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Biblioteca Renato Nicolini: i nuovi appuntamenti febbraio 2015

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Prima giornata di Campionato: 8 febbraio al CalcioSociale di Corviale

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Le comunità-territorio del futuro

Opportunità e rischi della democrazia identitaria

Si parla di identità in rapporto agli istituti della democrazia quando un gruppo di persone si percepisce come specifico in relazione ad una componente che non è il risultato immediato di una scelta individuale. E tale specificità identitaria viene riconosciuta da altri individui.

In altre parole, la mia specificità identitaria non nasce immediatamente per atto della mia volontà. Emerge perché sono nato in una determinata famiglia, vivo in un certo paese, in cui si parla una data lingua e si adotta una specifica religione.  E sono identificato dagli altri mediante alcuni tratti peculiari. Ho sempre la possibilità di fare una scelta diversa. Ma intanto, nell’immediato, quella specificità mi caratterizza e costituisce un legame di appartenenza. L’identità unisce e, al tempo stesso, distingue.

L’identità non è mai qualcosa di statico ma il portato di un processo culturale sempre in evoluzione ed è in virtù di questa intrinseca dinamicità che costituisce un valore, un arricchimento per l’insieme della società. La fioritura di culture identitarie – come reazione spontanea alla globalizzazione – è dunque un’opportunità da saper cogliere. Ma quando si pretende di far valere l’identità nella scena politica contro gli altri che non appartengono al gruppo, la democrazia può correre seri rischi. Non è la prima volta che accade. Anche le ideologie che sono state protagoniste della guerra fredda creavano non solo manicheismo dottrinario ma anche simboli e appartenenze identitarie. Chi nasceva in una famiglia comunista o democristiana doveva compiere una scelta sofferta per distaccarsi da un’identità percepita dal proprio gruppo e riconosciuta all’esterno come appartenenza. E tale condizione creava opportunità perché alimentava legami comunitari e solidarietà, ma anche rischi perché fomentava conflitti irriducibili.

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L’identità religiosa

Le ideologie onnicomprensive del Novecento sono sparite e vanno sorgendo nuove identità. Rinascono in forme nuove anche quelle antiche, come le religioni. Credere in un Dio è certamente un fattore che unisce e distingue. Ma cosa succede quando l’identità in una fede vuole avere voce in capitolo nelle scelte politiche e nella sfera pubblica per sopraffare altre identità? C’è il rischio  che tale pretesa ponga in serio pericolo lo stato di diritto. Lo stato moderno è infatti nato escludendo le religioni dalla sfera del potere politico: liberando le religioni dal potere, ha liberato il potere dall’intolleranza e dalla violenza per ragioni di fede.

Con l’adozione delle carte dei diritti, e quindi con il riconoscimento del limite del potere della maggioranza, le democrazie moderne hanno reso la libertà religiosa un principio fondamentale che libera la persona da ogni autorità esterna alla propria coscienza di individui responsabili e perciò liberi. La tolleranza non attiene più alla sfera pubblica. I diritti individuali rendono la tolleranza una questione di comportamento individuale, non più una politica degli stati. Difendere i diritti di tutti supera la discrezionalità degli stati di tollerare questa o quella fede.

Oggi le gerarchie religiose reclamano una presenza speciale dell’identità religiosa nella vita politica. Esse contestano il principio della separazione di giudizio, oltre che di potere, tra le sfere di vita civile e religiosa. Sotto il pontificato di Giovanni Paolo II la Chiesa cattolica ha rivitalizzato la dottrina della legge naturale – che per un lungo periodo era stata messa in soffitta – con l’intento di contrastare l’idea liberale che i diritti individuali, primo fra tutti quello della libera scelta in questioni morali, debbano essere difesi in via di principio. La filosofia della legge naturale, impressa da Dio nel cuore degli uomini e interpretata dalla Chiesa che ne sarebbe il custode supremo sulla terra, si propone esplicitamente  come alternativa alla filosofia che, a partire dalla Dichiarazione dei diritti del 1789, si è imposta come la sfida più radicale al potere della trascendenza religiosa nella vita civile e politica.

Intendiamoci. Che le chiese esprimano la loro opinione sulle questioni che attengano alle decisioni politiche è cosa legittima e auspicabile. I cristiani – proprio perché il loro “Dio è un’idea politica”, come ricorda il teologo Johann Baptist Metz – possiedono una determinata visione del mondo e dell’essere umano e hanno delle convinzioni che non andrebbero relegate nell’intimo e nel privato, ma che, in una società pluralista come la nostra, converrebbe a tutti renderle presenti  e ascoltabili nello spazio pubblico, sociale e politico.

Tuttavia, vivere intensamente la differenza cristiana nell’agone politico e sociale non deve significare necessariamente organizzarsi in minoranze attive, ritenendole più capaci di assicurare identità e visibilità nell’ambito di strategie difensive e di concorrenza. Come suggerisce Enzo Bianchi, si può essere efficaci anche solamente vivendo la testimonianza di fede in compagnia degli uomini, innestando “una dinamica che scuote l’indifferenza alla fede cristiana e alle sue esigenze propria anche a molti sedicenti cattolici”.

Naturalmente il ragionamento del Priore di Bose vale per tutte le religioni.  La commistione tra potere politico e potere religioso non solo è rischiosa per le istituzioni democratiche: fomenta il fondamentalismo e il fanatismo anche all’interno delle stesse comunità religiose. Per contribuire a salvaguardare la democrazia, le chiese devono evitare di organizzare gruppi politici e sociali di ispirazione religiosa ed essere tolleranti e dialoganti con altre culture.

 

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Un nuovo multiculturalismo

Altra cosa è tener conto delle differenze e adottare politiche specifiche che riconoscano identità religiose, etniche, linguistiche, convinzioni culturali di specifici gruppi, questioni di verità o di vita buona, credenze di una parte di cittadini a cui altri non aderiscono e che attengono al rapporto uomo/ambiente o uomo/animale.

Negli ultimi tempi il concetto di multiculturalismo si è ampliato. Un diritto culturale è per esempio una norma che consente ai negozianti di religione musulmana di svolgere la loro attività commerciale in accordo con le loro pratiche religiose. Un altro diritto culturale è la facoltà concessa ai gruppi che aderiscono a determinate credenze religiose o filosofiche di adottare il metodo dell’agricoltura biodinamica nell’ambito di specifiche regole che, comunque, devono tutelare i diritti dei consumatori. Si tratta di soluzioni di prudenza poiché, se il diritto individuale è fondamentale, e deve restarlo, gli accomodamenti avvengono su questioni che non sono essenziali per lo stato di diritto.

È possibile avere un’ampia politica di diritti culturali, ma la decisione sulla sua ampiezza deve essere presa dalle istituzioni, non dal gruppo culturale che la sostiene, tenendo ferma la difesa dei diritti individuali, i quali non sono sempre in armonia con le difesa del gruppo che rivendica politiche culturali rispettose della propria identità.

Mentre i diritti civili non sono negoziabili, le politiche culturali lo sono, e per questo possono sempre essere revocate. Le norme che autorizzano o vietano la coltivazione di Ogm (Organismi geneticamente modificati) rientrano nelle politiche culturali che non dovrebbero ledere i diritti individuali (cosa che invece purtroppo accade!) e andrebbero considerate revocabili nel caso in cui si formino maggioranze politiche diverse. Il multiculturalismo deve favorire il rispetto del pluralismo ma non deve portare mai all’affossamento dello stato di diritto e al ripristino dello stato corporativo.

Concordo con Nadia Urbinati quando afferma che diventa un pericolo per la democrazia il sorgere di gruppi che rivendicano una propria specificità contro la generalità dei cittadini e contro altri gruppi, chiedendo che la politica segua l’identità e che la legge si modelli sull’identità più rappresentativa o maggioritaria su di un territorio. Ciò avviene quando i gruppi si auto-rappresentano non tanto o non solo come diversi, ma come meritevoli di un potere o di una considerazione superiori a quelli di altri gruppi.

Le istituzioni pubbliche sono di tutti e, quindi, non devono assolutamente far proprie convinzioni etiche e religiose o che attengano a specifiche visioni culturali, modelli produttivi e di consumo che sono di qualcuno e che divergono con quelle di qualcun altro. Se ne deve tener conto in via prudenziale, ma salvaguardando sempre i diritti individuali di coloro che non aderiscono a quelle credenze.

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Una nuova laicità

È questa la laicità pubblica del XXI secolo da realizzare con istituzioni pubbliche che devono rimanere neutrali per non degenerare in istituzioni non democratiche. Dovrebbe essere preoccupazione di tutti coloro a cui sta a cuore l’eguale libertà democratica di cittadinanza difendere le istituzioni dal morbo che conduce alla perdita della laicità, imparzialità, neutralità pubblica. Democrazia e laicità, simul stabunt, simul cadent. Non bisogna avere remore nel criticare deliberazioni e scelte istituzionali che, riflettendo gli interessi  di gruppi politici che mirano a soddisfare domande di eticità di frazioni di popolazione, ledono l’eguale rispetto dovuto a chiunque, in quanto cittadino o cittadina di pari dignità nella polis.

È inevitabile che la globalizzazione renda più intense le domande sociali di identità rivolte al sistema politico democratico e incentivi la presentazione conflittuale, nell’arena istituzionale, di domande di eticità. E che un’autorità politica che perde colpi rispetto a poteri sociali come la finanza, l’economia e la comunicazione, si rivalga soddisfacendo la domanda di eticità.

D’altra parte, anche il persistere della crisi economica e sociale crea un nesso molto forte tra questioni di identità e questioni di giustizia distributiva o di equità sociale. Ma queste ultime non sono separabili dalle altre, in quanto nascono intimamente unite alle prime. E tuttavia, né la globalizzazione né la crisi economica né il malessere sociale che ne consegue possono farci smarrire che la democrazia sia un valore irrinunciabile che non può essere mediato con altri.

Sappiamo che non c’è valore che non sia esposto al rischio della sua perdita e dissipazione. E oggi le derive populistiche, gerarchiche e plebiscitarie dei regimi democratici sono alimentate anche dalle continue risposte che le autorità pubbliche danno alle domande di eticità.

Va tutelato il diritto di assicurare ai gruppi specifici di esprimere i propri punti di vista sulle politiche pubbliche.  Perché solo l’esercizio di questo diritto permette il dibattito pubblico, non istituzionale, delle diverse opzioni ai fini della condivisione e contaminazione e, dunque, dell’interculturalità. Ma questo diritto va sempre accompagnato dall’eguale rispetto dovuto a chiunque non malgrado, bensì in virtù delle differenze e delle distinte concezioni di valore, etico, religioso e culturale.

In una società che fa perno sulla Costituzione e sugli eguali diritti, nessuna identità è di per sé più potente di un’altra. D’altra parte i totalitarismi sono identitari perché mirano a creare società non di diritto ma di sostanziale identità.

C’è un nesso molto stretto tra democrazie identitarie e degenerazioni xenofobe e razziste. Lo stiamo vedendo purtroppo nelle periferie delle nostre metropoli, dove si formano spontaneamente quartieri multietnici. Le due cose non sono necessariamente concatenate come causa ed effetto. Ma i rischi sono altissimi perché nella cultura europea c’è una resistenza molto forte al pluralismo e un’acquiescenza molto estesa al centralismo e all’omologazione.

In alcuni quartieri di Roma, come Torpignattara e Pigneto, stanno proliferando nuove forme di mafia per iniziativa di organizzazioni criminali, dedite al traffico di droga e al riciclaggio di denaro sporco, che strumentalizzano l’identità e il disagio sociale indotto dalla difficoltà di interazione tra le diverse etnie che convivono senza efficaci politiche di integrazione. Per affrontare questa nuova situazione è necessario affermare una cultura della legalità e fare in modo che le culture identitarie dialoghino, interagiscano senza mai proporsi al di sopra della cultura dell’eguaglianza e della dignità della persona. Non ci può essere un’eguaglianza all’interno di un gruppo diversa dall’eguaglianza praticata in un altro gruppo perché una simile concezione comporta negare l’eguaglianza come principio di relazione tra diversi. E queste considerazioni valgono per tutti i gruppi, sia quelli autoctoni che per quelli di immigrati.

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Identità e universalità dei diritti per un nuovo comunitarismo

I contesti e i gruppi specifici sono un’opportunità per rivitalizzare e arricchire nuove forme di società civile che correggano l’individualismo. E tuttavia bisogna tendere a costruire legami sociali che promuovano comunità-territorio aperte a tutti e che decidano con la regola di una testa un voto. È in tal modo che si può andare oltre la solidarietà e si può affermare la fraternità civile.

Le comunità-territorio contemporanee devono saper cogliere le opportunità della globalizzazione e non chiudersi in sé stesse. Bisognerebbe accompagnarle ad acquisire la capacità di auto-rappresentarsi e di costruire la propria immagine. Ma tale capacità presuppone una chiara percezione di sé, per fare in modo che gli scambi culturali ed economici con altre comunità-territorio del mondo globale siano reciprocamente arricchenti e improntati ad una relazionalità collaborativa.

Di qui l’importanza di studiare e conoscere scientificamente i contesti in cui fioriscono le vite delle persone e dei gruppi mediante approcci interdisciplinari e un’attività permanente di ricerca-azione finalizzata a promuovere percorsi partecipativi progettuali per lo sviluppo locale. Le storie di vita, le memorie delle persone e dei beni strumentali, architettonici, archeologici e paesaggistico-ambientali sono elementi indispensabili per fare in modo che gli individui e i gruppi si approprino delle loro radici e di un’identità consapevole e capace di aprirsi ad altre identità.

I contesti vanno vissuti da persone che comprendano i processi e i meccanismi con cui questi si producono. Le comunità-territorio contemporanee devono servire prioritariamente a siffatto scopo. Solo con un forte senso di sé e stabilendo regole democratiche condivise per il proprio funzionamento nei percorsi partecipativi dal basso, le comunità-territorio possono svolgere una funzione propulsiva, alimentando valori da immettere nelle istituzioni e nel mercato.  Per farlo devono essere comunità che non pongono in alternativa l’appartenenza identitaria e l’universalismo dei diritti. L’individualismo si corregge con un nuovo comunitarismo che non mette in discussione i diritti individuali. Altrimenti, coniugandosi in modo distorto con le culture identitarie, l’individualismo porta inevitabilmente alla violenza e alla sopraffazione.

 




Il sacro, il sesso e le nuove comunità

piediOggi siamo tutti schiacciati sul presente e legati all’immediatezza. La comunicazione digitale che distribuisce una valanga di messaggi non ha più nulla di significativo e decisivo da comunicare. Si è offuscato, fino a scomparire, il faccia a faccia.  Si comunica “a”. Non si comunica più “con”. La parola “comunicare” ha dimenticato la sua radice etimologica, che è “unione”, “comunione”, “comunità”.

È per questo che siamo afflitti da una grigia mediocrità e da una piatta, monotona ripetitività. Stanchezza, usura psicologica e solitudine sono i mali del tempo presente.

Il rapporto tra le persone non è più un rapporto umano; è solo utilitaristico. Tra le varie forme di reciprocità prevalgono quelle distruttive (conflitti, guerre, vendette, ritorsioni) su quelle generative (confidenza, fiducia, cooperazione, sviluppo civile, mercato, mutualità, amicizia, amore). Il processo di individualizzazione si è realizzato con dispositivi di serializzazione. Il facile asservimento alle mode induce, infatti, ad omologarsi nella serie.

E una forte domanda di senso, a cui non sappiamo rispondere, ci afferra le viscere. Una nostalgia di “totalmente altro”. Un bisogno di trovarci in luoghi “totalmente diversi”. Una fame di eternità oltre l’effimero e l’inconcludenza. Questa domanda di senso altro non è che la ricerca del sacro. Il concetto di “sacro” precede quello di “religioso” e di “divino”. Non vanno confusi. Il sacro attiene a quegli aspetti metaumani che più occorrono alla convivenza umana, pena il trasformarsi dei rapporti tra le persone in rapporti mercificati, utilitaristici, pena la perdita della dimensione utopica, della mai perfettamente dominabile imprevedibilità degli individui. Senza il sacro l’uomo perde quello che, più umanamente, è umano.

Sacro e sessualità nella storia dell’umanità sono stati elementi tra loro sempre connessi. Un tempo esisteva però un rapporto positivo tra religiosità e sessualità. Oggi le religioni si presentano spesso in opposizione alla sessualità. Anche per questo motivo sono diventate più dissacranti che nel passato. La liberazione dei rapporti sessuali, che si è manifestata al suo apice negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ha costituito una tappa fondamentale nella conquista di una maggiore autodeterminazione. Tuttavia, si è molto intrecciata con la società dei consumi e con l’affermazione di una mentalità utilitaristica e un atteggiamento competitivo e predatorio. Sia gli uomini che le donne spesso utilizzano la sessualità come strumento di negoziazione, di ricatto e di competizione. E quando non serve a questi fini, ci si rinchiude nei rapporti virtuali favoriti da internet. Perfino i rapporti tra le persone sono stati fagocitati nella sfera dell’efficienza. E dunque vanno tenuti a livelli minimi fino all’evanescenza. Quando ci si incontra è da maleducati toccarsi, abbracciarsi, guardarsi negli occhi. Senza fini utilitaristici è da perdigiorno mangiare insieme e darsi del tempo. Per recuperare la dimensione del sacro e rivitalizzare, in questo modo, i legami comunitari, gli individui dovrebbero imparare a vivere positivamente la sessualità. Si tratta di improntare i rapporti con gli altri più alla trasparenza e meno all’utilità, ove il gioco degli interessi prevale. C’è in noi un desiderio dell’altro come altro. Più esattamente di un altro come me, che mi è simile e compagno, che mi completa, ma soprattutto che vale non perché serve a me, ma per sé. Che quindi non posso mai ridurre a me – lo tratterei come cosa e lo perderei – ma che posso raggiungere solo nella sua libertà.

L’amore non è – né può mai essere – possesso, ma reciprocità positiva e perciò confidenza e fiducia. Per amare così è necessario contenere la prepotenza, la ricerca dell’utilità, comprendere che o si cresce insieme o qualsiasi accrescimento è solo apparenza, è solo un simulacro della potenza, in effetti un fallimento. Il sacro – cioè la nostra umanizzazione – si riacquista e si espande aprendoci ad una sessualità gioiosa, fondata sulla fraternità delle relazioni.