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Periferie. Tor Sapienza a prova di accoglienza

Percorriamo il centro storico della borgata con Adriana Goni Mazzitelli, antropologa di origini uruguaiane, con un dottorato in Urbanistica all’Università Roma Tre, per la quale ha realizzato il volume ‘Vincere il confine’, ricerca frutto del lavoro di quasi cinque anni sul territorio. Quindici progetti che in forma capillare indicano i modi per recuperare spazi nel tentativo di capire le forme di convivenza e di dialogo possibili. Spesso le periferie vengono paragonate alle favelas: “Il problema è che qui non ci si occupa minimamente della cosiddette favelas – spiega – mentre da noi prendiamo atto che ci sono delle povertà strutturali e allora cerchiamo di attuare dei programmi per queste. Qui in fondo si ripetono tutte le condizioni tipiche delle favelas, dall’informalità nel lavoro alle diverse forme di precarietà. E’ una lotta tra poveri. Il 2014, con la rivolta per la gestione del centro immigrati, ha segnato uno spartiacque. Siamo di fronte ad una vera e propria banlieue”. Costeggiamo l’area militare del Sisde accanto a capannoni abbandonati e sporcizia: “Le catene della grande distribuzione si sono mangiate tutto il piccolo commercio – racconta Adriana – e anche la vita sociale di quartiere. C’era un carnevale tipico, lo spazio era molto più curato, ora sta diventando uno spazio più anonimo. Ci sono non luoghi diventati quasi esclusivamente di transito. Palazzi di nuova costruzione frutto di speculazione edilizia e che non si sono riusciti a vendere. Si rischia che questo diventi un cuore vuoto”.

Colate di cemento senza riqualificazione delle aree dismesse

“Si continua a creare volumi e non si riutilizzano gli spazi dismessi, spesso fabbriche o edifici scolastici. Siamo sotto infrazione europea per questo ma nessuno fa niente, si continua così”, lamenta Alfredino Di Fante, fondatore e segretario dell’Agenzia di quartiere Tor Sapienza, che rappresenta 23 associazioni sul territorio di cui molte onlus. Carlo Cellammare, docente di Urbanistica all’Università La Sapienza, che ci accompagna ad ogni tappa del nostro viaggio nelle periferie di Roma, insiste: “Potenzialmente ci potrebbero essere tante opportunità, sono territori dove si potrebbero insediare nuove attività senza dover andare ancora più lontano, fuori dalla città. Roma ha il grande problema di aree non riqualificate e che qui e altrove creano una sensazione di disagio e degrado”.

Un quartiere che deve ritrovare una integrazione tra sue parti sociali deve sempre ripartire dalle attività culturali. E’ un aspetto a cui tiene particolarmente la ricercatrice: “Gli anziani ci dicono che se non si ritrovano non possono risolvere i problemi di Tor Sapienza. Nel tempo i centri comunali si sono svuotati di risorse e non riescono per di più a lavorare in rete. Per esempio la biblioteca-teatro Quarticciolo è un centro bellissimo ma ormai insufficiente. Ormai ci basiamo solo sul volontariato”. E fa l’esempio virtuoso di Medellin, in Colombia, e di Torino, dove l’urbanistica sociale ha fatto passi avanti molto buoni.

Il volontariato cattolico e l’opera di prossimità

Nella parrocchia Santa Maria Immacolata e San Vincenzo de Paoli risuona con tenacia la testimonianza di Melania Nicoli, bresciana, qui da 35 anni, ex magistrato e presidente dell’associazione di volontariato “Vocators” (Volontariato cattolico Tor Sapienza) che tanto si spende per creare prossimità. Ci spiega come abbiano cominciato come propaggine della parrocchia a livello di carità immediata e in che modo dal 2000 sia cambiato completamente il tipo di approccio che veniva richiesto anche dall’insorgere di esigenze nuove. “C’è la zona tradizionale di Tor Sapienza e c’è la zona dei palazzoni”, descrive. “Io sono dell’avviso che noi non possiamo campare vicino a qualcuno che sta male ignorando il suo dolore. Abbiamo dovuto prendere atto che di là c’erano situazioni di maggior disagio ma anche di ricchezza umana, ci sono persone che vogliono stare con noi, che vogliono lavorare… non possiamo fare finta che non ci sono, e allora dobbiamo collaborare. Negli anni abbiamo realizzato una casa famiglia alla Rustica che accoglie mamme con i propri bambini, anche immigrati. In questa esperienza abbiamo avuto una risposta di straordinaria generosità da parte delle famiglie del centro della borgata. Abbiamo aperto uno sportello per problematiche legate alla coppia e alla genitorialità. In tre anni abbiamo 120-130 posizioni risolte. A inizio febbraio partirà, in collaborazione con l’associazione il Ponte, il funzionamento di uno sportello per famiglie con figli gravemente disabili”.

Razzismo?

Come la mettiamo con le accuse di razzismo che vi affibbiano?: “La gente dai cinquanta anni in su in questo momento è un po’ arrabbiata per la novità di compagine legata alla presenza di immigrati”, spiega ancora Melania. “Non c’è nessuna forma di discriminazione da parte nostra, anche se abbiamo registrato che gli episodi di vandalismo e ruberie sono aumentati molto proprio in coincidenza con la presenza più massiccia di immigrati, forse come ovunque. Ma io dico che per esempio la mia associazione ha trovato lavoro in questi anni a 640 badanti, tutte straniere. E’ che le regole devono essere comuni. Dobbiamo renderci conto che una vera integrazione si realizza nel tempo e, forse, dobbiamo realizzare che sono più maturi nell’accoglienza proprio coloro che vivono nella zona Tor Sapienza 2, nei palazzoni di via Morandi. Forse perché ‘obbligati’ a vivere gomito a gomito. Noi li vediamo invece ancora come qualcosa di molto diverso e allora dobbiamo camminare un po’. Bisogna continuare ad educare la gente. Noi ci impegniamo in questo. Magari hanno compassione di quelli che chiedono l’elemosina ma poi condannano. Dovremmo avere spazi di aggregazione per i giovani. Ripartire da lì. La sera non c’è nulla, neanche un bar aperto”.

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Profughi a Capalbio? Stanno meglio nelle “periferie xenofobe”

L’antico adagio “mal comune mezzo gaudio” sarebbe un titolo perfetto per questa estate, dove i poveri e i ricchi si sono ritrovati finalmente uniti da un problema comune: i migranti.

È difficile, purtroppo, non fare ironia su questa simpatia che sboccia tra la cause anti-migranti, portate avanti degli abitanti del quartiere residenziale di Monteverde a Roma o del borgo esclusivo di Capalbio, e quelle dei loro cugini lontani del quartiere popolare di Tor Sapienza.

Non a caso, nulla come la vignetta di Mauro Bani, racconta di un mondo – direi ormai un gruppo sparuto – impreparato alla realtà, prima ancora che ai migranti. Nel “mi hai svegliato cazzo, stavo sognando per te un mondo migliore”, l’intellettuale di Capalbio rivolgendosi al “vucumprà, prende corpo quella lontananza della “classe pensante” dai problemi reali delle persone che, spesso, devono pensare a sopravvivere nel presente. La lotta per la sopravvivenza di chi è costretto al doppio lavoro per dare da magiare ai figli, rende la gente di Tor Sapienza più simile a chi ha attraversato il deserto e il mare.

Solo un anno fa le periferie romane bruciavano di rabbia e disperazione. I media proponevano le scene della guerriglia nelle strade, i minori portati via da Via Morandi e i migranti “evacuati” di notte scortati dalla polizia, stipati su un autobus dell’Atac mentre l’allora Assessora F. Danese cercava una sistemazione “segreta”.

Ricorderete i cori unanimi che bollavano le periferie xenofobe, tutti pronti a tacciare di razzismo la gente esasperata dalla prospettiva di dover ridividere lo zero per zero. Zero asili, zero illuminazione pubblica, zero polizia, zero trasporti, zero servizi sanitari e zero lavoro. Gli “intellettuali” lanciavano accuse di razzismo, nel frattempo i razzisti – quelli veri – cavalcavano la situazione, sbattendo in faccia a padri disoccupati i famosi 35 euro al giorno dati per ogni migrante.

A nessuno fece comodo però parlare di giustizia sociale, di risorse, di equità e di distribuzione e, portati via un centinaio di migranti, nulla è cambiato. Così, sono dapprima terminate le poche risorse e dopo sono finiti anche gli spazi e, in un inarrestabile trend in un cui sono le periferie ad aumentare e non i quartieri “buoni”, ecco arrivare i migranti a Monteverde e a Capalbio.

E, appena si pensava che finalmente gli abitanti di Monteverde, Capalbio e Tor Sapienza avessero le stesse responsabilità morali e sostanziali nell’accoglienza, le denunce alla Asl, i ricorsi al Tar e i pareri qualificati di sociologi, ambientalisti, economisti, storici dell’arte e altri, hanno sollevato il sospetto che il bello è molto meglio che resti per pochi e che è necessario conciliare l’obbligo morale dell’accoglienza con il fatto che questa avvenga solo dove non c’è niente da distribuire. A un tavolino del bar suonerebbe tipo così: “non dovete tornare a casa vostra ma neppure venire vicino alle nostre”.

È evidente il problema della distribuzione delle risorse nel nostro paese che però, si chiama “razzismo” solo quando incendiano i cassonetti in borgata, e non quando protestiamo perché la villa vicino alla nostra viene abitata da un gruppo di migranti.

Forse è anche vero che la politica migratoria e dell’accoglienza ha molte falle, che sarebbe urgente sanare, e concordo con Chicco Testa quando dice che giovani di 20 anni che arrivano in Italia, devono poter lavorare e non restare in un limbo basato su una normativa spesso assistenzialista che, in nessun paese, ha mai aiutato né autoctoni né migranti. Concordo meno quando questo vale solo per “gli stranieri” che vengono a Capalbio perché la lingua, l’istruzione, l’accesso ai servizi e il lavoro sono strumenti di emancipazione per chiunque, e andrebbero distribuiti in modo equo.

Sono certo che questa “scossa” estiva ci farà finalmente chiedere se non sia il caso che l’Italia “che sta meglio” condivida spazi luoghi e risorse con un’accoglienza equamente distribuita tra i Parioli e Tor Bella Monaca.

Intanto lasciamo che l’Italia che accoglie continui a essere quella degli operai, dei disoccupati e dei precari delle “periferie xenofobe” perché i migranti, la disperazione e la morte sono roba per gente di tutti i giorni, gente che sa vivere con zero ed è capace ancora a far mangiare tre figli con un solo stipendio.

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Alla scoperta del piccolo Bangladesh nelle periferie di Roma

Al parco dell’Aniene, la domenica mattina, le squadre di cricket si ritrovano per giocare partite che durano ore, in un’area attrezzata e gratuita. Arrivano da molti quartieri di Roma, dalla provincia, dall’Umbria. Come il primo ragazzo che incontriamo, che ha la maglia della Ternana e che non è, come davo per scontato, bangladese, ma indiano.

A cricket, infatti, giocano tutti assieme: bangladesi, indiani, pachistani e afgani. Popoli dalle storie intrecciate, spesso segnate da guerre, che parlano lingue diverse ma vicine.

Nel parco, a godere del sole di aprile, famiglie che fanno il barbecue, bambini che giocano a pallone, un altro gruppetto di ragazzini e ragazzine che si allenano anche loro a cricket.

La squadra dei ragazzi bangladesi si allena prima dell’inizio della partita, senza fretta, fra scherzi e risate. Abitano tutti a Tor Pignattara, come la maggior parte dei loro connazionali che vivono a Roma. Uno dei quartieri del VI municipio, che, assieme a Pigneto, Casilino, Quadraro e Gordiani, è il più popolato a livello cittadino in relazione alle sue dimensioni.

Pigneto-Banglatown

Sono i quartieri compresi tra la Prenestina e la Tuscolana, con la Casilina in mezzo, tra i tram 5, 14 e 19, che arrivano a Centocelle, e il trenino delle ferrovie laziali, quello che ha preso il posto dello storico tranvetto. Quartieri nati nei primi decenni del novecento, a togliere spazio alla campagna, in forma di borgate e di case più o meno abusive. Quartieri nati per essere abitati da immigrati, genti arrivate da lontano, con abitudini e tradizioni diverse, che spesso non sapevano parlare l’italiano: erano abruzzesi, pugliesi, veneti, sardi, marchigiani. Sono le piazze e le vie in cui si è combattuta la Resistenza, spesso le stesse case nelle cui cantine sono stati nascosti i gappisti, i renitenti alla leva, gli antifascisti. Quartieri in cui è stato vivo sempre, e molto poi negli anni sessanta e settanta, l’associazionismo, la politica dal basso, spesso legata ai problemi abitativi che ancora gravano sui residenti.

Quartieri legati anche alla malavita, che negli anni ottanta hanno conosciuto da vicino l’eroina e i suoi effetti, che sono invecchiati, in cui i negozi hanno chiuso uno dopo l’altro per la concorrenza dei grandi centri commerciali più in periferia. Dalla fine degli anni ottanta hanno cominciato a ripopolarsi, ringiovanire, hanno riaperto i negozi. Le scuole sono tornate ad avere le classi piene, hanno aperto altre sezioni. Grazie ad altri immigrati: primi fra tutti i bangladesi, seguiti da cinesi, filippini, egiziani, peruviani e marocchini (Pigneto-Banglatown. Migrazioni e conflitti di cittadinanza in una periferia storica romana, a cura di Francesco Pompeo, Meti Edizioni 2011-2013).

Una delle cose che si sente ripetere più spesso nei bar della città è che la comunità bangladese è molto chiusa. Che comunque sono troppi e le moschee pericolose.

Io e Simona, la fotografa, tra la comunità bangladese troviamo sorrisi e disponibilità, porte aperte e storie e parole. Conosciamo Shobin, che è stato promotore di una delle prime associazioni Italia-Bangladesh, che oggi si chiama Villaggio Esquilino e si è aperta alle altre collettività di migranti. Parla un italiano chiaro e ricco, grazie anche al fatto che quando è arrivato qui, a vent’anni, con una laurea, si è iscritto di nuovo alle superiori, e poi all’università. Conosciamo Bachcu, presidente di un’altra associazione, la Dhuumcatu, molto attiva nella richiesta di diritti fin dagli anni novanta.

Conosciamo Opu, che ha ventotto anni e abita al Pigneto insieme a uno dei suoi fratelli. Ha vissuto i suoi primi sette anni in Italia in un paese tra Firenze e Pisa, lavorando in un’industria tessile, così quando parla usa spesso “sicché”. Con lui andiamo a cena in un ristorante di suoi connazionali a piazza Vittorio, dove lavora un suo amico che lui chiama, romanamente, “zio”. L’insegna dice “Ristorante indiano”, ma le scritte sono in bangladese. Opu ci spiega che la cucina è più o meno la stessa, ma loro usano meno spezie, sua sorella non le usa per niente, ma a lui piace quel mangiare piccante.

Parlo, domando e ascolto le storie delle persone con cui, da anni, condivido strade, negozi e mezzi pubblici. Il barista e il fruttivendolo, la vicina e i suoi bambini che, come i loro coetanei figli di genitori bangladesi crescono confrontandosi quotidianamente con culture diverse, fra un lessico incapace di definirli, discorsi e sguardi dell’altro su di loro, di loro sull’altro. Parlano in italiano con tutti tranne che con i loro genitori e gli altri adulti della comunità che conoscono e frequentano.

A casa imparano la lingua materna, la ascoltano e la parlano, più o meno bene. Non imparano, nella maggioranza dei casi, a leggerla e a scriverla, la lingua bengali, per questo una ventina di loro vanno il sabato pomeriggio a studiare con Mary, una ragazza che ha più di vent’anni e quando parla sembra sussurrare. Si ritrovano alla casa del popolo, in via Bordoni, in quella parte di quartiere che molti conoscono come la Marranella. Sede di Rifondazione comunista, ospita nei suoi spazi numerose attività organizzate dai nuovi cittadini: lezioni di manguera per le ragazzine peruviane, messe cristiano evangeliche per i filippini, corsi di italiano per stranieri. Fino al 2008 la scuola si chiamava Bangla Academy e contava più di cinquecento iscritti.

È felice di quest’occasione: fare nel paese di arrivo lo stesso lavoro che faceva in quello di partenza

Il gruppo che, la domenica mattina, impara invece musiche e canti tradizionali è composto da una cinquantina di ragazzine e ragazzini fra gli otto e i tredici anni. I maschi hanno i jeans e il cappelletto con la visiera un po’ di lato, le femmine vestiti colorati se sono piccole e camicie a scacchi se sono più grandi, i capelli lunghi neri e molti raccolti in una coda bassa, o alta. Quando una di loro, una delle grandi, va alla lavagna a scrivere il testo della canzone, lo fa con l’alfabeto latino. Compie un’operazione di traslitterazione che le viene automatica, non conoscendo l’alfabeto bengali.

La lezione si tiene nel centro Asinitas, in una strada che da via dell’Acqua Bullicante sale verso Centocelle, in uno spazio di verde, con case a un piano, qualche animale, tra i palazzi dei due quartieri. L’insegnante si chiama Sushmita, è venuta ad Asinitas per seguire il corso di italiano e poi le hanno offerto l’aula per le sue lezioni domenicali. Suona un armonium indiano, con una mano batte il mantice per far passare l’aria e con l’altra suona la tastiera. Mi dà l’impressione, da quello che vedo, che sia una di quelle insegnanti che riescono ad avere gli occhi su tutti gli alunni, senza che nessuno resti escluso dal loro campo visivo, dalle loro intenzioni. Faceva l’insegnante anche nel suo paese, prima di sposarsi e di raggiungere suo marito a Roma, sette anni fa. Per questo, nonostante le difficoltà, è grata e felice di quest’occasione, di questa cosa preziosa e rara in cui è riuscita: fare nel paese di arrivo lo stesso lavoro che faceva in quello di partenza.

La grande menzogna

L’italiano, Sushmita, lo parla a fatica, come la maggior parte delle sue connazionali, che qui non lavorano e non hanno quindi occasione di parlarlo quasi mai. Cominciano a farlo quando i figli crescono e iniziano ad andare alla scuola materna e poi a quella elementare: si confrontano con le insegnanti, con gli altri genitori, gli altri bambini. E con i loro stessi figli, che imparano in fretta e che rischiano altrimenti di perdere nel loro percorso scolastico italiano.

Come Mary, l’insegnante, o come Toma, che ci offre un caffè e il payesh, un dolce di latte, zucchero e riso, quando andiamo a casa sua, un pomeriggio, mentre sua figlia Tasnia che ha cinque anni gioca con uno smartphone.

Le donne bangladesi a Roma sono solo il 29,6 per cento della comunità, perché non partono quasi mai da sole ma al seguito dei mariti. Arrivano qui dopo essersi sposate, spesso con matrimoni organizzati, nel senso che i loro coetanei emigrati, quando decidono di sposarsi, tornano a casa per qualche mese, si rivolgono alla famiglia o a una persona fidata per trovare una moglie che li segua in Europa. Sposarsi con un probashi, così si chiamano gli emigrati, è considerata cosa prestigiosa, anche perché di solito in patria non sanno come realmente vivono gli uomini quando arrivano da noi. Gli antropologi la chiamano “la grande menzogna”. Così le donne il più delle volte sono convinte di migliorare il loro stile di vita e invece lo peggiorano. Anche perché la società fortemente patriarcale e centrata sull’uomo, che non caratterizza solo i musulmani ma anche gli indù, minoranza in Bangladesh, limita le loro libertà di movimento, impedisce quell’esperienza di riscoperta di sé che spesso fa chi lascia la sua terra.

Così le si vede in giro per il quartiere quasi sempre accompagnate da qualcuno, o con i figli, con i loro sari colorati, che alcune usano anche come velo, mentre altre non si coprono i capelli.

Una società attraversata da forti contraddizioni, quella bangladese, sia in patria sia qui.

Trovo su Youtube un documentario sulle donne, sui loro corpi, le mode e i modelli di bellezza che mi ricorda l’italiano Il corpo delle donne. A parlare sono scrittrici, docenti universitarie, studentesse, cantanti, attrici e modelle, alcune di loro esprimono un discorso femminista ricco e complesso.

Il film Television, uscito nel 2014, di Mostofa Sarwar Farooki, racconta con i toni della commedia la storia di una giovane coppia di innamorati in lotta con il padre di lui, imam del villaggio, per ottenere il permesso di guardare la televisione. L’imam, le sue regole e le sue chiusure, sono visti come parte di un mondo in declino, assurdo e illogico.

Al parco dell’Aniene chiedo a Micha, che mi ha spiegato un po’ come funziona il cricket, se non ci sono delle squadre femminili e mi risponde che no, che in Bangladesh le ragazze non possono giocare, quindi non sanno giocare. Mi spiega che quelle ragazzine che si stanno allenando là in fondo sono nate qui, dice: “Se a mia figlia, che nascerà qui, piacerà il cricket potrà giocare, lei sì che potrà farlo”.

La nuova generazione

Nel film 2 francos, 40 pesetas, del regista spagnolo Carlos Iglesias, un gruppo di amici emigrati in Svizzera agli inizi degli anni settanta si confronta sul tema dell’identità, dell’integrazione. Uno di loro afferma di essere integrato. L’altro gli fa notare che, nonostante vivano in Svizzera da sette anni, sua moglie non parla una parola di tedesco e frequentano solo altri spagnoli. Allora il primo ammette che in effetti è così, ma che è disposto a sopportare tutto questo perché ha fiducia nel fatto che per suo figlio non sarà così, che lui avrà, anzi, le occasioni raddoppiate, e una vita più felice.

Si “salta” una generazione, si confida nel fatto che quella successiva sarà più libera, avrà più diritti e soffrirà di meno.

La nuova generazione di bambine e bambini bangladesi romani, intanto, sotto la guida attenta di Sushmita, prepara uno spettacolo per il capodanno, che è stato lo scorso 14 aprile ma i cui festeggiamenti vanno avanti fino al 25. Indosseranno gli abiti tradizionali, colorati e festosi, e canteranno le bellezze del Bangladesh davanti alla loro comunità. Magari sperano che a vederli vengano anche i loro compagni di scuola, i loro insegnanti, gli abitanti del quartiere, italiani egiziani o peruviani, che saranno curiosi di conoscere un po’ più da vicino quelle persone che incrociamo ogni giorno per strada, sul tram, al bar sotto casa o al banco del mercato.

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Creare integrazione nelle periferie

L’esperienza di “Oltre i margini”.
Come si genera integrazione nel comune più multietnico d’Italia.
Baranzate è un comune della periferia milanese dove un abitante su tre è migrante. Qui ha preso vita Oltre i margini, progetto realizzato che si propone di offrire servizi concreti alla comunità e di favorire l’inclusione sociale attraverso due diritti fondamentali: salute e lavoro. Con l’obiettivo di coinvolgere oltre 2.200 persone l’iniziativa dimostra come, grazie a strumenti soft basati sulla collaborazione tra attori e comunità locali, si può provare a realizzare una vera integrazione e recuperare le periferie cittadine.

Baranzate: 1 Comune, 72 etnie

Il Comune di Baranzate è primo in Italia per concentrazione di migranti residenti (33% su 11mila abitanti) e comprende complessivamente 72 etnie diverse. Nella scuola cittadina 6 alunni su 10 sono stranieri.

Il 70% dei migranti residenti vive nell’area del Villaggio Gorizia, un piccolo triangolo ad alta densità abitativa chiuso tra le mura di cinta dell’ospedale Sacco, la SS Varesina, il campo nomadi di Via Monte Bisbino e un grande parcheggio all’aperto ad est che segna il confine con il comune di Novate Milanese. Il tipico quartiere periferico dunque con strade circondate da palazzi costruiti durante il boom di ormai 40 anni fa e capannoni dismessi ma che, nonostante le sue problematiche storiche, mantiene una certa vivacità grazie alla presenza di numerose attività commerciali aperte da stranieri.

Un luogo particolarmente adatto quindi alla sperimentazione di nuovi modelli di convivenza e integrazione tra culture previsti dell’Agenda Onu 2030, con particolare riferimento agli obiettivi 10 “Ridurre le disuguaglianze all’interno e tra i Paesi” e 11 “Città e comunità sostenibili”.

Lavoro e salute, le linee guida del progetto

Il progetto si articola intorno a due filoni di attività: il sostegno all’inserimento lavorativo e la promozione della salute.

Sul fronte dell’inserimento lavorativo, il progetto parte dalla consapevolezza che il contesto culturale e familiare di provenienza delle donne migranti rappresenta spesso un limite all’ingresso nel mondo produttivo, sia per le resistenze di molti mariti che per la difficoltà nel trovare strumenti adeguati di conciliazione famiglia-lavoro. “Oltre i margini” si propone quindi di far fronte a questa difficoltà principalmente supportando nella quotidianità lavorativa le donne inserite presso la sartoria sociale “Fiore all’Occhiello”, avviata dall’associazione La Rotonda nell’ottobre 2014. Il progetto propone ad esempio l’affiancamento di mentori, donne migranti vicine per lingua e cultura a quelle impiegate in sartoria, che abbiano superato con successo le difficoltà di inserimento lavorativo; l’attivazione presso la sede de La Rotonda di uno spazio baby-sitting part-time a cui le madri impiegate in sartoria potranno affidare i bambini nei periodi extra-scolastici; l’apertura di un “Caffè delle donne”, dove le donne in cerca di un luogo di relazione potranno incontrarsi e dialogare apertamente rispetto a problematiche comuni. Parallelamente, con lo scopo di sostenere le donne in questo percorso, “Oltre i margini” promuove incontri di informazione e sensibilizzazione rivolti ai mariti, condotti da Don Paolo Steffano, parroco di Baranzate. Rientrano in “Oltre i margini” anche la formazione professionale specialistica di 2 donne della sartoria (stilista e addetta alle vendite) e il sostegno nella ricerca attiva di lavoro per donne e giovani, entrambi le attività realizzate in collaborazione con AXA Italia.

Sul fronte della promozione della salute, attraverso il progetto “Porta della Salute”, attivo dall’ottobre del 2015, l’associazione La Rotonda ha scelto di ovviare alle carenze strutturali del Comune di Baranzate aprendo uno sportello medico (per due pomeriggi la settimana) e un servizio di assistenza pediatrica (un pomeriggio alla settimana) garantito dalla collaborazione di un pediatra del Centro Diagnostico Italiano. Partendo dalla consapevolezza dell’importanza di scelte alimentari corrette, saranno organizzati incontri di promozione per un’alimentazione sana ed equilibrata per le donne migranti in gravidanza e allattamento a cui si aggiungeranno 10 laboratori di cucina rivolti a circa 8 donne condotti da un nutrizionista dell’Ospedale Sacco e una mediatrice culturale. Attraverso il cooking e lo scambio di ricette le donne potranno sperimentare piatti sani a partire da ingredienti che fanno parte della propria cucina tradizionale. Per incentivare la partecipazione al laboratorio, al termine di ciascun incontro, sarà consegnato un pacco di alimenti freschi e secchi con cui preparare piatti sani e adatti alla propria condizione.

L’attenzione alla tutela della salute sarà indirizzata anche ad un altro target particolarmente vulnerabile: circa 80 adolescenti che frequentano regolarmente gli spazi de La Rotonda, a cui saranno rivolti incontri di informazione dedicati alle malattie a trasmissione sessuale tenuti da esperti dell’Ospedale Sacco. Particolare attenzione sarà dedicata alla prevenzione del Papilloma Virus tra le giovani donne e alla trasmissione dell’HIV. I giovani coinvolti negli incontri teorici saranno successivamente invitati ad attivarsi personalmente attraverso la partecipazione ad attività multimediali di sensibilizzazione rispetto al tema dell’HIV promosse da Cesvi in collaborazione con La Rotonda. In questo modo, loro stessi saranno protagonisti di una più ampia azione di sensibilizzazione da veicolare ai propri pari attraverso strumenti e linguaggi espressivi a loro vicini.

L’impatto atteso

Il primo elemento che suggerisce il potenziale del progetto è la rete attorno cui esso ruota. Al progetto partecipano Fondazione Bracco, Cesvi, l’associazione La Rotonda, Centro Diagnostico Italiano e Ospedale Sacco: una rete di attori diversi operanti sullo stesso territorio che portano le proprie competenze e risorse per raggiungere un obiettivo, quello appunto dell’integrazione, che singolarmente non potrebbero perseguire. In questo modo si persegue anche quell’integrazione tra policy fondamentale per migliorare l’efficacia delle risposte e ampliarne l’impatto: si stima che nei 12 mesi oltre 2.200 persone saranno direttamente coinvolte nelle attività (con attenzione prioritaria, ma non esclusiva, a migranti residenti, in particolare donne, bambini e adolescenti), 20 donne usufruiranno del servizio di baby-sitting, 14 persone lavoreranno alla sartoria in modo continuativo, 2mila persone accederanno allo sportello “Porta della salute”.

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Come ci ha spiegato Diana Bracco, Presidente di Fondazione Bracco, «a Baranzate sta operando un vero laboratorio sociale che tocca aspetti fondamentali della vita, come il lavoro e la salute. Di fronte al fenomeno migratorio che impatta pesantemente sulla vita delle periferie delle grandi metropoli abbiamo sentito l’esigenza di fare qualcosa di concreto. Con questo progetto siamo andati oltre alla semplice solidarietà, abbiamo guardato alla solidarietà creativa, basata sulla capacità progettuale».

Per don Paolo Steffano, parroco di Baranzate, a Villaggio Gorizia è stato creato «un nuovo trattato di Schengen con cui è stato messo a punto un sistema innovativo, un vero e proprio laboratorio sul futuro che fa delle differenze il suo più grande motore di crescita».

Effettivamrnte, al di là dell’ampliamento dei servizi offerti, la rilevanza del progetto sta nel tentativo di realizzare una reale integrazione tra le comunità di abitanti e di ricostruire il tessuto sociale delle periferie attraverso strumenti soft che creano valore dalle relazioni. Una sperimentazione che, viste le sfide che l’Europa si trova oggi ad affrontare – e che negli anni a venire saranno probabilmente ancora più grandi – potrebbe fornire un contributo davvero significativo sulla strada dell’integrazione.

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Rinasce il Baobab

“Lasciati soli dal Comune, ma andiamo avanti”.
I volontari hanno deciso di rimettere in piedi una struttura abbandonata alla stazione Tiburtina. Il nuovo progetto si chiamerà Baobab experience: all’interno non solo distribuzione di cibo e vestiti ma anche tutela legale, sanitaria e psicologica e un museo. L’iniziativa sarà in rete con le altre esperienze nazionali.
Il Baobab riaprirà i battenti entro l’estate: dopo mesi di silenzio assordante da parte del Comune di Roma, saranno i volontari a prendere ancora una volta l’iniziativa, per creare il primo centro per transitanti della Capitale. Non sorgerà più a via Cupa ma nella sede dell’ex Istituto Ittiogenico, a pochi passi dalla stazione degli autobus di Tiburtina. Proprio lì, l’anno scorso, scoppiò il caso dell’emergenza migranti a Roma, che diede vita all’attività dei volontari nel centro Baobab. Il nuovo progetto, che nelle intenzioni dovrebbe essere attivo entro pochi mesi, si chiamerà Baobab experience.

Il progetto. L’area dell’ex Istituto Ittiogenico che comprende due stabili e un ampio giardino, per un totale di più di 6.000 metri quadri, attualmente è in stato di abbandono. L’obiettivo dei volontari è di riqualificarla e creare all’interno un’iniziativa di accoglienza a 360 gradi. “Quello che abbiamo in mente non è un progetto solo assistenziale, limitato alla distribuzione di vestiti e cibo – spiega Roberto Viviani, uno dei volontari del Baobab -. La struttura è molto grande quindi dentro si potrebbe creare un vero centro di accoglienza dove, con il contributo delle altre associazioni che già ci supportano a via Cupa, fare tutela legale e psicologica. Pensiamo anche di dare vita a un museo della migrazione e a un centro didattico, perché riteniamo che ormai questo sia un tema da affrontare anche culturalmente”. L’assistenza sanitaria sarà garantita tramite la firma di un protocollo di intesa tra diverse associazioni, come già avvenuto la scorsa estate. Ci sarà poi uno sportello legale, saranno attivati corsi di lingua e attività ludiche per i bambini.

Il via vai continuo e il silenzio “assordante” delle istituzioni. Al centro Baobaob di via Cupa, da giugno fino a settembre 2015 sono stati accolti circa 30mila migranti in transito nella capitale. Il centro è stato poi stato chiuso e sgomberato per un’ordinanza del Commissario straordinario di Roma Capitale, Francesco Paolo Tronca. Nelle promesse iniziali del Comune il progetto sarebbe dovuto andare avanti, ma in un’altra area da destinare. Un’ipotesi, poi tramontata, era quella dell’ex Ferrhotel di via Tiburtina . I volontari hanno proposto, con tanto di progetto dettagliato, l’ex Istituto Ittiogenico, ma nonostante diverse riunioni, non hanno ottenuto una risposta. “Abbiamo deciso di andare avanti da soli – aggiunge Viviani – anche perché vorremmo iniziare la riqualificazione prima che inizino gli arrivi massicci e si crei una nuova situazione emergenziale. A Roma questo è ormai un fenomeno strutturale, di cui le istituzioni faticano a prendere coscienza”. In questi mesi, anche se con numeri più contenuti, è continuato il via vai in via Cupa, dove è stato allestito uno sportello di consulenza al di fuori dell’ex Baobab. L’ultima ad arrivare questa mattina è stata una donna eritrea con un bambino di 3 mesi, partorito in Libia. Ma sono tanti anche i casi di minori non accompagnati: “L’altra sera al presidio si è presentato un minore non accompagnato del Gambia: sbarcato in Sicilia ad ottobre, ha vissuto per mesi fuori da tutti i circuiti accoglienza, ha dormito in stazione ad Agrigento finché non ha deciso di prendere il treno per Roma – racconta ancora Viviani – . Quando è venuto da noi abbiamo subito chiamato un’operatrice di Save the children per aiutarlo. Mentre parlavamo con lei sono arrivati altri tre ragazzini eritrei, di 13 anni circa, che erano scappati dalla Sicilia, ed erano arrivati a Roma senza sapere dove andare. Il via vai è continuo, di storie così ne incontriamo tutti i giorni, vorremmo costruire un sistema di accoglienza e tutela per queste persone”.

Una rete nazionale di accoglienza dal basso. L’idea è anche di mettere in rete l’esperienza romana di accoglienza dal basso con le tante iniziative sorte nelle diverse città italiane, dai porti del sud Italia dove i migranti sbarcano, alle città di frontiera (Milano, Ventimiglia, Bolzano). “E’ importante che ci sia uno scambio continuo di informazioni, soprattutto per salvaguardare le figure più fragili – spiegano i volontari – come i minori non accompagnati, le donne in stato di gravidanza o le persone con particolari patologie”. Proprio per questo a fine mese si terrà a Roma una 3 giorni (dal 29 aprile al 1 maggio) dal titolo Pensare migrante, che riunirà gli attivisti di tutta Italia per una prima assemblea nazionale. Sono previsti anche woorkhsop e dibattiti sul fenomeno migratorio.

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Piccoli comuni che rivivono con l’accoglienza dei rifugiati

Rinascita di piccole città, recupero di vecchi mestieri, collaborazione per la cura del territorio. Sono alcuni degli effetti positivi dell’accoglienza nei progetti Sprar. Oltre a Riace, non vanno dimenticati Satriano, Capua, Sant’Alessio in Aspromonte, Chiesanuova, Santorso e Santa Marina.
Il sindaco di Riace, comune di 1.820 abitanti in provincia di Reggio Calabria, è stato inserito nell’elenco delle 50 personalità più influenti del mondo stilato dalla rivista americana Fortune. Il motivo è ovviamente legato all’esperienza dello Sprar, i progetti di accoglienza per richiedenti asilo, che a Riace hanno favorito la collaborazione tra rifugiati e residenti, risollevando l’economia del paese. Ma Riace non è l’unico esempio, come ha ricordato Daniela Di Capua, direttrice del Servizio centrale in un intervento a “Tutta la città ne parla” in onda su Radio 3: “Quella di Riace non è un’utopia ma una strada percorribile come dimostrano esperienze analoghe in altre realtà locali. Basti pensare che degli 800 comuni coinvolti nella rete Sprar circa la metà sono realtà di piccole e medie dimensioni con potenzialità simili a Riace”. Le altre realtà locali a cui fa riferimento Di Capua sono Satriano (Catanzaro), Santorso (Vicenza), Sant’Alessio in Aspromonte (Reggio Calabria), Chiesanuova (Torino), Santa Marina (Salerno) e Capua (Caserta) dove, grazie all’arrivo di rifugiati e richiedenti asilo sono stati riattivati servizi, riaperte scuole, rivalorizzate le attività locali.

Agenzia giornalistica
Accoglienza migranti, flop del bando Sprar, Cnca: così non si esce dall’emergenza
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AREA ABBONATI
Adnan è di origine pakistana, è stato accolto in un progetto Sprar a Satriano, comune di circa 3 mila abitanti in provincia di Catanzaro, dove ha iniziato a lavorare come parrucchiere. Insieme a lui sono stati accolti altri ragazzi, sempre dal Pakistan e dal Burkina Faso, alcuni stanno frequentano un corso da operatore socio-sanitario per il volontariato. Quando l’avranno terminato potranno assistere le persone in condizioni di disagio. Il lavoro di un giovane rifugiato pakistano ha permesso di far rivivere il laboratorio di falegnameria di Zio Michele a Sant’Alessio in Aspromonte (Reggio Calabria), dove si riparano mobili. Santorso nel vicentino di abitanti ne conta circa 6 mila a cui si aggiungono i rifugiati coinvolti nel laboratorio di sartoria Atelier Nuele dove si realizzano abiti e accessori. Tra di loro c’è anche un rifugiato iracheno che dopo aver terminato il percorso di formazione è stato assunto nell’atelier e oggi fa da tutor agli altri ospiti.

Tra i ‘veterani’ dell’accoglienza c’è Chiesanuova, comune di 200 abitanti in provincia di Torino, che festeggia 15 anni prima nel Programma nazionale asilo e poi nello Sprar. Il comune ospita 25 persone di cui 7 famiglie provenienti da Ucraina e Cecenia. Il progetto di accoglienza garantisce agli ospiti Sprar un abbonamento mensile all’autobus per potersi spostare nei paesi vicini: in questo modo non sono state soppresse le linee. Inoltre la presenza di bambini ha consentito di lasciare aperta la scuola del paese. In provincia di Salerno da un anno è stato attivato, in collaborazione con il Comune di Policastro, un servizio di scuolabus che va da Policastro a Santa Marina, dove si trovano le scuole, per i bambini residenti e per quelli accolti nello Sprar. A Capua, comune di 20 mila abitanti in provincia di Caserta il progetto Sprar ha attivato un laboratorio di restauro di vecchi mobili che coinvolge richiedenti asilo e rifugiati accolti sul territorio: grazie alle competenze acquisite, i rifugiati sono impegnati nel restauro dei mobili del Duomo di Capua.

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