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Pride

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di Matthew Warchus. Con Bill NighyImelda StauntonDominic WestPaddy ConsidineGeorge MacKay  Gran Bretagna 2014

Nel 1984 il ventenne Joe (McKay) partecipa al suo primo Gay Pride – è spaventato perché la legge inglese riconosceva maturità sessuale agli etero diciottenni ma per gli omosessuali bisognava aspettare i 21 anni. Dopo la manifestazione va con i nuovi amici nella libreria di Gethin (Andrew Scott), dove Mark (Ben Schnetzer), giovane attivista, propone di fondare la LGSM (Lesbian an Gays Support the Miners) e di aprire una sottoscrizione a favore dei minatori in lotta contro le scelte economiche del governo Tatcher. I ragazzi si mobilitano e raccolgono una bella sommetta ma ogni tentativo di contattare le Unions va a vuoto (il pregiudizio omofobo era ancora forte, specialmente tra le classi operarie),  finché non raggiungono telefonicamente il paesino di Dulais, nel sud del Galles dove Gwen (Menna Trussler), un’anziana membro del locale comitato di lotta, accetta la loro offerta; gli altri membri del comitato discutono animatamente, alla fine Dai ( Considine), Hefina (Staunton), Sian (Jessica Gunning) e Cliff (Bill Nighy) votano a  favore dell’aiuto del  LGSM, mentre la cognata di quest’ultimo, Maureen (Lisa Palfrey), indignata lascia il comitato. Dai va ad incontrare i ragazzi per ringraziarli ma, a sorpresa, questi gli annunciano che alcuni di loro andranno a Dulais. Un gruppetto parte, quindi, con un pulmino – una decina, tra cui Mark ,Joe , Steph (Faye Marsay) e il compagno di Gethin (assente perché, gallese a sua volta, è ancora shockato dal bullismo dei suoi compagni d’infanzia) ,l’attore Jonathan (West) – e l’accoglienza è molto imbarazzata; Mark fa un discorso un po’ inopportuno e i giovani minatori sono chiaramente risentiti ma i membri del comitato sono gentili ed accoglienti. Qualche tempo dopo i ragazzi tornano con altri soldi – e stavolta Gethin è con loro – e la sera al pub Jonathan rompe il ghiaccio trascinando la ballo le ragazze (e dopo un po’ anche i maschi) al ritmo di Shame ,shame, shame di Shirley & Company. L’integrazione è quasi raggiunta ma Maureen manda la notizia ad un giornale conservatore e i minatori, sbeffeggiati dai compagni, sono  costretti a chiedere a Mark e agli altri di andarsene. Quest’ultimo, arrivato a Londra, non si dà per vinto e decide di usare l’articolo che li definiva “pervertiti” in positivo ed organizza il Pits and perverts concert , serata di beneficenza alla quale gruppi famosi, come i Bronksi Beat, danno la loro adesione. I membri del comitato di Dulais raggiungono la manifestazione, che raccoglie un mucchio di soldi ma, al loro ritorno, apprendono che, con un colpo di mano guidato da Maureen, il sindacato ha deciso di rompere i rapporti con la LGSM. Poco dopo – la linea della Tatcher contro i minatori ha intanto vinto in Gran Bretagna – nel successivo Gay Pride, i nostri amici sono isolati anche dalle organizzazioni omosessuali che non vogliono dare caratterizzazioni politiche al movimento ma l’arrivo dei minatori del Galles con i loro striscioni li farà finire alla testa della sfilata.

Matthew Warchus è un ottimo autore e regista teatrale e nel 1999 ha esordito al cinema con Inganni pericolosi, adattamento non memorabile di un testo minore di Sam Shepard. Pride è tutta un’altra storia e si inserisce autorevolmente nel filone britannico del dramedy (dramma con toni di commedia) inglese basato sulle lotte operaie (Full monty, Grazie, signora Tactcher, Billy Elliot, We want sex). Il film è basato su di una storia vera e riesce nel miracolo di coniugare un racconto impegnato e drammatico con toni leggeri e accattivanti; certo, gli attori, tutti eccezionali, aiutano non poco ma la scrittura di Stephen Beresford e la regia compongono un quadro di bell’impatto .Abbiamo nelle orecchie i commenti di nostri critici che lo hanno trovato furbo e poco politically correct e questo conferma e rafforza il nostro giudizio positivo.

 




Jobs act avanti tutta: c’è tanto da rottamare

cupolaSe anche il miglior sindaco, assessore, presidente, minisindaco non risponde, non riceve, dà appuntamenti offensivi ai suoi elettori, a quelli che sa che l’hanno eletto, alle forze più rappresentative di un territorio, allora c’è qualcosa che non va nella nostra macchina.
Perché questo è solo la metafora di come anche il miglior amministratore non ha il tempo, l’energia, la volontà di ascoltare la voce viva della società.
Il nostro povero amministratore è infatti vittima del vero nemico del paese: la cupola amministrativa burocratica che si è impossessata della macchina.
Leggetevi la legge di stabilità se ne siete capaci, ammirate le giravolte sulla tassazione della casa o l’ultima chicca sui 150 euro agli insegnanti o ricordatevi dell’incredibile storia degli esodati.
Chi ha elaborato questi capolavori legislativi, amministrativi, burocratici? Chi ha creato questi inferni in terra in cui dovranno sopravvivere poveri amministratori e poverissimi amministrati?
C’è qualche segnale di speranza nelle prime bozze del jobs act in cui si lede per la prima volta il pizzo sulle imprese delle Camere di Commercio e soprattutto si abolisce la sospensiva nei procedimenti amministrativi.
Sospensiva: che brutta parola per il nobile principio di evitare un danno.
Ma perché se ammazzo qualcuno e vado perciò in galera io non ho un danno? Perché non posso chiedere la sospensiva per evitarmi questo danno evidente? Perché allora il paese deve essere bloccato da decenni dalle sospensive di privati che per non ricevere un danno bloccano per tempi immemorabili opere, appalti, lavori che significano scuole, strade, asili, ospedali?
Forza col jobs act che c’è tanto da rottamare.
Ma soprattutto non lo si faccia scrivere alla cupola che finora ha reso le nostre leggi, circolari, sentenze un guazzabuglio infernale in cui sono morte ogni certezza del diritto e ogni vivibilità civile.
T.C.
Ecco il Jobs Act di cui in molti in queste ore stanno parlando