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Promuovere la sharing city

La città come piattaforma di abilitazione dello scambio di beni, servizi e conoscenze tra pari. Valorizzare, prototipare e regolare nuove forme di reciprocità, in un’ottica di ibridazione con le logiche di scambio e di redistribuzione

Già nel 1987 Tom Malone, Joanne Yates e Robert Benjamin nell’articolo “Electronic Markets and Electronic Hierarchies” avevano previsto il passaggio dalla gerarchia al mercato attraverso la diffusione di tecnologie di rete. Yochai Benkler (2004), che per primo analizza in modo sistematico l’impatto delle tecnologie digitali sui rapporti tra economia e società, vede un superamento anche della logica di mercato: “queste tecnologie hanno permesso di affrontare vari problemi di approvvigionamento secondo forme di produzione decentrata basate su relazioni sociali, piuttosto che attraverso i mercati e le gerarchie”.

Benkler definisce questo modello come “common-based peer production” e i relativi beni come “shareable good”: una forma di produzione basata sulla collaborazione tra pari che mettono in comune il risultato del loro impegno. Un modello che nasce dall’esperienza dei software liberi e open source ma che grazie alle tecnologie digitali può essere esteso dai beni immateriali e non-rivali nel consumo anche a quelli materiali e rivali ma con capacità in eccesso (es. seconde case temporaneamente non abitate, auto parcheggiate ecc.). Benkler enfatizza una dimensione relazionale dello scambio fondata su fiducia, reciprocità di impegno dei soggetti coinvolti e motivazioni non solo strumentali nella condivisione del bene. Un’accezione che è rimasta solo nell’utilizzo più stretto del termine “sharing economy”, inteso come forma di “risocializzazione dell’economia” (Pais, Provasi, 2015), dove il consumo implica nuove forme di relazione, spesso con persone sconosciute, abilitate proprio attraverso meccanismi reputazionali e che Juliet Schor (2015) chiama “stranger sharing”.

Nella letteratura più recente si registra invece una maggiore attenzione all’efficacia distributiva di questi modelli. Arun Sundararajan (2016), pur titolando il suo recente libro “sharing economy”, nella sua analisi ricorre più spesso all’espressione “crowd-capitalism”, per porre l’attenzione su scambi organizzati attraverso “reti decentralizzate di individui anziché aggregati privati o pubblici”.

In questo modello, la “piattaforma” permette lo scambio di beni e servizi tra pari, riducendo le asimmetrie informative, abbattendo i costi di transazione e ottimizzando l’utilizzo delle risorse disponibili. Gli esempi più noti sono Airbnb nell’ambito dell’accoglienza, Blablacar per la mobilità, Upwork per l’incontro domanda-offerta di lavoro digitale, Gnammo nella ristorazione ecc.

La letteratura divulgativa associa la diffusione del modello-piattaforma a una logica di disintermediazione. Un’interpretazione solo parzialmente corretta: se da un lato c’è sicuramente una forma di abilitazione degli attori, dall’altra le norme costitutive sono determinate dalle piattaforme stesse, che introducono forme di re-intermediazione di cui dobbiamo ancora comprendere pienamente le logiche. Per limitarsi a un esempio, il costo del bene/servizio scambiato attraverso le piattaforme non è stabilito da un centro amministrativo, come nelle aziende tradizionali, ma dal singolo operatore; la determinazione del prezzo è però legata a un ranking reputazionale, di cui l’attore generalmente ignora l’algoritmo.

Il passaggio da organizzazioni (grandi e verticalizzate o piccole e a rete) a piattaforme è più evidente nella dimensione dello scambio di mercato, dove stanno cambiando anche le abitudini di consumo: generazioni abituate al possesso, anche come status-symbol, oggi prediligono l’accesso a breve termine.

Le pubbliche amministrazioni possono giocare un ruolo importante nella promozione e regolazione di questi mercati. I punti più delicati riguardano gli aspetti giuslavoristici e di tutela del consumatore. Le piattaforme possono facilitare la democratizzazione delle opportunità economiche e professionali, dal momento che non filtrano i candidati in base alle loro credenziali formali, ma questo richiede la costruzione di nuove forme di verifica della qualità del servizio, per esempio in termini di trattamento antidiscriminatorio. Inoltre il lavoro veicolato attraverso queste piattaforme è parcellizzato e “on demand”. Il vantaggio è che consente una completa flessibilità anche dal lato di chi eroga il servizio, che può decidere “istantaneamente” quando rendersi disponibile; una possibilità apprezzata soprattutto da persone per cui l’attività lavorativa non è esclusiva, come studenti o persone con compiti di cura. D’altro canto, questo comporta la necessità di ripensare la costruzione di profili di tutela del lavoro, ancora oggi costruiti su un modello di lavoratore full time e con datore di lavoro prevalente.

E’ poi importante riflettere sul ruolo delle amministrazioni locali, soprattutto nelle grandi città dove la densità abitativa favorisce la diffusione di queste pratiche. Il modello piattaforma generalizza a tutti i settori quello che nel consumo di prodotti agricoli viene definito “locavorism” e che in Italia traduciamo con il concetto di consumo “a km zero”, ma lo reinterpreta in un’ottica di “localismo cosmopolita”: le dinamiche di prossimità fisica sono rilevanti ma non sono vincolate a residenti stanziali o comunità chiuse perché la tecnologia facilita l’incontro anche occasionale tra domanda e offerta.

Questa dinamica pone nuove sfide alla città intesa come unità di analisi e come attore economicamente rilevante, posta al centro di una duplice tensione dialettica tra dimensione globale e locale e tra cooperazione e competizione (Le Galès 2002). Per spiegare la diffusione della sharing economy in un determinato contesto locale non si può prescindere dall’analisi del sistema socio-economico e istituzionale in cui questa va ad innestarsi: le tradizioni storiche che hanno contribuito alla creazione di competenze, capacità tecniche e know-how in una particolare area; la presenza di imprese che facilitano la crescita economica; l’architettura istituzionale che fornisce beni collettivi locali per la competitività come la formazione o l’accesso alla finanza; ma anche la forza del capitale sociale e delle relazioni comunitarie presenti a livello locale, con particolare attenzione alle ricadute in termini di diffusione dell’economia informale.

A questo si aggiunge un ulteriore livello di progettualità, più strettamente politica, a cui si fa riferimento con l’espressione “shareable city” o “sharing city” (McLaren, Agyeman 2015): molte città in tutto il mondo hanno promosso schemi orientati alla sharing economy in alcuni settori specifici e alcune stanno sperimentando politiche integrate. Tra queste, oltre ai casi internazionali di Seoul e Amsterdam, si segnala quello di Milano.

Oltre alla regolazione delle implicazioni del modello piattaforma nella dimensione di mercato, queste esperienze si caratterizzano per la costruzione di nuovi prototipi direttamente in ambito pubblico. Si tratta di un movimento speculare rispetto a quello visto finora: le logiche e le pratiche più interessanti sono quelle che espandono la reciprocità in direzione dello scambio di mercato, anche in un’ottica di “ibridi organizzativi” (Venturi, Zandonai 2016); allo stesso modo, il modello piattaforma può essere adottato espandere la reciprocità in direzione della redistribuzione (Pais, Provasi 2015).

Secondo il modello proposto da Polanyi (1944 in Pais, Provasi 2015), nella redistribuzione le risorse vengono allocate da un centro dotato di autorità e in funzione di fini che lo stesso definisce come corrispondenti al bene collettivo. (…) I beni e le risorse allocate per via d’autorità possono essere i più vari ma in quanto sottoposti al regime redistributivo assumono per ciò stesso la caratteristica di beni pubblici: beni che rispondono a bisogni ritenuti degni di tutela pubblica e che sono perciò allocati in forza di diritti di cittadinanza definiti dalla legge. I beni così redistribuiti prescindono dall’identità personale di chi li riceve e sono rigorosamente standardizzati sulla base di routine professionali burocratiche.

La reciprocità si distingue dalla redistribuzione, innanzitutto, in quanto presuppone una sostanziale simmetria tra i soggetti coinvolti. Polanyi per caratterizzarla sembra ispirarsi principalmente alle forme non economiche di scambio caratterizzanti le società premoderne e le relazioni primarie (amicali, familiari, di prossimità) di quelle moderne. Si sostanzia di scambi asincroni e non equivalenti, tali da generare un “indebitamento reciproco positivo” mediato dalla riconoscenza o gratitudine personale. (…) Si tratta di una forma di reciprocità elettiva, che presuppone cioè un rapporto diretto tra soggetti che si conoscono e riconoscono reciprocamente. Ciò che qualifica i beni scambiati sotto questo regime di reciprocità è il valore di legame che contribuiscono a creare; sono pertanto a tutti gli effetti beni relazionali, il cui valore cresce nella misura in cui sono in grado di modificare l’identità stessa dei soggetti coinvolti e la loro relazione (Becchetti 2009).

Rispetto alle possibilità di contaminazione tra questi due modelli, un esempio interessante è dato dal crowdfunding civico. Il crowdfunding è la mobilitazione, grazie a internet e ai social network, di piccoli investimenti su singoli progetti (imprenditoriali, creativi, sociali o civici) da parte di un gran numero di individui (la “folla”), a cui generalmente corrisponde un sistema di ricompense simboliche, materiali o economiche (Pais, Peretti, Spinelli 2014). Viene abilitato attraverso piattaforme peer-to-peer e la è relazione simmetrica, con parziale venir meno dei confini tra progettista/produttore e consumatore. L’equivalenza è incompleta perché si finanzia un prodotto o servizio che non è stato ancora realizzato, di cui non è possibile accertare a priori il valore. Oltre a valutare il prodotto, è quindi importante raccogliere informazioni circa l’affidabilità del progettista. Il meccanismo che abilita questo processo, quando non c’è conoscenza diretta tra progettista e finanziatore, è di tipo reputazionale (Pais, Provasi 2015).

Il crowdfunding è civico quando il progetto vede il coinvolgimento diretto o indiretto dell’amministrazione pubblica, nel fornire contributi in termini economici, progettuali o di visibilità (Davies 2015). Generalmente è orientato alla produzione di beni comuni (commons), definiti come quelle risorse sfruttate da più utilizzatori i cui processi di esclusione sono difficili, costosi o non opportuni data la loro essenzialità per la vita della comunità. A differenza dei beni pubblici, quelli comuni possono anche essere rivali: il consumo del bene da parte di un soggetto può ridurre la possibilità di consumo da parte degli altri, come nel caso delle risorse naturali oggetto delle prime analisi di Elinor Ostrom (1990;2015).
In Italia le campagne di civic crowdfunding sono state il 6% del totale fino al 2015 ma il dato è in forte crescita (Pais 2015).

Tra le esperienze più interessanti, si segnala la campagna “Un passo per San Luca” promossa dal Comitato per il restauro del portico di San Luca, che ha visto la donazione iniziale di 100mila euro da parte del Comune di Bologna, a cui si sono poi aggiunti altri 239.743 euro da parte di 7111 donatori.

Il Comune di Milano – nell’ambito delle politiche Milano Sharing City approvate con delibera del 19 dicembre 2014 – ha da poco avviato la sperimentazione di un canale di finanziamento basato sul crowdfunding civico: tra i progetti di innovazione e imprenditoria sociale pubblicati sulla piattaforma selezionata dal Comune, quelli che riusciranno a raggiungere la metà dell’importo previsto otterranno un cofinanziamento per la restante parte, fino a un massimo di 50.000 euro a progetto, per uno stanziamento complessivo 400.000 euro.

Una forma di integrazione che presenta, appunto, tratti di ibridazione tra logiche di reciprocità e di redistribuzione e che, per distinguerla da queste, si potrebbe definire di “condivisione” (Pais, Provasi 2015): si basa su una forma particolare di reciprocità, quella che lega ciascun individuo alla comunità cui si sente di appartenere (reciprocità generalizzata, ma non universale) ma – come nella redistribuzione – i beni prodotti attraverso questo processo vanno a beneficio anche di chi non ha partecipato allo sforzo progettuale e finanziario.

In questa e altre esperienze, anche la pubblica amministrazione sta iniziando ad adottare il “modello piattaforma”: una evoluzione del passaggio da strategie di government, caratterizzate da autoritatività, verticalità e autoreferenzialità dei meccanismi decisionali pubblici e da dinamiche di comando e controllo, a strategie governance, caratterizzate da paritarietà, orizzontalità e apertura verso la cooperazione con la comunità e la società civile (March e Olsen 1989; 2015).

L’elemento di novità sta nel passaggio da un coinvolgimento del cittadino organizzato attraverso associazioni nelle politiche proposte dall’amministrazione a uno «Stato relazionale» o «Stato-regia» (Iaione 2015) che abilita l’iniziativa autonoma dei cittadini. La sfida è quella di riuscire a veicolare e valorizzare il singolo “contributo”, anche in forma sporadica e non organizzata. L’esperienza delle piattaforme di mercato dimostra che è possibile, sia dal punto di vista tecnico che da quello organizzativo, nell’ambito dei processi redistributivi questo passaggio deve però essere accompagnato da una riflessione sulle relative implicazioni sociali in termini di potenziale rafforzamento della partecipazione civica, riduzione delle diseguaglianze sociali e ripensamento del ruolo dell’amministrazione locale.

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La «questione urbana» al centro della crisi

“Le città nella crisi”: è il titolo del nuovo numero de “La Rivista delle Politiche Sociali”. Tre gli argomenti affrontati nel fascicolo: le politiche urbane nella parte monografica, il welfare contrattuale nella sezione attualità, la crisi (“spiegata ai nipoti”) nello spazio riservato al dibattito e dedicato al libro testamento di Luciano Gallino.

In un tempo in cui la maggior parte della popolazione mondiale vive nelle città e in cui mutamenti strutturali e recessione economica hanno impatti significativi sulle condizioni di vita delle persone, la “questione urbana” si impone con urgenza. La sezione monografica del fascicolo indaga le politiche urbane messe in campo per far fronte alla crisi, con uno sguardo anche alle soluzioni innovative sperimentate in alcune realtà locali. Soluzioni che segnalano quanto sia importante l’iniziativa degli attori sociali ed economici (il sindacato, fra questi), come questa azione sia destinata a fallire – o comunque abbia scarsi effetti – senza una forte assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni pubbliche, a partire dalle amministrazioni comunali.

L’analisi dei diversi casi-studio di città straniere (Barcellona, Chicago, Parigi) e italiane (Milano, Torino, Livorno, Cosenza) ha evidenziato come le risposte “dal basso” alla crisi economica siano state fondamentali, pur nascondendo a volte insidie e punti oscuri e, comunque, sempre esigendo un ruolo forte delle istituzioni pubbliche, chiamate a coordinare, orientare, promuovere e sostenere i processi di riorganizzazione e riconversione urbana. A fare politica urbana, appunto. Così come, ricordano Paolo De Nardis e Luca Alteri, curatori della sezione, l’analisi “consiglia di rifiutare un approccio apodittico che consideri ogni politica urbana volta unicamente a creare un attivo di bilancio per l’amministrazione locale o per lo Stato”.

Un focus specifico per comprendere l’attualità delle profonde trasformazioni urbane che segnano il contesto italiano ed europeo è riservato alle periferie, luoghi stigmatizzati, dove vivono soggetti e gruppi maggiormente colpiti dai mutamenti degli assetti socio-economici: le dinamiche di espulsione dal processo produttivo, la precarizzazione lavorativa, la riduzione delle risorse di welfare state, l’erosione dei diritti di cittadinanza sono i caratteri preminenti che incidono sulle traiettorie di vita degli abitanti delle zone periferiche. A ciò si aggiunga la progressiva residualità del welfare abitativo, che ha contribuito a determinare la concentrazione spaziale di soggettività economicamente deprivate e socialmente marginalizzate.

Gli effetti prodotti dall’azione pubblica attraverso le cosiddette “area-based policies” risultano deboli, poiché non affrontano le cause strutturali della segregazione socio-spaziale e, soprattutto, non riducono la distanza tra la periferia e il centro. Vi è, quindi, la necessità di creare nuove forme di cittadinanza attraverso il rinnovamento dell’azione amministrativa e il cambiamento delle periferie in autonomi spazi di dialogo per condividere l’innovazione delle politiche. La questione urbana e le conseguenti politiche richiamano con forza il ruolo egli attori sociali ed economici. Più volte i casi trattati dai diversi autori evocano il potenziale (e necessario) ruolo del sindacato.

In particolare l’esperienza della Camera del lavoro di Milano, descritta da Massimo Bonini e Ivan Lembo, rappresenta un caso emblematico di quale possa essere il ruolo della contrattazione sociale per aprire a soluzioni innovative di fronte ai bisogni inediti che la crisi e i mutamenti sociali hanno prodotto; e per ridefinire i confini della stessa rappresentanza sindacale a soggetti – uomini e donne italiani e stranieri – altrimenti senza voce. Non solo. Un altro punto essenziale che si evince dai contributi pubblicati nel numero e che è rimarcato nel saggio introduttivo, è: di quale Europa delle città stiamo parlando, se non sono neanche certi i confini dell’Europa politica e se, all’interno di questa, le politiche urbane sono così differenziate? Di quale Europa si tratta se importanti distinzioni, all’interno dello stesso Stato, in termini di reddito, di occupazione e di condizioni di vita, costringono tanti giovani – come ricorda Gaetano Sateriale nel suo contributo – a stabilirsi all’estero? Si tratta degli stessi giovani che si sono inurbati nelle città europee nel vano tentativo di sfuggire alla crisi. A loro si sono aggiunte migliaia di energie maghrebine, asiatiche e sub-sahariane, più forti e più fortunate delle traversie del viaggio della disperazione. Un quadro che modifica profondamente le richieste di welfare e la stessa offerta di lavoro.

La sezione attualità è invece dedicata al welfare aziendale e contrattuale, tema divenuto ormai centrale nel dibattito nazionale, tanto nelle azioni del governo, quanto nelle posizioni e nelle proposte dei soggetti di rappresentanza, innanzitutto di parte datoriale. In particolare, la recente legge di stabilità ha previsto ulteriori misure di sostegno e agevolazioni di natura fiscale in grado di generare anche effetti diretti sulla crescita del welfare aziendale e contrattuale, di cui si evidenziano rischi e opportunità. Si avanzano sull’argomento anche delle proposte – è il caso dei contributi del segretario confederale Cgil Franco Martini e di Maria Concetta Ambra – per la crescita di un welfare aziendale e contrattuale più inclusivo, avendo a riferimento che solo un solido sistema di welfare pubblico e universale consente di sviluppare esperienze di welfare integrativo sostenibili, anche in termini di costi e convenienze contrattuali.

Chiude il fascicolo una riflessione sull’ultimo libro di Luciano Gallino, “Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegata ai nipoti”, ponendo attenzione al messaggio speciale che ci lascia un grande maestro: guardare ciò che è, ma soprattutto a ciò che potrebbe essere, con un indirizzamento dello sguardo verso nuovi orizzonti raggiungibili.

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Appaesarci in un mondo mobile e in fuga

Agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, fu molto in voga una canzone, che ebbe grande successo al Festival di Sanremo, interpretata dal gruppo I ricchi e poveri e dal cantante ispano-americano Josè Feliciano. Il testo del brano, Che sarà (Migliacci-Fontana),  ben racconta la durezza della vita lontano da casa e il senso di doloroso abbandono provato dal protagonista nel lasciare il proprio paese e la sua comunità di vita:

“Paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato. La noia, l’abbandono sono la tua malattia, Paese mio, ti lascio vado via”

E ancora:

“Gli amici miei son quasi tutti via e gli altri partiranno dopo me, peccato perché stavo bene in loro compagnia, ma tutto passa, tutto se ne va. Che sarà, che sarà, che sarà”

Intorno ad altre atmosfere, quelle disegnate da Cesare Pavese ne La luna e i falò, si svolge invece il ricamo di Mario Pogliotti, amplificato dalla straordinaria interpretazione di Giovanna Marini, che, in Ricordo di Pavese, fa esordire il brano musicale con queste parole:

“Un paese vuol dire non essere soli, avere gli amici del vino, un caffè…”.

Ma leggiamo direttamente una pagina de La luna e i falò:

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”

E’ importante notare che, nei due testi, emergono più che i luoghi fisici che caratterizzano l’habitat paese – la chiesa, la piazza, il campanile – i luoghi dello spirito – gli amici, la lontananza, la nostalgia – che si collegano a immagini profonde della vita.

Oggi siamo nella fase della post-metropoli. E le città-territorio in cui viviamo sono fatte di spazi indefiniti in cui gli eventi accadono sulla base di logiche che non corrispondono più a un disegno unitario d’insieme.

Tutto questo ha creato uno spaesamento sia nei piccoli comuni interni che nelle aree urbane. Uno sradicamento che è innanzitutto dentro di noi. Per appaesarci di nuovo, in un mondo mobile e in fuga, è necessario dare un nuovo senso all’abitare, all’essere nei luoghi, fotografandoli per quelli che sono. Malinconia, nostalgia, memoria, non guardano al passato ma ad un futuro da costruire, anche riconsiderando scarti, frammenti, schegge, saperi di altri universi, immaginando altri percorsi.

Non servono slogan, ma nuovi sguardi e nuovi stili di vita. Cogliere le trasformazioni, i mutamenti, le novità, le incurie, le bellezze, i margini, le devastazioni. Bisogna essere disponibili alla sorpresa e allo stupore, allo spavento e all’incanto. Rimettersi in cammino, guardare e vedere, osservare, condividere, accogliere.

 

I ricchi e poveri