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La comunità musulmana a Roma

Breve viaggio all’interno dei luoghi di aggregazione della comunità dei musulmani della Capitale. Come vivono? Quanti sono? Qual è il rapporto con il resto della società?
All’interno della complessa struttura dello scheletro sociale della Capitale, vivono più di 100.000 musulmani, a stretto contatto con le altre comunità, ben radicati e inseriti nei contesti quotidiani dei quartieri romani.

Nell’ombra di una città che mostra una doppia faccia nei loro confronti, come nei weekend le targhe alterne delle auto che affollano viale Marconi, la presenza musulmana a Roma comincia a espandersi a metà degli anni Novanta, anche grazie all’inaugurazione della Grande Moschea, nel 1995.
L’Imam della Moschea di Magliana
Erano pochi quando arrivarono, alcuni senza documenti, molti non sapevano nemmeno parlare l’italiano e non possedevano un lavoro, come mi racconta Sami Salem, Imam della Moschea di Magliana, a sud ovest della città, fin quando, con la fatica e le difficoltà che incorniciano tutti i processi di integrazione, cominciarono ad ottenere tutta la documentazione necessaria e a cominciare un cammino: “[…]piano piano tutti sono diventati regolari, lavoratori, hanno imparato la lingua e hanno studiato, la maggior parte sono qualificati. Alcuni sono anche nati qui […]”. Nelle scuole del quartiere, due parti complementari del mondo giocano insieme fra i banchi, studiano sugli stessi libri e disegnano un futuro felice, distanti dai dibattiti e dal vocio della politica.

Sono le 19,30 di un freddo marzo e l’Imam mi accoglie nella sua moschea offrendomi del tè, non prima di essermi slacciato le scarpe. Il luogo è semivuoto, è tardi e non è nemmeno venerdì, giorno di preghiera collettiva.
Sono tempi difficili, ma “stiamo cercando di costruire qualcosa in questo paese, in questa città” mi dice, “dobbiamo collaborare, è una società unica quella in cui viviamo”.
La parola “integrazione” pare sia stata ampiamente superata e sostituita, ma va interpretata sotto due significati: quella degli immigrati e quella degli italiani. “Noi abbiamo fatto la maggior parte del lavoro: abbiamo imparato la lingua, le legge, la Costituzione, abbiamo trovato un lavoro, spesso senza ricevere nessun aiuto e abbiamo sofferto per legalizzare la nostra posizione, con i documenti e tutto il resto”. E’ tardi per tornare indietro. La nuova parola chiave ora è “costruire”, insieme. Mi elenca tutti i progetti svolti con le amministrazioni capitoline precedenti, con le associazioni e con il governo e mi dice che sua figlia fa volontariato con la Comunità di Sant’Egidio, per gli anziani. Se non è integrazione questa.

Sono stati proprio questi ultimi a tender loro una mano, quando vent’anni fa arrivarono centinaia di egiziani, marocchini, tunisini e bengalesi, e come una coincidenza a verifica della veridicità delle sue parole, in quell’esatto istante bussa alla porta della moschea un esponente dell’Ong.
Non riesce a capire quali siano le motivazioni che spingono una parte della popolazione ad emarginare la comunità islamica, specialmente quando afferma di volermi spiegare bene come funziona: “E’ inutile tentare di dividerci. Posso dire che uno straniero che sceglie di vivere qui, in Italia, ha più voglia di dare un contributo alla società rispetto a chi in questa società ci è nato, non per sua volontà. E se parliamo di criminali ti dico una cosa: un criminale è un criminale, punto. Non ci sono altri titoli da aggiungere: che sia ebreo, cristiano, musulmano non importa.
preghiera musulmana in moscheaQuegli individui che noi definiamo terroristi sono dei fantasmi invisibili: non frequentano nemmeno la comunità, non pregano con noi in Moschea, stanno ai margini. Ci sono delle persone che interpretano le Scritture in maniera più radicale rispetto agli altri, ma non sono terroristi. Presto questo centro diventerà un ospedale e già ora facciamo la donazione del sangue, destinato ad ogni anima che ne abbia bisogno, musulmana o no.” Le colpe sono individuali, non sono da addossare ad un’intera comunità, allo stesso modo di come fece l’Europa per gli assassini compiuti dal fondamentalista cristiano Anders Breivik il 22 luglio del 2011 in Norvegia. All’epoca il dibattito si concentrò principalmente sulla lucida follia del terrorista ma nessuno diede la colpa all’intero Occidente per la morte di 77 persone. Quando il 25 aprile del 2015 invece, la Polizia arrestò a Torpignattara Niaz Mir, un ragazzo pakistano sospettato di esser membro di un network terroristico affiliato ad Al-Qaeda, l’opinione pubblica puntò il dito su tutta la collettività araba del paese. I due pesi e le due misure dell’Occidente.

La religione musulmana impone ai fedeli di partecipare alla vita della comunità e conseguentemente di rivolgere un pensiero alla costruzione di un futuro che offra condizioni sociali dignitose. Mi ripete più di volte di amare Roma, di considerarla come la città dell’accoglienza, della misericordia, della tolleranza e del dialogo, ma troviamo un nemico comune: l’ignoranza, matrice d’odio, creatrice di falsi idoli e nemici fittizi che può servire solamente a farcire asettici talk show. Prima di salutarci ci tiene a ricordarmi una cosa: “Noi stiamo insegnando ai nostri fedeli ad essere come la pioggia: esserci sempre dove sarebbe davvero utile. Per il bene di tutti.”
Torpignattara

Lascio la moschea di Magliana e il mio viaggio non può che passare proprio per Torpignattara, dove i cittadini sembrano quasi infastiditi dalle mie domande, ma dove si respira un fortissimo senso di comunità che anima la vita del quartiere.
La comunità musulmana non è composta solamente da moschee, istituzioni religiose e politiche, ma anche da centri di accoglienza, spesso i primi porti nei quali i migranti approdano.
Baobab

Il “Baobab” di via Cupa, centro multiculturale ripensato e riadattato ha accolto 35000 persone in pochi mesi ed è un esempio calzante di una capitale europea che accoglie, che abbatte i muri e che si dimostra solidale, una Roma che capisce che le differenze culturali sono delle opportunità da cogliere, e non degli ostacoli.

In un soleggiato pomeriggio di marzo invece, in un caffè di San Giovanni incontro Sara El Debuch, siriana, studentessa di Giurisprudenza e attrice, di vent’anni. Ha vissuto la metà della sua vita in Toscana, fin quando i suoi genitori non hanno cambiato lavoro e si sono stabilizzati a Roma. Nota alle cronache recenti per la sua scelta di non portare più il velo, mi racconta la sua storia. Ha cominciato a fare cinema circa 4 anni fa, con “Border”, un film di Alessio Cremonini che le ha aperto una strada, fornendole nuove opportunità.

“Non sentivo di rispettare il velo con i miei atteggiamenti: non si trattava solamente di coprire i capelli ma anche di coprire determinati comportamenti.” I ragazzi di seconda generazione come Sara vivono una sorta di doppia identità, tra i genitori attaccati alla loro tradizione, complessa, diversa e non uniforme e la società in cui sono proiettati, che tende ovviamente ad assimilarli. La sua famiglia non ha accettato di buon grado la scelta di non portare più l’hijab, specialmente perché ha deciso di toglierlo durante il ramadan. Mi racconta di non aver mai subito atti di razzismo, a differenza di alcuni sue coetanee, spintonate sugli affollati autobus di Roma ma “un po’ è anche colpa dei musulmani che tendono a ghettizzarsi, che non parlano con le persone che non conosco personalmente”.

Sara è una ragazza decisa e convinta delle sue scelte anche se mi confessa di sentirsi in colpa per essersi distaccata dalla sua tradizione, per aver abbandonato la politica del suo paese e per essersi tolta il velo. “Portavo indirettamente un messaggio, e anche per il lavoro che svolgo, molti musulmani si affidavano alla mia figura”. Il simbolismo della religione però, lascia il tempo che trova, e di certo contribuisce all’impoverimento del dibattito, favorisce l’espansione degli stereotipi e distorce le analisi, almeno fin quando ogni cristiano devoto non indosserà un crocifisso al collo.

“L’Italia mi ha dato tanto, sono quel che sono anche grazie a questo paese, e così tanti giovani come me, che lo sanno perfettamente e ricambiano il favore”. Tutto dipende dall’ambiente, dallo spazio culturale in cui la società ti costringe a vivere, che contribuisce a portare confusione anche nel lessico politico. La parola “jihad”, per esempio, viene interpretata come un qualcosa di esclusivamente negativo mentre il Corano in realtà, ne fa riferimento solamente cinque volte, nessuna delle quali in senso militare e offensivo. Sara infatti mi spiega che “jihad non vuol dire uccidere, significa “sforzo”, ed è lo sforzo che fa mio padre per portare i soldi a casa, che fa mia mamma per cucinare la sera. Tutti conduciamo il nostro jihad quotidiano […] Se continuiamo a farcire la testa delle persone con la convinzione che tutti i musulmani sono terroristi, conseguentemente in loro cresce un senso di resistenza e di difesa che accumulano e infine diventano davvero ciò di cui sono accusati. Quelli che diventano “terroristi” hanno delle crisi di identità, non riescono a capire più chi sono, e si attaccano a qualcosa per farlo, come alla religione. Non si sentono accettati nella società e iniziano a vedere attorno ad essi soltanto nemici.”

Sara pensa che nel modo in cui stiamo procedendo, non arriveremo da nessuna parte perché “le guerre in corso le abbiamo fomentate noi, e ce lo dimentichiamo. Abbiamo depredato l’Africa per secoli, è normale che centinaia di persone vengano qui in cerca di un futuro migliore. Mio fratello per esempio ha 8 anni, e da quando è nato ha sentito parlare solamente della guerra, e questo deve cambiare. Smettiamola di essere egoisti e individualisti”.

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Immigrazione e periferie, nei quartieri di Milano arrivano gli psicologi di strada

Il piano parte dal quartiere con più alta densità di stranieri. L’obiettivo è sviluppare nuovi modelli di integrazione e gestire potenziali tensioni.
Una squadra di psicologi “di strada” per intercettare bisogni e problemi di chi vive in via Padova, il quartiere più multietnico della città. La proposta è dell’Ordine degli psicologi e ha avuto il finanziamento del consiglio di Zona 2. Per tre mesi un gruppo di esperti parlerà con i cittadini e con i rappresentanti delle comunità straniere e delle associazioni di volontariato. Al termine di questi incontri e dialoghi a più voci, si cercherà di fare una mappa dei temi da approfondire e anche una prima proposta di iniziative per far fronte ai disagi che potranno emergere nei colloqui.

Il piano che parte dal quartiere con più alta densità di immigrati in realtà è stato pensato per tutte le periferie milanesi, “luoghi in cui, ogni giorno, la contaminazione tra idee, nazionalità, costumi e religioni si traduce in opportunità per lo sviluppo di nuovi modelli di integrazione e in potenziali tensioni da gestire, anche sul piano del benessere mentale”, spiegano all’Ordine degli Psicologi della Lombardia che ha in mente un approccio nuovo di lavoro, col metodo della prossimità ai cittadini e della presenza capillare, concreta, in sinergia con i consigli di Zona, che sono poi i terminali dell’istituzione locale dove la gente va a presentare le sue richieste e doglianze.

Gli psicologi sonderanno bene la zona attorno al Parco Trotter, luogo di ritrovo delle famiglie con i bambini, ma anche dei giovani delle comunità sudamericane. “Crediamo che iniziative di welfare integrativo reale possano e debbano nascere a partire dalla comune volontà di depositare piccoli semi, anche economici, in grado però di far sbocciare grandi cambiamenti nel vissuto delle famiglie, delle comunità, dei quartieri – dice Riccardo Bettiga, presidente dell’Ordine – Le periferie metropolitane possono essere straordinari laboratori, in cui realizzare progettualità inedite, immaginare risposte nuove a nuove esigenze, incrociare energie e far crescere idee”.

Quello della “Psicologia di Zona” è uno dei progetti all’interno della piattaforma generale per una “psicologia sul territorio della città”, con cui gli psicologi si sono offerti di presidiare e dare attenzione alle zone più decentrate della città di Milano, in collaborazione col Comune e le zone. “L’obiettivo è quello di
comprendere e rispondere in modo sempre più articolato ai bisogni di cura e di benessere mentale dei cittadini invitati a partecipare a gruppi di discussione e a immaginare soluzioni tutti assieme”, conclude Bettiga. La logica è quella della prevenzione dello scontro sociale con l’ascolto e con le risposte concrete a problemi che magari non sono di grande entità: questioni di normale convivenza in un territorio delicato per mescolanza etnica, religiosa e culturale.

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Ue, verso quote obbligatorie per ripartire i richiedenti asilo tra tutti i Paesi

Obbligo per tutti paesi ad accogliere chi sbarca sulle coste italiane o degli altri paesi rivieraschi, incursioni nei porti libici per sequestrare e distruggere i barconi degli scafisti, aiuti ai paesi di origine e transito per sgominare le bande criminali di trafficanti di esseri umani che ruotano intorno alla Libia. Sarebbero questi i punti cardine della nuova Agenda sull’immigrazione che, salvo sorprese, sarà approvata mercoledì dalla Commissione europea. Un’accelerazione voluta dal presidente della Commissione Ue Juncker dopo la strage di aprile quando nel Canale di Sicilia sono morti 900 migranti. Se passerà, l’Agenda dovrà poi essere approvata dal Consiglio (i governi) e dal Parlamento di Strasburgo. E ieri l’ambasciatore libico all’Onu ha affermato che la Libia non appoggia l’idea di interventi europei nelle sue acque territoriali.

Verso quote obbligatorie nella Ue
La novità di maggior rilievo è la proposta di creare un sistema di quote obbligatorie di ripartizione tra tutti i paesi europei dei migranti già presenti sul territorio dell’Unione. Gli immigrati richiedenti asilo oggi stipati nei centri d’accoglienza italiani o maltesi, ormai al collasso, saranno sparpagliati tra i Ventotto con un criterio di quote obbligatorio al quale nessun governo potrà sottrarsi. La Commissione proporrà anche una missione di intercettazione dei barconi degli scafisti anche in acque territoriali libiche, persino dentro ai porti, sequestrarli prima della partenza ed eventualmente affondarli.

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Mogherini: su immigrazione finalmente arriva risposta europea
L’Alto Rappresentante dell’Unione europea per la politica estera, Federica Mogherini, ha detto che con l’imminente Agenda europea per l’immigrazione arriva «finalmente una risposta europea» sul tema. Intervenuta a un dibattito durante la giornata di Expo 2015 dedicata all’Ue, Mogherini ha poi aggiunto che è «onesto dire che non cambierà la situazione in una settimana. Quello che stiamo facendo tocca diversi fronti e per la prima volta lo stiamo facendo da europei». Un riferimento al progetto che prevede, tra l’altro, un’equa distribuzione dei profughi all’interno dei ventotto paesi dell’Unione.
Nel corso del dibattito, Mogherini ha sottolineato che tra le priorità c’è quella di «lavorare con i libici, con gli altri paesi della regione e con l’Onu per creare un governo di unità nazionale» in Libia.

Pinotti: Italia pronta ad assumere leadership missione in Libia
L’Italia è pronta ad assumere la leadership di una missione in Libia ma non può essere lasciata sola dall’Europa. È quanto ha sostenuto il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, intervenendo questa mattina a un convegno della Fondazione Carlo Donat-Cattin sulla Grande Guerra. «Siamo pronti a fare la nostra parte – ha spiegato – ma nel momento in cui i rischi sono più evidenti per noi non dobbiamo essere lasciati soli».

Gentiloni: 10 giorni per risoluzione Onu
Lunedì l’alto commissario per la politica estera Federica Mogherini sarà a New York per tessere la tela diplomatica al Consiglio di sicurezza dell’Onu, dal momento che è necessaria un’azione all’interno del diritto internazionale. L’obiettivo dell’Itali è l’ok a una risoluzione che dia il via libera agli interventi anti-scafisti entro il summit europeo del 25 e 26 giugno. «I tempi per una risoluzione Onu non sono così lunghi anche se l’operazione ha un certo livello di complessità. Tra una decina di giorni si capirà se la bozza preparata dall’Italia, presentata dal Regno Unito e sul quale esiste già intesa tra Francia, Gran Bretagna, Spagna e Lituania possa essere accolta anche dagli altri undici membri del Consiglio di sicurezza, a partire dai membri permanenti con diritto di veto. Dai contatti fin qui avuti da Federica Mogherini e da noi non vedo obiezioni di principio da parte degli Stati Uniti. E neppure da Russia e Cina. Ma la convergenza su un testo non è mai semplice». Così, in un’intervista al Sole 24 ore, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.

Possibile uso della forza contro gli scafisti
Sulla possibilità di colpire scafisti e barconi, nella bozza Gentiloni ha confermato che «si fa esplicito riferimento al capitolo 7 della Carta Onu che prevede la possibilità del ricorso all’uso della forza». Il problema, ha proseguito il ministro, «è destinato a durare anni: per ridurne l’impatto serve la stabilizzazione della Libia che oggi è la porta aperta al traffico dei migranti. Sul negoziato per la formazione di un nuovo governo in Libia l’accordo è possibile ma – ha avvertito – occorre fare presto. Nei prossimi 30, 40 giorni occorre trovare un’intesa o c’è il rischio di un’escalation di violenza e terrorismo».

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Roma brucia sotto gli occhi inebetiti di Roma

Quali riflessioni inducono i fatti sconcertanti avvenuti a Tor Sapienza e nell’intero quadrante est di Roma?

La prima riflessione è che interi quartieri della capitale d’Italia sono controllati dalle mafie. L’eroina che si spaccia in così enormi quantitativi non può nascere sugli alberi lungo i viali della città e il riciclo di attività illecite non può avvenire spontaneamente. Roma è il centro dove si realizza l’osmosi  tra gruppi italiani di criminalità organizzata e i loro “colleghi” stranieri. Non solo. È anche la cabina di regia di un’inedita alleanza: quella tra mafie e movimenti populisti e xenofobi di destra per organizzare un consenso diffuso intorno ai traffici illeciti e ai fenomeni di corruzione, soffiando sul fuoco del malessere sociale nei quartieri con una maggiore presenza di immigrati. Di questo non c’è ancora consapevolezza nelle forze politiche, nelle istituzioni e nella società civile. È solo disattenzione o si tratta anche di mafiosità latente che ci riguarda un po’ tutti? Mi ha fatto piacere che a parlarne con toni consapevoli, in una riunione del Pd, sia stato il presidente del Municipio V, Giammarco Palmieri. Forse è possibile preparare un’iniziativa politica adeguata che parta dal basso.

La seconda riflessione è che i figli e i nipoti degli ex baraccati e degli ex borgatari degli anni cinquanta e sessanta, migrati dalle regioni centro-meridionali del paese, stanno sviluppando un loro modo peculiare di vivere la crisi economica. Essi stanno subendo un arretramento dei livelli di benessere fino a rasentare la soglia di povertà. La condizione di profonda incertezza rispetto al futuro fa sì che queste persone sviluppino una tipica avversione verso i deboli: non perché c’è in loro il senso del nemico, ma per paura di cadere nello stesso livello. Allora, attraverso l’aggressione al nero, al nordafricano, al bengalese, si stabilisce  una distanza rispetto al pericolo di una contaminazione da contatto. È la reazione a questo rischio e a quello di cadere al loro stesso livello. L’avversione contro il più debole è, poi, il bisogno di sfogare le frustrazioni che provengono dalle sfere della società in cui non si può arrivare, calpestando coloro che stanno sotto: creando, cioè, dei capri espiatori al di sotto. Un rancore verso l’alto che si sfoga verso il basso. È una distorta ricerca di dignità. Su questi sentimenti fanno leva i movimenti populisti per incanalare la violenza verso gli immigrati e la protesta verso le istituzioni considerate le principali responsabili dell’afflusso di stranieri nei quartieri multietnici della città. Non c’è, dunque, da perdere ulteriore tempo nel varare le misure socio-economiche del governo Renzi: 1) ridurre la pressione fiscale sul reddito da lavoro medio basso; 2) rendere permanente il bonus di 80 euro per i lavoratori con reddito inferiore a 26 mila euro; 3) eliminare il costo del lavoro a tempo indeterminato dalla base imponibile dell’IRAP; 4) fiscalizzare totalmente i contributi previdenziali per tutti i neo assunti, nei prossimi tre anni, con contratto a tempo indeterminato. Prima si interviene per ridurre il disagio sociale delle famiglie e prima si potrà arrestare il clima di violenza.

La terza riflessione è che nei quartieri di Roma interessati a questi fenomeni si dovrebbero concentrare risorse pubbliche e private per azioni di sviluppo – opportunamente accompagnate e facilitate – in grado di modificare drasticamente la struttura economica e sociale dei territori. Si tratta di creare lavoro in una logica produttiva stabile mediante processi di autoimprenditorialità economicamente sostenibile e coinvolgendo giovani italiani e stranieri.  La programmazione dei fondi europei 2014-2020 potrebbe essere un’opportunità qualora le istituzioni locali e la società civile, organizzata nelle assemblee di cittadini, costituissero dei partenariati pubblico-privati per promuovere lo sviluppo locale e gestire i beni comuni.  Questi percorsi forti di sviluppo potranno poi riguardare anche un’opera più lunga, diuturna, di educazione, di attivazione culturale, di associazionismo sociale. Ma oggi l’attenzione è rivolta esclusivamente a questi aspetti che vanno sotto il titolo “cultura”. E non si ha alcuna idea su come costruire, invece, uno sviluppo economico duraturo mediante nuove attività produttive e un nuovo Welfare produttivo. Da nessuna parte si discutono gli obiettivi concreti da realizzare nei quartieri della “guerriglia urbana” per renderli intelligenti, sostenibili e inclusivi, come prevede Europa 2020. Si sta perdendo stupidamente l’occasione dell’istituzione della città metropolitana di Roma capitale per dare finalmente la piena autonomia ai municipi e permettere così di avere un’istituzione di prossimità attrezzata per affrontare i gravi problemi della città. C’è ancora a Roma una classe dirigente degna di questo nome?

Manifestazione di cittadini a Tor Sapienza

Manifestazione di cittadini a Tor Sapienza