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Periferie, nascono le prime start-up dell’amministrazione Sala

Sono 19 le attività che oggi accendono le luci da Greco al Corvetto, dalla Barona al Lorenteggio passando per la Bovisa e Bruzzano, grazie al sostegno dell’Amministrazione.
Milano crede nello sviluppo degli esercizi commerciali e dei servizi in periferia. Sono 19 le attività che oggi accendono le luci da Greco al Corvetto, dalla Barona al Lorenteggio passando per la Bovisa e Bruzzano, grazie al sostegno dell’Amministrazione che ha messo a disposizione dei nuovi progetti d’impresa circa 1,5 milioni di euro. Ad annunciarlo questa mattina, presso il nuovo “ciclo-spazio” di Turro, il sindaco Giuseppe Sala con l’assessore alle Politiche per il lavoro, Attività produttive e Commercio Cristina Tajani, affiancati da alcuni degli aspiranti imprenditori che hanno deciso di far nascere e crescere le loro attività nelle aree periferiche della città.

“Milano è una città vivace, che sa reinventarsi ogni giorno, che permette ai giovani imprenditori di sviluppare i propri sogni, le proprie idee. I 19 progetti che presentiamo oggi ne sono un esempio concreto: sono la migliore espressione della capacità di innovazione e dell’intraprendenza della nostra città e dei suoi cittadini. Puntare sulle start-up, investire su iniziative di valore nelle periferie, aiutare nuove imprese a farsi spazio sul mercato non è un atto estemporaneo, ma sarà un obiettivo costante di questa Amministrazione, perché Milano ha tutte le caratteristiche per diventare un punto di riferimento internazionale, anche in questo settore”, afferma il sindaco Giuseppe Sala.

“Con questi primi 19 progetti d’impresa vogliamo dare nuovo slancio alla riqualificazione di tante aree decentrate, sostenendo nuove aperture artigianali e commerciali di vicinato che per noi rappresenta il modo migliore di far tornare a vivere le vie e i quartieri della periferia”.

Così l’assessore alle Politiche per il Lavoro, Attività produttive e Commercio Cristina Tajani, che prosegue: “Da oggi inoltre avviamo un nuovo dialogo con MM per identificare i tanti spazi commerciali degli immobili del Comune che possono ospitare attività imprenditoriali contribuendo anche a sviluppare processi aggregativi e di socialità diffusa”.

Diciannove i progetti d’impresa selezionati tra le oltre 70 richieste pervenute all’Amministrazione.

Cinque gli ambiti in cui spazieranno le nuove attività: dalla ristorazione innovativa a quella rivisitata, passando dall’artigianato, sino ai servizi alla persona e allo sport. Tra i vincitori 12 sono donne e 7 uomini, l’80% è under 35 e molti di essi sono in possesso di laurea o diploma, oltre ad aver maturato esperienze lavorative precedenti in linea con il proprio percorso di studi per poi diventare imprenditori di se stessi. Tutti hanno frequentato il corso di avviamento alla gestione d’impresa realizzando un accurato business plan dell’iniziativa.

Nascono dunque nuove attività in periferia, come “C’è pasta per te” a Villapizzone, nata dalla volontà di due giovani laureati non solo di produrre e vendere il più amato alimento nazionale, la pasta fresca, ma anche divulgare i segreti dell’arte bianca con lezioni, incontri e corsi. Legate al cibo anche la “kebabberia gourmand” a Greco, realizzata con prodotti a km 0, e l’hamburgeria in Bicocca, dove gustare sapori esotici come carne di canguro, struzzo, asino e cavallo. Nel segno dell’etnico la proposta di una giovane camerunense in Corvetto, che delizierà i palati dei milanesi con gli insoliti sapori della frittura di platano e salse tipiche del Continente nero. Non può mancare lo street food di “Sfrigola” a Lorenteggio con frittura di prodotti ittici.

Spazio anche al design con chi reinventa l’attività di famiglia a Bruzzano: dai marmi funebri ai più moderni mobili da giardino e chaise longue, ovviamente in marmo.

E ancora, mentre a Corvetto un giovane realizza il suo sogno, rilevando l’attività del suo datore di lavoro e facendo sua l’officina dove ha appreso i segreti della meccanica e dei motori, in Barona nasce la sartoria “Punto e Croce”, che proviene da una precedente esperienza a sostegno della Croce Rossa per il reintegro lavorativo di donne in difficoltà.

A Turro, poi, sorge il primo “ciclo-spazio”: noleggio e riparazione di biciclette oltre a un bar e garden market su 1300 mq lungo la ciclopedonale della Martesana (gli altri dieci progetti sono descritti in allegato).

Tutti i progetti vincitori potranno contare su un finanziamento dell’Amministrazione pari al 50% dell’investimento (fino a un massimo di 50mila euro, 25% a fondo perduto e 25% a un tasso agevolato dello 0,5%), volto a coprire le spese come ad esempio il rinnovo dei locali, i canoni di locazione, l’acquisto di software gestionali, le spese sostenute per la comunicazione o per il pagamento delle utenze. Per i progetti che abbiano necessità di una facilitazione di accesso al credito per il restante 50% delle spese sarà possibile richiedere l’utilizzo del Fondo di Garanzia che consentirà alle imprese di essere facilitate nell’accesso a un ulteriore finanziamento bancario.

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“Noi viviamo in periferia”: racconti dalla Bovisa

Pubblichiamo l’intervista a Stefano Pellegrini, autore di un libro che fa riflettere ed anche sorridere su una delle periferie milanesi più degradate, ma anche più sorprendenti di Milano: la Bovisa!
Il giovane protagonista di “Noi viviamo in periferia – Tutto quello che mi serve veramente sapere l’ho imparato in Bovisa” racconta la sua quotidianità immerso nel ‘mondo parallelo’ della periferia milanese. Uno stile dal taglio ironico conduce il lettore attraverso aneddoti, pensieri e riflessioni; racconti di vita tra palazzi, asfalto, tram, negozi e locali. Integrato da fotografie della periferia urbana, regala una visione alternativa, un microcosmo quasi surreale nel quale immergersi in un connubio tra sorriso e riflessione.
Per saperne di più di questo libro abbiamo intervistato l’autore Stefano Pellegrini.
Perché con tanti quartieri che ci sono a Milano di più forte richiamo, hai deciso di scrivere questo libro proprio sulla Bovisa?
Perché è il quartiere in cui sono approdato. Sono capitato qua e ho visto una realtà inaspettata e per nulla raccontata, per cui essenzialmente ho pensato che fosse giunto il momento di raccontarla.
Ti ha sorpreso?
Sì, ho avuto la piacevole sorpresa di trovare una dimensione paesana pur mantenendo delle fortissime connotazioni di periferia: una dicotomia davvero interessante. Cerco di essere più “neutro” possibile quando racconto, limitandomi a vedere e raccontare ciò che vedo. Ora sto facendo tutto un lavoro sulle altre periferie (1) e sto mettendo alla prova la tesi del fatto che nelle periferie si può vivere bene. Ma non so dove mi porterà: potrei anche arrivare alla conclusione opposta a quella con cui sono partito.
Desidero essere aperto e disposto a cambiare idea ed evitare di bermi tutto ciò che mi raccontano gli altri. Però c’è da dire che una cosa che si dice sulle periferie è sicuramente vera: le periferie sono brutte, questo è indubbio! Ma qua è dove vivono le persone: la stragrande maggioranza delle persone residenti in città vive in periferia. I “posti veri” sono questi, non è il centro pettinato. Il centro è come la donna il sabato sera, tutta truccata, pettinata; la periferia è la donna la domenica mattina, quando la vedi senza trucco, senza artifici.
Cos’è che ti ha colpito maggiormente di questa realtà?
Le reti: mi è sembrato di cogliere qua e là delle quasi delle famiglie allargate. Ad esempio uno degli episodi che sicuramente ha portato alla nascita del libro, è stato la scoperta di quel macellaio là (mi indica una macelleria chiusa: è mezzanotte ndr.), dove un signore solo è stato “adottato” simbolicamente dalla coppia di simpatici titolari e dalla tintoria di fronte perché passa lì intere giornate da vent’anni. Nella mia visione del mondo una delle grosse differenze tra una città e un paese è quella che un paese ha tutta una serie di reti sociali che sostengono quelle che sono le persone un po’ più deboli ed io là ho riconosciuto una rete di questo tipo: una rete paesana all’interno di una città, in periferia!
Beh, parliamo di una realtà che effettivamente era un paese…
Ma questo è vero per tutte le periferie di Milano. Ho visto un’antica mappa di Milano, credo del 1400, dove la città era essenzialmente quello che oggi è il centro città, la zona 1 e tutto il resto erano borgate agricole. C’erano tutte: da Quarto Oggiaro a “Bouisa” ad Affori, etc. Poi Affori ho la sensazione che abbia mantenuto ancora di più il suo spirito paesano perché non era ancora comune di Milano fino a poco tempo fa. Mi hanno raccontato che Bovisa e Dergano erano e sono due quartieri gemelli, nel senso che se tu prendi una mappa non hai assolutamente la possibilità di tracciare un confine certo. Sfido chiunque a prendere una mappa e dire: qua finisce Dergano e inizia Bovisa! Erano dei quartieri quasi simbiotici, anche perché questo Bovisa era un quartiere industriale e Dergano era uno di spedizionieri: qui a Bovisa producevano e a Dergano spedivano la merce. Ma si prendevano anche a sassate e prendersi a sassate è tipico dei paesi confinanti.
Per quale ragione consiglieresti la lettura del tuo libro?
È un libro che si può leggere benissimo in bagno! Perché è composto da tanti brani brevi. Un po’ un libro-blog in realtà, un libro di cui puoi leggere un pezzetto ogni volta che vuoi. Essendo poi breve, con due sedute in bagno si riesce a leggere tranquillamente! Spero poi sia un libro divertente, che racconta il tentativo di vedere la bellezza e la magia nel proprio quotidiano, per scoprire ciò che di bello e magico hai sotto gli occhi tutti i giorni; che è poi anche la cosa che ho cercato di rubare dall’autore da cui ho plagiato il titolo, che è infatti un plagio clamoroso di: “Tutto quello che mi serve veramente sapere l’ho imparato all’asilo” di Robert Fulghum che ha un po’ questa visione del magico nel quotidiano, che secondo me è davvero una splendida lettura. Anzi consiglio a tutti caldamente di comprare questo libro piuttosto che il mio, perché è molto più bello! Pensa che la prima versione del libro era uscita con una dedica a Robert Fulghum, sperando che mi denunciasse, poi il mio editore mi ha persuaso a toglierla! C’è da aggiungere che, curiosamente, un 90% di tutti i brani di cui si compone il libro sono stati ispirati tra Piazza Schiavone e la stazione di Bovisa: circa 300 metri quadrati: uno spazio incredibilmente ristretto eppure ricco di storie.
Come mai hai pensato di fare una cosa di questo genere e scriverne un libro?
È stato un gioco. Ho cominciato a scrivere qualche pezzo senza nemmeno accorgermene e poi ho pensato che potesse venirne fuori un libro; all’epoca avevo un coinquilino napoletano (Giancarlo Mongelli, che ora vive a Berlino) che tra le altre cose faceva anche il fotografo, il pizzaiolo, l’operaio, più precisamente, come si definiva lui, il saldatore. Lavorava anche per una casa editrice, dove abbiamo stampato di domenica la prima copia del libro. Poi ne abbiamo stampate 30 copie, poi 100, e così via e le abbiamo portate al Libraccio di Bovisa. Ora ne porteremo altre copie in Isola, Giambellino, al Mamuska di Dergano.
Dall’interesse che ha suscitato il libro, sembra proprio che le persone vogliano saperne di più sul loro quartiere…
Sai racconto in maniera spero divertente e leggera quella che è la loro realtà con anche un altro modo per guardarla, credo sia normale che incuriosisca. Poi l’altra faccia della medaglia è la stranezza di uno che arriva qua da tutt’altra realtà e scrive un libro sulla Bovisa. È anche vero che mi sono capitate delle cose quasi imbarazzanti, quando ad esempio raccontavo del quartiere e davanti mi sono trovato dei settantenni che erano nati e cresciuti in Bovisa! Però quello forse, in realtà è stato il punto di forza del libro: cioè una persona che arrivava dall’esterno e che non sapeva niente e quindi non aveva pregiudizi. Probabilmente i settantenni sono più legati alla Bovisa che fu…poi io sono un pervertito e quindi per esempio mi guardo avanti e leggo: “Quisque faber est fortunae suae”, ovvero: “Ciò che uno fa crea la propria fortuna”.
Mi sono chiesto chi caspita fosse venuto in mente di scrivere una frase in latino in Piazza Schiavone (dove ci troviamo durante l’intervista, ndr)! Poi in questo muretto (mi indica un muretto di piazza Schiavone che diventa mano a mano più basso, ndr) c’era anche la frase del così chiamato “Ivan il poeta”, che diceva: “siamo tutti sullo stesso livello, ma il livello è in pendenza”, la mia chiave di lettura è che “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri (citazione tratta da “La fattoria degli animali” di George Orwell, ndr). Poi qualcun altro ci ha scritto sopra. In generale comunque sono una persona che ama osservare e scrivere ciò che vede, nulla di più di questo.
Parlaci del tuo lavoro con i Rom
Mi incuriosiva l’odio che numerose persone nutrono verso i Rom e se chiedi a qualcuno perché odia i Rom ti fa un elenco piuttosto nutrito ed anche in parte giustificabile, quasi fondato: ma è proprio qui che sorgono i dubbi perché capita sempre di parlare con qualcuno che ce l’ha con qualcun altro. Mi sorgeva spontanea una domanda: perché ce l’abbiamo tutti proprio con loro? Si dice che rubino ed in parte è vero, ma anche il tuo dentista quando non ti fa la fattura ti sta rubando, pure il Professore universitario quando manda l’assistente al posto suo a fare lezione sta rubando, però non nutriamo lo stesso tipo di odio. Per assurdo siamo più incazzati con i Rom che coi mafiosi! Da lì è partita l’idea di provare a capire le ragioni di quest’odio e approfondirle e così ho fatto un’intervista con Santino Spinelli, studioso e musicista Rom, che è nata dopo aver letto un suo libro molto interessante: “Rom, questi sconosciuti”. Gli ho chiesto se potevo intervistarlo e lui invece mi ha invitato a fare una presentazione insieme. È stata un’ottima occasione per approfondire ulteriormente la questione ed approcciarmi alla cosa in modo neutro.
Cosa hai imparato che non sapevi sui Rom?
Che i Rom vengono originariamente dall’India e che per loro lo spostarsi era ed è una forma di “difesa” rispetto ad una società che gli è sempre stata ostile. Ho anche scoperto che ci sono molte famiglie di origine Rom composte da gente che lavora a Milano da generazioni, intenta nelle professioni più disparate. Noi quando guardiamo i Rom vediamo forse solo quelli di recente migrazione che abbiamo sbattuto in posti dove non metteremmo a vivere altre persone e guarda caso quando crei un ghetto si crea un’economia di sussistenza e poi si dice che sia la cultura stessa dei Rom ad averla creata questa economia. Questa naturalmente è una mia personale riflessione e vorrebbe solo offrire un’altra chiave di lettura, nulla di più.
Cosa ti piacerebbe emergesse da questa nostra intervista?
Sai, la Bovisa era un quartiere operaio, con un esperimento sociale dato dal Politecnico che è stato un successo solo parziale, perché gli studenti, per la maggior parte, non vivono in Bovisa. Anche perché è così ben collegata che si spostano col treno o con la metro di Dergano. Questo flusso di studenti in transito ha favorito curiosamente la nascita di negozi (stamperie, paninoteche, etc.) che sono presenti solo lungo le strade che dal Politecnico portano alla Stazione di Bovisa e viceversa e solo in quelle due strade: via Candiani e via Andreoli. Ma se la Bovisa è un posto vivo, secondo me si deve anche e soprattutto ai “nuovi Italiani”: sono loro che l’hanno rivitalizzata. “Nuovi Italiani” è un termine che ho rubato dal Presidente canadese, che quando vivevo in Canada ho sentito parlare di “nuovi canadesi” riferendosi agli stranieri. Mi piace questo modo di definire gli stranieri perché penso che finché li chiami immigrati li allontani, se invece li definisci “nuovi Italiani” è tutto un altro discorso, perché li fai sentire accolti dal paese che li ospita. Dopotutto i loro figli parleranno molto probabilmente in dialetto milanese e abiteranno in una delle tante periferie di Milano, da cui nascono e nasceranno tante altre storie.
1. Ha infatti creato un blog che vuole essere un’ideale continuazione del libro, allargando il raggio, mettendo alla prova la tesi che si viva bene anche in altre periferie, magari anche più “malfate” di Bovisa, cercando di rispondere a questa ed altre domande: “è bello vivere a Quarto Oggiaro? C’è bellezza alla Barona?”, etc.

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Il caso Giambellino, la nuova etica delle periferie

Il Comune ha presentato un progetto impegnativo, ma i 4 mila abitanti del quartiere meriterebbero qualcosa di più: l‘impianto urbanistico del 1938 è esausto: bisognerebbe avere il coraggio di cancellarlo e di andare oltre il make-up stilistico di Maurizio De Caro shadow 2 3 2 Una nuova stagione per l’architettura sociale. Da oltre trent’anni il problema più spinoso nel restyling delle nostre città sono le famigerate periferie. Nate per insediare classi deboli nelle condizioni di passaggio dall’economia rurale a quella urbana, sono diventate, in mancanza decennale di manutenzione, monumenti desueti di una cultura dell’abitare ai limiti della dignità. Nonostante questa consolidata valutazione culturale, estetica e urbanistica, Milano ha sempre fatto un’enorme fatica a sostituire «pezzi di se stessa» altamente degradati, come se dovesse mantenere una memoria negativa di un’idea abitativa da neorealismo (e in effetti molti film sono stati girati in quei cortili). Le cause sono molte, e non soltanto economiche, ma anche di natura ideologica, concettuale o di semplice sottovalutazione del problema. Il quartiere Giambellino ad esempio non è un quartiere, è un mondo a parte; dai tardi anni 50 è stato abitato e attraversato dal Cerutti a Vallanzasca, dai fondatori delle Brigate Rosse a Battisti (Lucio), Berlusconi, Abatantuono e Gaber. Eliminate le contaminazioni romantiche potremmo considerarlo come possibile momento di elaborazione di una nuova etica urbana. La sfida è entusiasmante, il Comune ha presentato un progetto impegnativo e articolato, mentre Renzo Piano elaborava le sue pregnanti riflessioni col G124 (Giambellino 124). Ma ci permettiamo di far osservare che questi 4.000 abitanti meriterebbero qualcosa di più di un quartiere nuovo. L’impianto urbanistico del 1938 è a dir poco esausto, bisogna avere il coraggio politico di cancellarlo, andando oltre il make-up stilistico presentato recentemente. Un ambito urbano che è sempre stato rimosso dalle amministrazioni, un’enclave sociale marginale, addirittura misterioso, leggendario nella sua complessità umana. Guardare al Giambellino del futuro è come ricominciare a tessere la trama nuova della città, piuttosto che rammendarla, darne una visione originale e compatibile con le nuove esigenze abitative. Quel pezzo di passato può avere un cuore digitale e deve ambire a una luminosità progettuale come a dimostrare che là dove c’erano «gli ultimi» può nascere e consolidarsi un’idea nuova di residenzialità esente da retorica pauperista. Uno dei luoghi deputati a veder crescere la Milano del terzo millennio, più umana e contemporanea, perché finalmente la periferia possa diventare semplicemente città. Proviamoci.] Il caso Giambellino
La nuova etica delle periferie
Il Comune ha presentato un progetto impegnativo, ma i 4 mila abitanti del quartiere meriterebbero qualcosa di più: l‘impianto urbanistico del 1938 è esausto: bisognerebbe avere il coraggio di cancellarlo e di andare oltre il make-up stilistico.

Una nuova stagione per l’architettura sociale. Da oltre trent’anni il problema più spinoso nel restyling delle nostre città sono le famigerate periferie. Nate per insediare classi deboli nelle condizioni di passaggio dall’economia rurale a quella urbana, sono diventate, in mancanza decennale di manutenzione, monumenti desueti di una cultura dell’abitare ai limiti della dignità. Nonostante questa consolidata valutazione culturale, estetica e urbanistica, Milano ha sempre fatto un’enorme fatica a sostituire «pezzi di se stessa» altamente degradati, come se dovesse mantenere una memoria negativa di un’idea abitativa da neorealismo (e in effetti molti film sono stati girati in quei cortili). Le cause sono molte, e non soltanto economiche, ma anche di natura ideologica, concettuale o di semplice sottovalutazione del problema.

Il quartiere Giambellino ad esempio non è un quartiere, è un mondo a parte; dai tardi anni 50 è stato abitato e attraversato dal Cerutti a Vallanzasca, dai fondatori delle Brigate Rosse a Battisti (Lucio), Berlusconi, Abatantuono e Gaber. Eliminate le contaminazioni romantiche potremmo considerarlo come possibile momento di elaborazione di una nuova etica urbana. La sfida è entusiasmante, il Comune ha presentato un progetto impegnativo e articolato, mentre Renzo Piano elaborava le sue pregnanti riflessioni col G124 (Giambellino 124). Ma ci permettiamo di far osservare che questi 4.000 abitanti meriterebbero qualcosa di più di un quartiere nuovo. L’impianto urbanistico del 1938 è a dir poco esausto, bisogna avere il coraggio politico di cancellarlo, andando oltre il make-up stilistico presentato recentemente.

Un ambito urbano che è sempre stato rimosso dalle amministrazioni, un’enclave sociale marginale, addirittura misterioso, leggendario nella sua complessità umana. Guardare al Giambellino del futuro è come ricominciare a tessere la trama nuova della città, piuttosto che rammendarla, darne una visione originale e compatibile con le nuove esigenze abitative. Quel pezzo di passato può avere un cuore digitale e deve ambire a una luminosità progettuale come a dimostrare che là dove c’erano «gli ultimi» può nascere e consolidarsi un’idea nuova di residenzialità esente da retorica pauperista. Uno dei luoghi deputati a veder crescere la Milano del terzo millennio, più umana e contemporanea, perché finalmente la periferia possa diventare semplicemente città. Proviamoci.

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Dall’Unione Europea 36 milioni per lo sviluppo delle periferie

I fondi serviranno a promuovere qualità dell’abitare, mobilità dolce e informatizzazione dei quartieri. In via Pianell e De Lemene nasce l’hub dell’emergenza abitativa.
Trentasei milioni di euro per lo sviluppo urbano sostenibile delle periferie milanese: sono i fondi stanziati dalla Unione europea che Milano si è aggiudicata, come altre città metropolitane. Il fondo (Pon Metro) servirà a promuovere la qualità dell’abitare, la mobilità dolce, la valorizzazione sociale degli spazi e l’informatizzazione. Per fare qualche esempio, rientra nel pacchetto la creazione di una pista ciclabile da piazza Sempione a piazza Firenze, l’ampliamento della rete di stazioni di bike sharing, l’installazione di pali della luce «intelligenti» (utili anche per la ricarica delle auto elettriche o di pc e cellulari), ma anche le azioni di contrasto alla povertà abitativa, i servizi per l’inclusione dei senza dimora, la creazione di quartieri web (con tecnologie per la trasparenza e il controllo a favore degli inquilini delle case popolari).
Ad illustrare l’acquisizione dei fondi europei gli assessori Benelli, Majorino, Tajani e Maran. «È la prima volta che fondi europei arrivano direttamente ai comuni metropolitani senza passare dalle Regioni – ha spiegato Daniela Benelli -. Questi comuni vengono identificati come territori chiave per la crescita e lo sviluppo. Abbiamo deciso di destinare queste risorse ai quartieri periferici lasciando una eredità importante alla città e alla prossima amministrazione».

La fetta più consistente del fondo va al capitolo «Abitare»: 10 milioni e 265 mila euro. Verranno ristrutturatiti gli stabili di via Pianell e De Lemene oggi inutilizzati: il primo sarà l’hub dell’emergenza abitativa con residenze transitorie per famiglie sfrattate e in situazioni di disagio. Il secondo ad uso residenziale. Così le portinerie vuote degli stabili Erp comunali saranno restituite all’uso degli inquilini. Un altro esempio, per il capitolo «innovazione e agenda digital», sarà la ristrutturazione di uno spazio pubblico di 1.000 metri quadrati al Lorenteggio, dotato di beni e tecnologie: «Un luogo fisico di inclusione sociale», ha aggiunto Cristina Tajani. I fondi saranno destinati così alla riqualificazione di spazi in disuso, che saranno riassegnati per attività sociali, culturali, di accoglienza e inclusione. «L’azione sarà rivolta a chi vive in condizioni di grave emarginazione, come i senzatetto e le persone con disabilità motoria e sensoriale e gli anziani – ha concluso Pierfrancesco Majorino -. Nel programma c’è anche la ristrutturazione di appartamenti confiscati alla mafia, per l’avvio di sperimentazioni di avvio all’autonomia. Ma vogliamo anche adeguare alloggi comunali perché siano pienamente accessibili e dotati degli apparecchi che consentano libertà di movimento e una vita più autonoma»

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Abitare è un gesto politico e le città si cambiano raccontandole diversamente

Via Padova, Giambellino, Quarto Oggiaro: per lo scrittore e architetto milanese Gianni Biondillo i “quartieri difficili” di Milano non sono paragonabili ai quartieri ghetto del Belgio e della Francia: «Abbiamo fatto le cose all’italiana, paradossalmente è per questo che ci salviamo».

Architetto, narratore, nato e cresciuto a Quarto Oggiaro, tra gli organizzatori di Sentieri Metropolitani, un programma di camminate di riscoperta cittadina, Gianni Biondillo è probabilmente la persona migliore, a Milano, con cui discutere di periferie e il salotto di casa sua, una vecchia casa di ringhiera all’inizio di via Padova, è il luogo perfetto per cominciare.

«Le case di ringhiera servivano per garantire la massima resa in un minimo spazio», ci racconta, «ma anche per cercare, sotto la spinta di un’idea architettonica positivista, di gestire l’igiene cittadina in un contesto di massiccio aumento della popolazione. Poi, un po’ per questioni di estrazione sociale, un po’ per condizioni tipologiche dell’edificio si erano create in quegli edifici delle aggregazioni sociali e dei sistemi di comunità molto interessanti.

Non c’era dietro un ragionamento di architettura sociale o un tentativo di costruire un nuovo tessuto sociale inclusivo per i nuovi abitanti di Milano che ci venivano a vivere quindi?
No, non credo proprio. E infatti, quegli stessi edifici, oggi abitati da classi sociali diverse, non hanno portato alla stessa dinamica di inclusività sociale. Tutt’altro: i cortili si sono svuotati dei bambini che ci giocavano, le porte sono blindate, è tutto pulitissimo, perfetto, e nessuno sta più sui ballatoi, perché ormai quelli che erano piccoli bilocali si sono trasformati, per fusione tra loro, in loft enormi con l’aria condizionata. Questo dimostra come la tipologia di una abitazione non sia sufficiente a innescare dinamiche inclusive di comunità.

Da quanto vivi in via Padova? Come mai hai scelto questo quartiere?
La mia scelta di abitare in via Padova è stata una scelta politica. Ci siamo trasferiti qui quando De Corato aveva istituito il coprifuoco, nel 2010, in seguito a una storia di omicidio che, così come ce lo avevano raccontato, aveva visto protagonisti due immigrati che abitavano in via Padova, salvo poi risultare che né la vittima né l’assassino abitavano qui. Avevano bisogno di fare del terrorismo psicologico, avevano bisogno di una storia da raccontare per stigmatizzare questo quartiere. È stato per quello che in quel momento abbiamo deciso di venire a vivere qui. E oggi che sono passati ormai sei anni sono contentissimo della scelta.

Perché?
Perché non è affatto vero che questo è un quartiere pericoloso, per prima cosa. E poi perché è un quartiere vivo, dinamico, ricco. Guarda solo questo cortile, è ricchissimo: c’è una famiglia albanese, una srilanchese qua sotto, una peruviana, una cubana, più in là ci sono anche delle prostitute ucraine. Questo quartiere è perfetto per la gentrificazione e in effetti sta accadendo, il processo si è innescato, perché Via Padova è un luogo che ha una qualità urbana altissima.

Hai parlato di gentrificazione, una parola molto usata negli ultimi anni, che dinamica identifica?
La gentrificazione è una dinamica tipica delle metropoli e seppur sia una parola abusata, in realtà la dinamica che le soggiace è complessa. Coinvolge quartieri che per ragioni storiche o topografiche non sono appetibili per le fasce sociali più ricche, ma che a un certo punto si trasformano. Succede che, a causa dei prezzi bassi, arriva nel quartiere una nuova tipologia di persone con spazi mentali differenti, artisti, intellettuali, studenti. A quel punto la gentrificazione è partita, i prezzi cominciano piano piano a salire, il quartiere diventa attrattivo, vitale e dinamico, attira attività commerciali e, nel giro di un po’ di anni, passa dall’essere iperpopolare all’essere esclusivo. Questo è quello che è successo a Brera negli anni Sessanta, ma anche, più recentemente, all’Isola.

Perché via Padova, come altre periferie di Milano, è considerata da tanti come un posto pericoloso, una cosiddetta “periferia a rischio”?
C’entra l’ignoranza, ma anche il racconto che ne fai. Pensa che sono andato qualche mese fa a Londra, nei quartieri più etnici, quelli che si celebrano per i mercati di cianfrusaglie, di vestiti a poco prezzo, di street food. Mi sono guardato intorno e ho pensato: “Ma questa è via Padova”. È un po’ ridicolo pensare che le stesse tipologie di luoghi, a Londra li consideriamo attraenti e particolari, mentre qui a Milano li consideriamo pericolosi.

E qual è la differenza?
Come la racconti.

Ovvero?
Prima di tutto permettimi di dire che, quando si parla di periferie, io metto mano alla pistola.

Perché?
Perché le periferie non esistono e perché ognuno di questi luoghi ha una sua storia specifica, un suo sviluppo, un suo modo di essere che li rendono non paragonabili tra loro. Non si può confrontare via Padova con il Giambellino, o il Giambellino con Quarto Oggiaro. Hanno distanze differenti, hanno origini diverse e abitanti diversi. Chi le considera tutte uguali evidentemente non è mai uscito dal suo quartierino borghese e pensa che, appena fuori dal centro storico, sia un grande Hic sunt leones, popolato da mostri con tre teste e sei braccia. È gente che va a fare shopping milionario in via Montenapoleone, senza sapere che un secolo fa era la zona più malfamata di Milano. La cosa di cui possiamo ridere è che i nipoti di questa gente probabilmente compreranno proprio queste case, una volta che la gentrificazione sarà completata.

Che storia ha questo quartiere?
Via Padova ha sempre avuto come vocazione l’accoglienza della gente che arrivava in città. Prima degli immigrati stranieri di oggi e prima ancora di quelli meridionali degli anni Cinquanta, quelli che venivano da Est, soprattutto dal Veneto, la regione più povera d’Italia alla fine dell’Ottocento, si fermavano qui in via Padova. Era la strada che portava alla dogana di porta Venezia. Sempre su questa via, ma in fondo, a Cascina Gobba, c’era la cosiddetta Corte d’America, un cortile dove ci si ritrovava per prepararsi a emigrare in America.

Poi cosa è successo?
Negli anni successivi, anche le altre ondate di migranti sono state accolte da questa via, che ha mantenuto una vitalità molto forte e che, soprattutto in questi ultimi anni, non è affatto un posto pericoloso. È una via dove la sera la gente cammina, mentre nel centro storico, la sera, non ci cammina nessuno.

Perché in centro non ci abita più nessuno?
Perché c’è stato un cambio di funzione, ma soprattutto un mare di investimenti da parte di banche che hanno comprato migliaia di immobili.

Qual è la specificità di via Padova?
Via Padova è lunga 4 chilometri e mezzo, non si può pensare che sia un quartiere omogeno. E infatti è un quartiere fatto a macchie, perché la nuova immigrazione è arrivata in maniera maculare.

Cosa significa?
Le prime ondate di immigrazione erano state gestite politicamente da una città che aveva molti più soldi e aveva costruito appartamenti, servizi. Certo, con tutti i problemi del caso, visto che spesso erano quartieri difficili come Quarto Oggiaro, quello dove sono cresciuto io, ma pur essendo “quartieri dormitorio” costruiti per accogliere i lavoratori delle fabbriche, in fondo hanno retto.

Perché?
Perché tutti avevano una casa, in fondo. Tutti sono riusciti ad andare a scuola, hanno avuto accesso ai servizi. E c’era un tessuto sociale.

Cosa è cambiato ora?
All’epoca c’erano le sedi di partito, le case del popolo, gli oratori che erano dei presidi territoriali impressionanti — e la Chiesa, bisogna dirlo, è tuttora un’istituzione che si sobbarca molti degli sforzi di accoglienza — e poi le fabbriche, che sapevano costruire un tessuto sociale. Tutto ciò è sparito ora.

E quindi?
E quindi la nuova immigrazione, quella degli ultimi vent’anni, non è stata gestita per niente dalla politica, che ha lasciato che il mercato risolvesse il problema. Ma il mercato non ha il dovere, come la politica, di essere etico, il mercato cerca il profitto e quindi i nuovi arrivati si sono stabiliti in città a macchie, senza un ordine o un disegno preciso. E infatti questa nuova immigrazione non si è vista nei palazzi, non è stata una variazione topologica, è stata una variazione antropologica: sono cambiate le facce, i sapori, i colori, non i palazzi. L’ultimo cambiamento topografico di Milano, quello che ha coinvolto quartieri e palazzi, ha origini completamente diverse, private, commerciali e di investimento. E infatti tutte le nuove case che abbiamo costruito negli ultimi anni sono quelle che hanno ridisegnato lo skyline del centro, come il Bosco Verticale, case che costano più di 10mila euro al metro quadro, stiamo costruendo grattacieli. E i soldi vengono dalla Russia, dai paesi del Golfo, dalla Cina.

Eppure negli ultimi mesi quartieri-ghetto come Molenbeek a Bruxelles si sono rivelati essere molto pericolosi…
Io faccio di cognome Biondillo e sono figlio di un campano e di una siciliana, quindi il classico figlio del boom economico. Sono nato a Milano da due genitori che sono venuti a Milano, che si sono conosciuti a Milano e sono milanese fino al midollo, e quando vedo che i compagni di classe stranieri delle mie figlie vengono identificati come immigrati di seconda generazione mi viene da ridere. È come se io venissi definito come meridionale di seconda generazione. È ridicolo. E così capisci che spesso i ghetti sono definizioni, parole, racconti. I ghetti iniziano nella testa. Il problema è che a un certo punto diventano reali e generano quello che abbiamo visto a Bruxelles, o qualche anno fa a Parigi.

I nostri quartieri “difficili” sono paragonabili a quelli? Secondo c’è il rischio che via Padova diventi la Molenbeek italiana?
No, per niente. Sono contesti decisamente diversi. Ed è proprio la macularità che ci “salva” da quella situazione.

Ovvero?
La nuova immigrazione in Italia non ha avuto una gestione politica dal punto di vista dell’emergenza abitativa. E quindi si è infilata dove le è capitato. A macchie. Non ha formato quartieri ghetto, anche se ha generato tantissime situazioni di degrado sociale. Quindi, proprio per questa capacità tutta italiana di fare le cose a caso, senza programmare e senza pensare al lungo periodo, ci siamo ritrovati con una situazione molto meno esplosiva di quella francese o di quella belga. In quei paesi la struttura centralista è molto forte e il centro comanda per davvero, i quartieri sono etnicizzati — c’è il quartiere dei filippini, quello dei maghrebini, quello dei pakistani — è una vera e propria ghettizzazione.

E a Milano?
A Milano, dove questa cosa non è successa se non in Paolo Sarpi, i quartieri sono veramente multiculturali. E basta fare un giro in via Padova, per esempio, per notare facce di tutti i paesi: indiani, maghrebini, africani, cinesi, slavi, russi, sudamericani e così via. Perché ti faccio questo discorso? Perché è vero che non abbiamo il mix sociale, ma abbiamo il mix etnico e in un momento come questo io credo che sia un bene, perchè stiamo mettendo le basi di una società più meticcia, più dinamica, e in fondo più sana. Non è un caso che siano proprio i quartieri monoetnici, i ghetti come Molenbeek a Bruxelles, quelli dove cresce il disagio sociale e, con lui, i giovani terroristi. In un pezzo che scrissi una decina di anni fa, raccolto in Metropoli per principianti, affrontavo il tema delle cosiddette periferie in fiamme, che all’epoca erano le banlieue parigine. All’epoca in molti mi chiedevano di intervenire sull’argomento e chiedevano quasi tutti se avremmo dovuto aspettarcele anche qui da noi quelle rivolte. Io rispondevo e rispondo ancora che no, che quelli che incendiavano le banlieue francesi erano quelli che vengono chiamati impropriamente immigrati di “seconda generazione”, e che spesso addirittura di terza.

Perché impropriamente?
Perché quelli erano francesi come io sono milanese. Avevano passaporti francesi, erano nati sul suolo francese, avevano frequentato le scuole francesi e che in quel momento dalla Francia non ricevevano nulla, neppure il riconoscimento linguistico di essere cittadini. E se i loro genitori o i loro nonni questa cosa l’avevana accettata, questi ragazzi non la accettavano più e protestavano.

Cosa è cambiato da allora?
In realtà molto poco. E infatti gli attentatori di Parigi e di Bruxelles non erano siriani o iracheni o sauditi. Erano di Molenbeek, erano di Bruxelles. È gente che non è cresciuta in moschea, ma in strada, nei bar, a fumare canne, bere birre e giocare alla playstation. Sono dei disadattati. Questi ragazzi quando le banlieue scoppiavano erano bambini, ora sono cresciuti e non li abbiamo saputi includere nella società e questa è la reazione. Purtroppo si è verificato quello che dicevo all’epoca: se saremo bravi sapremo gestire il cambiamento, scrivevo, se non lo saremo il cambiamento ci gestirà. In Francia e in Belgio è andata così, per noi è stato meno traumatico proprio per quel modo all’italiana — che René Ferretti direbbe alla cazzo di cane — con cui facciamo tutto in questo paese e che, almeno in questo caso, ci ha riparato dalla ghettizzazione etnica. Certo, probabilmente abbiamo creato una ghettizzazione sociale, di classe, ma, almeno per ora, è una aggregazione meno esplosiva. Non possiamo escludere che lo sarà tra qualche anno, ma non ora.

All’inizio dell’intervista hai detto che le periferie non esistono. Che cosa intendi dire?
Che quando parliamo di via Padova o del Giambellino, anche se abbiamo in mente il Cerutti Gino di Gaber, non stiamo parlando di periferie di Milano. La metropoli milanese ormai non è più quella del Comune, quella nata dall’allargamento degli anni Venti. La metropoli di Milano parte da Novara e arriva a Bergamo, ma anche a Lugano e a Genova. Ormai è un’area metropolitana che è extra cittadina, ma anche extra provincia, extra regione e extra nazione. In un certo senso anche Courmayeur è un quartiere di Milano, non si chiama Nolo, ma Curma. Come Santa, per Santa Margherita. Questa metropoli che abitiamo ha 6 milioni abitanti e se stiamo ancora qui a dire che Giambellino o Lambrate sono in periferia io mi lancio per terra e mi sbellico dalle risate. Questi quartieri sono nel centro più assoluto della città. E quando Renzo Piano, persona che stimo e conosco, fa un discorso intelligente come quello del rammendo delle periferie, ma lo fa sul Giambellino, a me fa tenerezza. Mi fa tenerezza perché il Giambellino è sì un quartiere popolare, ha sì le sue criticità, ma ha una identità talmente forte che è quello che ha meno problemi. I quartieri problematici di Milano sono il continuum di villette monofamiliari della Brianza o nelle aree residenziali dell’hinterland milanese, è lì che devi costruire una nuova narrazione perché è quella che è la nuova fabbrica dell’infelicità.

Cosa credi che si debba fare praticamente per cambiare?
Nel 2009 ho fatto con Michele Molina il giro delle tangenziali di Milano. Bene, quelle non sono più tangenziali. Quelle formano la circonvallazione più esterna della città. È quella l’unità di misura che dobbiamo avere in mente, perché la città consolidata arriva fino a lì. Dobbiamo lavorare su questa scala dimensionale, favorire la mobilità veloce pubblica e la mobilità dolce privata (piedi e bicicletta), ma soprattutto abbattere l’uso della macchina e della mobilità privata. A tutti i costi, perché è quella che ci sta uccidendo tutti. Il centro di Milano è una città piccolissima, si può attraversare a piedi. E poi, ripeto, la chiave è tutta nelle narrazioni. E ci sta aiutando anche il web. Paradossalmente anche Facebook, dove si moltiplicano le pagine “identitarie” dei quartieri di Milano, come Sentieri Metropolitani, Milano Sparita, o anche come l’ultima arrivata Yolo in Nolo, e che ha lanciato una nuova etichetta per questo quartiere, un’etichetta che funziona e che sta girando, ma che soprattutto sta dando una nuova narrazione a questa area. Una narrazione che nasce virtuale su internet, ma che si fa fisica, che esce in strada, negli eventi, nelle gallerie, nei mercati. È anche così che si cambiano i quartieri.

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Immigrazione e periferie, nei quartieri di Milano arrivano gli psicologi di strada

Il piano parte dal quartiere con più alta densità di stranieri. L’obiettivo è sviluppare nuovi modelli di integrazione e gestire potenziali tensioni.
Una squadra di psicologi “di strada” per intercettare bisogni e problemi di chi vive in via Padova, il quartiere più multietnico della città. La proposta è dell’Ordine degli psicologi e ha avuto il finanziamento del consiglio di Zona 2. Per tre mesi un gruppo di esperti parlerà con i cittadini e con i rappresentanti delle comunità straniere e delle associazioni di volontariato. Al termine di questi incontri e dialoghi a più voci, si cercherà di fare una mappa dei temi da approfondire e anche una prima proposta di iniziative per far fronte ai disagi che potranno emergere nei colloqui.

Il piano che parte dal quartiere con più alta densità di immigrati in realtà è stato pensato per tutte le periferie milanesi, “luoghi in cui, ogni giorno, la contaminazione tra idee, nazionalità, costumi e religioni si traduce in opportunità per lo sviluppo di nuovi modelli di integrazione e in potenziali tensioni da gestire, anche sul piano del benessere mentale”, spiegano all’Ordine degli Psicologi della Lombardia che ha in mente un approccio nuovo di lavoro, col metodo della prossimità ai cittadini e della presenza capillare, concreta, in sinergia con i consigli di Zona, che sono poi i terminali dell’istituzione locale dove la gente va a presentare le sue richieste e doglianze.

Gli psicologi sonderanno bene la zona attorno al Parco Trotter, luogo di ritrovo delle famiglie con i bambini, ma anche dei giovani delle comunità sudamericane. “Crediamo che iniziative di welfare integrativo reale possano e debbano nascere a partire dalla comune volontà di depositare piccoli semi, anche economici, in grado però di far sbocciare grandi cambiamenti nel vissuto delle famiglie, delle comunità, dei quartieri – dice Riccardo Bettiga, presidente dell’Ordine – Le periferie metropolitane possono essere straordinari laboratori, in cui realizzare progettualità inedite, immaginare risposte nuove a nuove esigenze, incrociare energie e far crescere idee”.

Quello della “Psicologia di Zona” è uno dei progetti all’interno della piattaforma generale per una “psicologia sul territorio della città”, con cui gli psicologi si sono offerti di presidiare e dare attenzione alle zone più decentrate della città di Milano, in collaborazione col Comune e le zone. “L’obiettivo è quello di
comprendere e rispondere in modo sempre più articolato ai bisogni di cura e di benessere mentale dei cittadini invitati a partecipare a gruppi di discussione e a immaginare soluzioni tutti assieme”, conclude Bettiga. La logica è quella della prevenzione dello scontro sociale con l’ascolto e con le risposte concrete a problemi che magari non sono di grande entità: questioni di normale convivenza in un territorio delicato per mescolanza etnica, religiosa e culturale.

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A Milano c’è il festival lento delle periferie

È iniziato lo scorso dicembre il ricco programma del collettivo TumbTumb per narrare e valorizzare pratiche e realtà attive nelle periferie milanesi. Un attento lavoro sul campo, scandito da esplorazioni, progetti e una grande festa nell’estate 2017. Che promuove la cultura come motore sociale.
RENZI, LA SICUREZZA E LA CULTURA
All’indomani degli attacchi di Parigi il premier Renzi, al motto “per ogni euro in più investito in sicurezza, uno in cultura”, stanziava 500 milioni per la “riqualificazione delle aree degradate”.
Mentre la destinazione del fondo alimenta il dibattito sulle modalità di intervento nei territori marginali delle città, siamo andati a Milano, a incontrare chi su periferie e cultura già da tempo lavora. Con passione, professionalità e costanza.

LA PERIFERIA AL DI LÀ DEGLI STEREOTIPI
Con l’intento di dare forma narrativa a vitalità e potenzialità delle periferie milanesi, Federica Verona, da “un’idea nata a tavola” con Gianmaria Sforza, ha riunito architetti, designer, antropologi, sociologi, artisti, esperti del mondo teatrale, grafici e sportivi nell’associazione culturale TumbTumb.
Da questo eterogeneo gruppo di professionisti appassionati alla città è nato SUPER – il festival delle periferie a Milano: un programma multidisciplinare che coniuga l’analisi con l’azione, la documentazione con la produzione. Preferendo alla formula dell’evento quella di un lento percorso: due anni – da dicembre 2015 all’estate 2017 – scanditi in tre tappe, in cui approfondire, interagire e restituire.
UN RACCONTO IN TRE ATTI
I Tour inaugurano il racconto del territorio. Fino alla prossima estate, due esplorazioni al mese – rigorosamente a piedi o con i mezzi pubblici – alla scoperta di pratiche, associazioni e realtà attive nei quartieri ai margini della città. “Gli incontri”, spiega Federica Verona, “sono la struttura portante del festival. Perché, se si vuole parlare delle periferie, bisogna partire dalla loro conoscenza”. Condivisi sul web con immagini, video e parole, raccontano di biblioteche che si aprono a nuovi servizi, tipografie che ospitano workshop, orti urbani e skatepark. Sorprendenti luoghi di socialità, mestieri reinventati, nuovi divertimenti frutto, il più delle volte, di piccoli investimenti e notevoli intuizioni creative.
Conclusi i tour, il diario di viaggio virtuale diventerà un libro auto-prodotto: un dettagliato archivio di buone pratiche, a portata di mano per la seconda tappa del festival. Dal prossimo autunno ogni socio di TumbTumb curerà infatti uno specifico progetto. Perché, come sottolinea Verona, “non vogliamo limitarci a leggere e raccontare il territorio, ma provare a lavorarci, attivando forme di interazione con ciò che abbiamo scoperto. Provando a gettare dei semi che diventino qualcosa che continua. Indipendentemente da noi”.
Diversi per tema – dalla letteratura al teatro, dalla fotografia alla performance, dal lavoro al tempo libero – i progetti vogliono valorizzare, riattivare o mettere in rete l’esistente. Sperimentando nuove formule – come nel caso del tutorial fotografico di Filippo Romano per creare un network di narratori on site – o esportando format altrove consolidati – come Cortili Letterari, festival di autori under 35 avviato a Fano, con cui Elisa Sabatinelli aprirà al pubblico le corti private.
Sotto forma di prodotti editoriali, mostre, spettacoli e installazioni, i risultati dei progetti saranno poi messi in scena nella tappa conclusiva del 2017: “Una grande festa in cui mettere a sistema l’archivio web che stiamo costruendo, i progetti di Super, la rete formata attraverso i tour e confrontarsi con analoghe realtà estere”.
OLTRE IL RAMMENDO
In un dibattito fatto di numeri, nuove costruzioni, ricuciture puntuali, Super parla di persone, attività, sinergie. Un potente cambio di prospettiva, in cui le periferie da stereotipati “contenitori del disagio” si scoprono territori ricchi di risorse; la cultura, anziché mix di funzioni calate dall’alto, attivando interazioni fra realtà esistenti diventa “motore di cambiamento sociale”.
A fronte di cattedrali nel deserto e viadotti green abbandonati, un invito a posare ago e filo, alzarsi dalla scrivania ed entrare a guardare. Per poi pazientemente tessere reti.

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Perché la marcia di Milano è una buona notizia per Corviale e per tutte le periferie

La reazione dei milanesi ai fatti del 1° maggio ha suscitato tanti commenti.
Proviamo a leggerli, con un po’ di forzatura, dal punto di vista di Corviale e di tutte le periferie.
Cominciamo senza dubbi da Stefano Boeri che già nel titolo (“Prova di forza, ora la camminata riparta dalle periferie”) su Repubblica lega i fatti alle periferie: “corteo, composto da una somma di individui ognuno con la sua cultura, la sua etica, la sua passione, ma tutti riuniti in un atto civile di riappropriazione della città (…) come il prodotto di migliaia di individualità che condividono il senso di appartenenza a una comunità (…) una città che conserva la memoria ma è proiettata al futuro (…).che (…) debba estendersi alle periferie” (1)

Ma è interessante anche il commento mediatico di Aldo Grasso (2) sugli “effetti perversi” della comunicazione (effetti su cui noi di Corviale Domani siamo maestri essendo riusciti a rovesciare in positivo il brand negativo di Corviale): “Le immagini che in questi giorni i media hanno dato dell’Expo sono immagini di speranza (…) Le immagini assumono il ruolo che un tempo era affidato alla memoria. Fissano l’apparenza degli eventi”.

E allora pensiamo, insieme a Mauro Calabresi sulla Stampa, che “sta accadendo qualcosa (…) stanchezza verso l’idea che si debba sempre dire no (…) c’è un momento in cui ci si rende conto (…) che dipende anche da noi, da quello che saremo capaci di fare, dalla quantità di innovazione e cambiamento che riusciremo a mettere in circolo (…) Credo che il Paese sia a un nuovo punto di svolta (…) la nostra voglia di vivere, di non arrenderci.” (3)
Non sappiamo se questo sentimento sia la nostalgia di cui parla della Loggia: “Nostalgici (…) dello Stato. Inteso (…) come (…) insieme di organi e di funzioni di controllo e di vigilanza, preziosi al centro come nelle periferie. Nostalgici di quello Stato (…) che non aveva ancora deposto quasi per intero la sua sovranità (…) ai voleri di qualche capetto dei «territori» (…) conservare le nostre città: (…) senza (…) la scomparsa dalle vie di barbieri e di fiorai, di ciabattini e librerie. Conservare i paesi (…) con gli uffici postali, le stazioni ferroviarie, i palazzi e le opere d’arte: quel paesaggio, quelle forme di vita che legano tanti di noi al passato (…) vivo e vitale del Paese (…) una considerazione nuova per i valori della coesione collettiva” (4)
Quel senso della comunità che noi siamo riusciti a far risorgere a Corviale e che ci permette di essere un esempio di rinascita per tutte le periferie partendo dall’analisi di Stefano Rodotà che in “Cittadini” (5) su Repubblica definisce “La città (…) il luogo dove in modo più marcato compare (…) la differenza nei diritti” per proporci di “chiedersi in che modo si possa tornare (…) ad un governo della città nel quale i cittadini possano ritenersi coinvolti” creando quel “modello (…) di collaborazione tra cittadini e comuni «per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani»” che stiamo producendo col nostro partenariato multidisciplinare pubblico-privato per la rigenerazione urbana di Corviale.
(1) Prova di forza, ora la camminata riparta dalle periferie

(2) Gli «effetti perversi» della diretta video che ha finito per isolare i violenti in Corriere della sera del 4/5/15

(3) La rivincita del Paese che dice “sì”

(4) Nostalgia di un’Italia diversa

(5) Repubblica 6/5/15




Milano riempie case e negozi vuoti: 300 spazi cambiano vita e vengono assegnati ai giovani

spaziLa mappa delle proprietà riassegnate dal Comune. Nascono social market, si creano spazi per le start up e perfino per una ciclofficina. L’assessore Benelli: “La nostra missione è trasformare le situazioni”

In via Leoncavallo 12 meno di dieci anni fa si organizzava il traffico di droga tra Milano e Palermo. Da oltre un anno è qui che l’associazione Terza settimana gestisce il primo social market della città, con pane e latte a prezzi scontati, se non gratis per chi ha serie difficoltà economiche. I passaggi: un bene confiscato alla mafia, convertito al sociale dal Comune una volta che ne ha potuto disporre, una nuova vita. Welfare ma anche cultura. In via Val Trompia 45, a Quarto Oggiaro, in uno spazio vuoto è nato Fabriq, un incubatore dedicato all’innovazione, con 15 start up, dietro ciascuna un’idea imprenditoriale da coltivare.

È la strada della rinascita degli spazi pubblici della città: dall’inizio del mandato, in tre anni, la giunta Pisapia ha riassegnato oltre 300 sue proprietà ad associazioni già strutturate ma anche a piccole cooperative di varia natura. Erano edifici vuoti o dismessi, ora sono già vivi o con un progetto avviato da sviluppare. Il percorso non è ancora finito, la strada è lunga. Ci sono grandi ferite da risanare, le Scuderie De Montel a San Siro e l’ex Marchiondi a Baggio sono solo due casi di un futuro che oggi, difficilmente, si intravede. Ma l’obiettivo è ambizioso: entro la fine del mandato l’amministrazione punta a completare la missione riempiendo di idee e persone le altre decine di luoghi ancora senz’anima della città.

La politica negli ultimi anni in questo settore si è evoluta. Una necessità per andare incontro alla fame di spazi che in città è un’esigenza insaziabile. Così, si sono cambiati approccio e regole: si punta meno sull’anzianità delle associazioni che si fanno avanti e più sul progetto che c’è dietro, e che deve tenere conto della storia di quel luogo, delle necessità di chi lo vive, dei progetti sociali o turistici che possono trovare lì una casa. E ancora dove si può si abbattono gli affitti, chi ristruttura spesso non paga il canone per un certo periodo, ci sono regole più semplici con bandi aperti spesso anche alle associazioni ancora in fase di costituzione. E la risposta della città è stata talvolta entusiasta. Al bando ‘Fatevi spazio’, che assegna 23 locali ad associazioni, chiuso da poco, le proposte arrivate sono state 130 e 650 i sopralluoghi effettuati. Segno che un interesse della città, da intercettare, c’è.

Dopo mesi di lavoro tra vari assessorati comunali, oggi la mappa degli spazi comunali disponibili con i relativi piani di riutilizzo è pronta, il Comune l’ha pubblicata online. Ci sono i 45 progetti socioculturali (che con ‘Fatevi Spazio’ saranno 70), come il primo albergo sociale nell’ex scuola di via Mambretti e la Casa dei diritti di via De Amicis. Ci sono i 100 beni confiscati alle mafie, trasferiti dallo Stato al Comune, che stanno riaprendo gradualmente. E poi la novità di start up e incubatori, realtà sorte da bandi come ‘Risorse in periferia’ e ‘Tira su la clèr’, che hanno dato un indirizzo e risorse a nuove aziende aperte in periferia, col doppio intento di riaprire le porte a strutture dimenticate e di rivitalizzare i quartieri più decentrati.

Anche con le cascine l’assessorato all’Urbanistica sta provando una strada simile, promuovendo il recupero di quelle più storiche come la Monluè, sede oggi di attività culturali e di accoglienza. E ancora sono promossi gli spazi di socialità per i quartieri, punti di ritrovo per i residenti delle zone popolari. Anche il verde è un futuro possibile: tra i giardini condivisi che hanno preso il posto del nulla ci sono quello dedicato a Lea Garofalo a Porta Volta o l’Isola Pepe Verde.

La nuova vita può anche essere a tempo determinato. Uno degli esempi più significativi del riuso temporaneo è la Palazzina 7 in viale Molise 68, oggi ciclofficina. Poi ci sono negozi comunali vuoti, rinati spesso in librerie a canone agevolato, oltre a 40 recuperi già avviati. Ma la rinascita non è finita: «La caccia agli spazi prosegue e man mano che si trovano immobili liberi cerchiamo di assegnarli — dice l’assessore al Demanio, Daniela Benelli — dietro ogni caso c’è un grande lavoro, il bando, sopralluoghi, le proposte, i controlli. La nostra missione prosegue e contiamo di arrivare a fine mandato riempiendo tutti gli spazi pubblici oggi ancora vuoti».

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Milano, via libera all’associazione Smart City

smartL’associazione avrà il compito di coordinare i progetti, di valutare la partecipazione della città ai bandi Ue del programma Horizon 2020 e di promuovere sinergie e momenti di condivisione delle decisioni.

Milano continua il percorso verso la smartness. Dopo la redazione, avvenuta lo scorso luglio, delle Linee Guida volte ad identificare 7 ambiti e i relativi obiettivi da perseguire in un’ottica di smart city, ieri è stato aggiunto un ulteriore tassello. Il Consiglio Comunale ha approvato, con 23 voti a favore, 9 voti contrari e 2 astenuti, la nascita dell’associazione Milano Smart City. L’associazione, senza scopi di lucro, avrà il compito di coordinare i progetti volti a rendere la città sempre più smart e intelligente e di valutare la partecipazione della città ai bandi europei del programma Horizon 2020 favorendo il dialogo e il confronto tra i diversi attori del territorio.
L’obiettivo è infatti quello di creare un modello organizzativo stabile e unitario che consenta sinergie e interazioni fra gli attori coinvolti, che contribuisca a snellire le procedure di comunicazione e che promuova momenti di condivisione delle decisioni.

Continuerà il dialogo con le altre città (smart)
Grazie alla nascita dell’associazione Milano Smart City, che non comporterà oneri aggiuntivi per il Comune, continuerà il dialogo con le altre città attive all’interno dell’Osservatorio Anci Smart City, come Genova e Torino, allo scopo di favorire lo sviluppo di politiche nazionali sempre più smart e orientate ad un uso intelligente delle risorse.�
Partnership
Oltre al Comune di Milano, l’associazione vede come soci fondatori, la Camera di Commercio, industria, artigianato e agricoltura di Milano, in rappresentanza del mondo delle imprese e vedrà la collaborazione delle Università (in rappresentanza del mondo della ricerca), nonché gli enti pubblici locali, territoriali e non territoriali, che condividono lo sviluppo di politiche smart.�
I passi percorsi
La creazione dell’associazione è l’ultima delle tappe raggiunte di un percorso iniziato, per la città di Milano, quasi due anni fa. E che ha previsto, a partire dal forum cittadino “Public Hearing: verso Milano Smart City”–  svoltosi il 19 aprile 2013 con l’obiettivo di coinvolgere i principali attori dello sviluppo della città nella creazione di un sistema non solo di consultazione e governance- l’avvio di una programmazione per ridisegnare la città in chiave smart. Sono state coinvolte le istituzioni, i privati, le università e il terzo settore attraverso la creazione di gruppi di lavoro tematici corrispondenti ai pilastri tradizionali delle Smart Cities: Smart Economy, Smart Living, Smart Environment, Smart Mobility, Smart People, a cui si aggiunge un gruppo di lavoro specifico per Milano sull’Expo.  Parallelamente è stato svolto un lavoro di mappatura dei lavori più ‘smart’ in essere e degli stakeholder, per l’individuazione di soggetti interessati a contribuire con idee ed investimenti.