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Lo yogurt dell’integrazione

Barikamà, un gruppo di 6 ragazzi di origine africana, ha creato a Roma una cooperativa di micro reddito grazie alla produzione alimentare.

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Islam, mafie, città globali e periferie

Falsi spaventi veri pericoli

Dopo gli atti terroristici di Parigi, si è molto discusso di islam. Dietro a queste vicende c’è una cattiva interpretazione dell’islam. Tuttavia spiegare i fatti parigini come un conflitto tra islam e occidente è una semplificazione: lo scontro di civiltà e religioni, evocato dopo l’11 settembre 2001 sulla scia di Samuel Huntington. È peraltro una lettura popolare tra gli islamisti, tanto che la traduzione del libro dello studioso americano è stata molto venduta nel mondo arabo. Le semplificazioni sono attraenti per animi spaventati: l’islam sarebbe ineluttabilmente aggressivo. Le semplificazioni procurano consenso in casa nostra, mentre il richiamo alla complessità appare inutile. Se si vuole rispondere sul serio, bisogna però capire. Dobbiamo identificare i punti deboli delle nostre società. Senza dimenticare che molti Paesi europei sono vicini geograficamente a terre segnate dalla guerra: Siria, Libia e Iraq. Siamo in un mondo complesso perché globale, che necessita spiegazioni multiple.

Un punto decisivo nei fatti sono le banlieues di Parigi. Qui si addenserebbero quasi due milioni di musulmani. Un esempio: Ivry sur Seine, centro della banlieu rossa, come si vede dalla centrale Avenue Thorez, il nome dello storico leader comunista. Qui, il cattolicesimo francese, dagli anni Trenta, si pose il problema di penetrare nel proletariato comunista. Cattolici come Madeleine Delbrel proposero una prossimità, alternativa allo scontro con i comunisti. Era il mondo dove, nel secondo dopoguerra, la Chiesa sentì la fragilità della parrocchia e lanciò i preti operai.

Oggi questo mondo è finito: la rete comunista dissolta, la presenza cattolica ristretta. Quella cristiana è spesso affidata a comunità protestanti o neoprotestanti, composte da immigrati. L’islam è una grande realtà e le moschee si moltiplicano. Mancano reti, comunità: la gente è sola, spesso senza lavoro né legami. Sono finiti i partiti e tanti altri tessuti aggregativi. Ha dichiarato il primo ministro Manuel Valls: «In Francia esiste un apartheid territoriale, sociale ed etnico». Non solo a Parigi o in Francia, ma nelle città globali: mancano i corpi intermedi e la gente è sola. Ogni città ha la sua storia, ma la globalizzazione le trasforma tutte.

L’uomo e la donna contemporanei sono spaesati, senza identità e capacità di lettura del mondo. La città, come spazio comunitario, si restringe ai luoghi del potere e dell’economia, ad aree centrali o abitate da ceti particolari. È la città “utile”, centro di scambi e relazioni globali.

E il resto del mondo urbano? L’islam, nelle periferie francesi, specie nelle forme estremiste, ridà identità a giovani che non ne hanno. Con terribili semplificazioni, individua nemici simbolici cui addossare la responsabilità di tanti mali. La comunità ebraica torna un bersaglio. È un fatto gravissimo che preoccupa gli ebrei del mondo e noi tutti. L’islamismo crea un sistema compensatorio che, con la militanza o la violenza, fa passare i periferici dall’anonimato all’”eroismo”. Diventa un’ideologia di massa per i “dannati della terra”, laddove non esiste cultura condivisa e manca il legame di prossimità. Il presidente egiziano al-Sisi ha parlato di un islam ridotto a «ideologia».

Il problema non è solo l’islam, ma la città globale, caratterizzata dalla frattura tra la parte “utile” e periferie. Non è un caso che, in tante metropoli latino-americane o africane, i benestanti si chiudano nei compounds e interi quartieri siano fuori controllo. Qui non aggrega l’ideologia islamica, bensì le mafie, in cui il movente criminale è però capace di creare una rete sociale e addirittura una proposta religiosa (come il diffuso culto della Santa Muerte in Messico). Tante città messicane sono soffocate dalle mafie e dalla loro “guerre civili”. In Italia, nonostante le dimensioni modeste delle città rispetto alle megalopoli, si deve stare attenti. Nella periferia di Roma, sono scomparsi i corpi intermedi e la gente è sola.

Finiscono anche le figure istituzionali di prossimità come gli assistenti sociali. Chi ascolta la gente di periferia e la orienta in un mondo complicato? Le recenti vicende della “mafia” romana fanno riflettere sulle strumentalizzazioni della xenofobia.

Non è un caso che papa Francesco, figlio di una megalopoli, Buenos Aires con le sue Villas miserias, ponga il problema di ricominciare dalle periferie. Spesso, in alcune città europee o latino-americane, la Chiesa cattolica è nelle periferie una risorsa unica, ma risente del sovraccarico di domanda e della fragilità del suo personale. La realtà è complessa. Sarebbe però un errore trascurare il grande protagonista del nostro tempo: le masse periferiche, colpite dalla crisi economica, penalizzate dall’infragilimento delle istituzioni, estranee a una cultura condivisa. Sono le masse degli immigrati, ma non solo.

Non le si recupera con una politica emozionale o con il messianismo dei leader, come in alcuni Paesi latino-americani. Nelle periferie, l’alternativa a una vita anonima sembra la violenza, favorita dalla grande circolazioni di armi, da reti mafiose o islamiche. Scriveva il poeta David Turoldo: la periferia «è come un cerchio di fuoco dove si azzuffano angeli e uomini…».

Occorre affrontare, presto e in una prospettiva di lungo periodo, la questione delle città globali e delle periferie, prima che diventino invivibili e inestricabili. Ormai la storia del mondo è divenuta essenzialmente urbana dopo che, nel 2007, per la prima volta dalle origini, gli abitanti delle città hanno superato quelli delle campagne. Non si creda però che questa storia possa essere scritta senza inclusione delle masse periferiche. Sarebbe una storia pericolosa.

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Corviale – Berlino

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Corviale Straße è una strada immaginaria che parte dalla periferia di Berlino e arriva a ridosso dell’Eur, lungo la quale prende vita un bellissimo progetto fotografico, in #mostra da domani, ore 19.00, presso lo spazio Ambrarte del nostro teatro. Partecipate all’inaugurazione! Vi aspettiamo.

 

https://www.facebook.com/TeatroAmbraGarbatella/timeline?ref=page_internal




Non basta gridare: “Io sono Charlie”. La tolleranza come cittadinanza attiva

La risposta alla strage di Parigi non si può limitare alla difesa declamatoria delle nostre libertà colpite a morte dal terrorismo islamico. Ci vuole una risposta attiva di tutti coloro che si riconoscono nei valori della democrazia, indipendentemente dalle appartenenze politiche, ideali e religiose. La libertà di espressione e di opinione, come tutti i diritti umani, non ha bisogno di essere continuamente fondata, ma va costantemente promossa, impedendo concretamente che sia violata. E la guerra condotta dal terrorismo islamico al cuore delle nostre democrazie non è altro che il tentativo di fare in modo che questi diritti non siano più garantiti. È il tentativo di smorzare le virtù laiche della nostra civiltà: il rigore critico, il dubbio metodico, la moderazione, il non prevaricare, il rispetto delle idee altrui, la tolleranza. È il tentativo di distruggere la pratica della laicità che si esprime rigorosamente attraverso argomenti razionali senza mai dispensare false certezze a buon mercato. A questa guerra bisogna rispondere promuovendo ulteriormente sia le libertà che lo spirito laico, sia i diritti che la tolleranza.

io sono charlieLa risposta alla mattanza di Parigi non può, dunque, essere quella di innalzare muraglie difensive, rinfocolare stati di emergenza o rincorrere funeste semplificazioni, ma deve essere quella di governare freddamente una lunga fase in cui l’attacco nemico si farà sempre più intenso e insidioso. Se dinanzi a questo attacco, dovessimo mostrarci intimoriti, insicuri, frastornati, divisi, saremmo già sconfitti in partenza.

Non si deve negare il nesso tra violenza e Islam radicale. La gihad o guerra santa è davvero il sesto pilastro (arkan) dell’Islam, uno dei precetti fondamentali che i musulmani rispettano per meritare il paradiso. Se oggi è presente solo presso alcune correnti (ismailiti e kharijti), in passato era considerato un dovere da osservare ciecamente da parte di tutte le varie forme di Islam.  Il Corano è disseminato di appelli alla gihad. Quel precetto è stato più volte ritematizzato. Ora il centro dove portare il conflitto non s’intende più un luogo fisico, come poteva essere un tempo il campo di battaglia, ma direttamente l’anima degli individui, la sede dove le persone coltivano i valori della libertà e della democrazia. E lo strumento per attaccare l’anima delle persone è il terrore. Dinanzi a questa determinazione non c’è atteggiamento conciliante che tenga. Bisogna rispondere con analoga freddezza. E una delle risposte è praticare la tolleranza come cittadinanza attiva.

 

Come diceva Norberto Bobbio, la tolleranza non va interpretata come espressione di uno stato d’indifferenza di fronte alla verità o come atteggiamento di chi non crede a nessuna verità e per il quale tutte le verità sono egualmente discutibili. Nello stesso tempo, la tolleranza non va praticata, come fanno i credenti, come un minor male, e solo nel caso in cui sia strettamente necessario per la difesa stessa della propria verità. La tolleranza non deve essere considerata una mera regola di prudenza. Ma va vissuta come un metodo per rispettare la coscienza altrui, ponendosi però dei limiti ben precisi.  E dove sono questi limiti invalicabili? Nella formula seguente: tutte le idee debbono essere tollerate tranne quelle che negano l’idea stessa di tolleranza. Insomma, gli intolleranti non devono affatto essere tollerati. In che modo? Non già perseguitandoli, ma riconoscendo ad essi il diritto ad esprimersi liberamente e criticando aspramente le loro intolleranze. Insomma, basta con il buonismo tollerante e conciliante. Bisogna passare alla battaglia delle idee mediante l’argomentazione, il confronto duro, l’educazione, la progettualità condivisa e la crescita culturale. Tutto ciò non si fa con le chiacchiere ma investendo risorse adeguate nei territori multietnici delle nostre città.

Non è detto che l’intollerante, accolto nel recinto della libertà, capisca il valore etico del rispetto delle idee altrui. Ma è certo che l’intollerante escluso non potrà mai diventare un leale osservante della tolleranza. Può valer la pena di mettere a repentaglio la libertà accogliendo nel nostro seno il nemico, se l’unica alternativa è di restringerla sino a soffocarla. Meglio una libertà in pericolo ma che si espande che una libertà protetta che si chiude in se stessa. La vera libertà corre sempre il rischio di trasformarsi nel suo opposto.

torre eiffel