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Il New York Times e l’aereo precipitato: lezione di giornalismo

È circa mezzanotte, ora italiana, quando il New York Times batte la notizia, pubblicando un pezzo e twittandolo a breve giro di posta: “Uno dei due piloti era bloccato fuori dalla cabina prima che l’aereo precipitasse in Francia” è il titolo dell’articolo che, come evidente, non ha bisogno di sofisticate trappole di “click baiting” per svelare il suo contenuto.

L’articolo  in questione è stato ripreso globalmente da tutte le testate , twittato migliaia di volte, una notizia che ha bucato trasversalmente tutti i media, vecchi e nuovi.

Il primo pensiero che mi è balenato alla mente è: “come diavolo fanno a stare sempre sul pezzo e ad arrivare primi questi del NYT?”. Eppure lo abbiamo visto in televisione, ribadito centinaia di volte sui media di ogni tipo, a Seyne-les-Alpes vi sono centinaia di giornalisti piovuti da tutte le parti del mondo.

E , se lo andate a leggere quel pezzo sul New York Times, ha tutto meno che il “look” del sensazionalismo gratuito. La testata americana rivela indiscrezioni di un ufficiale militare francese che sarebbe venuto a conoscenza di un primo ascolto della scatola nera (quella che registra l’audio di cabina), non solo, ma altre indiscrezioni provenienti sempre dal comparto militare, rivelate nell’articolo del NYT, iniziano a svelare alcuni dei misteri della tragedia.

Il tutto con grande sobrietà, senza alcun “titolone”, senza tecniche particolari di coinvolgimento o cattura dei lettori. Perché? Evidente quella è una NOTIZIA !!!

Certo possono essere formulate le più avanzate teorie (già largamente discusse) sui chiari rapporti tra stampa americana e ambienti militari, rapporti fatti di “do ut des” e quindi basati su forti legami ed interessi reciproci.

Tutte le teorie e le spiegazioni possono essere sviluppate o proposte, resta tuttavia alla fine qualcosa che nel giornalismo fa, ed ha sempre fatto, la differenza: il NYT aveva la notizia, il NYT ha fatto il pezzo, il NYT ha fatto giornalismo.

Credo che questo elemento, ancor più di ogni altra considerazione, debba farci riflettere sulla famosa questione “dove sta andando il giornalismo”, che se giornalismo vuole essere, non potrà mai fare a meno delle notizie.

Poi potremo discutere delle piattaforme, dei social media e, come miseramente avviene da noi, se la pagina Facebook di un giornale sia o non sia “il giornale”

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Facebook ospiterà le notizie direttamente sulla bacheca

Per leggere una notizia su Facebook potrebbe non essere più necessario cliccare sui link postati dai giornali. Il team di Mark Zuckerberg sta portando avanti un progetto che permetterà alle testate giornalistiche di pubblicare direttamente sul social network, rendendo i contenuti più fruibili da parte degli utenti.

National Geographic, Buzzfeed e New York Times starebbero già firmando accordi per testare la novità, che potrebbe essere operativa già nei prossimi mesi. Ed è proprio il New York Times a spiegarla: “Gli articoli pubblicati su Facebook contengono dei link che rimandano al sito del giornale. Cliccandoli si apre una pagina web che solitamente impiega 8 secondi per caricarsi. Troppo tempo, soprattutto per i dispositivi mobili. Se si tratta di catturare gli occhi sfuggenti dei lettori anche i millisecondi contano”.

La parola chiave del nuovo sistema è, dunque “velocità”. Ma anche “guadagno”: alla testate verrebbe garantita una parte degli introiti derivanti dalla pubblicità. “Per rendere la proposta più attraente, Facebook ha discusso con gli editori alcune strategie per fare soldi grazie alla pubblicità disposta a fianco dei contenuti”, scrive il New York Times. Ma non solo: le testate potranno usufruire della visibilità che il social network garantisce ai video, uno strumento pubblicitario molto potente.

Allettante è anche l’idea di poter arrivare a coinvolgere sempre più lettori: con i suoi 1,4 miliardi di utenti, Facebook è una risorsa irrinunciabile per molti giornali. L’algoritmo che “seleziona” le notizie che compaiono in bacheca è un filtro sempre più importante, soprattutto per i più giovani. Se il progetto andrà in porto, qualche difficoltà non mancherà per le testate: ad esempio, potrebbe essere più difficile raccogliere le preziosissime informazioni sulle preferenze degli utenti perché i dati sul traffico potrebbero essere più sfuggenti.

L’ambizione di Facebook di ospitare direttamente le notizie è stata anticipata e raccontata lo scorso ottobre dal famoso giornalista David Carr, morto il 12 febbraio 2015. “Aprire le pagine di alcuni giornali sugli smartphone può essere straziante perché sono troppo rallentate dalla pubblicità. Facebook ama i contenuti, ma non sopporta la tecnologia che alcuni editori usano per il mobile. Il social network può aiutarli a fare di meglio”, scriveva su Nyt. Una “profezia” che sembra combaciare perfettamente con il nuovo sistema: “Le testate potrebbero semplicemente rinviare ad altre pagine di Facebook, che vivrebbero dentro il social network e che potrebbero, perciò, essere caricate più velocemente, con le pubblicità giuste. Il guadagno poi sarebbe condiviso”.

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7 testate europee si alleano “per consolidare l’opinione pubblica”

La via la Leading European Newspaper Alliance “per mettere in comune esperienze giornalistiche e promuovere giornalismo di qualità in Europa”. Soci fondatori Die Welt per la Germania, El Pais per la Spagna, la Repubblica per l’Italia, Le Figaro per la Francia, Le Soir per il Belgio, Tages-Anzeiger e Tribune de Genève per la Svizzera.

Alleanza a sette nella stampa del Vecchio Continente. Sette testate di sei Paesi hanno lanciato la Leading European Newspaper Alliance “per mettere in comune esperienze giornalistiche e promuovere giornalismo di qualità in Europa”. Soci fondatori sono Die Welt per la Germania, El Pais per la Spagna, la Repubblica per l’Italia, Le Figaro per la Francia, Le Soir per il Belgio, Tages-Anzeiger e Tribune de Genève per la Svizzera. Gli editori delle testate hanno nominato l’ex direttore di El Pais, Javier Moreno, direttore dell’associazione. Tra gli obiettivi di Lena “c’è quello di consolidare un’opinione pubblica europea grazie ai valori comuni dalla testate socie relativi all’importanza del giornalismo di qualità con l’obiettivo di creare una società aperta e democratica sostenendo un messaggio di progresso economico e di giustizia sociale“, spiega una nota del gruppo Espresso secondo il quale “l’alleanza vuole anche assicurare un vantaggio tecnologico, commerciale e editoriale ai propri soci e a tal fine selezionerà in questi campi i partner più adatti”.

Uno degli obiettivi principali dell’associazione, spiega ancora la nota dell’editrice della famiglia De Benedetti, è la creazione e lo scambio di contenuti editoriali. Ciascun giornale metterà a disposizione una selezione di articoli su una piattaforma comune dalla quale ciascun socio potrà attingere secondo i propri bisogni. In aggiunta, interviste, servizi, editoriali potranno essere commissionati per la pubblicazione simultanea su tutte le testate dell’associazione. L’alleanza si occuperà anche dello sviluppo comune del digitale. Un programma per scambio di personale consentirà inoltre a giornalisti e dipendenti di operare presso le altre testate dell’associazione. In aggiunta alla pubblicazione di articoli, interviste o servizi, Lena £contribuirà allo scambio di idee coinvolgendo esperti, persone di business e politici in eventi sui temi dello sviluppo dell’Europa”.

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#L’Oriana, miniserie di Marco Turco

 

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È arrivato il momento di dire la verità, di alzare lo sguardo verso la luce,  guardare la realtà vis-à-vis. Il film-fiction L’Oriana, di due puntate, andato in onda il 16 e 17 febbraio su Rai 1, non merita l’attenzione del pubblico. La Puccini non gratifica e non onora il “personaggio” Oriana Fallaci, né tantomeno la mirabile avventura della più grande giornalista degli anni 70. Il poco gusto di un prodotto confezionato, e pronto per l’estero, pacchetto compreso. Molti i commenti sul web e sui social network utilizzando l’hashtag #l’oriana. Nessuno è rimasto soddisfatto. Forse perché il personaggio era troppo complesso per essere inquadrato in due puntate, forse perché la sua opera è stata travisata, la sua persona filtrata dal romanzesco. Un’anziana Fallaci che illustra la sua vita, con disprezzo e maleducazione, ad una giovane studentessa di giornalismo la sua vita è l’escamotage narrativo – un episodio mai accaduto – con cui si apre il sipario sulla telenovela “la Fallaci e la sua vita alternativa”. Non erano di certo le basi della sua vita la ricerca dell’amore, ossessivo, maniacale, le “pieghe rosa” della fiction, e la smania per una maternità che non arriverà mai. Fare il giornalismo, “non l’ho studiato” dice Oriana, era il suo impegno vitale. Ma non sappiamo che tipo di messaggio voleva veicolare il produttore, il regista, per poter dire di non aver assolto al suo compito.  Se questa miniserie si prefigura lo scopo di essere una biografia, fallisce. Se si sofferma sullo sfondo storico, con l’obiettivo di riproporre tematiche e scenari diversi dalla nostra attualità, brancoliamo nel buio. Le ricostruzioni e i paesaggi mendaci sono il frutto di una mediocrità e di una superficialità dilagante e una pochissima attenzione ai dettagli sono; le scene, che si susseguono, banali, insipide, senza suspence, ricostruiscono Saigon in una sorta di periferia romana, per riproporre dei dialoghi estrapolati dai suoi libri e altri scritti con poca cura.

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E quando mi viene detto che “fare un po’ di cultura significa provarci” io mi indigno. Come si indignava Oriana a vedere sporcata la sua Piazza, a Firenze, quando, nell’estate del 1999 un gruppo di “musulmani somali sfregiarono e oltraggiarono per tre mesi e mezzo piazza del Duomo a Firenze. La mia città”. [1] E per conoscere veramente l’Oriana, di cui i giornali e i media si fanno portavoce nei loro articoli arrivisti, per discutere dell’Islam e della minaccia terroristica, bisognerebbe rileggere la prefazione del suo libro “La rabbia e l’Orgoglio”, nato e cresciuto in lei, dopo tanti anni di silenzio, che recita: “Ma vi sono momenti, nella Vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci può sottrarre”[2]  Allora, se mi affido alle sue parole, e ai suoi libri, mi sento offesa. Perché la cultura non si da a pillole. La cultura non si “fa”. Non si crea, “piano piano”; la cultura non è un prodotto commerciale, non si guadagna.
Quando mi viene detto “è comunque cultura” oppure “meglio di niente”, mi sento indignata. La cultura o c’è o non c’è. Continuo a pensare che la cultura è leggere le opere di prima mano.  Penso che per conoscere veramente Oriana Fallaci bisogna aprire un suo libro. E leggerlo. Tutto. Dall’inizio alla fine. Leggere la storia con Alekos Panagulis in Un uomo, se vogliamo mettere al centro l’amore e le mille sfaccettature dolorose. Bisogna leggere le sue interviste ai grandi della terra per sapere veramente cosa aveva chiesto a Khomeini. Bisogna leggere “Intervista con il Potere”, allora.
Per capire il suo dramma individuale nella lotta contro il cancro e l’amore spasmodico per la Vita bisogna leggere Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci. In un’intervista la Fallaci aveva detto, parlando di sé “su ogni esperienza personale lascio brandelli d’anima”.

A questo punto le tue parole, Oriana, rimangono sulla carta e nei nostri cuori di lettori. Zì! Zì! Zì! Vive! Vive! Vive! – urlava il corteo al funerale di Alekos, il  5 maggio 1976, in cui i “grappoli di persone”  strisciavano verso la chiesa, in un’unica direzione, tutti insieme a forma di “piovra” – allo stesso modo i tuoi lettori dicono Zi! Zi! Zi !
Vivi Oriana, vivi dei tuoi pensieri e dei tuoi bei ricordi.

[1] Cit. Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgolio, BUR Rizzoli, 2009, p. 96

[2] Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, BUR Rizzoli, 2009

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Ebook di Wired sul futuro del giornalismo

Come saranno i giornali del futuro? Philip di Salvo e Valerio Bassan hanno intervistato ricercatori, analisti e giornalisti che invece di chiudersi in se stessi stanno già vivendo il cambiamento.

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#Spiazziamoli all’ Università Roma Tre

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La gravità e la diffusione dei fatti messi in luce dall’indagine “Mondo di mezzo” della Procura di Roma, rendono urgente una reazione civile e sociale diffusa nella città e nei luoghi della formazione.
Da questa idea nasce “SPIAZZIAMOLI”, una rete di associazioni che scelgono di contrastare le mafie in modo autentico che nella giornata del 6 e del 7 marzo mettono in campo 50 iniziative sul tema di Mafia Capitale all’interno della città di Roma.

Noi studenti e studentesse di Link Roma Tre abbiamo deciso di aderire a SPIAZZIAMOLI perché crediamo sia necessario parlare di contrasto alle mafie anche nelle Università,
perché crediamo che l’informazione e la formazione sul tema rappresentino il primo necessario passo verso un’azione comune, perché la mafia uccide il territorio, accentua le diseguaglianze, saccheggia le nostre risorse e rompere il silenzio sulle mafie significa aprire una discussione pubblica sul futuro di questa città, promuovere la trasparenza nelle amministrazioni locali, promuovere i diritti sociali e civili come antidoto al ricatto dei clan, valorizzare le buone pratiche, per costruire una nuova stagione di impegno profondo, che coinvolga i territori e lavori sui diritti e la partecipazione.
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Per approfondire la tematica, capirne le dinamiche, i protagonisti, e capire come si affronta un fenomeno di tale complessità ne parliamo con

– Lirio Abbate – Giornalista de L’Espresso

– Celeste Costantino – ex portavoce di “Associazione antimafie daSud”

– Marco Genovese – Referente di “Libera.Associazioni,nomi,numeri contro le mafie”

– Prof. Eligio Resta – Filosifa del Diritto, Roma Tre
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L’incontro si terrà

il 6 Marzo alle ore 9.30
in Aula 7
nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma Tre




Elogio della brevità

“Breve succinto e compendioso” si diceva una volta: Concita De Gregorio oggi su Repubblica raggiunge i vertici di questa vecchia regola. Ci regala una grande lezione di scrittura: ” – Il mio pensiero va soprattutto, anzitutto alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini. E’ sufficiente questo. Grazie. – Diciotto parole, 128 caratteri. Il nuovo Presidente, Sergio Mattarella, ha la misura di twitter incorporata nella discrezione atavica, nella sottrazione come metodo. Quelli che per Renzi sono slogan per lui sono la misura e la forma naturale del pensiero. Nessuno sforzo, in entrambi i casi. I capolavori del resto hanno questo di speciale. L’assenza di sforzo apparente. Vedi un disegno fatto senza staccare la matita dal foglio, un tuffo da dieci metri senza schizzi, un ballerino che si alza di un metro da terra e pensi bello, facile. Poi sono Picasso Greg Louganis e Nureyev ma tu sempre pensi: gli è venuto facile.”

E la conclusione, poi, secca e tranchant: “Overbooking, come sempre, sul volo di chi ha vinto.”

Per finire con il commento: 96 caratteri più lapidari di qualsiasi paginata professorale: “I partiti politici coi nomi inventati nascono e muoiono, sono le culture che non si esauriscono.”

E conclude, chiudendo il cerchio, con Bonaiuti: ” – Renzi (…) Sembra che gli riesca tutto senza sforzo – Sembra, dice, che gli riesca facile.”




Il giornalismo al tempo dei Google Glass

Nonostante i ritardi nel lancio e le perplessità, gli smartglass di Big G potrebbero cambiare molte attività dell’uomo. Robert Hernandez, giornalista pioniere del web e professore associato all’università della California del sud ha lanciato dei corsi per studiare nuovi linguaggi di comunicazione con gli occhiali intelligenti. Lo abbiamo intervistato

IL 2014 non è stato l’anno dei Google Glass. Probabilmente non lo sarà nemmeno il 2015. Gli occhiali “intelligenti” prodotti da Google ritardano l’arrivo commerciale sul mercato. Analisti e appassionati s’interrogano sul futuro di uno dei gadget che negli ultimi tempi ha attirato di più l’attenzione sulle tecnologie indossabili, ben prima che Apple svelasse il suo Apple Watch. Eric Schmidt, presidente del consiglio di amministrazione di Google, in un intervento alla conferenza FT Innovate a New York, ha confermato che i Glass saranno commercializzati “quando pronti”. Resta quindi disponibile la versione Explorer (per sviluppatori), che è attualmente proposta in USA e Gran Bretagna a 1500 dollari.

Anche se l’impressione è che Google non voglia abbandonarli, le incognite relative ad alcuni aspetti legali e sociali stanno forse contribuendo in maniera decisiva a rallentare l’approdo dei Google Glass sul mercato. Negli USA si sono registrati diversi episodi di insofferenza verso chi indossava gli occhiali. Alcune attività commerciali (tra cui diverse catene cinematografiche) ne hanno già vietato l’utilizzo. Anche nei ristoranti l’accoglienza non è stata delle migliori. A Seattle un ingegnere informatico è stato messo alla porta in un pub mentre fotografava i piatti con gli occhiali, per ragioni di privacy. Non va meglio a chi ha provato a utilizzarli alla guida: multe e proposte di legge per vietarli sono arrivate in California e Illinois.
La natura stessa dei Google Glass, che di fatto sono il primo esperimento di “wearable device”, lascia quindi aperti parecchi interrogativi sul futuro di questo dispositivo, con una regolamentazione ancora tutta da immaginare. I punti a favore, però, non mancano. Le possibilità offerte dagli occhiali di Google in diversi settori li rendono uno strumento che, seppur acerbo nella versione attuale, può risultare utile e innovativo in diversi campi: dalla medicina all’industria, dalla comunicazione al giornalismo. Proprio nel giornalismo la sperimentazione ha portato negli Stati Uniti alla nascita di un corso di Glass Journalism. A idearlo è stato Robert Hernandez, giornalista pioniere del web, professore associato alla USC Annenberg School for Communication and Journalism, l’università della California del sud. Hernandez è stato direttore dello sviluppo del Seattle Times, dove si è occupato anche della creazione di strumenti e applicazioni per la fruizione del giornalismo da parte dei lettori. Con la sua classe, in pratica, sta studiando nuovi linguaggi di comunicazione giornalistica attraverso quegli strumenti tecnologici indossabili.

Ma i ragazzi del corso (oltre ai giornalisti ci sono anche sviluppatori, designer, hacker e giovani imprenditori) fanno anche altro. Studiano, in una sorta di brain storming permanente, nuovi modelli di business per chi produce informazione. I primi risultati hanno portato al rilascio di una glassware (così si chiamano le app per i Google Glass) che include un feed di notizie dei principali quotidiani americani ottimizzato per lo schermo dei Google Glass. C’è anche un motore di ricerca audio, che intercetta le parole dette in una conversazione e restituisce informazioni di attualità sull’argomento.

Gli smartwatch e gli smartglasses, con l’avvento di giganti come Google e Apple, saranno gli smartphone di domani. E chi oggi fabbrica notizie sta già pensando a come costruirle con nuovi linguaggi e veicolarle attraverso queste piattaforme. Il corso di Hernandez cerca di immaginare l’idea che fra tre o cinque anni giornalisti, editori e lettori avranno dell’informazione. Lo abbiamo intervistato per capire se la “wearable technology” cambierà il modo di produrre le notizie e quello degli utenti di riceverle.

Come sta andando il corso e come è nata quest’idea di portare i Google Glass in un’aula universitaria?
“Procede bene. La cosa che mi piace è che è una classe eterogenea, non ci sono soltanto giornalisti. Questo complica un po’ le cose nell’organizzazione, ma è anche molto stimolante. Le nostre diversità si fondono e diventano la forza del gruppo. L’idea mi è venuta dopo aver partecipato a un contest e aver vinto un paio di Google Glass. Ho cominciato a parlare con altre persone, sviluppatori e giornalisti, e ho capito che approfondire sarebbe stato utile. Non c’è un programma specifico, ci sono linee guida da seguire, ma i ragazzi sono collaborativi e lavoriamo bene insieme”.

Che cosa fate nello specifico?
“I ragazzi sono tutti intorno a un tavolo. Procediamo come in un team. Nessuno dice all’altro quello che deve fare. Cerchiamo di pensare insieme quello che il giornalismo potrà essere fra qualche tempo grazie allo sviluppo delle tecnologie indossabili”.

A che tipo di progetti lavorate?
“Ne stiamo seguendo due. Ci concentriamo sulla creazione di contenuti con i Google Glass, ma anche sulla fruizione di questi contenuti attraverso gli occhiali. Pensiamo al giornalista, ma anche all’utente che s’informa”.

Che tipo di contenuti giornalistici si possono immaginare sul piccolo schermo dei Google Glass?
“Ci è sembrato subito chiaro che non si potranno portare i titoli delle news o i video del New York Times o del Guardian su quel piccolo schermo. Va ripensato il linguaggio e la fruizione della notizia. I Google Glass sono adatti a visualizzare delle micro storie, magari costruite con un linguaggio specifico. Possono essere uno strumento utile anche per le breaking news, a patto che i giornalisti pensino, in fase di realizzazione della notizia, al supporto con il quale l’utente le riceverà”.

Possono essere immaginati come uno strumento di passaggio tra la ricezione dell’informazione e il suo approfondimento?
“Credo proprio di sì. Insomma ricevere una notizia sullo schermo dei propri occhiali è la cosa più immediata che ci sia. Poi ognuno di noi potrà decidere se approfondire ciò che ha letto o ascoltato. Magari tirando fuori dalla tasca il proprio smartphone. Sarà compito di chi produce informazioni rendere interessanti quelle poche righe per portare chi riceve la notizia fino al suo approfondimento”.

Attualmente è più difficile realizzare applicazioni per produrre giornalismo con i Glass o per ricevere notizie?
“Noi pensiamo a sviluppare entrambe. Certo, in questo momento la seconda categoria ha un pubblico più ampio. Ci sono pochi giornalisti che utilizzano i Google Glass per il proprio lavoro. In generale il successo di questa piattaforma, per ora, è relegata ad un 10% di chi utilizza gli occhiali. Gli altri sono giornalisti, geek, appassionati e non ti danno una reale sensazione di come strumenti come i Google Glass vengono percepiti dalla gente comune”.

Qual è la qualità più importante degli smartglasses attuali come supporto per chi fa giornalismo?
“Attualmente i vantaggi sono relativi alla narrazione di un fatto e al linguaggio. Nessuno strumento ti consente un punto di vista così personale come una telecamera e un microfono su un paio di occhiali. Anche nell’utilizzo la possibilità di scattare foto e registrare video senza utilizzare le mani è utile per chi produce contenuti giornalistici. Ci si concentra sul momento da cogliere, sulla storia da raccontare. Questo in certe situazioni è un privilegio”.

In Italia il direttore della Stampa, Mario Calabresi, ha intervistato il primo ministro Renzi con i Google Glass. Come valuta strumenti simili nella realizzazione di interviste?
“Credo siano un buon supporto per le interviste. La possibilità di ricevere in diretta domande da porre all’intervistato o il mostrare ciò che osserva mentre risponde sono elementi che innovano il modo di realizzare un’intervista. L’evoluzione di questi occhiali smart con telecamere migliori e microfoni sempre più precisi apriranno tantissime nuove possibilità per i giornalisti”.

Quando sentiremo parlare di “Glass Journalism” con più frequenza?
“E’ difficile da dire. Io stesso pensavo che i Google Glass potessero arrivare sul volto di molti americani già in questi mesi. Ma le esigenze del mercato e qualche ritardo da parte di Google hanno cambiato le cose. Oggi negli Stati Uniti non tutti hanno una visione positiva di questi strumenti. Molti li considerano gadgets per ricchi o peggio occhiali per spiare le persone. Invertire questo trend non sarà facile. Gli smartglasses sono una categoria di prodotto del tutto nuova. Questo è un elemento che chiaramente ne penalizza la diffusione. Però l’accordo di Google con Luxottica per la produzione di modelli più commerciali è una giusta intuizione. Ci vorrà del tempo, credo tra i tre e i cinque anni. Se diventeranno uno strumento diffuso come i telefoni o i tablet, sono pronto a scommettere che saranno fondamentali anche per il futuro del giornalismo”.

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Roma, stati generali dell’antimafia 2014 – 23/26 ottobre

Video > Intervista di Don Luigi Ciotti




Fotografi e registi si aggirano per la metropoli. Ma quanti di loro guardano in modo libero?

foto di  Rudy Burckhardt

foto di Rudy Burckhardt

Uno dei territori espressivi più raffigurati, fotografati, filmati è senza dubbio quello della metropoli. Un esercito di cineasti, cameramen, videoartisti, fotografi è sempre in azione nei grandi agglomerati urbani del mondo, un esercito (rapace) pronto a catturare con l’ausilio dei dispositivi ottici le diverse facce della città, le cosiddette storie che dentro di essa si svolgono.

Il più delle volte, però, quando mi trovo a visionare lavori fotografici, film, video il cui fulcro espressivo è la metropoli riscontro lo stesso problema. Si palesano davanti ai miei occhi stereotipi, luoghi comuni, storie già viste e straviste, banalità, inchieste visive sterili. E i risultati più deprimenti non posso che riscontrali in quelle operazioni foto-video-cinematografiche che si collocano nel solco di un’impostazione di tipo “politico-ideologico”, impostazione che, di fatto, impone una visione bloccata e unidirezionale all’artista visivo (o al fotogiornalista) negandogli la gratificazione della ricerca, della scoperta, dello stupore.

La questione della rappresentazione della metropoli nell’ambito delle arti visive tecnologiche e dei massmedia è, dunque, aspetto assai complesso, denso di insidie. Il pericolo è quello di essere risucchiati in un labirinto in cui la città si autorappresenta in maniera autonoma e si autocolloca nella mente di fotografi e registi attraverso quelle che potrei definire pre-esistenze, cioè un sistema di idee già impiantato nell’immaginario collettivo e individuale.

Come risolvere questo problema? Il discorso è molto lungo e merita più di un post. Per il momento mi limito a segnalarvi alcune esperienze creative nelle quali gli autori hanno cercato di recuperare il senso dell’atto del guardare (estraneo al concetto di facile emozione e di rappresentazione semplicistica della realtà) e nelle quali hanno tentato di restituire un reale peso al punto di vista esterno sulla città, un modo, questo, per riacquistare la lucidità dello sguardo che solo un senso di sana “estraneità mentale” ai contesti che si guardano può fornire.

Prendiamo il caso di due fotografi molto diversi tra loro e che hanno operato in epoche distanti: lo svizzero-americano Rudy Burckhardt nel 1940 sentiva già il bisogno di guardare la città da un punto di vista “altro” attraverso una distanza in grado di cogliere l’animo della metropoli in una sorta di scambio bi-direzionale di visioni. Lo stesso discorso sembra essere affrontato dalla finlandese Elina Brotherus nel suo lavoro intitolato Last one in my Line (2012), opera nella quale la fotografa raffigura se stessa nell’atto di guardare la città, e la città apparentemente immobile restituisce il suo sguardo.

Che dire poi dei due capolavori della videoartista/cineasta belga Chantal Akerman: Scende la notte su Shanghai (ep. Lo stato del mondo – 2007) e News from Home (1977), opere nelle quali l’artista europea raffigura con il suo metodo creativo apparentemente algido, ma in verità profondissimo, due megalopoli come Shanghai, appunto, e New York?

E ancora come rapportarsi al modo in cui l’ultra newyorkese Martin Scorsese ha “dipinto”, ponendosi in una condizione di distanza creativa, la sua città nello spot dedicato a una nota casa di moda italiana? Una New York spettrale, straniante, enigmatica, incredibilmente vuota, praticamente deserta e vicina all’immaginario metropolitano di Michelangelo Antonioni (penso alla scena finale de L’eclisse) nella quale un uomo e una donna si incontrano. Il loro rapporto sembra quasi poter esistere grazie allo sguardo della metropoli stessa così come dimostra l’inquadratura finale in cui New York è vista, ancora una volta, da un punto di vista “altro” che la rende non tanto il palcoscenico in cui i due personaggi si relazionano quanto piuttosto un terzo personaggio che dialoga intimamente con loro.

Ebbene, quelli che ho appena fatto sono solo degli esempi che vi consegno e che rappresentano dei modelli di sguardi liberi sulla città (modelli che sarebbero utili a tanti fotografi e registi). È proprio questa tipologia di sguardi, privi di preconcetti, che cercherò di proporvi in altri futuri post.

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