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Lontano lontano

di Gianni Di Gregorio. Con Ennio FantastichiniGiorgio ColangeliGianni Di GregorioDaphne ScocciaSalih Saadin Khalid Italia 2019

Il Professore (Di Gregorio) vive a Trastevere della modesta pensione di ex-insegnante di latino e greco; il suo amico Giorgetto (Colangeli) si deve invece accontentare della pensione sociale: non ha mai avuto un impiego ed è campato di una piccola parte dei proventi di un banco di frutta e verdura che i genitori avevano lasciato al suo laborioso fratello Oreste (Giancarlo Porcacchia) e a lui, che non vi aveva quasi mai lavorato. Giorgetto tira avanti come può: mangia la frutta che il fratello, brontolando, gli regala, non paga da anni l’affitto della casetta nella quale abita (con costante rischio di sfratto) ma è di buon cuore e consente al giovane immigrato Abu (Saadin Khalid) di usare la sua doccia, dividendo con lui proprio magro pasto; ora, però, ha deciso di seguire l’esempio di altri pensionati e di andare a vivere in un paese nel quale il cambio e le condizioni generali gli consentano di vivere un po’ meglio e coinvolge nel progetto il Professore. Avendo saputo che la tabaccaia Daniela (dalla quale lui compra, speranzoso, i gratta e vinci) ha un cliente il cui fratello è andato a vivere all’estero per i suoi stessi motivi, gliene chiede l’indirizzo e lei, frugando nella memoria, tira fuori un nome e un indirizzo nella estrema periferia. Dopo un lungo tragitto in autobus i due amici arrivano nella villetta (abusiva?) di Attilio (Fantastichini) e si accorgono ben presto che non è lui la persona che cercano; parlando davanti ad una birretta, Attilio – che non ha pensione e si è improvvisato restauratore di mobili, che in parte rivende la domenica nel mercato di Porta Portese – si dimostra interessato all’idea di partire e, all’uopo, si fa accompagnare dagli altri due dal prof. Federmann (Roberto Herlitzka), al quale ha restaurato uno specchio. Quest’ultimo, dopo essersi scolato con loro una grappa di nascosto dalla moglie (Francesca Ventura), dà un saggio di tutto il suo sapere indicando loro le mete più convenienti, salvo richiamarli la sera e proporre come paese ideale le Isole Azzorre. I tre si danno da fare per trovare i soldi del viaggio: il Professore vende alcune delle sue adorate rarità letterarie ad un amico libraio (Matteo Maglia), Giorgetto si fa dare qualche soldo dal fratello e compra tanti gratta e vinci, mentre Attilio – dopo essersi ingaggiato Abu per portare dal rigattiere (Dario Beffa) i suoi strani manufatti e aver visto le precarissime condizioni di vita del giovane immigrato – comincia ad avere dei dubbi sul viaggio: ha appena ritrovato l’affetto della figlia (Daphne Scoccia), che da bambina aveva trascurato. Anche il Professore avrebbe un motivo per restare: è riuscito a parlare con la signora (Galatea Ranzi) che vedeva sempre al bar e della quale si era invaghito. In fondo, anche Giorgetto ha scoperto di stare al banco di famiglia, sopportando addirittura la temibile Signora della Cicoria (Francesca Borromeo). Alla fine qualcuno partirà ma non è detto che siano loro (una fetta di cocomero a Terracina, in fondo, è già abbastanza esotica).

Lo sceneggiatore Gianni Di Gregorio dopo il tardivo e fortunato esordio con Pranzo di Ferragosto sembrava aver esaurito la coinvolgente e teneramente ironica vena: i suoi due successivi film da regista, Gianni e le donne e Buoni a nulla, sembravano stanche riproposizioni del suo personaggio indolente e sognatore. Lontano lontano (tratto dal suo racconto Poracciamente vivere, apparso nella raccolta  di autori romani Storie della città eterna, edito da Sellerio) è invece una bella sorpresa: lui sembra aver ritrovato la propria miglior vena, i suoi compagni di scena (Fantastichini nella suo ultimo ruolo prima della scomparsa, Colangeli ed Herliztka) sono bravissimi, Trastevere diventa sommessa ma efficacissima co-protagonista (e non era facile riprenderla per l’ennesima volta e darle un tocco personale) e lo stesso finale buonistissimo (che non raccontiamo per non spoilerare ma è facile da intuire), ben lungi dall’aver lo sgradevole sapore di una forzatura nella chiave dell’odioso politically correct, chiude con un soffio poetico la favola dei tre anziani:.. e vissero “poracciamente” ma, in fondo felici e contenti.




L’hotel degli amori smarriti (Chambre 212)

 di Christophe Honoré. Con Chiara MastroianniVincent LacosteCamille CottinBenjamin BiolayStéphane Roger   Francia 2019

Lo studente Asdrubal (Harison Arevalo) sta facendo lo svenevole sulla porta con la fidanzata (Clara Choi), quando da dietro una tenda appare, seminuda, Marie (Mastroianni), l’insegnante di diritto del ragazzo, che dichiara di non aver nessuna voglia di assistere di nascosto a quelle smancerie e, dopo aver dichiarato alla ragazza di essere stata lei a sedurle il fidanzato, si riveste e se ne va. Tornata a casa va a fare una doccia e il marito Richard (Biolay) vede sul suo cellulare i messaggi d’amore di Asdrubal. La affronta e lei difende il proprio diritto ad una vita sessuale libera e dice di essere sicura che anche lui non le è fedele; non è così e lui le dichiara tutta la propria amarezza. Più tardi, mentre Richard dorme, lei esce e prende una stanza nell’hotel davanti alla loro casa, dalla cui finestra può spiare i movimenti del marito. Poco dopo la raggiunge Richard venticinquenne (Vincent Lacoste) – all’età del loro matrimonio- e dopo una serie di recriminazioni, loro fanno l’amore. Ecco che arriva la quarantenne Irene (Camille Cottin), l’insegnante di pianoforte, con la quale lui, quattordicenne (Kolia Abitebul), aveva avuto una relazione, terminata quando lui le aveva comunicato che si sarebbe sposato con Marie. Ora Irene rivendica il diritto a riprendersi Richard, che non ha mai smesso di amare. Marie si ingelosisce ma, quando lui il giovane marito le ricorda i tanti amanti, arrivano le defunte mamma (Marie-Christine Adam) e nonna (Claire Johnston) di lei ad enumerarle tutti gli uomini con i quali era stata. Nuova discussione e nuova parentesi di sesso per Marie e Richard, interrotta dall’arrivo della Volontà (Stephane Roger) di lei che la induce ad approfondire la propria natura libertina e poco dopo fa salire Asdrubal, che è andato a cercarla per dichiararle il proprio amore, raggiunto da tutti gli altri amanti (Anthony Moro, Nassim Rachy, Tommy Schlesser, Alexander Leach, Amin Boué, Victor Bergeon, Selim Zahrani, Nabil Taleb, Anthony Deveaux, Cyril Mezger) di lei. Intanto Irene è andata a casa di Richard e, mentre cerca di portarlo a letto gli mostra il bambino (Gabriel Onée) che avrebbero avuto se fossero stati insieme e che lui avrebbe desiderato (Marie non aveva voluto avere figli). Lui le dice di amare ancora la moglie e la pianista se ne va con il bambino che è diventato un bambolotto. Marie la vede disperata e la porta nella casa al mare dove lei andrà a vivere e sarà una felice lesbica sessantenne (Carole Bouquet). Alla fine della nottata Marie e Richard ricominceranno il loro complesso ma irrinunciabile ménage.

Christophe Honoré è, di base, uno scrittore e, anche nei suoi racconti per i ragazzi, tende al didascalismo e alla provocazione. I suoi film (raramente distribuiti in Italia) sono, a loro volta, piccole provocazioni con taglio adolescenziale sulla labile complessità dei sentimenti. Qualche tempo prima di questo film, nel 2011, si era cimentato nel complesso musical (ma lui aveva preferito considerarlo un racconto sottolineato da musiche) storico Les Bien-Aimés, in cui le vicende sentimentali ed erotiche dei protagonisti sono attraversate dagli eventi degli ultimi 40 anni. L’hotel degli amori smarriti è, forse, la sua opera cinematografica più ambiziosa, con richiami al racconto Wakefiled (un marito in crisi si nasconde in un edificio di fronte alla sua casa per spiare i movimenti dell moglie) di Hawthorne, con rimandi stilistici alla nouvelle vague ma anche a Robbe-Grillet e, forse, al Roger Corman de I vivi e i morti e de Il pozzo e il pendolo (i colori delle stanze che sottolineano stati d’animo, cosi come all’Antonioni de Il deserto rosso. Come in Les Bien-Aimés le canzoni hanno un forte ruolo di contrappunto: Vanoni-Toquinho, The Rapture, Caterina Valente e, soprattutto Charles Aznavour (addirittura evocato da Stephan Roger, famoso attore d’avanguardia che spesso cita, imitandolo, il cantautore armeno) danno un respiro alle vicende che altrimenti non avrebbero. Si, perché il film è faticoso e pesantemente metaforico (a cominciare dal titolo originale, Chambre 212, che è il numero dell’articolo del codice civile – che Marie, docente di diritto, conosce bene – che tratta del rispetto tra coniugi). Chiara Mastroianni è stata premiata per questo ruolo a Cannes nel sezione “Un certain regard”. Buon per lei.

 




Gli anni più belli

di Gabriele Muccino. Con Pierfrancesco FavinoMicaela RamazzottiKim Rossi StuartClaudio SantamariaFrancesco Centorame  Italia 2020

Giulio (Centorame) e Paolo (Andrea Pittorino) nel ’68 sono due quattordicenni che si trovano coinvolti casualmente in uno scontro con la polizia, nel quale un altro ragazzo, Riccardo (Matteo De Buono) viene colpito da un proiettile; i due amici lo portano in ospedale e lo continuano ad andare a trovare finché, abbastanza miracolosamente, guarisce; sarà il terzo, inseparabile amico, soprannominato dagli altri due il Sopravvissuto o, meglio, Sopravvissù. Quest’ultimo è figlio di due hippy e vive con loro in una villetta sul lago, dove Paolo, appassionato di ornitologia costruisce una colombaia. Questa sua passione colpirà Gemma (Alma Noce), che lo rimorchia dopo una sua prolusione in classe sul volo degli uccelli. Ora sono in quattro e Giulio, figlio del gommista violento e anaffettivo Oreste (Fabrizio Nardi), li coinvolge nell’acquisto dallo sfasciacarrozze (Massimiliano Cardia) del rottame di una fuoriserie rossa, che –scontrandosi con il padre –  rimette in sesto. Ora con la macchina, si sentono liberi di girare il mondo ma Oreste la vende dando al figlio solo pochi spiccioli. In quegli stessi giorni Gemma, che non aveva mai conosciuto il padre, perde la madre (Azzurra Rocchi) malata terminale; è così costretta ad andare con la zia (Titti Nuzzolese) a Napoli ma prima di partire decide di perdere la verginità con Paolo. Ora i ragazzi sono grandi: Giulio (Favino) si è laureato in Legge, Paolo (Rossi Stuart) in Lettere, Riccardo (Santamaria) insegue il sogno di occuparsi di cinema, facendo la comparsa e scrivendo recensioni per piccole testate mentre Gemma (Ramazzotti), per lenire le angosce, a Napoli si dà un po’ a tutti fino a convivere con il manesco Nunzio (Gennaro Apicella), piccolo spacciatore. Giulio ha scelto di fare il difensore d’ufficio per aiutare tutti quelli che non possono permettersi un avvocato, Riccardo ha conosciuto sul set un’aspirante attrice, Anna (Emma Marone), e si mette con lei. Paolo tira avanti a forza di supplenze e, nel tempo libero, dà una mano nel baretto della madre (Paola Sotgiu) e proprio lì incontra Gemma che è venuta a Roma con il fidanzato; l’incontro li emoziona entrambi e, tornata a Napoli, lei scappa di notte dalla casa di Nunzio per raggiungere il suo primo amore. La convivenza con la madre di Paolo non è semplicissima ma un giorno lui la va a prendere nel cocktail-bar dove lei lavora e le promette che cercherà un appartamentino per loro due ma, di lì a poco, la madre ha un ictus e lui è costretto a stare con lei per accudirla. Riccardo sposa Anna e, al pranzo di nozze, nasce una attrazione tra Gemma e Giulio che, dopo un periodo di incontri clandestini, decidono di vivere insieme e, quando lo dicono a Paolo, questi esce distrutto dal colloquio. Il celebre avvocato Nobili (Mariano Rigilio), che ha saputo delle capacità professionali di Giulio, lo chiama e gli offre uno stipendio-base di 8 milioni più benefit, e lui, si pur con la coscienza che gli rimorde, accetta. Poco dopo lo studio si trova a difendere il corrotto e potente politico e uomo d’affari Sergio Angelucci (Francesco Acquaroli) per un pesante affare di malasanità. Il giorno dell’udienza decisiva, l’avv. Nobili ha un grave incidente d’auto e Giulio deve pronunciare l’arringa difensiva; è così convincente e preparato sui cavilli giuridici da far assolvere il deputato. Questi, felicissimo, lo assume in un ruolo apicale nella sua azienda mentre la figlia Margherita (Nicoletta Romanoff) decide di conquistarlo. Ci riesce e ora è Giulio a lasciare, dopo una scenata, Gemma. Di lì a poco anche Anna – che ha avuto un bambino e che non riesce a tirare avanti con i pochi soldi che Riccardo saltuariamente guadagna –  si lascia convincere dalla madre (Antonella Valitutti) a partire con lei. Riccardo chiama Paolo (che ha ottenuto la sospirata cattedra) e passa la serata a bere con lui, insieme incontrano Gemma ma Paolo non riesce a dimenticare e, quando i due, un po’ brilli, si buttano nella Fontana di Trevi, lui se ne va esasperato. Giulio e Margherita hanno avuto una figlia, Sveva (Elisa Visari), che, da adolescente soffre nel vedere l’indifferenza del padre di fronte ai palesi tradimenti della madre; lui, allora, la porta nella sua povera casa natale e le racconta la durezza dei suoi primi passi nella vita. Paolo e Gemma – che ora vive con il figlio adolescente Leonardo (Ilan Muccino) –si incontrano su di un autobus e ricominciano a vedersi, per poi sposarsi. Un incontro casuale alla stazione tra Giulio e Riccardo fa venire ad entrambi la voglia di rivedersi e così organizzano una cena con Paolo nella trattoria che frequentavano da ragazzi. Saranno di nuovo amici.

Muccino è sempre stato un autore divisivo: i suoi film sono stati considerati da buona parte della critica ufficiale dei melò di scarso spessore, ancora più invisi perché spesso capaci di ottimi incassi (brutto difetto per molti: se piaci al pubblico sei inevitabilmente mediocre): 12,5 milioni L’ultimo bacio (mentre usciva, incassando la metà, La stanza del figlio: non si fa!) 10 Ricordati di me, 9 Baciami ancora, 9 A casa tutti bene. Né era piaciuta la trasferta americana per fare (non sia mai signora mia!) con alterne fortune dei film commerciali. Per Gli anni più belli, poi si è addirittura spinto fino alla dichiarata (con tanto di acquisizione dei diritti) ispirazione a C’eravamo tanto amati. In effetti il film di Scola è il suo capolavoro: c’è la summa di tutta la sua poetica e anche i suoi difetti – tipo un fastidioso manicheismo politico-culturale che in altri suoi film (penso a Trevico-Torino – Viaggio nel Fiat-Nam o a Mario, Maria e Mario) ne appesantivano il racconto – davano alle vicende di Gassman, Manfredi, Sandrelli e Satta Flores la forza di una passione ideologica che le rendeva universali. Muccino lascia scivolare qua e là qualche omaggio al film di Scola (vedi le soggettive dei protagonisti che raccontano direttamente al pubblico lo snodarsi della trama o, più ancora, lo stacco su nero di Gemma come nella ironica citazione di Strano interludio in C’eravamo tanto amati) ma, in realtà, procede per proprio conto e, come è nel suo stile, non ci racconta una generazione ma tre persone e i loro sentimenti. Bisogna dire che, rispetto al gridatissimo A casa tutti bene, questo film ha una bella compostezza. Nel cast (inutile fare ingenerosi paragoni) brilla Kim Rossi Stuart ed è una bella sorpresa Fabrizio Nardi (il Pedro del duo comico Pablo e Pedro), cattivo convincentissimo. E’ un melò? Sì, è un melò con tanto di lieto fine e di canzoni (una originale) di Baglioni ma lo si vede con piacere e i primi incassi lo confermano.

 

 




Villetta con ospiti

di Ivano De Matteo. Con Marco GialliniMichela CesconMassimiliano GalloErika BlancCristina Flutur Italia- Francia 2020

Giorgio (Giallini) è un romano emigrato in un paesino del Veneto e dirige l’azienda vinicola della famiglia della moglie Diletta (Cescon); è venerdì e dà alcune disposizioni alla segretaria (Giulia Corrocher) prima della sua partenza per un lungo week-end. Diletta è in chiesa, dove – dopo aver suonato nervosamente l’organo – prende gli ultimi accordi con il parroco, don Carlo (Vinicio Marchioni) per la festa in piazza con lotteria che ha organizzato per quel pomeriggio e che – come tutto – le crea una grande ansia. Il marito, dopo aver dato delle medicine per la suocera Miranda (Blank) al giovane tuttofare rumeno Adrian (Ioan Tiberiu Dobrica), aver discusso con il suo amico commissario Panti (Gallo) per una pistola che lui avrebbe mostrato in pubblico va al bar e –dopo aver salutato l’untuoso dottor De Santis (Bebo Storti), tempestato di telefonate della collerica Miranda che lui ha da poco operato ad un’anca e che si lagna dei dolori post-operatori –  ordina delle paste e dei giochi alla pasticcera (Stephany Maciel Santana); dopo di che va a casa. Diletta passa, prima di rientrare, a trovare la madre che la aggredisce sostenendo che il genero sta facendo strane manovre finanziarie in azienda e non risponde alle sue convocazioni, sostiene che De Santis l’ha operata solo per spillarle quattrini e tratta – come sempre – male la paziente cameriera Sonia (Flutur) madre di Adrian. A casa, Diletta cerca di convincere il marito a stare con lei in quel pomeriggio impegnativo ma lui le oppone improrogabili incontri di lavoro e, dopo aver dato i dolci e i giochini ai figli – il settenne Matteo (Luca Dimulescu) e l’adolescente Beatrice (Monica Billiani) – parte per la sua vera meta: un week-end di sesso con la bella pasticcera. Il commissario sta pedinando, in macchina con un sottoposto (Edoardo Tidei), il corrotto dottore, dopodiché perquisisce il camion del trasportatore Ilia (Mariu Bizau), fratello di Sonja, chiudendo un occhio su quello – alimenti ma probabilmente anche altro – che contrabbanda. Durante la festa in piazza Adrian – che aveva appena litigato con la madre, che per dare una vita migliore a lui e al figlio piccolo che ha lasciato in Romania accetta (troppo passivamente, secondo il ragazzo) i maltrattamenti di Miranda – incontra Beatrice e si capisce che tra i due c’è qualcosa di più di un’amicizia ma la loro conversazione viene interrotta dalla madre della ragazza che irrompe quando vede la figlia bere la birra che lui le offre. Un improvviso acquazzone interrompe la festa e Diletta si rifugia in chiesa, dove intravede don Carlo – noto in paese per quelle imprese – che sta facendo l’amore con una parrocchiana. Sconvolta, torna a casa e si preoccupa perché la figlia non è tornata e quando, molto più tardi, lei suona il campanello (ha perso le chiavi che erano nella borsetta mentre chiacchierava con Adrian) le fa una scenata e le proibisce di uscire di nuovo; dopodiché si imbottisce di calmanti e va a letto. Di notte viene svegliata da un rumore, scende con la pistola del marito e, quando vede uno sconosciuto coperto da un cappuccio aggirarsi per la casa gli spara ferendolo gravemente: è Adrian e lei chiama in soccorso il prete e il marito. Questi, a sua volta, fa arrivare Panti e poco dopo viene convocato d’urgenza De Santis ma il ragazzo muore dissanguato. Una catena di reciproci ricatti, che coinvolgono anche Ilia, metterà tutto a tacere.

Ogni cinematografia ha degli registi/artigiani che sono un punto di riferimento per determinate zone di racconto. De Matteo può essere considerato tale per quanto riguarda il cinema di solido impegno sociale; nitido, preciso, mai predicatorio racconta le pecche del sistema – sia che si tratti delle ipocrisie dei buonisti da salotto (La bella gente), del tifo calcistico come copertura di inconfessate angosce (Ultimo stadio), delle nuove povertà conseguenti alle separazioni (Gli equilibristi) o della violenza domestica (La vita possibile) – senza manicheismo ma, anzi, con una empatia per tutti i personaggi delle sue storie. Che sia regista di qualità lo dimostra il suo I nostri ragazzi che, con mezzi molto più limitati, surclassa la patinatissima versione americana con Richard Gere dello stesso romanzo di Herman Koch, The dinner. Per Villetta con ospiti dichiara di aver rivisto, data l’ambientazione tra la buona borghesia veneta, il capolavoro Signore e signori di Pietro Germi; il film era un inevitabile punto di riferimento ma Di Matteo non ha la divertita ironia di Germi mentre Villetta con ospiti – ed è un notevole pregio – ha molti punti di contatto con i preziosi gialli di Claude Chabrol. Dall’autore di A doppia mandata, Stephane, una moglie infedele, Scandale – Delitti e champagne (che riusciva ad esempio, ne Il tagliagole, a restituirci l’umanità di un serial killer, timido e innamorato macellaio di provincia) De Matteo ha in comune una sorta di cinismo comprensivo che aggiunge rotondità e profondità al racconto.Il cast è adeguato ma, mentre i protagonisti maschili si appoggiano con mestiere alle loro collaudate maschere, la Blank, la rumena Flutur (nel 2012 vinse a Cannes con Oltre le colline di Cristian Mungiu) e, soprattutto, la Cescon dànno una prova esemplare.




1917

di Sam Mendes. Con George MacKayDean-Charles ChapmanMark StrongAndrew ScottRichard Madden Gran Bretagna 2019

I caporali Blake (Chapman) e Schofield (MacKay), di stanza con l’Ottavo battaglione inglese nel nord della Francia sono reclutati d’urgenza dal sergente Sanders (Daniel Mays) e portati al cospetto del generale Erinmore (Colin Firth) che affida loro una importantissima e pressoché suicida missione: dovranno, passando per la Terra di Nessuno, raggiungere la cittadina di Ecoust-Saint-Meine in mano ai tedeschi, di lì arrivare al bosco di Croisilles, dove è accampato il Secondo Battaglione Devon e consegnare al colonnello MacKenzie (Benedict Cumberbatch) un plico, recante l’ordine di fermare l’attacco che all’alba del giorno dopo avrebbe sferrato contro le truppe germaniche apparentemente in ritirata. In realtà i servizi segreti britannici, fotografando dall’alto la zona, avevano scoperto che la ritirata del nemico era un trucco e che i 1.600 soldati del Battaglione sarebbero annientati. Il fratello (Madden) di Blake è un tenente della Devon e lui si precipita fuori dalle trincee per salvarlo mentre Schofield – che ha moglie e due figli – è spaventato dalla pericolosità della missione e non lo rincuorano certo le pessimistiche previsioni del tenente Leslie (Scott) che, ubriaco, indicando il percorso per uscire dal reticolato che circonda la trincea, preconizza il loro non ritorno.  Fuori li aspetta uno scenario agghiacciante: fango, mota, acque nere a cielo aperto, cadaveri di uomini, mucche e cavalli. Arrivano, affamati e stremati ad una fattoria e lì Schofield può riempire la borraccia di latte, mentre Blake vede una battaglia tra due aerei inglesi ed uno tedesco; quando quest’ultimo colpito cade a terra e si incendia; Schofield vorrebbe sparare al pilota ferito ma Blake lo tira fuori dal velivolo in fiamme con il risultato di venire pugnalato e morire. L’amico spara al tedesco e lo uccide, poi in lacrime prende il plico, la piastrina e i pochi valori dal commilitone; in quel momento arriva un piccolo contingente di soldati guidato dal Capitano Smith, che ricompone alla meglio il corpo e fa salire Schofield su di un camion. Il viaggio è assai incidentato e il ponte che porta a Ecoust è crollato sotto le bombe. Il caporale deve perciò proseguire a piedi e Smith gli consiglia di consegnare il messaggio davanti a testimoni: il colonnello MacKenzie è un militare fanatico e potrebbe non interrompere l’attacco. E’ notte e Schofield, costantemente bersagliato dai cecchini nemici, è tra le rovine della cittadina francese e, scappando dai tedeschi, si rifugia in una casa abbandonata dove è nascosta una ragazza, Lauri (Claire Duburcq) che accudisce una neonata (Ivy- I Macnamara) che ha perso la mamma; la piccola viene sfamata con il latte preso alla fattoria ma lui deve correre al battaglione Devon. I tedeschi lo inseguono sparando e lui si butta in un fiume e, aggrappato ad un tronco, si lascia trasportare alla riva opposta. Arriva alle trincee inglesi quando un primo reparto è già partito all’assalto e, fendendo, un mare di soldati pronti alla carica, arriva al cospetto del colonnello che sta concertando la strategia con i suoi ufficiali e, quando legge il messaggio, è costretto ad obbedire ma maledice il povero caporale. Con lui si congratula invece il Maggiore Hepburn (Adrian Scarborough) che lo manda a rifocillarsi; lui però, prima di ripartire deve dare la triste notizia al Tenente Blake e chiedergli il permesso di adempiere alla promessa fatta all’amico in punto di morte: quella di scrivere alla loro madre. I due soldati si abbracciano.

La prima guerra mondiali ha ispirato molti film; alcuni (non a caso, per lo più girati negli anni’30 e ’40) epici: Il sergente York (1941) di Howard Hawks, I fucilieri delle Argonne (1940), Gli angeli dell’inferno (1930) di Howard Huges (supportato da James Whale e Edmond Goulding); altri comici: Charlot soldato (1918) di Charlie Chaplin, Il compagno B con Stanlio e Ollio ma per la maggior parte si tratta di film di denuncia degli orrori della guerra: All’ovest niente di nuovo (1930) di Lewis Milestone (da Remarque), Westfront (1930) di Georg Wilhelm Pabst, Orizzonti di gloria (1957) di Stanley Kubtick, i nostri La grande guerra di Mario Monicelli, Uomini contro (1970) di Francesco Rosi e Torneranno i prati (2014) di Ermanno Olmi, Per il re e per la patria (1964) di Joseph Losey, l’ironico Oh, che bella guerra (1969) di Richard Attenborough, Gli anni spezzati (1981) di Peter Weir, E Johnny prese il fucile (1971) di Dalton Trumbo fino al recente Joyeux Noel di Christian Carlon. Anche Mendes ha scelto quest’ultima strada, basando il film sui racconti del nonno milite inglese in quegli anni. Lui è un autore duttilissimo ma, sia che parli della crisi di un uomo di mezza età in American Beauty, sia che ambienti il plot tra i gangster, Era mio padre, soffonde sempre i suoi racconti di una disperante malinconia (riuscendo anche a trasmetterla al suo 007/Daniel Craig in Spectre Skyfall). L’orrore della guerra era già stato il tema del suo Jarhead la cui frase finale- “Un uomo usa un fucile per molti anni e va in guerra. Dopo, torna a casa e vede che qualsiasi altra cosa faccia della sua vita, costruire una casa, amare una donna, cambiare il pannolino a suo figlio, rimarrà sempre un Jarhead (trad: testa di lattina, persona che può solo eseguire gli ordini, senza discuterli). E tutti i Jarhead che uccidono e muoiono, saranno sempre come me” – può attagliarsi alla dolorosa trasfigurazione dei personaggi di 1917. Il film è colmo di nomination agli Oscar, tecnicamente tutte meritate ma non gli è estraneo – a partire dal presentarsi come un finto piano-sequenza – un sapore di esercitazione cerebrale che – va detto – negli ultime partecipate ed intense sequenze nel Battaglione Devon (a partire dalla splendida, toccantissima ballata ottocentesca Wayfaring Stranger) scompare per lasciare posto ad una profonda drammaticità. by Antonio Ferraro




Jojo Rabbit

di Taika Waititi. Con Roman Griffin DavisThomasin McKenzieTaika WaititiRebel WilsonSam Rockwell Germania 2019

Germania 1945, verso la fine della guerra. Johannes Betzler (Griffin Davis) detto Jojo è un bambino di dieci anni fragile ed emotivo (non è ancora capace di allacciarsi le scarpe); il padre è disperso (forse disertore) in Italia e 3 anni prima è morta sua sorella maggiore. Quando viene convocato, insieme al suo migliore amico Yorki (Archie Yates), per la sua prima riunione di addestramento militare della gioventù hitleriana è fiero ma pieno di paure e la madre Rosie (Scarlett Johansson), come fa sempre, lo incoraggia. Il campo è agli ordini del capitano Klenzendorf (Rockwell), che è coadiuvato dal bel tenente Finkel (Alfie Allen) – tra loro due c’è, segretamente, del tenero – e dalla fanatica nazista Fraulen Rahm (Wilson). Jojo è un bel po’ imbranato e la sera in tenda racconta a Yoki di sentire un grande affetto per Hitler (Waititi), a cui, nelle vesti di amico immaginario, si rivolge sempre per consigli e consolazione. L’indomani mattina gli istruttori Christoph (Luke Brandon Field) e Hans (Sam Haygart) gli danno un coniglio e gli ordinano di ucciderlo, lui non ce la fa e scappa nel bosco piangendo, tra lo scherno di tutti che lo chiamano “Jojo rabbit”. Sotto un albero lo raggiunge l’amico Hitler che lo incita a mostrare il suo coraggio di piccolo nazista; il ragazzino, seguito da un saltellante fuhrer, corre indietro, strappa una bomba a mano al capitano e si precipita a lanciarla ma colpisce una albero e si ferisce seriamente al viso e ad una gamba. Ora è a casa convalescente, claudicante e con delle piccole cicatrici in faccia, per le quali lui si sente mostruoso. La madre lo rassicura e lo porta da Klenzerdorf, al quale con un calcio e un ceffone impone di dare delle mansioni al figlio per farlo sentire utile; Jojo viene così incaricato di attaccare manifestini, consegnare lettere di reclutamento e di raccogliere residui di metallo per l’esercito. Un giorno, a casa da solo, sente dei rumori che provengono dalla stanza della sorella morta e scopre una ragazza ebrea, Elsa Korr (McKenzie), che la madre sta nascondendo; lui, pieno di tutti i racconti della propaganda nazista, cerca di capire dove – secondo quando sosteneva la Rahm – nasconda le corna e la pelle squamata. Li per lì minaccia di consegnarla alla Gestapo ma lei gli obietta che così condannerebbe anche la madre e se stesso per averla ospitata; poi lo convince, spaventandolo, a non dire alla madre di averla scoperta. Ora sì che Jojo ha da chiacchierare con il suo amico Hitler e con lui concerta che la userà per scrivere un libro sugli ebrei che lo farà apparire un eroe agli occhi del capitano. Lei, che ha capito che è solo un bravo ragazzino confuso, si diverte a inventargli storie fantastiche sugli ebrei (che leggono nel pensiero, dormono appesi al soffitto, svolazzano in giro in cerca di prede); gli racconta anche di avere un fidanzato, Nathan, con il quale fuggirà a Parigi. Lui, geloso, inventa una lettera con la quale Nathan la lascia ma, quando lei scoppia in lacrime (in realtà il ragazzo era morto un anno prima), ne improvvisa subito un’altra nella quale Nathan si scusa e le dichiara rinnovato amore. Un giorno, uscendo per i suoi giri di propaganda, Jojo vede che la madre lascia in giro messaggi antinazisti e, al comando, trova il capitano che, mano nella mano con Finkel, mostra fiero il disegno di una divisa militare frou-frou che, a suo dire, rafforzerebbe l’animo dei combattenti. Poco dopo arriva a casa il comandante Deerz (Stephen Merchant) che, con un manipolo di uomini (Joe Weintraub, Brian Caspe, Gabriel Andrews, Billy Rainer e Rober East) comincia a frugare dappertutto, Elsa si finge Inga, la sorella morta, e alla richiesta di documenti dà la carta di identità a Klenzerdorf, che li ha raggiunti; quando le chiedono la data di nascita, lei sbaglia il giorno ma il capitano non obietta, anzi convince Deerz ad andarsene. La ragazza però capisce che – anche se Klezendorf la ha aiutata – basterà un semplice controllo perché la Gestapo si accorga dello scambio e torni a prenderla.  Jojo cerca di farle forza ma quando esce trova il corpo della madre impiccata in piazza con i traditori; disperato dà la colpa a Else e cerca goffamente di pugnalarla, per poi piangere abbracciato a lei. L’indomani incontra Yorki, arruolato appena undicenne, che – dopo aver fatto esplodere per sbaglio un negozio con l’enorme bazooka che gli avevano dato in dotazione – gli comunica che Hitler è morto. Si combatte per le via della città, arrivano anche il capitano e Finkel nelle loro buffe divise, mentre la Rahm – prima di essere colpita da una granata – sempre fanaticamente nazista arma i bambini e mette una giacca militare a Jojo. Gli alleati lo portano in un campo di prigionia, qui c’è anche Klezendorf, che gli strappa la divisa e lo salva – sacrificando la propria vita – gridandogli “Ebreo!”.  A casa, Jojo chiude i conti con l’amico immaginario, buttandolo dalla finestra con un calcione e – dopo averle detto che la Germania ha vinto la guerra per tenerla con se – porta fuori Elsa che, rendendosi conto della bella verità, prima gli dà uno schiaffo per lo spavento che le ha fatto prendere e, poi, in ricordo di Rosie (che amava tanto danzare), balla felice con lui in strada.

Taika Waititi è noto al grande pubblico per essere il regista di Thor: Ragnarock, il terzo con protagonista il Dio del Tuono Marvel, ma nel suo paese natale, La Nuova Zelanda, era un comico ed un regista di successo (il suo Boy era stato il maggior incasso della storia del cinema neozelandese). Jojo Rabbit – tratto dal romanzo di Christine Leunens Come semi d’autunno che ha partecipato anche alla sceneggiatura – è molto simile alle sue prime opere: divertente con tratti di asprezza e con teneri richiami ad un’infanzia problematica. Il rischio della trasposizione – soprattutto in questi grami tempi di piatto politacally correct – di un racconto scherzoso sul nazismo è sempre quello di urtare qualche sensibilità. Poche opere – il predicatorio Il grande dittatore di Chaplin, lo splendido Vogliamo vivere di Lubitsch, il suo divertente remake Essere o non essere di Brooks e il poetico Train de vie di Mihaileanu – sono state universalmente accettate (lo stesso La vita è bella di Benigni ha avuto, oltre all’Oscar, forti critiche). A Waititi l’operazione sembra riuscita: forse anche per merito dell’origine letteraria (in qualche modo nobilitante) ma certamente per la bella mano di regia e per la scelta e la direzione del cast: il ragazzino protagonista funziona benissimo (né gli è da meno il grassottello Archie Yates/Yorki), Rockwell dà – dopo l’Oscar per Tre manifesti a Ebbing, Missouri – una bella prova, la Johansson è convincente e partecipe, Rebel Wilson si conferma comica di razza e l’Hitler di Waititi è la perfetta personificazione di un fuhrer capriccioso e giuggiolone come lo vedrebbe, appunto, un bambino sensibile e confuso. La colonna sonora, infine, prosegue la voga (vedi il turbinoso esempio di Moulin Rouge) di sottolineare le azioni con brani assolutamente anacronistici rispetto alle vicende ma di grande  impatto: si va dai titoli di testa con I want to hold  your hand dei Beatles in versione tedesca (Komm, gib mir deine Hand), passando per i pertinenti I don’t want to grow up di Tom Waits e Mama di Roy Orbison , per arrivare , nel finale, ad Heroes di David Bowie, cantata in inglese dai Ten Tenors e in tedesco (Helden) dall’autore. Sembra un piccolo contributo ma nella poetica di un film tenero e garbato come questo, quelle musiche dànno una bella spinta emotiva.

 

 




Hammamet

 di Gianni Amelio. Con Pierfrancesco FavinoLivia RossiLuca FilippiSilvia CohenAlberto Paradossi   Italia 2020

Millenovecentoottantanove il Congresso di Milano del P.S.I. si conclude con la rielezione plebiscitaria di Craxi (Favino) quale segretario del partito. Sotto il palco c’è ad attenderlo il segretario amministrativo Vincenzo (Giuseppe Cederna) che gli espone i propri forti timori per le spese fuori controllo del partito e il conseguente, troppo disinvolto, ricorso a finanziamenti occulti. Craxi, infastidito, gli consiglia di prendersi una vacanza. Qualche anno troviamo il leader esule volontario ad Hammamet, in una villa nella quale vive con la moglie (Cohen), la figlia Anita (Rossi) e il nipotino Francesco (Federico Bergamaschi). Una sera dal giardino si sente un tafferuglio e degli spari e, poco dopo, il servizio d’ordine gli consegna un giovane, Fulvio (Filippi), con la faccia annerita dal nerofumo: è il figlio di Vincenzo (che si era suicidato per la tensione delle pressioni giudiziarie) che gli porta una lettera del padre, nella quale esprime tutta l’amarezza per non essere stato ascoltato quando, forse, si poteva ancora rimediare. Il Presidente (sarà chiamato così per tutto il film), ricordandogli la grande amicizia che per anni ha legato lui e Vincenzo, gli offre ospitalità nella villa. Lui accetta e, l’indomani, lo vediamo recarsi in un bazar e comprare una pistola. Il Presidente ha costanti dolori di origine diabetica ad una gamba con rischi di cancrena ma impone ai medici di non amputarla. Fulvio diventa una specie di suo documentarista personale e lui alla sua telecamera affida le sue osservazioni, così come detta ad Anita le proprie memorie e gli sfoghi conto la violenza dei giudici e l’irriconoscenza delle istituzioni italiane, interrotti spesso da improvvisi scatti di rabbia e di insofferenza. Il giorno di Pasqua arriva anche l’altro Figlio (Paradossi), sempre timoroso di essere mal sopportato dall’irascibile padre ma quando si mette alla chitarra e intona Piazza Grande, il vecchio leader si commuove. Un giorno, durante una passeggiata nel vicino deserto, lui e Fausto trovano un carrarmato abbandonato e, accostandovisi, lui dice al ragazzo di sapere che nello zaino che porta sempre con sé nasconde una pistola e, mettendosi dietro al cingolato, per non farsi vedere dalla scorta gli chiede di riprenderlo mentre dirà cose che non ha mai rivelato a nessuno, dopodiché potrà decidere cosa fare; finita l’intervista Fausto scompare. Arriva a Tunisi l’Amante e all’aeroporto la incrocia Anita, che la tratta male ma, quando il padre le confessa di amarla ancora, lo accompagna da lei. Un vecchio rivale democristiano (Renato Carpentieri) lo va a trovare e nel colloquio – durante il quale questi cerca invano di convincerlo a tornare – i due ritrovano l’aspra ma rispettosa contrapposizione ma anche la complicità di un tempo. Ai gravi problemi sanitari si aggiunge un tumore ai reni, che andrebbe operato d’urgenza ma lo scarsamente attrezzato ospedale tunisino non fornisce serie garanzie di buon esito. Anita chiede al fratello di darsi più da fare per consentire un ritorno di loro padre in Italia, almeno per farsi operare senza il rischio di un arresto. Il giovane torna con una lettera (scritta da Amato?) che fa infuriare il Presidente: vari giri di parole ma nessuna garanzia di rispetto almeno umanitario. Anita sembra averlo convinto ad andare a farsi operare a Milano – volerà con un areo di stato tunisino e una macchina lo andrà riservatamente a prendere all’aeroporto di Roma per portarlo in clinica – ma all’ultimo momento lui, giunto sotto l’aeromobile, si rifiuta di scendere dalla macchina: è rimasto pendente il mandato d’arresto nei suoi confronti. Sarà operato in Tunisia e, di lì a poco, morirà sognando di rincontrare il Padre (Omero Antonutti) – uomo tutto d’un pezzo ma che lo ha appoggiato quando qualche marachella (tipo rompere con la fionda i vetri del collegio dove studiava) nasceva da una comprensibile ribellione – con il quale assiste al volgare spettacolo di due comici da strapazzo (Adolfo Margiotta e Massimo Olcese) che lo irridono, con toni di qualunquistico moralismo. Dopo qualche tempo, Anita riceve la richiesta di uno psichiatra (Roberto De Francesco) di incontrare Fausto che è ricoverato nella sua struttura; questi, dopo averle rivelato un segreto terribile sulla morte di Vincenzo, le consegna l’esplosiva cassetta girata dietro il carrarmato.

Amelio, si sa, è regista discontinuo – passa dai profondi e toccanti Porte aperte, Il ladro di bambini, Così ridevano ai meno riusciti Lamerica, La stella che non c’è, per citare alcuni suoi titoli noti – e, di recente, dopo i deludenti Il primo uomo e L’intrepido aveva diretto l’intensissimo La tenerezza. Hammamet sembra (e, forse, in parte è) un film su commissione: c’è uno stupefacente Favino che – truccato alla perfezione (anche troppo: c’è sempre il rischio di un effetto Pierluigi Zerbinati, il sosia di Craxi del Bagaglino) da Andrea Leanza con Federica Castelli e Massimiliano Duranti – trova da dentro di sé (come fanno i grandi attori) i toni e le mosse del leader socialista ma la sua bravura sembra esaurire il film. Raccontare un personaggio recente e controverso è sempre complicato e denso di insidie, come dimostrano, ad esempio il funereo Il Divo e lo scentrato Loro, entrambi di Sorrentino; Amelio e il suo co-sceneggiatore Alberto Taraglio hanno deciso di raccontare solo il Craxi esule in Tunisia. Ci si poteva aspettare il diario dolente e rabbioso di un leone in gabbia o il riscatto da una vita piena di successi storici ma anche di pesanti cadute negli ultimi mesi, inevitabilmente riflessivi, di isolamento e solitudine; invece non c’è quasi nulla: vediamo un vecchio malato ed iracondo, accudito da un’eroica figlia (quasi un Re Lear da Bignami), del quale ci viene raccontato un glorioso passato che, però, non traspare mai.  Al di là delle accettabilissime invenzioni narrative (siamo comunque in un film e quindi in un’opera, per definizione, di fantasia) come tutta la vicenda di Fausto, nel film non c’è né il Craxi di grande statura politica che in questi ultimi tempi anche antichi oppositori stanno riscoprendo né il “cinghialone” ferito che la stampa avversa aveva negli anni di Tangentopoli disegnato e – non essendo quasi irriconoscibile la mano di Amelio – non c’è nemmeno il (poderoso o decadente, come si vuole) declino di un potente caratterizzato, come è noto, da una personalità fortissima. Se vogliamo, una qualche chiave narrativa Amelio la lascia intravedere nelle immagini – che passano sul teleschermo della villa – di Là dove scende il fiume di Anthony Mann, de Le catene della colpa di Jacques Tourneur (entrambi incentrati su un personaggio che riscatta con un gesto eroico una vita discutibile) o Secondo amore di Douglas Sirk che vede il trionfo di un sentimento contrastato perché fuori dagli schemi e, soprattutto, nella finale rottura del vetro, ribellione postuma (si direbbe) di uno spirito libero. Per il resto siamo ad un encefalogramma artistico – salvo, ripetiamo, un ottimo Favino –  non certo movimentatissimo.




Sorry We Missed You

 di Ken Loach. Con Kris HitchenDebbie HoneywoodRhys StoneKatie ProctorRoss Brewster  Gran Bretagna, Francia, Belgio 2019

Newcastle, Inghilterra. Ricky Turner (Hitchen) ha serie difficoltà economiche perchè la crisi gli ha fatto perdere il lavoro di edile ma, dopo anni di lavori saltuari, sembra essere arrivata la sua occasione: potrà effettuare consegne domicilio come lavoratore autonomo in un’organizzazione che le smista. Decide così di vendere la macchina della moglie Abbie (Honeywood), che fa la badante a domicilio di vari anziani e malati, comprando un furgone. Arrivato al garage di Gavin Maloney (Brewster), viene istruito dal magazziniere Henry (Charlie Richmond) sulle dure modalità di quel lavoro: effettuare decine di consegne al giorno senza un attimo di sosta nemmeno per fare pipì (anche se lui, lì per lì, rifiuta disgustato la bottiglia che Henry gli consegna per quella necessità). I primi giorni sono duri ma lui è un gran lavoratore e si segnala come uno dei più produttivi tanto che, quando un suo collega, Freddie (Julian Ions), distrutto dalla stanchezza dà fuori di matto, Maloney gli passa il suo pesante ma remunerativo giro di consegne. Anche la vita di Abbie è molto stressante, soprattutto ora che non ha la macchina deve correre da un paziente all’altro senza sosta per molte più ore di quelle che l’agenzia con la quale lavora le retribuisca; lei però tratta i suoi pazienti con amore e soprattutto con gli anziani (spesso incontinenti, tanto che si unge il naso con il VIcks Vaporub per sopportarne l’odore) è molto paziente; ha fatto anche amicizia con Molly (Heather Wood), vecchia sindacalista che ricorda le proprie battaglie ed inorridisce a sentire le condizioni del lavoro “autonomo” di questi anni. Completano la famiglia il sedicenne Sebastian, detto Seb (Stone), sensibile e creativo in pieno conflitto con la figura paterna, e l’undicenne Liza Jane (Proctor), assennata e in costante ansia per le tensioni familiari. Il ragazzo abbandona spesso la scuola e con un gruppo di amici – Harpoon (Albert Dumba), Dodge (Jordan Collard) e Roz (Natalia Stonebanks) – crea graffiti pieni di punti interrogativi e, quando Roz è costretta a partire per sfuggire ai bulli della sua scuola, soffre le pene di un amore che non aveva mai esternato. La tensione tra padre e figlio cresce quando Ricky trova le vernici di Seb e lui confessa di averle comprate vendendo il giaccone che, con grandi sacrifici, i genitori gli avevano comprato. Poco dopo viene sospeso per essersi picchiato con un compagno a scuola e a Ricky Maloney non concede a Ricky di assentarsi per il colloquio con il preside. Abbie non gli perdona l’assenza dall’incontro e per la prima i coniugi litigano aspramente e Liza Jane, per l’emozione, fa pipì a letto. Un giorno arriva una telefonata della polizia: il ragazzo è stato fermato per taccheggio; di nuovo Maloney non permette a Ricky di andare al commissariato ma lui, beccandosi una grossa multa, va lo stesso e fa bene: il poliziotto (Stephen Clegg) si accontenta di una ramanzina e di una segnalazione (che comunque apparirà sulla fedina del ragazzo). A casa, esasperato dall’apparente indifferenza di Seb, Ricky gli sequestra il cellulare, lui se ne va a dormire da un amico ma di notte segna con una croce nera tutte le foto di famiglia incorniciate nel corridoio. L’indomani mattina Ricky vede che ha anche scritto una parolaccia sul retro del furgone e, soprattutto, che mancano le chiavi. Quando Seb torna e astiosamente nega di averle prese lui, gli dà un ceffone. Abbie è annichilita (lei ha avuto un padre violento e non tollera che si alzino le mani in casa) e Liza, tra le lacrime, confessa di averle nascoste lei perché vede nel furgone l’origine di tutte le tensioni che la fanno soffrire. Rocky la abbraccia e torna al lavoro ma, mentre è fermo per far pipì nella bottiglia, tre teppisti (Alex Houston, Jordan Sawyer e Russell Jones) lo aggrediscono, lo picchiano ferocemente e rubano i pacchi. All’ospedale viene raggiunto da una telefonata di Meloney che gli comunica che gli verranno addebitati i danni e, ferito e doloran, torna a casa accolto con sollecitudine da Seb e si mette a letto. L’indomani, però, ancora in pessime condizioni si mette al volante e – nonostante le angosciate proteste di Abbie e Seb – va al lavoro: ha troppi debiti per potersi permettere ulteriori assenze.

Ken Loach è, da un certo punto di vista, l’ultimo regista “politico” della sua generazione. Ogni suo film è un’analisi delle ingiustizie e delle ribellioni che, via via, hanno ispirato i tanti anni del suo lavoro di cineasta ma – a differenza di altri autori “impegnati” – in ogni suo lavoro ci sono una partecipazione e una comunicazione emotiva di grande profondità; basti pensare al suo The spirit of ’45 sulla pima vittoria elettorale del Partito Laburista che, pur essendo opera di puro montaggio, ci fa partecipi, sequenza dopo sequenza, delle condizioni del proletariato inglese del dopoguerra e delle grandi speranze che quelle elezioni avevano sollevato. Quando ebbe terminato nel 2016 Io Daniel Blake – storia di un falegname malato e perciò disoccupato, ucciso dall’ottusità sorda di una burocrazia attenta solo a farsi tornare i conti – aveva immaginato di non fare più film ma  a 83 anni si è appassionato alle storture della gig economy (inedita forma di sfruttamento del lavoro proposto come una forma di piccolissima imprenditoria individuale e così sottratto alle regole di ogni, anche minima, garanzia sindacale) e – insieme al fedele sceneggiatore Paul Laverty (con lui da La canzone di Carla del 1996) – ha raccontato le vicende di una famiglia attanagliata dai mostruosi ritmi dei nuovi lavori. Per farlo ha usato prevalentemente attori di non consolidato mestiere: Kris Hitchen/Ricky è un ex-operaio che a 40 ha deciso di fare l’attore, Debbie Honeywood/Abbie è un’insegnante di sostegno con alle spalle qualche comparsata, Ross Brewster/Maloney è un poliziotto e molti dei colleghi di Ricky sono veri autisti. Il risultato è fortissimo e coinvolgente e chiunque di noi si trova non tanto a commuoversi alla sorte dei Turner ma a sentire nella loro storia una parte di sé, come succede quando ci si trova di fronte ad una vera operazione creativa. Loach – regista militantissimo ma di vero coraggio (non dimentichiamo come in Terra e libertà abbia raccontato le stragi operate dai partigiani comunisti, durante la guerra civile spagnola, nei confronti dei propri compagni di lotta anarchici) aveva già affrontato il tema della fine dei diritti del lavoro in Paul, Mick e gli altri ma, già nel titolo Sorry we missed you (frase stampata sul modulo che viene lasciato ai clienti che non sono reperibili al momento della consegna, traducibile con “ci dispiace non averla trovata” ma anche con “ peccato, ti abbiamo perduto”) ci mette di fronte ad un mondo disumanizzante e corrosivo. Ci voleva un vero poeta per raccontare la distopia del nostro quotidiano. Ken Loach lo è.

 




Pinocchio

di Matteo Garrone. Con Federico IelapiRoberto BenigniGigi ProiettiRocco PapaleoMassimo Ceccherini  Italia, Gran Bretagna, Francia, 2019

Il falegname povero Geppetto (Benigni) si fa dare dal collega ubriacone Mastro Ciliegia (Paolo Graziosi) un pezzo di legno per farne un burattino; questi gli dà un tronco di pino e Geppetto decide che la marionetta si chiamerà Pinocchio (Ielapi). Mentre lo lavora si accorge che sa parlare e, quando lo ha finito, vede che può anche muoversi e camminare. Pinocchio corre fuori felice, nella disperazione di Geppetto che lo cerca per tutto il paese; poi, stanco ed affamato torna a casa, accolto dai consigli e dai rimproveri del Grillo Parlante (Davide Marotta), al quale infastidito lancia un martello. Poi si addormenta davanti al fuoco e gli si bruciano i piedi. Geppetto, al ritorno, glieli rifà e si vende l’unica giacchetta per comprargli dal mercante (Sergio Forconi) un abecedario, perché l’indomani possa andare a scuola. Ma la vista del teatro dei burattini di Mangiafuoco (Proietti) lo attrae e, dopo aver rivenduto l’abecedario all’avido venditore per il prezzo del biglietto, vi si reca, bigiando la scuola. Nel teatro Pinocchio crea scompiglio perché gli altri burattini interrompono lo spettacolo per far salire sul palco la strana marionetta senza fili. Mangiafuoco lo imprigiona e la sera lo fa prendere dai gendarmi burattini (Massimo Viafora e Aldo Marinuccio) perché vuole usarlo come legna per arrostire il montone ma le sue lacrime lo fanno starnutire (segno di commozione) e si salva, come allo stesso modo salva Arlecchino (Claudio Gaetani) dalla medesima sorte. L’indomani Mangiafuoco, starnutendo a più non posso, libera Pinocchio e gli dona 5 zecchini d’oro. Lui, felice, sta tornando dal babbo ma per la strada incontra il Gatto (Papaleo) e la Volpe (Ceccherini), che dopo essersi fatti pagare una lauta cena, dicono a Pinocchio di aspettare l’alba lì all’osteria per potere andare nel Campo dei Miracoli, dove seminando le monete le troverà moltiplicate. Quando l’oste (Gigio Morra) lo sveglia e i due non ci sono; corre al luogo designato e trova due assassini intabarrati (sono il Gatto e la Volpe) che lo inseguono e lo impiccano, pronti a carpirgli le monete quando sarà morto, ma si addormentano e la fatina (Alida Baldari Calabria) lo scioglie e lo porta a casa sua, dove, con l’aiuto della Lumaca (Maria Pia Timo), lo cura e gli fa scoprire come le bugie gli facciano crescere il naso.

Non è il caso di proseguire oltre nel raccontare la notissima favola di Pinocchio. Basti dire che il film segue pedissequamente (anche troppo!) la trama del racconto con tutti i personaggi – più un maestro sadico (Enzo Vetrano), inopinatamente aggiunto – dalla Fata (Marine Vach), a Lucignolo (Alessio Di Domenicantonio), il Giudice Scimmia (Teco Celio), l’Omino di Burro (Nino Scardia), il Corvo direttore del circo (Massimiliano Gallo), il Tonno (Maurizio Lombardi) e il contadino Giangio (Domenico Centamore), fino al lieto (?) fine della trasformazione del burattino in un bambino vero.

La leggenda narra di una maledizione che voterebbe all’insuccesso le trasposizioni del romanzo di Collodi. Certo – a parte l’indimenticabile Le avventure di Pinocchio televisivo (1972) di Luigi Comencini (niente a che vedere con la miniserie del 2009 diretta da Alberto Sironi) –  finora una gran fortuna non l’hanno avuta, se si pensa al bel cartone di Walt Disney che fu (almeno inizialmente ma poi si riprese) un flop o ai due cartoni italiani – Un burattino di nome Pinocchio (1972) di Giuliano Cenci e Pinocchio (2012) di Enzo D’Alò, su disegni di Lorenzo Mattotti – e al didascalico Le avventure di Pinocchio (1947) di Giannetto Guardone (con un Gassman giovanissimo, irriconoscibile come Pescatore Verde) o all’imbarazzante Pinocchio (2002) di Roberto Benigni, vediamo una sequela di vistosi insuccessi. Il discorso vale anche per gli immaginari sequel Le straordinarie avventure di Pinocchio (1996) di Steve Barron e Il mondo è magia – Le nuove avventure di Pinocchio (1999) di Michael Anderson e per il fantascientifico Pinocchio 3000 (2004) di Daniel Robichaud; non ho invece notizie sugli esiti dei due film russi – Pinocchio/La chiavetta d’oro (1939) di Alexandr Ptsuko e Le avventure di Pinocchio (1959) di Ivan Ivanv-Vano e Dmitrij Babicenko – basati sulla rielaborazione di Tolstoj La piccola chiave d’oro o le avventure di Burattino, né del porno Le avventure erotiche di Pinocchio (1971) di Corey Allen, in cui la vergine Geppetta si costruisce un bell’amante da un tronco di pino, con comodo di naso allungabile. Garrone aveva già tentato il quasi colossal fiabesco ne Il racconto dei racconti, gravando tre splendidi racconti del Pentamerone – Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile di appesantimenti moralistici e toni incongruamente noir (laddove l’originale era grottescamente e allegramente popolano) ed ora torna con il libro di Collodi per il quale ha condiviso la sceneggiatura con Ceccherini. La scelta di partenza è già di per sé incongrua: il racconto segue, quasi passo passo, la trama della fiaba, non tenendo conto che il racconto a puntate di Collodi per il giornale Il Fanfulla terminava con l’impiccagione di Pinocchio (che moriva e tanti saluti!) e che l’autore – ben lieto di continuare ad essere pagato – aveva colto al balzo le proteste dei  lettori (che volevano un lieto fine) per allungare il brodo con tante puntate, ciascuna quasi a sé stante, con un alternarsi di personaggi e situazioni che tenessero avvinto il pubblico. Il film di Disney, non a caso, semplifica le vicende, certamente, da un lato, per ragioni economiche e di adattamento all’audience americana ma anche per dare un’unità narrativa a quella farraginosa sequenza di avvenimenti. Ma è nel passaggio dallo script alle immagini che vengono fuori tutti i limiti dell’operazione. Io non sono tra i fanatici del libro di Collodi (se non ci fosse stato Disney lo avrei detestato e dimenticato) ma riconosco al racconto e al personaggio un’allegra birbanteria e – quando viene fuori dalle spiacevolezze pedagogiche – una sua leggerezza, mentre Garrone lo appesantisce con scenari e colori costantemente cupi, sporcati, respingenti. Lo stesso si può dire della direzione degli attori: è come se Garrone intraprendesse una gara con se stesso nel rendere più grevi e scostanti i vari caratteri (a partire dai costumi: per tutti valga l’inguardabile Lumaca dell’incolpevole Maia Pia Timi): Pinocchio è un tristissimo legnetto pieno di venature; il Giudice fa rimpiangere i compostissimi personaggi dei vari Pianeta delle scimmie; Benigni, dopo essere stato un attempatissimo Pinocchio è un lagnoso Geppetto; delle due inespressive fatine è impossibile non dico innamorarsi ma nemmeno affezionarsi un po’; il Gatto non tiene neanche il proprio ritmo di eco balorda; Mangiafuoco più che pentito e commosso sembra affetto da disturbo borderline di personalità; il Grillo si merita in pieno la martellata che, purtroppo, non lo accoppa; si salva, in parte, la Volpe, cui evidentemente Ceccherini ha cucito addosso la propria materica arguzia toscana ma, addirittura, viene inserito – su echi tra Dickens e Com’era verde la mia valle – un odioso Maestro picchiatore che giustifica ampiamente la fuga di Pinocchio e Lucignolo. Evidentemente – sono tutti (o quasi) attori di ottimo mestiere – siamo di fronte ad una scelta registica che privilegia (come nel sopravvalutatissimo Dogman, nel quale i bagliori luciferini del personaggio di partenza, il canaro, si smorzano in lamentosi vittimismi) i toni bigi e marrone sporco di una poetica inasprita e incupita  che non sa raccontare sentimenti che non siano vagamente ricattatori e  rende ancor più incomprensibile la voglia di Pinocchio di abbandonare la sicura protezione del corpo di legno per entrare da essere umano nel brutto mondo di Garrone. Gli incassi – è un Natale con poche scelte – sono comunque buoni e i bambini si lasciano trascinare dai genitori a vederlo.

 

 

 




Dio è donna e si chiama Petrunya (Gospod postoi, imeto i’ e Petrunija)

di Teona Strugar Mitevska. Con Zorica NushevaLabina MitevskaSimeon Moni DamevskiSuad BegovskiStefan Vujisic  Macedonia, Belgio, Slovenia, Croazia, Francia 2019

Petrunya (Nusheva) vive a Stip, piccolo centro macedone; ha 32 anni, è laureata in storia ma non trova occupazione, vive con i genitori ed è grassoccia e poco curata. La madre, Vasca (Violeta Sapkovska), la sveglia perché deve andare ad un appuntamento per un lavoro di ufficio in una stireria; lei le risponde con malgarbo (tra le due c’è un rapporto difficile), si prepara in fretta ed esce. La sua amica Blagika (Andrijana Kolevska), che ha una relazione senza futuro con un uomo sposato e gestisce una minuscola boutique, le presta un vestito per il colloquio. Arrivata a destinazione, il boss (Mario Knezovic) sulle prime la prende in giro per la sua inutile laurea e per l’inesperienza lavorativa, poi le alza la gonna e le accarezza le cosce ma, quando lei lo respinge, lui le grida: “Non ti vorrei nemmeno per una scopata!”. Tornando a casa, Petrunya si trova al centro dell’annuale processione locale, alla fine della quale viene gettato un crocifisso nel fiume e l’uomo (a loro è riservata la cerimonia) che la ripescherà avrà un anno fortunato. Quando la croce arriva in acqua e gli uomini si sono tuffati, lei, d’istinto, si butta nel fiume vestita e la afferra. Arrivata a riva, resiste alle sollecitazione del prete (Begovski) e agli assalti dei più esagitati (Ilija Volcheski, Igor Todorov, Nenad Angelkovic) e se lo porta a casa, mentre il sacerdote investe del caso il capo della polizia locale (Damevski).  A casa ha una colluttazione con la madre che vuole che restituisca il crocifisso, mentre il padre, Stoyan (Petar Mircevski), cerca di difenderla. Arriva Blagika e anche lei cerca di convincerla e, avvertita da lei, arriva anche la polizia che la porta al commissariato. Intanto l’inviata televisiva Slavica (Mitevska), che è lì con il cameraman (Xhevdet Jashari) per un servizio sulla processione, decide di fare un ampio reportage su quella vicenda di arretratezza patriarcale e, dopo aver fatto qualche intervista, si piazza fuor dall’ufficio di polizia; poco dopo una telefonate del direttore di rete intima a lei e al tecnico di rientrare pena il licenziamento ma lei – dopo essersi fatta lasciare la telecamera – decide di restare. Petrunya resiste alle sollecitazioni dell’ispettore capo, del prete e del magistrato inquirente ((Bajrush Mjaku), nonché alle aggressioni dei nuotatori che vorrebbero linciarla, tacitamente appoggiata dal giovane agente Darko (Vujisic), con il quale nasce una affettuosa intesa. Alla fine le autorità sono costrette a rilasciarla e a ridarle il crocifisso ma lei, all’uscita, lo dà al prete: con lei ha già funzionato, facendole trovare un possibile amore e magari – grazie all’intervista ai suoi genitori che hanno chiesto che qualcuno la assumesse – anche un lavoro.

La Macedonia ha una buona tradizione di cinema, basti pensare ai pluripremiati Prima della pioggia (1994) e Dust (2001) di Milko Mancevski o alla partecipazione al nostro interessante Banat- Il viaggio (2015) di Adriano Valerio. Anche Teona Strugar Mitevska ha un bel medagliere di partecipazioni e premi ai festival di Toronto e Berlino ma con Dio è donna e si chiama Petrunya è stata per la prima volta in concorso nella selezione ufficiale dell’ultima Berlinale, ottenendo il Guild Film Prize e il Premio della Giuria Ecumenica. Non è un caso perché il film è una piccola ma potente opera, raccontata dalla macchina da presa, senza bellurie tecniche ma con grande efficacia narrativa. Agli attori – alcuni vengono dal teatro, altri sono semiprofessionisti ma sono tutti perfettamente in parte – la regista impone una recitazione efficacemente sobria, quasi in levare e così la Nusheva, famosa in patria come comica, dà alla sua Petrunya una profondità che cresce di scena in scena. La Mitevska, dopo essersi interrogata sulla matrice femminista del film, non la rinnega – la storia, in parte vera, porta alla luce un pezzo di società macedone al limite della misoginia medievale – ma tutte le figure presenti nel film sono raccontate con affettuosa empatia, talora ironica, talora dolente ma mai veramente giudicante. Un piccolo capolavoro da non mancare.