona, la maggior parte delle famiglie veniva dal Nord Africa e dalla Turchia, perciò mi sentivo speciale. Allo stesso tempo ero sempre imbarazzato, perché tutti i telegiornali francesi parlavano del mio paese in termini orribili: guerra, terrorismo, morte, contrasti religiosi ecc. Così sono cresciuto tra due paesi con la strana sensazione di provenire da nessun luogo.»

Per i suoi testi fortemente impegnati, Marc Nammour è spesso definito “la voce delle banlieue”. «Concordo con quest’etichetta, ma lo stesso vale per la maggior parte dei rapper francesi. Siamo cresciuti nel ghetto, lo abbiamo visto con i nostri occhi, e quando raccontiamo quella realtà lo facciamo attraverso la conoscenza diretta. Sappiamo che non è una vita facile. Le periferie francesi stanno diventando progressivamente più brutte con il passare del tempo. Molta violenza, disoccupazione, droga, esclusione sociale, divisioni fra comunità… come in ogni ghetto del mondo. Hai la sensazione che nessuno si curi di te. Ma allo stesso tempo puoi trovare anche grandi esempi di umanità e solidarietà

Molti paesi europei, come Francia, Italia e Regno Unito, hanno visto l’esplosione di partiti nazionalisti e xenofobi. «La povertà è il miglior pane per nutrire i sentimenti di odio e razzismo. Le persone diventano ogni giorno più povere, così si affidano al bieco populismo che individua lo straniero come il pericolo più grave, come il diverso che vuole rubare il loro lavoro o cambiare la loro identità culturale. Tutto questo ha a che fare con la paura. I governi giocano con il fuoco quando accettano di dialogare o scendere a patti con partiti che alimentano l’odio. In Francia, per esempio, il nostro governo socialista ha espulso molti più immigrati di quanto abbia mai fatto qualunque altro partito di destra. L’Europa sta diventando sempre più conservatrice, ha costruito muri verso il resto del mondo per proteggersi da un’invisibile minaccia proveniente dal sud. Ecco perché la mia identità non sarà mai nazionale, ma sociale. La cultura è l’unico strumento per combattere l’ignoranza e la stupidità che portano a certe derive nazionaliste.» Essere cresciuto tra due culture, quella araba e francese, è comunque una grande ricchezza, anche se bisogna far dialogare le proprie radici con la realtà di un paese totalmente diverso. «Non è sempre semplice. Io mi sento come se provenissi da ogni luogo e da nessuno. Per esempio, capisco l’arabo, ma non lo parlo molto bene. Sono un arabo incompleto. Non sono religioso, ma amo il Libano, la musica, il cibo, la cultura, il modo di parlare. È una specie di dono che cerco di condividere con mia figlia. Cerco di andare a trovare la mia famiglia là ogni volta che posso e, quando sono là, avverto qualcosa di magico. Di solito al ritorno in Francia sono molto triste, perché purtroppo in quella parte di mondo non c’è speranza per la pace. Tutti i cugini della mia età sono cresciuti con la guerra e il suo frastuono. I cristiani odiano i musulmani, gli sciiti odiano i sunniti, gli arabi odiano gli israeliani e viceversa. La situazione è estremamente complicata, soprattutto per i giovani che soffocano sotto tutte le tensioni politiche e religiose.»

Recentemente Marc Nammour è stato in Egitto, invitato dall’Istituto di cultura francese di Alessandria, per suonare dal vivo con il suo elettro-sufi Saleh & Miniawy. «Era la prima volta che suonavo in Medioriente e spero che non sia l’ultima, perché mi è piaciuto tantissimo essere là. I miei genitori sono nati in Egitto e per me è stato una sorta di ritorno alle mie origini, un viaggio davvero intenso. Sono passato anche al Cairo, una città pazza: così tanti abitanti, un tale inquinamento, moltissimi poveri. Dopo la rivoluzione il paese mi è sembrato diviso tra progresso e tradizione, si percepisce nell’aria. Ho accettato quell’invito con enorme piacere, dopo aver sentito in rete alcune tracce di Saleh & Miniawy. Non li conoscevo, ma ho capito subito che saremmo andati nella stessa direzione. L’idea di creare uno spettacolo di musica elettronica e poesia, mescolando arabo e francese, mi sembrava estremamente interessante. Infatti, penso che questa collaborazione continuerà e stiamo lavorando su alcune tracce per realizzare un album e portare in tour questo progetto.» Diviso tra Francia e Medioriente, chi è Marc Nammour? «In Francia sono un libanese e in Libano sono un francese. Chi sono io? Sto ancora cercando di scoprirlo… Ma questo mi dà la forza per ricominciare ancora la mia vita. Questa è la ricchezza dei migranti, sono abituati a ricominciare da capo ogni giorno. Sempre. Anche se sembra impossibile o sono stanchi, hanno imparato che ci può essere sempre una soluzione. E anch’io ho imparato che devo contare solo su me stesso per andare avanti.»

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Ciao Pino

pino danielePerchè Pino è stato importante e soprattutto perchè Pino è stato importante per le periferie? Perchè quando Pino ha preso in mano la chitarra e ha rivoluzionato la musica napoletana questa era ormai una larva della grandezza di un tempo, era alla periferia dello show business non solo internazionale ma anche nazionale.

Ho un ricordo personale di Pino quando, perfetto sconosciuto, arrivò a Salerno al Circolo d’Ottobre che allora gestivo con altri compagni e ci sconvolse con “Na tazzulella e cafè”. Noi eravamo spaccati – come solo la sinistra extraparlamentare sa essere spaccata – tra la corazzata potemkin, le canzoni di lotta e chi – come me – amava il rock. Ma Pino ci mise subito, e d’incanto, tutti d’accordo: mi ritrovai ad applaudire entusiasta, insieme ai miei amici frikkettoni, in perfetta sintonia con Chio  Chiò acerrimo cantore della canzone popolare di protesta: era la sintesi che non riuscivamo a darci tra innovazione e tradizione, tra internazionalismo e genius loci, tra divertimento e impegno (non dimenticatevi ch’era il tempo in cui Eduardo Bennato si lamentava, in musica, che il suo maestro Roberto De Simone lo tacciasse di tradimento perchè – invece di militare nella Nuova Compagnia di Canto Popolare col fratello Eugenio – faceva il cantautore rockettaro).

E Pino veniva dalle periferie dell’impero musicale anglosassone che allora, come sempre, spadroneggiava. Non era ancora nata la world music. Il rock era roba da inglese e poi arrivò lui, dalla periferia – dal sud cafone, e ci fece scoprire che il rock era anche roba nostra, era anche roba del mediterraneo, del calore, dell’amore che solo il sud sa mettere nelle cose.

Grazie Pino: la tua lezione non la dimenticheremo mai e – da tutte le periferie del mondo – impugneremo le nostre chitarre e canteremo in tutte le lingue del mondo la nostra gioia, la nostra amarezza, la nostra voglia di cambiare, COME CI HAI INSEGNATO TU.




Ci salverà la musica?

Nella musica italiana è difficile individuare tratti peculiari o specificità. È italiana solo perché nasce nel territorio del nostro paese. In realtà, è frutto del confronto con le molte popolazioni straniere con cui gli italiani sono venuti a contatto. Evidente è l’influenza della cultura bizantina, spagnola, araba, greca e teutonica nel tessuto più intimo dell’espressione popolare che un pregiudizio romantico vorrebbe incontaminata e pura – appunto – da influssi esterni. E questo vale per tutti i generi musicali, dal folklore alla musica d’arte e alla canzone. Persino il ballo liscio non nasce – come molti credono – tra l’Emilia Romagna e la Lombardia. Ma le sue radici si allungano in Austria e in Francia.

Gramsci e il carattere cosmopolitico della musica

Se c’è un’italianità della musica la si può scorgere solo in questa molteplicità di esperienze, generi e stili, derivanti da fattori storici, economici, politici e linguistici, e non già in un suo radicamento deducibile da fattori biologici e ambientali. Ne parla Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere:  «In Italia la musica ha in una certa misura sostituito, nella cultura popolare, quella espressione artistica che in altri paesi è data dal romanzo popolare (…) e i geni musicali hanno avuto quella popolarità che invece è mancata ai letterati». E s’interroga: «Perché la “democrazia” artistica ha avuto un’espressione musicale e non “letteraria”? Che il linguaggio non sia stato nazionale, ma cosmopolita, come è la musica, può connettersi alla deficienza di carattere popolare-nazionale degli intellettuali italiani?» Ecco la risposta del pensatore sardo: «Nello stesso momento in cui in ogni paese avviene una stretta nazionalizzazione degli intellettuali indigeni (…), gli intellettuali italiani continuano la loro funzione europea attraverso la musica. Si potrà forse osservare che la trama dei libretti non è mai “nazionale” ma europea, in due sensi: o perché l’intrigo” del dramma si svolge in tutti i paesi d’Europa e più raramente in Italia, muovendo da leggende popolari  o da romanzi popolari; o perché i sentimenti  e le passioni del dramma riflettono la particolare sensibilità europea settecentesca e romantica, cioè una sensibilità europea, che non pertanto coincide  con elementi cospicui della sensibilità popolare di tutti i paesi, da cui del resto aveva attinto la corrente romantica». Attraverso la musica, si conferma in sostanza la vocazione universalistica di un popolo che non aveva un “particulare” da coltivare ed esportare, ma si sente a pieno titolo in un contesto globale.

Il deficit di cultura musicale

Chi ascolta attentamente la musica, può facilmente notare che dietro ogni pezzo c’è una storia, un processo, una sedimentazione di culture. Ma in genere chi consuma musica non ne comprende questa profondità. E non sceglie i brani in base a questi aspetti. Non a caso, per garantirsi l’eccellenza, molti si affidano ai divi e così suppliscono ad una cultura musicale deficitaria.

L’arte di massa nasce a metà Ottocento con l’idea di fruire di essa come distensione, distrazione, anziché sforzo intellettuale e mezzo di educazione. Nasce così l’arte “facile”, non problematica. La musica è invece un prodotto umano in sé compiuto di cui vanno compresi i meccanismi. La scuola, l’educazione di base e l’azione culturale penetrante e diffusa della società civile possono modificare la mentalità prevalente e suscitare un interesse a investire sul futuro della musica.

La musica italiana è aperta all’innovazione

A differenza della letteratura, la musica italiana porta con sé due elementi che interagiscono in modo virtuoso: il carattere cosmopolitico e aperto al mondo globale, in opposizione ad ogni rigurgito nazionalistico e autarchico, e l’apertura all’innovazione. I musicisti sono portati a fare i conti con l’innovazione. L’evoluzione della musica è sempre stata accompagnata e anche influenzata da un progresso di tecnologia che nei secoli precedenti era pressoché applicato all’organologia. Si pensi, ad esempio, cosa ha implicato il passaggio dal clavicembalo al pianoforte, inventato dall’italiano Bartolomeo Cristofori. La tecnologia di cui oggi disponiamo è figlia di un lungo processo di ricerca che ha le sue radici tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, quando si incominciarono a cercare nuove forme di scrittura ed espressione musicale. Con l’aiuto di maestranze tecniche e scientifiche, alcuni compositori cercarono anche strumenti musicali innovativi per esprimere i nuovi linguaggi, sfruttando l’elettricità, il magnetismo, i motori elettrici ed elettromeccanici. Un passo importante verso il connubio tra innovazione tecnologica e musica si ha con la cosiddetta Computer Music, da cui si sviluppa il sintetizzatore che viene utilizzato con successo nella cosiddetta musica elettronica ma anche nella musica pop e rock a partire dagli anni sessanta. Dagli anni ottanta in poi, la diffusione del protocollo MIDI e del computer Atari consente una grande diffusione della tecnologia musicale. Oggi il processo di innovazione è indirizzato principalmente alla ricerca del sistema di interazione tra l’utente e la macchina in grado di essere di semplice utilizzo soprattutto nell’interazione in tempo reale. Sicuramente i tablet e principalmente l’ipad della Apple cambieranno nei prossimi anni il modo che avranno gli utenti di interagire con le applicazioni software.

Il futuro è la musica

Oggi i giovani di buona cultura, generalmente umanistica, sono portati a contestare tutti o quasi tutti i processi d’innovazione tecnologica. In essi prevale lo spirito romantico, la nostalgia del bel tempo che fu. Guardano con sospetto alla modernità e tendono a rinchiudersi in difesa dinanzi alla globalizzazione con atteggiamenti autarchici. Un diffuso atteggiamento antiscientifico sottende un’inefficace politica di sostegno al made in Italy.

L’agricoltura italiana, che pure ha conosciuto nella sua storia un rapporto intenso con la tecnologia e la scienza, sta pesantemente subendo questa involuzione indotta da una cultura umanistica che si contrappone alle discipline scientifiche. Una cultura umanistica che identifica il “buono”, il “bello” e il “giusto” con l’atteggiamento antiscientifico e non sostiene, con la disponibilità ad un approccio pluridisciplinare, l’esigenza di tenere in equilibrio etica, innovazione tecnologica e sostenibilità.

Forse l’Italia potrà farcela a guardare in avanti con ragionevoli speranze, se promuoverà tra le nuove generazioni un’attività educativa e culturale capace di valorizzare i due tratti distintivi della musica italiana: il suo carattere cosmopolitico e l’apertura all’innovazione. Comprendendo fino in fondo la musica, il suo mondo e i suoi meccanismi, forse saremo in grado di cogliere pienamente le opportunità della globalizzazione  e della rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo.

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Alessandro Cives, cantautore romano




“Rose celesti” di Alessandro Cives

Una scatola di ricordi e fotografie che, tirate fuori, una ad una, mandando avanti traccia dopo traccia, evocano sorrisi e tenerezza. Rose celesti è il primo album solista di un cantautore e artista a tutto tondo romanoAlessandro Cives.

L’album tematico, autoprodotto nel 2008 e riedito nel  dalla casa discografica Terresommerse, è magmatico: una lava densa di significati nascosti tra gli accordi, tra arrangiamenti semplici e irruenti al tempo stesso.

I testi, malinconici, a volte onirici, sono l’accompagno di un artista che ha sempre la testa tra le nuvole, e che per nulla al mondo scenderebbe tra noi tutti, /gli altri/ a spiegarci le meraviglie del suo pianeta, del suo mondo.

I brani narrano piccoli e grandi sentimenti, drammi quotidiani e incontri tra giovani, raccontano sensazioni. Ma è solo un’impressione! Dietro c’è molto di più e questo è l’enigma-Cives, la figura e l’emblema di un personaggio, di una persona e di un artista che va oltre l’apparenza.

Un disco che va scoperto oltre le note e oltre le prime impressioni, un album che non si accontenta di un primo ascolto, ma che rimane evocativo anche quando si sanno tutti i testi a memoria. Ad un primo impatto non risulta un album facile perché può risultare sgradevole, acerbo.

Nel caffè di Andy ha un bel sound, un ritmo incalzante con motivi alti e bassi, modulati dalla voce. È una traccia vintage: ricorda molti oggetti degli anni Settanta – Ottanta, dagli “autobus verdi” (cit. film “Fantozzi”) ai telefoni a gettoni, dalle nevicate abbondanti a Roma e le scuole chiuse. Il lessico mirabolante, stroboscopico, ricorda un giro alle montagne russe tanto che  “sembra di stare in una giostra”, una storia che non è una storia, parole che ricordano di soppiatto i testi dei Subsonica.

Il folk che fuoriesce dalla traccia Di qui recupera un amore per la bella musica anni Sessanta e Settanta, dal folk dylaniano all’armonica di Lennon. Dolcissima anche l’immagine che ci facciamo del protagonista nella quarta storia in cui “Jennifer era già sposata”: Amori che vanno e vengono amori che distraggono e concentrano. Scopriamo in Alessandro una grande forza di spirito e di volontà, una passione che non si accontenta di fare pubblico ed audience, ma che varca le possibilità della sua stessa vita.

Ancora più malinconica, con un tono più dimesso e con una chitarra che vuole gracchiare sulle corde dell’affetto, è la traccia Il guardaroba di Arlette, in cui la protagonista “dici scusa e intanto tu preparata sei/non per me”. Relazioni improbabili, o semplicemente finite. Qui, la sua voce si fa suadente, provocatoria, un dialogo a bassa voce per ricordare, o rimpiangere?, un dubbio: “Ora che cos’hai deciso di fare di me io/ non lo so. (..) E metti il trucco forte, dolce e deciso per/ scordarti di me”.
Melody
 è una strimpellata al mare: lo si sente dalle onde di sottofondo, cornice di una ballata de andreiana, solitaria e armonica. L’incipit ricorda l’accordo iniziale di “Quattro cani” di Francesco De Gregori.

Passi, emozioni sottili, tra azioni banali, quotidiane e cose non importanti che sono la cornice di un fondo perduto, di un barile ricco di petrolio. Non c’è solo Cives in questo album ma c’è tutta la sua cultura musicale, che non sempre viene ripresa negli arrangiamenti, anzi, quasi mai, perché come mi ha detto una sera “Io so quello che voglio, so cosa voglio che si senta nel disco”. Echi.

Alessandro è un ragazzo che ci crede ancora, in un mondo migliore, in un futuro compatibile, e che ha bisogno di crederci nelle sue idee: “le mie idee erano solo idee/e ora guardale”. Un ragazzo che forse ha sofferto nella sua vita e che però ha trovato la via giusta. Ma non siamo qui a fare di questo piccolo capolavoro un’analisi freudiana. “Io passo di qui, non vedi che io/ non mi fermo mai”.

Enigma e sentimento, passione e piccole storie ma alla fine dell’album, ancora dobbiamo capire cosa sono le rose celesti, binomio che in ogni testo viene ripreso. E forse non lo capiremo mai.

 

Arrangiamenti di Alessandro Cives e Libero Volpe.
Registrazione: maggio/ottobre 2008. Mastering: novembre 2008
Prodotto da Fabio Furnari Edizioni Terre Sommerse

 

 

Written by Elisa Longo

Photo by Lilly Vigna

 

Oubliette -

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http://oubliettemagazine.com/2014/08/26/rose-celesti-di-alessandro-cives-uno-sguardo-malinconico-ed-onirico/




“Vie d’uscite”, primo album di Vladimiro Modolo: un EP da tenere in macchina

Vie d’uscite”, il primo album di Vladimiro Modolo, autoprodotto nel 2013,  è pieno e completo, un ep da tenere in macchina, da ascoltare sull’autobus, o da sottofondo casalingo. Una musica d’altri tempi ma che rilancia un cantautorato moderno. Di classe.

La prima traccia La sindrome del porcospinoè la più roboante di tutte, la più cantautorale, varia spesso moduli ritmici e ha un ritmo da montagne russe. Il motivo pianoforte e violino, che battono le stesse note, nel raccordo finale, ricorda qualcosa di già ascoltato, un motivo elegante che rimane impresso, anche a fine traccia. Si divide in due parti ed è nella cesura il valore prezioso, unico.

La musica mi salverà è una canzone che ha sicuramente qualcosa da dire. Un brano melodico e ascoltabile. Ad un primo ascolto può risultare banale, scontata, una canzone di impegno già ascoltata, ma dentro c’è il cuore di Modolo, il rapporto viscerale con la sua passione per la musica. Un messaggio umano e culturale netto, definito, un appello in difesa di tutti gli artisti, cantautori e non, del mondo.

Dolcissima è Nelle mie lacrime (se mi lasci ti cancello) in cui la tragica fine di una relazione d’amore fa confondere le lacrime dell’innamorato con il ricordo, sbiadito, della sua fiamma. Un pianto della mancanza, tenero ed amaro allo stesso tempo. Un tango in due fittizio, trasportato dalla morbidità melodica. “Se mi lascio ti cancello/ inutilmente/ tanto tu sei qui/nelle mie lacrime/ non riesco a toglierti dagli occhi un solo istante”.

Nella traccia Ascoltare il pazzo, la voce di Vladimiro si modula in solfeggi e falsetti espressivi e piacevoli, su toni diversi. “La vita è bella non si sa/ lo dice il pazzo al posto mio/ se fosse giusto oppure no, fare in modo che qualcosa sempre ci sia”.

Una ghost track, che da il nome all’album, che sembra un live, in acustica, con la parola “affollano/accollano” mascherata, espressione dialettale non propriamente ortodossa! Un ep sicuramente da ascoltare e riascoltare, che riprende spesso le stesse tonalità e lo stesso ritmo, seppur con passaggi interessanti.

Nel suo insieme l’album concentra le cinque più importanti colonne della vita umana: l’amore(Nelle mie lacrime), la passione – in questo caso, per la musica – (La musica mi salverà), la follia (Ascoltare il pazzo), la guerra (La sindrome del porcospino) e la dinamica, il movimento (Immobile).

Melodico, tenero ed espressivo: questi sono i tre aggettivi più giusti per poter definire, qualora fosse necessario, il nuovo album di Vladimiro Modolo, un insieme di passione e tanta creatività.

La sua è musica nuova, l’ascolto evoca la piacevole sensazione di una colonna sonora cinematografica, l’emozione di cominciare un libro, la sorpresa di un mix di delicatezza e di musicabilità. Il progetto grafico, curato da Alessandro Cives, un altro artista che oltre ad esprimersi con la musica, svolge attività di illustratore, contiene in sé un messaggio subliminale, tutto da capire.

 

Il sogno della Crisalide. Vie d’uscita.

Anno di produzione: 2013. Prodotto da Modolo Vladimiro.
Registrazione e mixaggio a cura di Marco Bucci.
Vladimiro Modolo: voce, chitarra acustica e chitarra elettrica
Alberto Poli: pianoforte, violini e arrangiamento
Massimo Pizzuto: basso
Marco Bucci: batteria, seconda voce, tastiere ed effetti.
Giuseppe Chimenti (Modì): chitarra elettrica ed effetti
Jacopo Giannasso: pianoforte
Progetto grafico: Alessandro Cives.

 

Written by Elisa Longo

 

 

 

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IL CORVIALE DELLA POESIA: Poetitaly, la rassegna continua sotto le stelle

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E’ cominciato ieri l’appuntamento all’aperto, sotto le stelle di Roma, sotto la dicitura “estate romana 2014” il contest di poesia Poetitaly, firmato Simone Carella. Un’estate romana che ha aperto le braccia a Corviale. Il chilometro di cemento, o alla romana “il serpentone” era incuriosito ieri sera, e fibrillava di energia. A guardarlo da lontano, sembrava un bellissimo albergo d’alta fattura. La cavea, che ha ospitato la serata del Poetitaly, aveva un pubblico eterogeneo, piccoli e grandi, curiosi e studiosi. All’inizio, l’orario era previsto per le 19 ma il protrarsi degli appuntamenti nel pomeriggio in Biblioteca Renato Nicolini non lo hanno permesso, l’atmosfera era un pò tesa, contratta.

 

 

 

 

Il rapporto spazio – uomo non era dei più rassicuranti, incertezze. Insicurezze. Ma nessuno sapeva come si sarebbe evoluta la serata. Tra i condomini affacciati ai balconi, i bambini e i ragazzi sui muretti e gli spalti affollati, Poetitaly 2014 ha scaldato l’ambiente. La magia della poesia underground e il fascino degli artisti sull’orchestra, così è chiamato il palco centrale nei teatri dell’antica Grecia, hanno avvolto e ipnotizzato il pubblico.Tanti gli artisti che si sono succeduti, chi accompagnato da tamburelli, chi da piccoli gong e chi dai soli fogli di lettura. A presentare Andrea Cortellessa, critico letterario e professore associato dell’università di lettere di Roma Tre.  DSC_0054

Un incontro inaspettato, ravvicinato, del terzo tipo?, con una realtà che si sta lentamente aprendo al mondo esterno,che sta varcando la soglia della cultura e dell’intrattenimento. DSC_0037Ci si aspettano grandi evoluzioni da questo primo passo. E gli eventi in programma sono ancora molti.. il bello deve ancora arrivare!

 

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Programma dettagliato

http://s534509712.sito-web-online.it/programma-2014/

 

 

 




Viaggio nella cultura zen: intervista a Alessandro Cives, cantautore creativo romano

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Alessandro Cives, come ti definiresti? Dal punto di vista umano, culturale e musicale?

“Una persona molto curiosa e fantasiosa, per avere curiosità ci vuole fantasia secondo me, dal punto di vista umano un ingenuo e dal punto di vista musicale un semplice creatore di storie, quindi un cantautore.”

Da quando fai musica?

“Dal 2001, da quando ho ritenuto di essere in grado di scrivere canzoni autoriali, autonomamente. Ho cominciato nel 1995/6, le prime volte che accordavo qualcosa, che mettevo le dita sulle corde. Usavo una chitarra classica, ma il motivo per il quale ho cominciato non mi fa molto onore: non avevo un interesse sulla musica, volevo fare colpo su una ragazza! È andata a finire che con la ragazza non ci sono mai stato, e con la musica ci vivo tutti i giorni!”

“Era il 2007, quando suonavo nei Linea B, band da me fondata e da altri affondata. Non dimenticherò mai questo progetto. Oggi sono molto diverso da allora, migliore? peggiore? boh…”

Elisa Longo, giornalista, e Alessandro Cives

Alessandro Cives e Elisa Longo durante l’intervista

Alessandro, mi spieghi che cosa sono i giardini zen ?

“Nascono nei paesi dell’estremo Oriente: Cina, Giappone, Corea, Vietnam,e sono legati alla cultura e alla filosofia Zen, buddista. Sono giardini non coltivati, sono fatti di sola sabbia e possono essere molto grandi! Si trovano anche nei monasteri  buddisti, grandi quanto dei giardini normali, fatti di sabbia e di sassi; con un rastrello viene curato dal monaco adibito a questa cura.
In Italia la cultura zen non c’è, o meglio, non è accolta come in quelle terre.
L’oggetto “giardino zen” è importato artificiosamente, come giocattolo occidentale, per il pubblico europeo. Quindi, nell’Occidente, ha perso di valore, mentre dove è nato continua ad avere una forte simbologia. Noi importiamo tutto e, importando, rendiamo tutto prodotto, giocattolo e cosa da poco. Consumismo.
A fine anni 90, inizio 2000, c’è stato un boom di vendita di questo tipo di prodotti etnici e anche misteriosi, comunque fuori dal quadro dell’oggettistica comune, italiana ed europea. A me è sempre piaciuta l’idea di un giardino zen, anche se non mi lego alla cultura buddista. Essendo un creativo, mi piace rastrellare questo piccolo quadratino di sabbia!
Si possono creare forme geometriche disegni, puoi inventarti un mondo! È un modo per uscire dalla quotidianità, spesso grigia e noiosa.”

Alessandro Cives, classe '77, è un cantautore romano che vive in zona Casilina, a Roma.

Alessandro Cives, classe ’77, è un cantautore romano che vive in zona Casilina, a Roma.

E dimmi, che funzione hanno?

“Liberano la mente dai pensieri, e hanno la funzione di alleggerimento dell’anima. Il giardino toglie la pesantezza delle preoccupazioni.
La mia canzone che si chiama, appunto, ”Giardino zen” è un elogio a questo prodotto occidentalizzato, molto più piccolo perchè ne ho uno anche io e mi diverto a immaginare, a sognarci, a disegnare, a creare.
– Mi sento quasi un piccolo re di un piccolo mondo fatto di sabbia – cita il suo brano.La canzone parla del mio giardino zen dove io amo creare, disegnare, considerare che in un giardino zen, amo anche immaginare che ci si possa atterrare con un piccolo aeroplano in miniatura  e che tutto questo possa benissimo sostituire la televisione.
La canzone è stata scritta nel 2008, finita di registrare nel 2009 e pubblicata nel 2010.”

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Profilo personale Alessandro Cives:
https://www.facebook.com/alescives?fref=ts

Alessandro, dove hai suonato di recente?

“Ho suonato in vari locali di Roma, dal Pigneto a San Lorenzo, alla Locanda Atlantide, alle Mura e anche in altre città, come Milano. Faccio musica da cantautore, ma a volte sono accompagnato da un bassista e batterista.”

 

Intervista Elisa Longo




Il suono dei tulipani

Ci sono diversi modi con i quali raccontare il cambiamento sociale. Comune-info ha scelto una periferia, un gruppo di bizzarri giardinieri e una indisciplinata streetband. Il racconto di cosa hanno combinato è in questo reportage.

Corviale, Roma. È domenica 7 ottobre e sono da poco passate le tre del pomeriggio. Un’auto rallenta in via Poggio del Verde, la strada che circonda il Serpentone di palazzi più noto di Roma. Dal finestrino una voce timidamente chiede dov’è il giardino dei tulipani. Il passaparola on line e i volantini attaccati ai pali della luce nel quartiere hanno dunque funzionato. Del resto oggi non è un giorno qualsiasi, ma l’International Tulip Guerrilla Gardening Day.

I tulipani sono semplici da piantare e non vogliono troppe cure, hanno fatto sapere i Giardinieri sovversivi, il gruppo di guerrilla gardening promotore della giornata di festa. Per questo potranno crescere spontaneamente e fiorire la prossima primavera. L’appuntamento è sotto il ponte pedonale a metà del Serpentone, «con bulbi di tulipani e palette». C’è anche la Titubanda. Si sente e si vede.

Il cielo è grigio come i palazzoni di questa periferia. Ma un lampo di musica e fiori sta per colorare improvvisamente il quartiere. Cominciano quelli della Titubanda: hanno quasi quindici anni alle spalle di presenza vagante e autogestita nelle strade di Roma, fuori da ogni logica di profitto. In fondo oggi si sentono a loro agio e alla loro passione festaiola è difficile resistere. Lo dimostra la passeggiata nel serpentone fino alle scalinate di un anfiteatro che qui hanno visto utilizzare solo un’estate, per qualche giorno, alcuni anni fa. La maggior parte dei citofoni dei palazzi sono rotti oppure senza nome. La vita dei los de abajo è la storia dei senza nome. Per far sapere della festa, non potendo citofonare, meglio un po’ di musica. Qualcuno si affaccia dal balcone attirato dalle note di questa stravagante fanfara, una mamma con la figlia in braccio comincia a muoversi lentamente dietro la finestra al ritmo della musica, alcuni bambini strillano e salutano dietro i panni stesi.

La signora Maria dice di aver letto il volantino. Una cosa del genere, lei che vive a Corviale da diciannove anni con due figli, non l’aveva mai vista. «I ragazzi sono sempre in casa, qui non c’è mai nulla da fare». Aldo invece ha un’eta indefinibile e passa molto tempo in strada. Dice di aver suonato con i Pink Floyd e con i Genesis, ma che ora si esibisce solo in un centro commerciale. Adora la musica. È cresciuto a Corviale e vive da solo con la madre anziana, il cui unico pensiero oggi è chi si prenderà cura di Aldo e della sua disabilità tra qualche anno. Ma oggi per fortuna c’è una strana festa a cui pensare e Aldo è proprio contento di seguire giardinieri e musicanti.

Marco invece ha undici anni, un pallone tra i piedi e una maglietta giallorossa troppo stretta per il suo pancione. Oggi è piuttosto contento per tre buone ragioni: si è potuto svegliare tardi, non ha mai visto una banda suonare a Corviale, la sua Roma ha vinto due a zero. Quando la passeggiata della Titubanda si conclude arrivano le zappe, i rastrelli e le palette. I vasi con i tulipani e altri fiori da seminare sono state regalati da alcuni vivai e dai cittadini di NoPup, con i quali Giardinieri sovversivi hanno promosso il giorno prima un’iniziativa in viale Leonardo Da Vinci (contro il Piano urbano parcheggi approvato dal Comune). Un’economia del dono che fa molto bene alla città e poco al suo Pil. Intanto, diversi infilano i guanti, si comincia. Tra loro c’è anche Elvira che ha dodici anni e non ha mai avuto tra le mani una zappa. L’afferra, sorride e un po’ impacciata guarda la nonna mentre inizia a scavare.

Giardinieri sovversivi è composto da uno zoccolo duro di circa venti persone. Lo scorso anno, in occasione della giornata nazionale di guerrilla gardening promossa insieme a Badili badola di Torino, Roma ha visto altre persone munirsi di rastrelli, come alcuni gruppi di studenti di architettura e altri già impegnati con gli orti urbani. Emulazione e contagio sono i modi con i quali in tutto il mondo si moltiplicano esperienze di questo tipo. L’obiettivo non è solo recuperare spazi di verde ma, prima di tutto, ricomporre legami sociali, pensare e sperimentare una città diversa.

A Roma i primi appuntamenti sono nati due anni fa, l’ultima domenica del mese. Era la Critical gardening. Il desiderio di formarsi un po’ con i saperi della botanica ha convinto i giardinieri a programmare meno azioni ma più curate, creative e in periferia: a Tor Bella Monaca, ad esempio, con i ragazzi del Cubo libro, e a Tor Pignattara, sotto l’acquedotto Alessandrino. Oppure al Pigneto, dove quelli del Forte Fanfulla hanno portato avanti nel tempo quanto cominciato da Giardinieri sovversivi, prendendosi cura di alcune aiuole, mentre i promotori di Fermento di terra hanno avviato un orto urbano. Come dire, la crepa aperta con rastrelli e bulbi ha generato in poco tempo un circuito virtuoso di relazioni sociali e di cura del territorio.

«A Corviale abbiamo scelto di seminare in un pezzo di prato accanto al parchetto giochi – dice Vanessa – Per i bambini e i loro nonni sarà più facile difendere e curare questo piccolo giardino. E lasceremo qualche cartello per raccontare chi e perché ha piantato questi fiori». Sulle panchine del parchetto, cioè due altalene e uno scivolo, sono seduti alcuni anziani. Anna ascolta la Titubanda e commenta: «Mai vista una cosa del genere. Neanche la parrocchia fa più qualcosa. Perfino la processione ora ha smesso di passare sotto i palazzi». Una ragazza intanto legge Apocalypse Baby di Virginie Despentes, noir on the road tutto al femminile ambientato tra le adolescenti e lo squallore di alcuni sobborghi della periferia parigina.

«Chi non ha una zappa a disposizione può sempre ballare oppure bere un bicchiere di vino rosso», dice una ragazza della Titubanda durante una sosta. «Una volta zappando abbiamo trovato un cellulare», racconta Mario, maglietta nera con il pugno verde disegnato sopra la scritta Giardinieri sovversivi. Isabella invece scatta qualche foto. Alcuni cani sdraiati, tra cui Petra, giardiniera sovversiva a quattro zampe, sembrano apprezzare la musica e la compagnia.

Sulla piccola staccionata di protezione del giardino, un paio di scritte colorate avvertono: «Tulipani», «I fiori non si rubano». A carponi, rovistando nella terra, i giardinieri, diversi per età e sensibilità culturali, si lasciano alle spalle il ritmo convulso della quotidianità moderna, il grigio delle periferie. Hanno trovato il tempo per conversare tra loro. Scrive Richard Reynolds, considerato uno dei promotori del movimento internazionale della guerrilla gardening: «Scavare l’uno accanto all’altro, mettere una pianta in un vaso, discutere la posizione dei fiori, condividere la scarsità delle cazzuole, sono compiti ordinari di giardinaggio che diventano occasioni di conversazione. E ragioni per ricomporre legami con le persone e con i luoghi in cui viviamo…». Giardini e relazioni diverse crescono lentamente insieme, lontano dalle logiche di mercato, perfino in periferia. Germogli di una città diversa.

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