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L’erba cattiva!

maam

Entrando al MAAM si ha la sensazione di trovarsi in uno studio di Cinecittà dove stanno girando un film di stampo neorealista. Lo spazio è vissuto e abbandonato nello stesso tempo, vecchie mura attendono di cadere, anche il tempo è sospeso. Quel che resta della ex fabbrica Fiorucci e degli animali che l’hanno attraversata con la loro anonima morte, si mischia con la vita dei 230 occupanti che sono diventati, in virtù dell’istinto di sopravvivenza, padroni del nulla.
Frotte di bambini curiosi, condannati alla libertà, animano gli enormi spazi surreali.
Scegli un posto per il tuo nido, Elena Nonnis.
Ho scelto una parete curva che precede un corridoio buio alla fine del quale c’è un cancello chiuso. L’ultimo dei posti in un posto degli ultimi. Quest’angolo può andare per il mio nido.
E adesso scendiamo a patti con lo spazio. Non c’è niente di bello, pareti sporche e marchiate a Tag dai colori accesi, l’arroganza violenta degli occupanti. E’ quasi buio e che ci faccio qui? Riprendo tutte le mie gemme da lutto e le porto via, al sicuro.
Oppure no.
Solo una prova.
Solo una prova. Poche bacchette di alluminio ricoperte di filo annodato trovano posto tra i macchinari della curva desolata. Adesso qualcuna verticale. Lo spazio chiama. Il lavoro è partito. Ora non si deve pensare, mettersi in ascolto, stare sul segno. Mi arrampico con la scala tra le pareti di filo per cercare lo spazio, per formare lo spazio. Un rifugio pronto a crollare. Sospesa tra i segni, in silenzio, quasi la felicità.
Si avvicinano i ragazzini e chiedono che sto facendo. Una capanna. Faccio una capanna per i desideri. Quando sarà finita potranno venire vicino ed esprimere un desiderio, se lo vorranno davvero col tempo si avvererà. Ho preso dei fili sottili e ho fatto un braccialetto per ogni bambino. Il braccialetto è il segno di appartenenza della tribù della capanna, la devono proteggere, sono i loro custodi. I bambini girano un po’ intorno e poi vanno via soddisfatti. Io torno alla mia capanna. Ci torno ogni giorno, appena posso. E ogni giorno il lavoro continua a crescere, si annida nello spazio fino ad assumere una forma di integrazione naturale, nasce da questo spazio che inizialmente non voleva accoglierlo, e sembra quasi che sia li da sempre, creatura ostinata, erba cattiva.

 

Elena Nonnis

 

 




”La luna non è di nessuno e nessuno la può comperare”

spaceSpace Metropoliz | serata meticcia _18 Marzo❝In questi anni occupare ha significato restituire vita, corporeità, energia sociale a luoghi svuotati dal processo di astrazione finanziaria. L’occupazione non è finalizzata a contrattare, e non è neppure un gesto di protesta simbolica. È riattivazione di un desiderio che l’astrazione finanziaria ha sterilizzato, svuotato, distrutto.❞ (Bifo, 2014)

Nell’ambito degli appuntamenti sul DIRITTO ALLA CITTA’, la proiezione di questa opera ci da l’opportunità di incontrare i registi, i protagonisti, gli abitanti di Metropoliz, gli attivisti dei movimenti per il diritto all’abitare, e gli artisti che espongono al MAAM.

PROGRAMMA

▣ h 19.oo dibattito “Energia sociale in luoghi svuotati”
con Paolo di Vetta (BPM), Fabrizio Boni (regista), Giorgio de Finis (regista, curatore del MAAM), Tarik Fedouach (Metropoliz), Gian Maria Tosatti (artista) e altri…

▣ h 21.oo proiezione di *Space Metropoliz* di Fabrizio Boni e Giorgio de Finis

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METROPOLIZ CITTA’-METICCIA è uno spazio liberato, un’esperienza autorganizzata di recupero di un’ex fabbrica a Roma in via Prenestina 911-913, dove peruviani, africani, ucraini, rom e italiani convivono lottando per il diritto all’abitare. La fabbrica, un ex-salumificio, è diventata così sede di un esperimento continuamente in-progress di adattamento, autocostruzione e convivenza.

Nel 2011 nasce il progetto di SPACE METROPOLIZ di Fabrizio Boni e Giorgio de Finis con l’intento di utilizzare il cinema come strumento di aggregazione, di progettazione e di trasformazione del territorio, e per contribuire alla rigenerazione socio-ambientale del Metropoliz, proseguito con l’apertura del MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove, aperto ad aprile 2012.

POST

 




Creatività allo stato puro nel museo dell’altro e dell’altrove

Paolo Buggiani

Paolo Buggiani

L’Italia dell’arte oltre che essere il paese dei campanelli è anche il paese degli acronimi: Macro, Maxxi, Gam, Gnam, Man, Mart, Mambo (non avranno per caso fondato anche il Rambo?), esiste perfino il Mat (Museo dell’Alto Tavoliere), si nascondono e si confondono nell’acronimato del vorrei-ma-non-posso. Insomma fanno tragicamente (o farsescamente) il verso al Moma.

Ce n’è però uno che si distingue da tutti gli altri: si tratta del Maam, del Museo dell’Altro e dell’Atrove di Metropoliz (via Prenestina 913, Roma).

Un non-museo, un laboratorio, un anti mortorio, un’area liberata e decontaminata dalla spocchia tipica dei santuari dell’arte moderna e contemporanea tipo “Arsenico e vecchi Morlotti”.

Qui al Maam, in uno scenario post-industriale sub-urbano catastrofale post-tangenziale pre-raccordo anulare che sarebbe piaciuto (per dirla con Petrolini) a Mad Max, qui nello scenario tipico dell’occupazione abitativa alternativa, l’antropologo Giorgio De Finis ha deciso di fondare un museo sui generis, un museo povero, di risulta, un museo all’aria aperta, in cui le opere d’arte sono destinate all’uso quotidiano dei residenti resistenti. Gli spazi comunitari, i saloni per feste sociali e per riunioni, l’area giochi per bambini, il pub, (ma anche le singole abitazioni: Pinacoteca Domestica Diffusa) sono arredati con pezzi autentici di anti-arte e anti-design, sono decorati con assemblaggi di oggetti modificati e riciclati, con pannelli dipinti da pennelli illustri, con installazioni attrazioni, con creazioni ad hoc (site specific direbbero quelli del Macro).

In giro per i viali e i corridoi, ti imbatti in eccentrici relitti, nei graffiti, negli stencil. Fai un viaggio sulle montagne russe nell’alto e basso, dimentichi il lusso delle Biennali, ti immergi nel flusso della street art.

Metropoliz è una grande fabbrica in disuso (Ex Fiorucci), un’enclave dove i colori, le bombolette, i piccoli (o grandi) gioielli di creatività gratuita, convivono naturalmente e senza forzature, con un popolo, per definizione ed emarginazione, lontano anni luce dal dorato “sistema dell’arte”. E’ un mondo alieno in cui i manufatti spuntano come i funghi dopo il temporale. Si sa che malgrado la loro apparente fragilità i funghi hanno una potente vitalità, ai margini delle strade li vedi perforare il manto d’asfalto, li vedi sollevare il terreno più refrattario. Lo stesso dicasi per queste espressioni di una creatività che si presta alla collettività, al meticciato, alla connettività e non alla competitività. Una creatività che non si arresta di fronte a niente e a nessuno. Che se ne frega della propria deperibilità, anzi se ne fa un vanto.

Il Maam è un oggetto totale, un laboratorio mentale, un anti museo basato sull’economia del dono e sul fatto che l’arte non è e non deve essere appannaggio esclusivo di un sacerdozio laico che si arroga il diritto di custodirne i segreti e i riti.

Finora si sono uniti all’impresa tra gli altri: Cesare Pietroiusti, Gianni Asdrubali, Paolo Assenza (che ha realizzato la bandiera che sventola sull’area), Rub Kendy (a cui si deve la meridiana), Maddalena Mauri, Massimo Di Giovanni, Massimo Iezzi, Lucamaleonte, Diamond, Alice Pasquini, Massimo Attardi, Borondo, omino71, Opiemme, Gio Pistone, Cristiano Petrucci, Cristiana Pacchiarotti, Sten & Lex, Hogre etc etc. Da segnalare la delicata stanza floreale di Micaela Lattanzio, un’oasi di leggerezza e fragilità di rara intensità, nonché le fotografie della Pinacoteca Domestica Diffusa del Maam realizzate da Carlo Gianferro. Le undici opere che Franco Losvizzero produrrà durante una sorta di autoreclusione, nutrito e accudito dagli abitanti di Metropoliz.

De Finis, da buon antropologo e agitatore culturale, sa bene quanto l’arte sia per definizione prerogativa del genere umano in quanto tale e non solo di un’accolita di illuminati acculturati. Sa che l’uomo si distingue dalle altre specie proprio per la propria creatività. La sopravvivenza stessa è creatività. Metropoliz, che ospita il Maam, è sopravvivenza allo stato puro e quindi, per discendenza diretta, è anche creatività. Senza se e senza ma.

Ma c’è un “ma”. E’ il rischio che prima o poi vengano a sgombrare.

Vengano a disoccupare con le ruspe. Caccino tutti e buttino giù tutto, magari per farne un ipercentro commerciale.

E allora è un bene che l’arte serva a qualcosa di utile come fare da schermo di protezione, da corazza, da difesa preventiva di un’isola cittadina in cui la vita si mescola alla fantasia senza prosopopea.

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La sedia elettrica dell’assessore. Lettera aperta a Flavia Barca

"una scatola vuota"

Una lettera aperta sul passato prossimo, sul presente indicativo e sul futuro condizionale del Macro. Scritta dall’artista e critico Gian Maria Tosatti. E ci auguriamo che l’assessore al Comune di Roma, Flavia Barca, non tanto risponda, piuttosto si attivi.

A vederla sbagliare tutte le mosse vien da pensare che la coerenza non sia, per forza, un valore. Si parla dell’assessore Flavia Barca, ascesa al soglio culturale romano priva di quei meriti e di quelle medaglie conquistate sul campo che si pretenderebbero da chi ambisce a gestire il più vasto patrimonio culturale concentrato in una sola città del pianeta Terra. La responsabilità della nomina, invero, sarebbe del sindaco Marino che, non avendo visione, si è fatto indirizzare, alla vecchia maniera, dagli equilibri di maggioranza (salvo poi ritrovarseli contro). Tuttavia, farebbe piacere talvolta ascoltare un “domine non sum dignus” da parte di chi avrebbe più la ragionevolezza che l’umiltà di non assumersi compiti riguardo ai quali non tarderà a dimostrarsi inadeguato.
Sarebbe stato fin troppo duro se questo mio commento fosse giunto all’indomani della nomina, ma dopo circa nove mesi di paralisi dell’amministrazione su tutto ciò che attiene alle arti, ho la coscienza a posto nell’esprimere, senza sconti, la mia opinione di tecnico.
Il mio, in realtà, non vuol essere un attacco, ma un contributo. All’assessore Barca consiglio, infatti, di cuore, di fare quel che in questi mesi non ha avuto la sensibilità di fare, ossia di uscire dal proprio ufficio e andare a conoscere approfonditamente tutte le realtà culturali buone e cattive, virtuose o parassitarie che compongono la complessa cosmologia della cultura romana. Facendolo, forse, capirà qual è la strada per superare un immobilismo che in tempi di crisi è doppiamente colpevole sia sul piano economico che politico.
La ragione che oggi mi porta a scrivere nel merito di questo tema, dopo aver disertato il dibattito culturale della mia città per mesi, è stata la lettura di un’intervista, apparsa sulCorriere della Sera, proprio all’assessore Barca, in cui si parla di un ruolo importante di Enel nella futura gestione del Macro.
Se, infatti, una pecca c’è stata nella gestione del Macro in tutti questi anni, è stata proprio l’eccessiva interferenza di soggetti privati (gallerie o aziende), e dei loro interessi, nella programmazione del museo. Una interferenza che, in virtù di un contributo economico, finiva per essere libera da ogni vincolo scientifico nella scelta delle opere e dei progetti, arrivando a risultati grotteschi, come quello di scambiare un museo d’arte contemporanea per un lunapark. Finché non marcirà, il Big Bamboocontinuerà a gridare vendetta a quel cielo che sembra trafiggere ogni giorno con le sue canne al vento. Come anche i tappetoni elastici attualmente montati nel cortile, che avrebbero meglio figurato al Luneur che al Macro. E quando è andata meglio, invece che in una giostra, l’Enel ha trasformato il Macro in un giardino botanico, come fu per l’installazione delle farfalle di qualche anno fa. Inutile dire che se si volevano portare le farfalle al Macro, sarebbe bastato fare quel che fece Gagosian Roma con Damien Hirst, una piccola mostra che allora batté il museo 10 a 0.

Doug e Mike Starn, Big Bambú - MACRO Testaccio, Roma 2012

Doug e Mike Starn, Big Bambú – MACRO Testaccio, Roma 2012

In ogni modo, il problema è molto semplice ed è bene che lo si dichiari: a Enel, oltre all’arte contemporanea, verso cui ha mostrato in questi anni un lodevole interesse,  piacciono anche molto le giostre e i parchi divertimenti. Bene, direte voi, l’importante è che non si faccia confusione con le due cose. Se l’intento ludico piace, abbia l’amministrazione la bontà di dare all’ex Ente Nazionale per l’Energia Elettrica la gestione del vecchio lunapark dell’Eur, non del Macro.
Un museo d’arte contemporanea è un’altra cosa. È una infrastruttura strategica per la civiltà di un popolo, non un luogo di svago. Lo si lasci in povertà piuttosto che agghindarlo con ridicole baracconate. Lo si lasci nella povertà in cui l’arte non ha mai avuto difficoltà di fiorire, una povertà dignitosa che esalta l’intelligenza e la creatività.
Esempi non ne mancano proprio a Roma. Mi verrebbe da citare il Teatro Valle, che però, pur capace di una programmazione notevole, è reo di non aver ancora mai proposto un convincente piano di gestione economica che possa mettere a tacere le critiche strumentali, superando nei fatti e non solo nelle intenzioni la fase dell’occupazione. Ma ancor più calzante è l’esempio del MAAM, citato qualche giorno fa con le stesse intenzioni da Giuseppe Gallo in una lettera scritta a La Repubblica. Stiamo parlando di un museo creato senza un euro, solo con la passione e la serietà divGiorgio de Finis e con la collaborazione di tutta la scena artistica romana. Un museo senza soldi ma con molte idee e soprattutto con una grande consapevolezza di quale debba essere oggi il rapporto fra arte e società. La cultura come strumento reale di superamento dei conflitti che quotidianamente dilaniano il tessuto civile di una metropoli cresciuta male come Roma, è stata la bandiera di questa iniziativa finita addirittura sulNew York Times.
Di fatto il MAAM è già il museo d’arte contemporanea della città. Se non altro perché è l’unico museo che vive nella contemporaneità, divenendo elemento dialettico e altamente politico, che trasforma e migliora, che generà comunità e dialogo non solo tra chi l’arte già la apprezza o la fa, ma soprattutto tra coloro a cui l’arte può realmente aprire mondi. Ecco perché al MAAM nessuno dice mai di no, me compreso, anche se non ci sono soldi.
Se l’assessore (alla cultura, ribadisco) avesse, nella sua necessità di conoscenza e monitoraggio, seguito l’esempio di Pasolini e avesse girato “per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone” in cerca delle energie già attive nella sua città, e se fosse passata magari anche per la Prenestina, dove si trova il MAAM, forse le sarebbe venuto in mente di portare quell’esperienza periferica (che però sta girando il mondo) nel cuore stesso delle istituzioni culturali, per cambiarle, per svecchiarle, per riattivarle. Ammetto di aver augurato alla mia città di avere Giorgio de Finis alla direzione del Macro. E penso che, se l’assessore avesse avuto un po’ di intelligenza politica, avrebbe capito che quella sarebbe stata una mossa capace di farle stringere un patto con la scena culturale romana, dando sostegno alle attività migliori di un tessuto culturale che comunque continua a evolversi con o senza la benevolenza delle istituzioni. Sarebbe stato certo un patto temporaneo, in attesa che il museo diventi una fondazione autonoma capace di darsi una governance e di trovare un direttore tramite un vero concorso internazionale. Il patto, invece, l’assessore pare abbia premura di stringerlo con Enel, facendogli trasformare il Macro in quello che rischia di diventare un museo aziendale. Una mossa coerente, come si diceva in apertura, con quanto fin qui si è avuto modo di vedere, ma una mossa radicalmente sbagliata.

Carsten Höller, Double Carousel with Zöllner Stripes - MACRO, Roma - courtesy Enel Contemporanea e l'artista

Carsten Höller, Double Carousel with Zöllner Stripes – MACRO, Roma – courtesy Enel Contemporanea e l’artista

Non si pensi a chi scrive come a qualcuno contrario alla presenza dei privati nella gestione delle risorse pubbliche. Ma si badi bene che è essenziale non rovesciare l’ordine dei valori se si vuol operare con profitto. Non è la presenza di sponsor a decidere la prosperità di un museo. È la qualità della proposta artistica a portare prestigio all’istituzione ed è a seguito di tale prestigio culturale che si generano rapporti solidi di fiducia con sponsor e donatori. Se c’è una progettualità di qualità, d’eccellenza e, diciamolo pure, d’avanguardia (che in un museo d’arte contemporanea non guasta), allora Enel – che è un’azienda fatta di teste pensanti – avrà tutto l’interesse a partecipare comunque, a dare il suo contributo in termini economici, avendone in cambio la necessaria visibilità. E così sarebbe anche per i collezionisti, che potrebbero impreziosire con prestiti e donazioni una collezione che attualmente non è degna nemmeno di un museo di provincia. Ma ragionare all’inverso, pensare prima agli sponsor e poi (di conseguenza!) ai progetti rivela una condotta ingenua, miope, che nessuna comunità culturale potrà mai appoggiare.
L’assessore può certamente fare il suo Macro a dispetto della città come ha fatto fin qui, trasformandolo in un museo senza arte e senza artisti. L’arte continuerà a farsi altrove. Non è mai stato un problema. Ma quando un amministratore viene “mollato” dalla sua comunità di riferimento, qualcuno vuol forse dirmi in virtù di cosa quella comunità dovrebbe continuare a pagargli lo stipendio? Glielo paghi Enel.

Gian Maria Tosatti

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