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Aiuti diretti agli agricoltori: una cattiva politica che distrugge l’idea di Europa

pac

Il Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) ha adottato una relazione informativa su “La riforma della PAC: modalità, diversità, effetti redistributivi e altre scelte degli Stati membri nell’applicazione della riforma dei pagamenti diretti” (relatore Mario Campli) e l’ha trasmessa alle istituzioni della UE. È auspicabile che su questo documento si apra un dibattito pubblico e non si continui a tenere la testa sotto la sabbia. La PAC non è una politica qualsiasi. Il suo bilancio, pari a EUR 408 miliardi per il periodo 2014-2020, rappresenta il 38% dell’intero bilancio dell’UE. Il primo pilastro, pari a 313 miliardi, rappresenta il 77% della spesa totale PAC. I pagamenti diretti, pari a 294 miliardi, rappresentano il 94% del primo pilastro. Questa tipologia di intervento pubblico è la più importante (in termini finanziari) politica “comune” dell’UE. Se questa non funziona, non fallisce solo una politica ma è l’insieme dell’idea di Europa che è messa in discussione e perde di credibilità.

Il testo diffuso dal CESE è  molto articolato perché esamina le decisioni prese dagli Stati membri nell’ambito delle settanta aree di intervento attribuite alla loro discrezionalità. Nella proposta legislativa della Commissione gli ambiti in cui gli Stati membri avevano piena autonomia decisionale erano venti. Il regolamento uscito dalla negoziazione tra il Parlamento, il Consiglio e la Commissione accresce di altre cinquanta le aree di intervento degli Stati membri. Qual è il significato di tale evoluzione? Come mai si è giunti ad un esito siffatto? Quali conseguenze si prevedono per la stessa tenuta del processo di costruzione europea?

Una PAC senza strategia come merce di scambio politico

Da una semplice lettura della lista delle attribuzioni risulta che si tratta di un insieme disorganico di materie e di scelte, alcune di maggiore rilevanza, altre di dettaglio. Con tutta la buona volontà non è possibile individuare alcuna strategia sottostante la flessibilità offerta agli Stati membri. E le decisioni adottate dai governi nazionali non fanno altro che produrre automaticamente, nell’insieme dell’Unione, un effetto moltiplicatore sia nella quantità delle scelte sia nella diversità delle stesse. Un effetto domino che accresce a dismisura la complessità e la farraginosità di questa tipologia di intervento pubblico.

Per procedere ad una lettura d’insieme di tali decisioni il CESE ha adottato una metodologia di analisi articolata in tre passaggi: a) individuazione delle decisioni veramente cruciali; b) individuazione di un sistema di misurazione per esprimere una visione complessiva delle scelte effettuate nell’insieme del territorio dell’Unione, di tipo quali-quantitativo (su una scala da 1 a 5); c) applicazione dell’analisi fattoriale, come tecnica di analisi finalizzata a sintetizzare la complessità delle relazioni tra le variabili trattate. Il sistema di misurazione è basato sulla rilevazione delle scelte adottate, collocate tra i due estremi della scala.

Ne vien fuori un’articolazione molto ampia di modalità che produce effetti redistributivi non valutabili in quanto manca una chiara strategia a livello comunitario e manca anche un quadro coerente e credibile delle presunte strategie nazionali adottate.

L’impressione generale che se ne ricava è quella di un grande e confuso scambio politico (una volta si chiamava, con linguaggio greve ma efficace, “clientelismo”) che vede protagonisti, da una parte, i governi nazionali e i parlamentari europei disponibili a soddisfare qualsiasi richiesta, e, dall’altra, le organizzazioni agricole che rivendicano cose anche contraddittorie tra loro, pur di mettere in bella mostra un ruolo di rappresentanza che di fatto da tempo hanno dismesso.

Elementi costitutivi di una politica dannosa

La relazione informativa del CESE rileva che già la riforma in sé contiene elementi fortemente discutibili.

Il primo elemento risiede nella stessa scelta di conservare una PAC basata su due pilastri, e soprattutto di assegnare, nell’ambito del primo, un ruolo prevalente ai pagamenti diretti. La formula dei pagamenti diretti presenta il difetto di una vaga e poco definita relazione tra obiettivi della politica agraria e strumenti adottati per perseguirli, con il rischio di un’inefficiente distribuzione delle risorse. D’altra parte, il loro frazionamento in una serie di misure (pagamento base, inverdimento, giovani, ecc.) ha aggiunto complessità all’intervento.

Il secondo elemento si lega alla scelta di assumere l’ettaro di superficie come misura dell’equità distributiva tra agricoltori europei. Seppure tale soluzione può apparire quella più facilmente praticabile, non è sulla base dell’unità di superficie che si possono comparare tra di loro le agricolture europee. La scelta dell’ettaro si traduce in un premio alle agricolture più estensive e a più basso valore aggiunto, oltre che, indirettamente, in un rischio importante di trasferire l’aiuto diretto dall’agricoltore affittuario al proprietario della terra. Inoltre, l’aumento dei valori fondiari costituisce un ostacolo alla mobilità fondiaria e al rinnovo generazionale.

Il terzo elemento risiede nella duplicazione e sovrapposizione delle misure tra 1º e 2º pilastro. Segnatamente nei due pilastri sono contemporaneamente comprese misure per la sostenibilità ambientale, i giovani e le aree con vincoli naturali. A parte quest’ultima opzione, che è stata attivata soltanto (ed in misura modesta) dalla Danimarca, le altre due, e soprattutto l’inverdimento, pongono non pochi problemi di compatibilità tra obiettivi e strumenti.

In aggiunta alle suddette criticità insite a monte della stessa riforma della PAC, il CESE ha individuato altri elementi problematici che fanno molto riflettere.

Il primo è che se le politiche comuni europee sono il risultato di scelte così farraginose e rese ancor più disarticolate e contraddittorie con il sistema di governance messo in piedi – che prevede una laboriosa ed estenuante negoziazione tra le tre istituzioni – è evidente che la tela dell’unicità delle politiche tenderà nel tempo a lacerarsi. In altre parole, il sistema decisionale sperimentato con la riforma della PAC contiene in sé un virus che determina automaticamente un processo di rinazionalizzazione di politiche che i Trattati definiscono “comuni”.

C’è poi un altro rilievo importante che la relazione informativa contiene e che va sottolineato. Tutti i regolamenti base sulla riforma della PAC prevedevano un coinvolgimento della società civile nel suo complesso nelle decisioni autonome adottate dagli Stati membri. Da una indagine condotta dal CESE attraverso i suoi membri, risulta al contrario che questa mobilitazione della società civile non è avvenuta. In realtà hanno partecipato alle scelte dei governi nazionali solo le organizzazioni degli agricoltori. In altre parole, il maggior capitolo di spesa del bilancio comunitario viene utilizzato attivando canali partecipativi opachi e ristretti che impediscono ai cittadini europei organizzati di esprimere le proprie valutazioni sulle decisioni politiche che li riguardano.

Dunque, la politica agricola comune risulta meno “comune” che in passato; l’analisi delle informazioni relative alle scelte compiute delinea chiaramente questa percezione. Il lungo processo decisionale ha portato a ritardi nell’accordo politico e nell’applicazione della PAC. Basti ricordare che la nuova PAC si applica dal 1° gennaio 2015 (ovvero, un anno dopo rispetto alla data prevista inizialmente) e che, date le difficoltà di implementazione, gli agricoltori devono presentare le richieste di aiuto senza una completa conoscenza delle nuove norme, a rischio di incorrere in errori che non andrebbero penalizzati.

La PAC che si praticherà nei prossimi anni non sarà più spedita. La relazione del CESE registra che il risultato finale della riforma e delle successive scelte effettuate dagli Stati membri, sulla base di una platea di oltre settanta opzioni delegate, non è una PAC più semplice. La scomposizione dei pagamenti diretti in una serie di misure (pagamento base, inverdimento, ecc.) rischia di tradursi, altresì, in maggiori complicazioni amministrative. In alcuni casi, peraltro, la flessibilità non è poi stata utilizzata, anche in ragione della complessità burocratica. Ne sono un esempio le “pratiche equivalenti” all’inverdimento, introdotte nel corso del negoziato sulla riforma, ma di fatto applicate nel 2015 solo da cinque paesi.

Nel corso della realizzazione concreta della riforma e delle scelte applicative degli Stati membri, le cui conseguenze nelle dinamiche concrete delle aziende agricole e dei mercati agricoli devono ancora manifestarsi, sarà necessario monitorare e verificare puntualmente se l’ampia diversificazione definita nella procedura di co-decisione risulti compatibile con i principi di una politica agricola che i Trattati stessi definiscono ancora “comune”.

Dinanzi a tutte queste incertezze, incongruenze e contraddizioni, forse è davvero giunto il tempo di decidere di chiudere una volta per sempre questo capitolo degli aiuti diretti – che sempre più si rivela un inutile spreco di risorse pubbliche – e di finalizzare i finanziamenti a concreti ed efficaci progetti di sviluppo rurale, gestiti localmente in modo condiviso dalle comunità.

Quello che dovrebbe rimanere come utile politica “comune” andrebbe racchiuso in un’unica azione: assicurare la sicurezza alimentare (garanzia delle forniture e tutela degli agricoltori e dei consumatori) nei confronti della crescente volatilità dei prezzi, attraverso la gestione del rischio fondata su schemi assicurativi e fondi mutualistici, anche in relazione alla necessità della regolazione dei mercati, sempre più aperti e non regolati. È questa la vera riforma della PAC che si attende da 25 anni. Gli aiuti diretti introdotti dalla riforma MacSherry del 1992 dovevano durare solo cinque anni. Ma ancora oggi non riusciamo a liberarcene perché su questa tipologia di intervento pubblico abbiamo costruito un apparato faraonico di gestione che non sa come riciclarsi. Il tutto sulla testa degli ignari cittadini e degli stessi agricoltori europei che subiscono silenti e rassegnati.

 

 

 

 

 

 

Fonte : afonsopascale.it apri l’articolo originale



Le conseguenze di Expo 2015

Il paradosso di dover liberalizzare i mercati e, nello stesso tempo, proteggere gli agricoltori si può risolvere solo in un modo: con liberalizzazioni e protezioni a geometria variabile.

A Milano si è appena inaugurato Expo 2015. C’è da augurarsi che la manifestazione non si risolva solo in una vetrina dove esporre beni e servizi, ma sia anche occasione di dibattito sui gravi problemi che il pianeta ha dinanzi a sé nei prossimi decenni. Ho letto l’ultima versione della Carta di Milano e devo dire che non mi ha soddisfatto. Molte proposte concrete in essa contenute sono senz’altro utili e condivisibili. Ma, a mio avviso, mancano elementi fondamentali. E queste carenze sono dipese dal fatto di voler tenere insieme a tutti i costi visioni che si contraddicono.

Per nutrire il pianeta i paesi industrializzati e i paesi poveri non possono prendere impegni analoghi ma differenziati. Se il problema dell’insicurezza alimentare interessa davvero le istituzioni dei paesi ricchi, come viene proclamato in diversi documenti ufficiali, c’è un modo per dimostrarlo in concreto: spostando una parte delle risorse destinate ai sussidi diretti ai nostri agricoltori, agli investimenti in ricerca e in aiuti volti a sostenere la capacità delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo a investire nelle loro agricolture.

In particolare, gli agricoltori europei non hanno bisogno di grandi risorse per sostenere i propri redditi, ma di ridistribuirle in modo più equo tra grandi e piccoli produttori e tra aree forti ed aree deboli. Le campagne mediterranee hanno estrema necessità di politiche che puntino allo sviluppo territoriale, all’ammodernamento del welfare, al miglioramento della qualità della vita nelle aree rurali, all’edificazione di sistemi agroalimentari in grado di interagire coi nuovi mercati nei paesi emergenti, nonché alla valorizzazione del contributo dell’agricoltura di servizi alla vivibilità delle aree urbane.

Il paradosso di dover liberalizzare i mercati e, nello stesso tempo, proteggere gli agricoltori si può risolvere solo in un modo: con liberalizzazioni e protezioni a geometria variabile. I paesi più poveri dei nostri hanno bisogno, per un certo periodo, di proteggersi dalle importazioni dei nostri prodotti agricoli e puntare al proprio sviluppo autoctono. E noi dovremmo dichiararci disponibili a favorire queste legittime e irrinunciabili esigenze. I paesi industrializzati, invece, qualora le crisi alimentari dovute ai prezzi alti del cibo colpissero le fasce povere della propria popolazione, non dovrebbero nutrirle producendo di più localmente. Bisogna adottare politiche di welfare per fare in modo che superino la loro condizione di indigenza.

Dobbiamo aiutare i paesi a basso reddito a non dipendere dalle importazioni a basso prezzo ma a ricostruire i loro sistemi alimentari. Non dobbiamo dar loro da mangiare, ma aiutarli a nutrirsi. Se la produzione alimentare aumenta con una ulteriore marginalizzazione dei piccoli agricoltori nei paesi in via di sviluppo, si perde la battaglia contro la fame e la malnutrizione. Il 31 maggio 2012 la Rivista “l’albatros” organizzò a Roma, presso la Biblioteca del Senato, il Convegno sul tema “Cibo Terra Acqua Sostenibilità. Quale futuro per 10 miliardi di persone” e, in quell’occasione, lanciammo una serie di proposte in vista di Expo 2015. Fui incaricato dagli organizzatori di svolgere la relazione introduttiva che vi ripropongo.

Gentili ospiti,

lo squilibrio che sempre più si sta determinando tra risorse e popolazione, intrecciandosi coi cambiamenti climatici, la crisi energetica e l’arresto della crescita economica, mette in discussione la capacità del nostro pianeta di soddisfare l’imponente domanda di cibo. Questa situazione, per certi versi inedita nella modernità, potrà essere fronteggiata se si affermerà una consapevolezza della gravità dei problemi che sono esplosi e si avvierà pertanto un cambiamento nelle coscienze individuali, nella società civile organizzata, nella politica, nel sistema della conoscenza e nella responsabilità degli Stati che dovranno coordinare politiche sempre più complesse a livello globale.

La complicazione sta nel fatto che la democrazia è rimasta un fenomeno nazionale e una rete istituzionale per affrontare questi problemi non può essere disegnata mediante deliberazione democratica al livello di un singolo Paese, anche il più potente. La rete va, pertanto, disegnata e costruita attraverso accordi tra Stati sulla base di proposte che la società civile e la politica devono saper elaborare in una dimensione globale.

Affronterò il tema partendo da una descrizione sommaria di tre elementi che mi sembrano essenziali per un suo inquadramento: 1) le cause dell’insicurezza alimentare che grava su di un terzo della popolazione mondiale e interessa i paesi del Sud del mondo; 2) l’evoluzione dell’agricoltura e della ruralità nei paesi industrializzati; 3) i dilemmi delle politiche agricole europee alla vigilia della loro ridefinizione. Passerò poi ad elencare una serie di misure e di azioni su cui gli Stati hanno avviato un confronto per determinare una politica globale del cibo. E concluderò con l’indicazione di alcune questioni su cui occorrerebbe produrre dei cambiamenti culturali negli individui e nella società per fare in modo – per dirla con Enzo Rullani – che i processi moltiplicativi della modernità non continuino ad erodere i beni comuni ma siano resi coerenti con una modernità sostenibile. Decisivo è a mio avviso il ruolo delle relazioni interpersonali e di quell’intelligenza unica e fuori standard di ciascun individuo che sono state svalorizzate e sostituite dagli automatismi. Imprescindibile è la funzione delle culture che si sono accumulate nel tempo e che riguardano il rapporto tra popolazione e risorse e la gestione dei beni comuni in connessione stretta coi legami sociali.

Cibo e insicurezza alimentare

Per affrontare la prima questione – quella relativa alle cause dell’insicurezza alimentare – vorrei ricordare che le grandi organizzazioni mondiali intendono per sicurezza alimentare“l’accesso sicuro e costante a cibo sufficiente per condurre una vita in buona salute”. Nella Costituzione dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) il concetto di salute è definito come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”. Per star bene ognuno di noi ha, dunque, bisogno di quelle duemila calorie al giorno senza le quali ci si ammala. Ma l’assunzione di calorie sufficienti è la base minima per star bene, non è ancora la condizione per conseguire lo stato di benessere fisico, psichico e sociale. Solo associando l’assunzione del cibo alla soddisfazione sensuale, alla convivialità e ai legami comunitari in cui il cibo assume valori simbolici fondamentali, si potrà dare un senso pieno al concetto di “vita in buona salute”.

E tuttavia prima ancora che il cibo possa essere assunto, bisogna creare le condizioni perché le popolazioni accedano ad esso in modo sicuro e costante. E’ per questo che la sicurezza alimentare ha a che fare con lo sviluppo umano e con il tenore di vita di individui e comunità.

Nei paesi occidentali consumiamo circa 2.900 calorie. Circa un terzo della popolazione mondiale non raggiunge però le duemila calorie e il 30 per cento di quel terzo di popolazione (925 milioni di persone) dispongono di meno di 1.500 calorie, il che vuol dire che soffrono la fame e moriranno precocemente per inedia.

La cifra è più che doppia rispetto a quella menzionata negli obiettivi del primo Summit Mondiale dell’Alimentazione, che nel 1996 proponeva di ridurla a 420 milioni entro il 2015. Il numero delle persone denutrite ha, dunque, ripreso a crescere. E di queste, il 65 per cento vive in soli sette paesi: India, Cina, Repubblica Democratica del Congo, Bangladesh ed Etiopia.
Qual è la causa fondamentale di questo regresso, del riacutizzarsi del problema dell’insicurezza alimentare? E’ la povertà, definita da Amarthia Sen come “l’assenza o l’incapacità tecnico-sociale-politica di raggiungere uno standard di vita socialmente accettabile”.

L’insicurezza alimentare è, nel contempo, causa ed effetto della povertà e del sottosviluppo: il benessere nutrizionale delle fasce povere di popolazione non è soltanto una conseguenza dello sviluppo ma un suo presupposto.

La povertà si è aggravata con la rapida sequenza e sovrapposizione di più fenomeni tra loro collegati: 1) il tasso di crescita demografica superiore al tasso di crescita della produttività agricola; 2) i cambiamenti climatici, che rendono meno assorbibili gli incidenti ambientali estremi come siccità, incendi, inondazioni e dissesti; 3) la fiammata dei prezzi internazionali dei prodotti agricoli e dell’energia; 4) la speculazione finanziaria sul cibo; 5) la corsa all’accaparramento della terra; 6) l’impoverimento delle risorse idriche.

1) La popolazione mondiale aumenta ad un ritmo superiore alla crescita della produzione agricola. Nel 2050 supererà i 9 miliardi di persone. Un terzo in più rispetto ai 6,9 miliardi che ora abitano il pianeta. Già tra meno di 20 anni ci sarà un miliardo in più di persone nei paesi poveri e in quelli emergenti.

Oggi la popolazione mondiale è equamente distribuita per il 50 per cento nelle città e per il 50 per cento nelle campagne. Nel 2050 la quota delle aree urbane raggiungerà il 70 per cento con una concentrazione di grandi agglomerati nell’area asiatica.

Sicché, la Fao sostiene che per venire incontro alla domanda di cibo di una popolazione in crescente aumento e che sarà più ricca e più urbanizzata, la produzione agricola per usi alimentari dovrà aumentare del 70 per cento entro il 2050.

2) Il riscaldamento globale da qui al 2100 porterà a un innalzamento medio della temperatura tra 1,4 e 5 gradi. Questo significa che l’agricoltura sarà in molte aree del pianeta più vulnerabile agli stress idrici, più esposta alla frequenza degli eventi calamitosi estremi (siccità e inondazioni) e all’azione dei parassiti e degli altri agenti patogeni. Inoltre, l’agricoltura influenza a sua volta il clima, in quanto responsabile delle emissioni di gas serra.

3) I prezzi degli alimenti non solo hanno avuto un aumento ma sono stati interessati anche dal cosiddetto fenomeno della “volatilità”, che si verifica quando la frequenza e l’ampiezza delle variazioni dei prezzi registrate in un dato arco temporale sono superiori alle medie storiche.

Quali sono le cause di questa instabilità turbolenta dei mercati agricoli?

Quella principale è la lievitazione della domanda di petrolio, una risorsa necessaria allo sviluppo economico dei paesi emergenti. L’aumento della domanda di combustibile nell’ultimo periodo ha reso generalmente più costoso l’utilizzo di questa fonte energetica per: a) impiegare le macchine nei processi produttivi agricoli; b) creare la base chimica nella produzione di fertilizzanti e pesticidi; c) trasportare le derrate.

Un’altra causa dell’ascesa dei prezzi delle commodity agricole è il mutamento dei modelli di consumo nelle fasce più ricche della popolazione dei paesi emergenti. Sulle loro tavole è ora la carne ad abbondare e il conseguente aumento della domanda di pollame, bovini, suini, ecc. non è senza conseguenze. Per allevare questa grande quantità di animali è, infatti, necessaria una notevole produzione di mangime, a cui segue l’aumento della domanda di grano e di altri cereali.
Un ulteriore motivo d’innalzamento dei prezzi degli alimenti è la crescita delle superfici, precedentemente dedicate a coltivazioni alimentari, per produrre bietole e canna da zucchero da utilizzare poi nella produzione di biocarburanti, e la destinazione di grano e mais a questo nuovo uso, diverso da quello alimentare.

4) Un aspetto inquietante dei meccanismi che determinano il rialzo dei prezzi agricoli e, dunque, le condizioni di povertà è la speculazione finanziaria sulle derrate agricole.

Se anche gli operatori dei mercati mondiali agricoli delle borse merci, alle prese con una inedita volatilità dei prezzi, chiedono di regolamentare i mercati finanziari a livello globale e per ora si sono autoregolamentati, significa che la situazione è davvero assai rischiosa.

5) Dagli inizi del Duemila in poi, società private, governi e fondi sovrani di tutto il mondo stanno acquisendo terreni su larga scala destinati alla produzione di alimenti e biocarburanti nei paesi in via di sviluppo. Si stima che siano stati oggetto di negoziazione nel mondo dai 50 agli 80 milioni di ettari, di cui oltre i due terzi nell’Africa subsahariana (Etiopia, Sudan e Mozambico).

L’aumento dei prezzi delle derrate agricole e i timori di una nuova scarsità alimentare hanno favorito fortemente l’espandersi del fenomeno. Accaparrarsi la terra significa garantirsi la produzione di colture ad uso alimentare ed energetico. Si tratta di una pressione commerciale su questo bene comune che coinvolge anche settori come il turismo, l’attività estrattiva, lo sfruttamento delle foreste, il controllo delle risorse idriche.

Questo aumento della domanda di terra rivolta prevalentemente verso il Sud del mondo è sicuramente un rischio, da monitorare con grande attenzione perché può provocare un innalzamento dei livelli di povertà, ma, qualora venisse regolato, aprirebbe spiragli interessanti per affermare modelli d’investimento in agricoltura diversi e quanto mai necessari.

6) Infine, l’acqua diventa sempre più una risorsa scarsa. Essa è un bene comune fondamentale per conseguire lo sviluppo dell’agricoltura e assicurare condizioni di vita dignitose alle popolazioni, soprattutto quelle più povere.
La parte più cospicua di questa risorsa è costituita dalle acque del mare che ricoprono il 71 per cento della superficie del pianeta. Oltre a svolgere un ruolo fondamentale nella regolazione del clima e a costituire il nodo più importante nel ciclo dell’acqua sulla Terra, il mare ha da sempre rappresentato un’importante fonte di sostentamento per l’umanità.
Molte comunità costiere hanno basato la propria ricchezza sulla pesca, che è divenuta nel tempo parte integrante del loro tessuto storico-culturale. Per quanto riguarda il nostro Paese, il Direttore della nostra rivista “l’albatros”, Agostino Bagnato, è autore di una interessantissima opera – pressoché unica nel suo genere – in cui si racconta la vicenda del mare e dei pescatori e il suo stretto legame con la storia d’Italia.

Oggi siamo in presenza di un drastico impoverimento della vita nel mare dovuto all’intensa attività di pesca, in parte illegale, all’inquinamento e al degrado dell’ambiente marino.

Inoltre, l’acqua pone gravi problemi di competizione tra i diversi usi. Ed è soprattutto l’aumento degli usi urbani e industriali ad aver creato la pressione commerciale sulla risorsa. La crescita delle aree metropolitane nei Paesi emergenti sta riducendo notevolmente la disponibilità d’acqua per l’irrigazione delle campagne.

Infine, la gestione impropria dell’acqua d’irrigazione in zone aride si traduce in impaludamento e salinizzazione delle terre, in un incremento delle malattie legate all’acqua e in una riduzione della biodiversità. Tutti effetti che determinano minore disponibilità di cibo.

Cibo e sviluppo agricolo nei Paesi industrializzati

Illustrate sommariamente le cause dell’insicurezza alimentare che interessa i paesi del Sud del mondo, vediamo adesso come evolvono l’agricoltura e la ruralità nei paesi industrializzati.

Lo sviluppo agricolo che si è realizzato negli Usa, in Europa e in Giappone ha risolto il problema dell’autosufficienza alimentare di questi paesi, almeno a partire dagli anni Sessanta, e ha indotto la modernizzazione sociale ed economica della parte di mondo in cui noi viviamo, ma ha determinato al tempo stesso anche gravi contraddizioni.

La surrogazione di un’economia rigenerativa della natura (economia contadina) con un’economia dissipativa della tecnica (utilizzo massiccio di sostanze chimiche) ha provocato il saccheggio della fertilità storica dei terreni agricoli e ha dato vita al fenomeno dell’erosione.

Il luogo dove si produce il cibo, un tempo habitat salubre per eccellenza, è diventato una delle fonti dell’inquinamento globale dell’aria, dei laghi, dei fiumi e dei mari.

L’attività umana che originariamente ha dato vita ai primi insediamenti comunitari, si è trasformata in un’attività produttiva che erode capitale sociale e ricchi patrimoni culturali, saperi secolari legati alla qualità dei cibi e alla custodia del territorio.

Mentre un miliardo di persone sono denutrite, un terzo del cibo prodotto a livello globale, vale a dire 1,3 miliardi di tonnellate l’anno, viene perso o sprecato con un inutile consumo delle risorse impiegate per produrlo e con un altrettanto non necessario rilascio di anidride carbonica. Se si considera che la perdita di materia edibile per cittadino in Europa e in Nord America ammonta a 280-300 chili l’anno, mentre nell’Africa sub-sahariana e nel Sud-est asiatico a 120-170 chili, è facile dedurre che non si tratta solo di inefficienza produttiva ma anche di insostenibili stili di vita e di consumo nei paesi ricchi.

L’attuale condizione, in alcune aree del mondo, di sovrabbondanza di cibo sta determinando disturbi di vario tipo, come l’obesità e l’anoressia. Cresce sempre più il numero di persone in condizione di soprappeso, che costituisce una concausa nelle patologie arteriosclerotiche e cardiovascolari e nel diabete che sopravviene in età matura. Solo in Italia sono 18 milioni.

Negli Stati Uniti l’obesità è responsabile di un numero di morti che oscilla tra i 280.000 e i 350.000 all’anno.

Ma dopo mezzo secolo di ricerche e dopo aver speso centinaia di migliaia di dollari per demonizzare i grassi nell’alimentazione, la scienza della nutrizione non è riuscita a provare che una dieta con pochi grassi può aiutare a vivere a lungo; e questo perché di fronte a fatti così complessi come quelli che caratterizzano la nutrizione, non ci è concesso di affidare l’indagine a un solo ramo del sapere. Occorre, in sostanza, mettere insieme più discipline e assumere un approccio olistico per fronteggiare la malattia. E questo ancora non si fa.

L’anoressia è, invece, una malattia mentale che si accompagna ad una vera e propria propaganda volta a diffonderla tra le nuove generazioni. E’ forse l’unico caso di apologia di un morbo. Ci sono, infatti, decine di siti web che incitano i giovani al controllo totale del cibo come mezzo di autoaffermazione.

Inoltre, il mondo della moda adotta modelli di bellezza che si fondano sull’idea dell’essere magri a tutti i costi. I mezzi di comunicazione di massa hanno assunto come valori esclusivi della nostra società la bellezza e l’efficienza fisica e diffondono questo messaggio con un’aggressività e volgarità senza misura. Si è in tal modo verificata una sorta di saldatura tra modelli culturali di vita e forme patologiche. Non a caso l’anoressia è presente solo nei paesi ricchi.

Cibo e nuova ruralità

Mentre lo sviluppo agricolo produce queste gravi contraddizioni, nonché disagi e disturbi di vario genere, compare in Europa, negli anni Settanta, un fenomeno che è stato definitonuova ruralità. Va riconosciuto a Corrado Barberis il merito di aver studiato per primo e più di altri questo fenomeno.

La nuova ruralità inizia a prendere forma quando un’altra grande crisi, che precede quella che stiamo vivendo, incrocia la nuova rivoluzione tecnologica e fa sì che il modello di sviluppo adottato qualche decennio prima, mostri le prime avvisaglie della propria insostenibilità.

Siffatto fenomeno si manifesta in modo differenziato a seconda delle tradizioni della ruralità. La nuova ruralità continentale è prevalentemente conservazionistica e ricreativa perché fa leva su di una tradizione rurale di tipo naturalistica e agraria. Esprime il riemergere di bisogni ancestrali legati alle relazioni uomo-terra e uomo-cibo che si erano determinate nell’ambito di assetti comunitari e di forme collettive di utilizzazione delle risorse naturali, considerate da tempi immemorabili come beni comuni.

La nuova ruralità mediterranea si pone, invece, in continuità con una tradizione che si caratterizza per una maggiore integrazione tra città e campagna, nonché per una diffusa presenza di pratiche civili comunitarie, di attività plurime e di economie informali. Essa non si manifesta come nostalgia di un lungo ciclo rurale ormai giunto a compimento e di cui serbare la memoria valorizzandone le vestigia. Ma è difatti una tradizione che permane nella modernità come un insieme sia di attività in più settori, sia di soggetti sociali di diversa estrazione e provenienza, legati tra loro da relazioni di tipo collaborativo. Una tradizione che la cultura legata al modello sociale prevalente nei paesi industrializzati ha considerato per un lungo periodo retaggio ingombrante di cui liberarsi e che oggi incomincia di nuovo ad essere apprezzata e rivitalizzata per le sue virtù.

La ruralità contemporanea è visibile osservando alcune novità nelle relazioni tra città e campagne: la rurbanizzazione, i consumATTORI e le comunità di cibo.

a) La rurbanizzazione è un fenomeno che riguarda sia lo spostamento di singoli individui e gruppi dalle città nelle aree periurbane e rurali alla ricerca di stili di vita e forme dell’abitare meno stressanti e più sostenibili, sia la crescita di attività agricole e rurali meno industrializzate e più legate a logiche di competizione di tipo cooperativo.

Questi neo-contadini si rendono oggi protagonisti di una mutazione antropologica delle campagne: da “non luoghi” dove operano sistemi agroalimentari delocalizzati e predatori, che ricercano ovunque nel mondo materie prime a minor costo, a “luoghi” dove si rigenera un’agricoltura relazionale e di territorio. Il loro obiettivo non è produrre cibo in sé, ma produrlo in un certo modo per ottenere beni relazionali e ambientali capaci di soddisfare bisogni collettivi.

Si opera una sorta di capovolgimento dei mezzi in fini, per ristabilire un ordine di priorità che si era smarrito con la modernizzazione agricola: è l’uomo coi suoi bisogni e le sue aspirazioni più profonde e sono i beni comuni, relazionali e ambientali, che si riproducono i fini dell’attività economica, mentre il processo produttivo, il prodotto e la sua scambiabilità sono soltanto i mezzi per perseguirli.

E’ in tale quadro evolutivo che si stanno sperimentando nuovi modelli di welfare e di efficienza energetica nelle aree metropolitane. Ad esempio, a Corviale di Roma, si è avviato un percorso di progettazione territoriale “dal basso” legata alle varie forme di agricolture civili, dalle fattorie sociali ai centri ippici e alle asinerie, fino alle abitazioni con orti sui tetti in serre ricoperte da fotovoltaico, che Stefano Panunzi ha studiato.

L’innovazione tecnologica che si lascia permeare dall’innovazione sociale, potrebbe aprire una nuova fase della bonifica integrale, in cui un inedito terziario agricolo – di cui Franco Paolinelli ci parla da un decennio – inverdisce il cemento, lasciando cadere in frantumi le mura di cinta che hanno separato per millenni la città dalla campagna.

E’ quel “continuum urbano-rurale policentrico e molteplice” che Franco Ferrarotti ha trovato tornando nelle periferie romane quarant’anni dopo la sua famosa indagine sociologica degli anni Sessanta.

b) I consumATTORI costituiscono una particolare tipologia di consumatore che vuol essere partecipe del progetto con cui si crea il prodotto agricolo e non semplicemente spettatore passivo nel teatro del marketing; vuole, in sostanza, essere un co-protagonista che interagisce con il produttore. Egli non si limita ad informarsi sui diversi prodotti, guardare l’etichetta e acquistare passivamente il bene in qualunque punto vendita. Vuole, invece, partecipare attivamente al rapporto di scambio dopo essersi aggregato, anche informalmente, in gruppi di acquisto.

La comparsa di questo nuovo soggetto permette di sperimentare strategie di impresa fondate sulla competitività cooperativa (co-opetition). Si agisce sul mutuo aiuto e sul reciproco vantaggio dei soggetti che partecipano allo scambio di mercato mediante modelli di governance allargata e percorsi partecipativi. In sostanza, produttori e consumatori operano come un team per raggiungere obiettivi comuni in grado di avvantaggiare tutti i partecipanti dello scambio economico.

c) Le comunità di cibo si creano intorno alle attività legate alla cultura del cibo locale (km zero, farmer’s market, agricoltura hobbistica, orti urbani, presidi di prodotti tradizionali, agriturismo e ittoturismo). Si tratta di esperienze che rischiano di chiudersi in una logica di autosufficienza e di inaridirsi se non si ha l’ambizione di agire in una dimensione globale, costruendo reti sempre più ampie in un’ottica cooperativa e di scambio culturale.

Una delle idee fondanti delle comunità di cibo è che piacere e salute non vanno intesi in modo conflittuale ma nel segno dell’alleanza e del reciproco vantaggio.

L’idea che il piacere sia salutare, che ciò che piace fa bene è un’idea-base della dietetica antica. Essa nasce dalla convinzione che i messaggi del corpo, che ci spingono a desiderare un cibo piuttosto che un altro, servono a riconoscere, attraverso la piacevolezza del gusto, la qualità degli alimenti di cui il corpo ha bisogno.

Le relazioni tra motivazione, piacere dei sensi e assunzione alimentare danno luogo a un complicato intreccio: fabbisogno, desiderio, piacere nascono all’interno di reti neurali che si sovrappongono le une alle altre. Ma non tutto si risolve affrontando la sola dimensione fisica: per ottenere uno stato di effettivo benessere, bisogna modificare il contesto in cui le persone agiscono e le relazioni che l’individuo ha con il mondo esterno. Da qui nasce il bisogno di allargare il discorso sul cibo agli elementi simbolici perché il cibo è cultura.

Oggi non è ancora un dato acquisito che il cibo sia anche piacere e che il piacere del cibo sia un diritto di tutti. Per secoli i ceti dominanti hanno preferito immaginare il piacere come loro esclusivo privilegio. Includere, pertanto, il diritto al piacere tra gli obiettivi alimentari delle prossime generazioni ha a che fare con l’ampliamento delle libertà degli individui.

Il cibo è un fondamentale strumento di identità culturale che non si oppone al villaggio globale. La diffusione di modelli alimentari globalizzati, come quello di McDonald’s e dei suoi concorrenti, paradossalmente ha eccitato la ricerca della diversità, la ricostruzione di radici più o meno inventate, la riscoperta o reinvenzione delle tradizioni locali. Il corpo sociale ha elaborato un formidabile antidoto al rischio dell’omologazione culturale. Mettere in rete le culture locali, diffonderle, farle conoscere, condividerle è stata la risposta positiva a questo rischio. Utilizzando il villaggio globale come luogo di scambio anziché di omologazione. Globalizzando la biodiversità gastronomica e culturale.

La cultura economica delle civiltà cresciute attorno al Mediterraneo è cultura della mescolanza, dell’ibridazione, della contaminazione. Questa parte del mondo è una realtà geografica dotata di elementi comuni, legati al clima e al paesaggio, ma su questo fondo comune si sono sviluppate civiltà, lingue, tradizioni (anche alimentari) diverse. Ciò che storicamente ha contraddistinto il Mediterraneo è stata semmai la vocazione (favorita dalla brevità dei tragitti da est a ovest, da nord a sud) a costituirsi come area comune di scambio tra uomini, prodotti, culture. Ecco il punto: l’identità mediterranea esiste solo nello scambio, nella messa in comune delle diversità naturali. Come scrive Massimo Montanari, l’identità mediterranea nasce dalla storia più che (oltre che) dalla geografia.

Quella che, troppo semplicemente, oggi ci siamo abituati a chiamare dieta mediterranea è un’astrazione che solo in parte corrisponde a questa storia. E’ un modello costruito a tavolino, a cominciare dagli anni Cinquanta, per motivi e per scopi ben precisi, di carattere medico-sanitario: trovare un correttivo alla dieta eccessivamente proteica e calorica dei popoli ricchi. Guai a mummificare questo modello in una prescrizione igienica. Sarebbe negare in radice l’assunto culturale su cui si fonda.

La lezione che ci viene dalla storia è di pensare il sistema alimentare non come una realtà semplice, dettata dalla “natura” dei luoghi, bensì come una costruzione complessa, legata ad una cultura, ad uno stile di vita che i popoli del Mediterraneo hanno imparato a condividere, a modificare, a creare giorno dopo giorno. E’ forse questa modalità che noi dovremmo offrire alle altre parti del mondo come un percorso utile di confronto e integrazione delle diverse culture alimentari.

Si tratta di abbandonare la visione statica di un’italianità legata esclusivamente alla conservazione di determinati prodotti (difesi con marchi collettivi, etichettature, riconoscimenti Unesco e relative politiche di marketing) e di spingere, invece, verso un’innovazione intesa come affermazione di nuove idee per soddisfare bisogni sociali e creare continuamente mercati fondati su relazioni interpersonali. Aver rinunciato alla creatività pensando di vivere di rendita per le cose fatte in passato è all’origine del nostro declino.

La nostra tradizione va sempre rivitalizzata con dinamicità e in modo innovativo proprio per restare fedeli ai suoi caratteri peculiari. E una siffatta italianità, fondata sull’innovazione sociale e sul saper fare, è una grande risorsa soprattutto ora che, nei Paesi emergenti, entrano in scena milioni di nuovi consumatori che stanno modificando la propria dieta alimentare.

I produttori di quei Paesi imitano i nostri prodotti come abbiamo fatto noi nei millenni passati. E non ci saranno tribunali speciali a cui appellarci. Dobbiamo convincerci che la competitività da perseguire non dovrà essere tanto di tipo posizionale (come in una gara sportiva), quanto di tipo cooperativo, dovendo strutturare in modo organizzato, a livello sia locale che globale, bisogni sociali dal lato della domanda a cui far corrispondere un’adeguata capacità di organizzare l’offerta.

Si tratta di scambiare nei mercati globali non solo merci, ma culture alimentari, pratiche civili comunitarie legate all’agricoltura e alla pesca, modelli di welfare e di tutela dei beni comuni, tecnologie verdi, per produrre innovazione sociale continua. Ecco la sfida per le comunità di cibo del futuro!

Cibo ed evoluzione della Pac

Se si guarda a siffatti scenari, la proposta di riforma della Pac, confezionata dalla Commissione europea per il periodo di programmazione 2014-2020, è ancora poco coerente coi problemi posti dall’insicurezza alimentare nei Paesi del Sud del mondo e da quelli della nuova ruralità mediterranea.

Circola in diversi ambienti europei la tesi molto discutibile secondo la quale tutte le aree del mondo dovrebbero concorrere a produrre più cibo per fronteggiare la nuova era della scarsità. In sostanza, l’insicurezza alimentare viene presa a pretesto per giustificare un nuovo ciclo di politiche agricole protezionistiche nei paesi ricchi al fine di produrre più derrate agricole.

Questa soluzione è del tutto contraddittoria con gli obiettivi che, invece, dovrebbero perseguire i paesi in via di sviluppo per fronteggiare la loro insicurezza alimentare. La quale non è dovuta tanto alla scarsità di cibo ma alla scarsità degli investimenti per risolvere il problema dell’accesso al cibo.

I sussidi agli agricoltori dei paesi industrializzati generano distorsioni nei mercati internazionali. E le vittime principali sono gli agricoltori dei paesi in via di sviluppo che si vedranno sempre più tagliati fuori dai mercati delle derrate agricole. Oliver De Schutter, relatore speciale Onu sul diritto al cibo, ha dichiarato recentemente: “L’Europa ha aperto le porte alle esportazioni del mondo in via di sviluppo, ma questa apertura è inutile se i piccoli agricoltori del Sud non possono vendere i loro prodotti alimentari nei loro mercati interni. Dobbiamo aiutare i paesi a basso reddito a non dipendere dalle importazioni a basso prezzo ma a ricostruire i loro sistemi alimentari. Non dobbiamo dar loro da mangiare, ma aiutarli a nutrirsi. Se la produzione alimentare aumenta con una ulteriore marginalizzazione dei piccoli agricoltori nei paesi in via di sviluppo, si perde la battaglia contro la fame e la malnutrizione”. Non poteva essere più netta la presa di posizione contro il falso teorema che sottende il neoprotezionismo della proposta di riforma della Pac.

Proposte per una governance globale del cibo sostenibile

A questo punto della mia esposizione elencherò alcune proposte che potrebbero dar vita, qualora si realizzassero, ad una governance globale del cibo. Si tratta di approcci concreti a singoli problemi su cui si sta tentando una condivisione innanzitutto a livello di società civile, ma anche nel confronto tra gli Stati.

Al summit di Cannes del 3 novembre 2011, la presidenza francese del G20 si è impegnata per favorire un accordo globale sulla sicurezza alimentare. Il Piano di azione sulla volatilità dei prezzi alimentari e sull’agricoltura, predisposto dai ministri dell’agricoltura del G20 a Parigi nei giorni 22-23 giugno 2011, ha soltanto iniziato a mettere mano ad una strategia di riforma, tra reticenze e contraddizioni.

Nonostante le sollecitazioni del CESE (Comitato economico e sociale europeo), che aveva organizzato a Bruxelles il 23 maggio 2011 la conferenza internazionale Cibo per tutti. Verso un accordo globale, l’Unione europea non ha svolto alcuna funzione di stimolo al dibattito. Neanche l’Italia, alle prese con le continue emergenze, ha fornito un contributo nelle sedi internazionali, sebbene il Senato avesse discusso il tema e approvato, nella seduta del 16 giugno 2011, mozioni che affrontavano organicamente i suoi vari aspetti.

La mobilitazione della società civile dovrebbe premere affinché si vada più a fondo con una urgenza indilazionabile per raggiungere i seguenti obiettivi, su cui vi sono analisi e riflessioni abbastanza condivise: 1) ridurre la povertà nei paesi in via di sviluppo mediante il sostegno all’agricoltura; 2) dar vita ad una nuova organizzazione dei mercati agricoli e finanziari; 3) intensificare gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo; 4) regolare la nuova domanda di terra; 5) sperimentare nuove forme civili di gestione dell’acqua; 6) coordinare i sistemi d’incentivazione delle fonti energetiche rinnovabili; 7) rendere coerenti le politiche agricole e commerciali con il diritto all’alimentazione.

1) Sostenere l’agricoltura dei paesi in via di sviluppo significa privilegiare i mercati locali e regionali e incentrare le azioni sulle popolazioni rurali presenti sul territorio.

Gli interventi internazionali sotto forma di massicci aiuti alimentari ai paesi in via di sviluppo possono stravolgere i mercati locali e pregiudicare la sicurezza alimentare degli stessi produttori agricoli. Si dovrebbero, invece, favorire le capacità delle persone e delle comunità locali di accrescere il benessere individuale e sociale, creando domanda e offerta di istruzione di qualità, domanda e offerta di protezione dei diritti civili e politici. Una particolare attenzione andrebbe rivolta all’elevazione della condizione delle donne sia per valorizzare le loro capacità innovative in agricoltura, sia per correggere il tasso di fecondità.

2) Creare una nuova organizzazione dei mercati agricoli e finanziari è un impegno che dovrebbe partire dalla registrazione di tutte le transazioni e le posizioni degli operatori. Parallelamente, andrebbe creata una maggiore trasparenza dei mercati fisici, soprattutto per quanto riguarda i livelli di risorse e di scorte, nonché dell’offerta e della domanda a breve e medio termine. Ci vorrebbe, inoltre, una regolamentazione “uniforme” a livello internazionale per i mercati finanziari anche per evitare la concorrenza tra le “piazze” finanziarie. Bisognerebbe, infine, tornare a creare delle scorte di intervento, ma da gestire a livello mondiale.

3) Intensificare gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo è una delle condizioni ineliminabili per combattere la fame e riprendere la crescita. Del resto, non è mai stata confutata la teoria per cui Robert Solow fu insignito del Nobel per l’economia nel 1987: in ultima istanza, sono sempre le idee, sostenute dalle tecnologie dell’invenzione, che promuovono quegli elementi che cambiano la qualità della vita.

Vediamo il problema dell’aumento della produzione nelle agricolture dei Paesi in via di sviluppo può avvenire in due modi. Tale aumento può avvenire in due modi: ampliando le superfici coltivabili o accrescendo la loro produttività. La prima strada appare preclusa perché le terre migliori sono già tutte coltivate e restano quelle marginali oppure quelle impegnate dall’attuale patrimonio forestale, la cui riduzione non è affatto auspicabile. Resta la strada dell’aumento della produttività. Ma abbiamo due limiti da superare: a) utilizzare meno input chimici in agricoltura perché si è potuto constatare che l’uso prolungato di sostanze chimiche determina una perdita di fertilità dei suoli; b) accrescere la produttività con altri ritrovati tecnologici diversi dalle sostanze chimiche.

Al momento è l’ingegneria genetica ad essere ritenuta dalla comunità scientifica il sentiero tecnologico che può permettere di raggiungere maggiori livelli di produttività agricola e, al tempo stesso, di salvaguardare meglio le risorse naturali. Mentre quello delle nanotecnologie è un percorso indispensabile per un uso razionale dell’acqua ad uso irriguo. Ma le innovazioni tecnologiche sono soltanto un aspetto dell’innovazione sociale che deve produrre cambiamenti nella cultura e nei comportamenti mediante approcci olistici, interdisciplinari e di autoapprendimento collettivo.

Una ragione di ottimismo per il futuro è che salute, istruzione e diritti si comportano come il reddito pro capite, nel senso che dipendono dall’innovazione. Questa riesce a diffondersi globalmente anche in paesi con redditi bassi, che possono così godere di migliori condizioni di vita senza dover aspirare a livelli economici irrealistici.

4) Regolare la nuova domanda di terra è il modo per promuovere un accesso equo e sicuro a questo bene comune. Occorre provvedervi nella prospettiva dei diritti più che degli investimenti attraverso il dialogo e la condivisione delle conoscenze. Si tratta di costruire nell’immediato un centro di monitoraggio sulle acquisizioni di terra su larga scala e sul loro impatto dal punto di vista ambientale, sociale ed economico.

5) Sperimentare nuove forme civili di gestione dell’acqua è il percorso più efficace per ottenere un uso sostenibile delle risorse idriche. Tale percorso può riconnetterci alle antiche forme di gestione dei beni collettivi, valorizzando l’economia civile, il Terzo settore e l’azionariato diffuso. Si tratta di uscire dal dilemma statalismo/multinazionali, recuperando la migliore tradizione dei consorzi di bonifica e irrigazione e rivitalizzandola per tutti gli usi della risorsa acqua.

6) Coordinare gli incentivi per la produzione delle agroenergie è necessario per trovare il giusto equilibrio tra il bisogno di disporre di questo bene a basso costo per la ripresa economica, la necessità di uno sviluppo sostenibile, a cui la produzione di agroenergie può dare un contributo, e l’esigenza di assicurare il diritto al cibo, che mal si concilia con la sottrazione di terreno fertile per finalità energetiche.

7) Rendere coerenti tutte le politiche agricole con il diritto al cibo è, infine, l’impegno che gli Stati delle diverse aree del mondo dovrebbero assumere e concretizzare con coerenza.

Se il problema dell’insicurezza alimentare interessa davvero le istituzioni europee, come viene proclamato in diversi documenti ufficiali, c’è un modo per dimostrarlo in concreto: spostando una parte delle risorse destinate ai sussidi diretti ai nostri agricoltori, agli investimenti in ricerca e in aiuti volti a sostenere la capacità delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo a investire nelle loro agricolture.

Gli agricoltori europei non hanno bisogno di grandi risorse per sostenere i propri redditi, ma di ridistribuirle in modo più equo tra grandi e piccoli produttori e tra aree forti ed aree deboli, agganciando i sussidi alla produzione di beni comuni, ambientali e relazionali.

Le campagne europee e in particolare quelle mediterranee hanno estrema necessità di politiche che puntino allo sviluppo territoriale, all’ammodernamento del welfare, al miglioramento della qualità della vita nelle aree rurali, all’edificazione di sistemi agroalimentari in grado di interagire coi nuovi mercati nei paesi emergenti, nonché alla valorizzazione del contributo dell’agricoltura di servizi alla vivibilità delle aree urbane.

Il paradosso di dover liberalizzare i mercati e, nello stesso tempo, proteggere gli agricoltori si può risolvere solo in un modo: con liberalizzazioni e protezioni a geometria variabile. I paesi più poveri dei nostri hanno bisogno, per un certo periodo, di proteggersi dalle importazioni dei nostri prodotti agricoli e puntare al proprio sviluppo autoctono. E noi dovremmo dichiararci disponibili a favorire queste legittime e irrinunciabili esigenze.

I paesi industrializzati, invece, qualora le crisi alimentari dovute ai prezzi alti del cibo colpissero le fasce povere della propria popolazione, non dovrebbero nutrirle producendo di più localmente.

Già ora sono a rischio alimentare oltre 50 milioni di persone negli Stati Uniti e 43 milioni in Europa. Ma la soluzione del problema non sta nel produrre di più in questi paesi, bensì nell’allestire adeguati sistemi di welfare che prevengano il rischio di impoverimento delle persone oppure che le sostengano in caso di necessità.

Il bilancio comunitario andrebbe, pertanto, riequilibrato in tale direzione: meno sussidi agricoli e più politiche per regolare i mercati agricoli e finanziari e stabilizzare i prezzi; meno misure protezionistiche e più interventi per l’occupazione, il welfare e l’innovazione sociale. E lo stesso discorso vale per il Farm Bill americano, anch’esso ancora configurato come un intervento fortemente protezionistico.

Bisognerebbe poi essere più coerenti nel regolare il commercio mondiale. Un commercio regolato è quello che integra nelle sue dinamiche decisionali ed applicative i principi e le prassi del diritto all’alimentazione. Gli Stati, le cui popolazioni soffrono una condizione di denutrizione, dovrebbero astenersi dal contrarre obblighi internazionali in contrasto con tali principi per non andare contro i loro popoli. L’Europa e gli Stati Uniti dovrebbero, da parte loro, promuovere questo approccio verso gli altri stati membri del WTO, per fare in modo che la sicurezza alimentare diventi una vera e propria clausola di salvaguardia negli accordi internazionali.

Per tenere vivo il dibattito pubblico su questi sette problemi bisognerebbe cogliere ogni opportunità che si presenta. La preparazione di Milano Expo 2015, dedicato al tema “Nutrire il pianeta”, è dunque un’occasione da non perdere per organizzare in modo razionale e produttivo la trattazione di queste tematiche con il coinvolgimento di istituzioni, organizzazioni della società civile, mondo della conoscenza.

I cambiamenti culturali necessari per una modernità sostenibile

Affrontare questi sette problemi concreti è quanto dovrebbero fare gli Stati se la politica se ne occupasse in modo costante con un’elaborazione e una costruzione di soggetti politici di dimensioni sovranazionali. Ma c’è una responsabilità che fa capo a ciascuno di noi in quanto cittadini e in quanto società civile e ci sono doveri individuali e collettivi da adempiere perché nessuna persona potrà vivere e sopravvivere senza volerlo, senza operare la sua rivoluzione, così come nessuno potrà fare la rivoluzione senza sopravvivere. Come diceva il Mahatma Gandhi: “Siate voi stessi il cambiamento che volete vedere nel mondo”.

Tra i beni comuni investiti da processi dissipativi vanno considerati i beni relazionali (reciprocità, mutuo aiuto, gratuità, fiducia, ecc.) e non solo le risorse naturali (terra, acqua, aria, strato dell’ozono, ecc.).

L’erosione dei beni relazionali è tra le cause dell’attuale crisi economica e finanziaria ma anche dell’arretramento delle basi civili delle nostre società industrializzate, la cui spia si è accesa all’improvviso con la violenza gratuita verso i più fragili, i giovani. Assuefatti alla logica utilitaristica, siamo rimasti sconcertati per l’attentato di Brindisi perché non vogliamo ammettere che anche il male, come il bene, può essere gratuito. Ma l’agguato, per il modo come è stato compiuto e per le persone colpite e altre ancora che si intendevano colpire, è la spia che siamo giunti al livello di guardia della tenuta dei legami sociali.

Né lo Stato né il mercato possono fare granché dinanzi ad eventi come questi, perché sia l’uno che l’altro non sono istituti primordiali, ma frutto dell’iniziativa di persone che vivono in società. E’ dunque la società civile il luogo dove si può rigenerare quel capitale sociale che costituisce il presupposto per la nascita e il corretto funzionamento del mercato e delle istituzioni. Una nuova società civile diversa da quella plasmata dagli Stati nazionali e dall’approccio utilitaristico all’economia di mercato. Una nuova società civile che si sta organizzando nelle reti e che mette in discussione i vecchi modelli corporativi della rappresentanza, forgiati dall’economia fordista e dal vecchio stato sociale messo irrimediabilmente in discussione agli inizi degli anni Ottanta, quando i Paesi che lo avevano adottato decisero di non finanziare più il deficit dei loro bilanci con l’emissione di moneta. Reti trasversali di cittadini e non più organizzazioni di categorie, settori, professioni, mestieri o aggregazioni di portatori di bisogni speciali (disabili, non autosufficienti, anziani, ecc.) o ancora associazioni di consumatori contrapposte a quelle dei produttori. Sono queste reti d’incontro, di partecipazione e di autoapprendimento collettivo, il “luogo” dove s’addensa una nuova società civile.

Per poter rivitalizzare i beni relazionali e la capacità di questa nuova società civile di produrli, occorre recuperare dalla triade della Rivoluzione Francese (liberté, egalité, fraternité) il terzo pilastro: la fraternità, da non confondere con la solidarietà. Una fraternità dei moderni da distinguere nettamente dalla fraternità degli antichi, che era fondata sui legami di suolo e di sangue. Una fraternità dei moderni che va oltre quella delle appartenenze nazionali, dei legami di classe e di ceto, delle affiliazioni ideologiche e religiose. Una fraternità dei moderni che dovrà essere civile, universalistica, da fondare su di un nuovo civismo nell’economia e nella società.

Ci siamo adeguati un po’ tutti al modello utilitaristico e individualista e ci siamo abituati a reprimere e a non riconoscere la diversità altruistica che c’è dentro ciascuno di noi, fonte di una fragilità che c’imbarazza. Ma solo se saremo in grado di accettare questa diversità in noi, saremo in grado di riconoscerla negli altri e di costruire una nuova appartenenza fondata sul riconoscimento reciproco delle nostre fragilità e su nuove comunità umane aperte all’altro, senza più mura di cinta invalicabili da difendere, ma solo piccole siepi da varcare liberamente.

Mancando le libertà individuali e operando in territori circoscritti, nelle società tradizionali i beni comuni erano usati sulla base di consuetudini imposte alle persone in modo autoritario dalle comunità. Oggi, in presenza delle libertà individuali e della dimensione globale dei beni comuni ogni ricorso ad un potenziale Leviatano si rivela insufficiente senza far leva sui beni relazionali. Tali beni emergono spontaneamente nelle relazioni di mercato e permettono di rivitalizzare quel sistema paritario dello scambio che – secondo la lezione di Fernand Braudel ribadita recentemente da Giorgio Ruffolo in una ricostruzione storica della moneta – fu sostituito, con l’avvento degli Stati nazionali, da un’economia fondata sui rapporti di forza, sul “diritto del più forte”, in sostanza dall’attuale modello capitalistico.

Si tratta di prendere coscienza che abbiamo un solo pianeta. Ora è provato che non basterebbe questo pianeta se tutti i popoli assumessero il nostro modello alimentare. Occorre, dunque, un cambiamento culturale che coinvolga le nostre convinzioni più intime, i nostri stili individuali di vita e i nostri modelli di produzione e consumo per ridurre l’uso di sostanze chimiche nei processi produttivi agricoli; contenere la produzione e il consumo di proteine animali; arginare gli sprechi; ridurre l’uso dell’acqua; considerare l’accesso all’alimentazione e il piacere del cibo un diritto di tutti; scambiare le culture alimentari per aprirci agli altri.

Dovremmo anche dismettere un atteggiamento di diffusa avversione verso la scienza, dettato spesso da timori egoistici, e considerare, invece, il livello delle competenze e delle capacità cognitive scientifiche e tecniche un criterio non meno importante di quelli normalmente ritenuti necessari per la nascita e la sopravvivenza di una democrazia liberale e non dispotica. Se l’autonomia e l’autodeterminazione sono i valori davvero in grado di garantire un efficiente funzionamento delle regole democratiche – scrive Gilberto Corbellini – solo la diffusione della scienza è in grado di sviluppare negli individui e nelle comunità il senso di autonomia, plasmando i comportamenti e i valori civili che consentono di controllare democraticamente la sostenibilità delle premesse su cui si reggono i processi moltiplicativi della modernità.

L’apertura verso la scienza è, dunque, fondamentale per assumere pienamente la responsabilità, com’è decisivo che la nostra civiltà si faccia sempre più carico delle altre specie viventi. Nei nuovi equilibri evolutivi che si stanno determinando sull’onda dei cambiamenti delle grandi strutture antropologiche che regolano i rapporti tra gli esseri umani, si stanno spostando le frontiere dell’etica, fino a comprendervi tutto il vivente che ci circonda. Aldo Schiavone prevede che, fra qualche tempo, l’idea di mangiare carne animale susciterà non meno orrore di quel che oggi ne provochi l’esperienza della schiavitù. Ridurre perciò la produzione e il consumo di proteine animali significa non solo garantire la disponibilità di cibo ad un maggior numero di persone, ma anticipare in qualche modo anche comportamenti alimentari che saranno propri delle generazioni future.

L’atto del mangiare è un fattore altamente veicolante di pratiche e dispositivi culturali, che fornisce una rappresentazione dei mondi altri. Più ancora della parola, il cibo si presta a mediare tra culture diverse aprendo i sistemi di cucina ad ogni sorta di invenzioni, incroci, sincretismi, ibridismi e contaminazioni. Conoscere le culture alimentari di un gruppo e scambiare i cibi può, dunque, costituire una pratica che favorisce l’integrazione in contesti sempre più multietnici, come quelli europei, e un veicolo per diffondere nel mondo l’idea di alimentazione sostenibile e di piacere del cibo come diritto di tutti.

E’ utopia tutto questo? Paolo Sylos Labini diceva che lo scetticismo nei confronti di percorsi innovativi spesso nasconde, in chi lo manifesta, una grande cura del proprio particulare e, nonostante le proclamazioni in contrario, un’assai scarsa preoccupazione per l’interesse pubblico. E ripeteva una metafora che aveva sentito durante una lezione di Joseph Schumpeter: “Non c’è nulla di così impercorribile come una strada che una lunga schiera di pellegrini, passandosi la voce l’un l’altro ma senza percorrerla, dichiarano impercorribile”. Chi riesce a non farsi suggestionare dagli altri può scoprire, con sorpresa, che la strada è, bensì, lunga e faticosa, ma che gli ostacoli non sono affatto insuperabili.

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Ibrahim, l’uomo che coltiva il deserto

«Noi rappresentiamo l’Islam moderato e moderno. Gli uomini dell’Isis sono solo terroristi». Ibrahim Abouleish invoca spesso Allah, quando parla della sua incredibile avventura umana, imprenditoriale e ambientale, l’aver trasformato 20.000 ettari di deserto del suo Egitto (partendo dai primi 70 conquistati a 60 chilometri a nordest del Cairo) in terreno fertile coperto da filari di alberi ad alto fusto, coltivazioni rigorosamente biodinamiche, allevamenti di bufali egiziani, fabbriche di tisane, scuole, asili nido e ora anche L’Università di Eliopoli per lo Sviluppo sostenibile («è la prima nel mondo», sorride soddisfatto). L’opera si chiama Sekem, in egiziano antico «vitalità del sole».

Ibrahim Abouleish è il relatore-simbolo del convegno internazionale «Oltre Expo-Alleanze per nutrire il Pianeta, sì è possibile» organizzato dall’Associazione per l’agricoltura biodinamica, col patrocino del Fondo Ambiente Italiano, della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e con la partecipazione di Slow Food. L’Aula Magna Gobbi dell’Università Bocconi è strapiena, in prima fila Giulia Maria Crespi, da sempre aperta e combattiva sostenitrice dell’agricoltura biodinamica che ha fortemente voluto questo appuntamento. La scommessa è esplicita, dimostrare cioè che il futuro dell’Italia sta nelle sue stesse radici: agricoltura, alimentazione, paesaggio, artigianato e quindi turismo in un ambiente tutelato. Sul palco Carlo Triarico, presidente dell’Associazione per la biodinamica: «L’Italia ha il primato europeo nell’uso dei pesticidi, 10 chili a ettaro. La Francia ne usa la metà però attira il doppio del turismo. Penso che il nesso sia chiaro. All’agricoltura va restituita la dignità che le spetta».

Tanti i relatori italiani e internazionali. In questo quadro spicca Ibrahim Abouleish, mite signore di quasi ottant’anni, eleganza europea, occhiali sottili, sguardo penetrante, studi giovanili in Germania, due lauree in Medicina e Ingegneria che hanno sostenuto la sua vocazione: «Quando nel 1977 tornai in Egitto trovai un Paese distrutto da tre guerre. Ripensai alle parole del profeta Maometto: “Quando si avvicina l’Apocalisse, la fine del mondo, coltiva la terra e vedrai che non ti abbandonerà”. La terra è una madre dal grande cuore. Anche quando i suoi figli la maltrattano lei perdona e offre altre possibilità».

Poco prima aveva scoperto l’esistenza, e il fascino, dell’agricoltura biodinamica proprio in Italia grazie a Giulia Maria Crespi: «Mi spiegò bene di cosa si trattava, ma quando le parlai del mio progetto per il deserto mi disse che ero un pazzo». Cominciò un’avventura difficile, all’inizio ebbe contro anche gli Imam che lo ritenevano un adoratore del sole per i principi antroposofici alla base della coltivazione biodinamica, poi arrivò una targa ufficiale degli Sceicchi islamici in Egitto che definiva la sua opera «una iniziativa islamica». Oggi Sekem significa 20.000 ettari di ex deserto coltivati con 85 aziende, 10.000 lavoratori musulmani ma non mancano cristiani ed ebrei (il 40% donne) in tutto l’Egitto, 2.000 dipendenti impegnati a Sekem nella trasformazione dei prodotti (800 donne). Le scuole della comunità accolgono ogni giorno 600 studenti. Ha convinto l’intero Egitto che l’uso dei pesticidi nella coltivazione del cotone è dispendioso, dannoso per raccolto e ambiente: la soppressione biologica dei parassiti ha portato a un aumento del 30% della resa del cotone grezzo.

Ora Abouleish è soddisfatto dei proseliti che raccoglie: «Centinaia di migliaia di ettari in Egitto sono stati sottratti al deserto. Dopo l’Europa, siamo il luogo al mondo in cui più si usa l’agricoltura biodinamica». Guarda con affetto alle nuove generazioni: «Sono certo che tutta l’agricoltura si riconvertirà così. Quella tradizionale si sta rivelando sempre più costosa, per gli antiparassitari, dannosa per l’acqua, per l’aria, per la terra stessa e per la salute dei consumatori. La natura è il nostro vero, sicuro futuro».

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Torneremo tutti agricoltori, e sarà la nostra salvezza

Dal biologico alla bioeconomy, l’Italia agricola è in pieno boom, a colpi di saperi e di innovazione.

Forse ha ragione Nietzsche, forse la storia è davvero un eterno ritorno dell’eguale. Negli anni ’50 eravamo una terra di agricoltori diventati operai. Nel giro di vent’anni gli operai sono diventati impiegati. Il problema sono i figli degli impiegati, cui era stata promessa la luna di un lavoro creativo, senza cravatte, gerarchie, noia. E che, complice la crisi economica, si sono ritrovati, molto più prosaicamente, senza un lavoro. Molti di loro ancora non si sono rassegnati a cercare il loro personale eldorado nella giungla del terziario avanzato. Altri, invece, sono tornati al punto di partenza, ai campi e alla terra: nel 2013, le iscrizioni ai dipartimenti di agraria in tutta Italia sono aumentate del 40% circa.
Pauperismo, anti-capitalista? Decrescita felice? Niente di tutto questo. Al contrario, nel 2013, il valore aggiunto dell’agricoltura italiana è cresciuto del 4,7%, mentre il Pil italiano cadeva di quasi due punti percentuali. Nello stesso periodo, anche l’export agricolo italiano è cresciuto del 5%. A differenza di quel che è accaduto in altri settori, questa crescita ha avuto effetti benefici anche sull’occupazione. Nel secondo trimestre del 2014 – periodo di calo del Pil, tanto per contestualizzare il dato – l’occupazione del settore agricolo è cresciuta del 5,6%.
I numeri di un primato
Dati sorprendenti, questi, ma non certo frutto di una strana e fortunata congiunzione astrale. Pochi se ne sono accorti, in questi anni, ma l’agricoltura è una delle poche vere eccellenze che sono rimaste a questo paese. Come ben racconta l’ultimo rapporto di Fondazione Symbola dedicato all’agricoltura, sono ben 77 i prodotti in cui la quota di mercato mondiale dell’Italia è tra le prime tre al mondo, 23 – pasta, pomodori, aceto, olio, fagioli, tra questi – in cui è la prima.

La nostra capacità di primeggiare è figlia, soprattutto, della grande qualità delle nostre produzioni. Non è un caso, peraltro, che non ci sia agricoltura in Europa – e poche al mondo – che abbiano una capacità di generare valore aggiunto quanto quella italiana. Da noi, un ettaro di terra, produce 1989 euro di valore aggiunto: ottocento euro in più della Francia, il doppio di Spagna e Francia, il triplo dell’Inghilterra.

Che ci crediate o meno, la nostra – con le sue 814 tonnellate di gas serra emesse per ogni milione di euro di prodotto – è anche una delle agricolture più “pulite” d’Europa. Molto più di quella inglese, ad esempio, che di tonnellate ne emette 1935, o di Germania e Francia, rispettivamente 1.339 e 1.249. È anche una delle più sicure, nonostante tutto: lo scorso anno, solo lo 0,2% dei prodotti agricoli made in Italy ha presentato residui chimici con valori oltre la norma. In Europa questa percentuale è salita all’1%, sino ad arrivare all’1,9% della Francia e al 3,4% della Germania.

Altro dato piuttosto sorprendente è la nostra primazia nell’economia delle produzioni biologiche. Nessun paese Europeo ha tanti produttori quanti ne ha l’Italia, che ne può contare ben 43.852, il 17% di tutti i produttori europei. Se allarghiamo lo sguardo oltre i confini continentali, siamo anche sesti al mondo per ampiezza delle superfici a biologico, che crescono a un ritmo di 70mila ettari l’anno.

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Il risultato di quest’eccellenza è il frutto dell’innesto di menti giovani e di pensieri innovativi dentro mestieri antichi: oggi, un’azienda agricola su tre è guidata da persone che hanno meno di trentacinque anni. Non ci sono solo loro e non c’è solo l’anagrafe, tuttavia. L’intreccio con nuovi saperi e nuove tecnologie sta davvero cambiando i connotati all’agricoltura: «Un tempo agricoltura era sinonimo di coltivazioni con finalità alimentari, oggi non è più così», spiega Gianluca Carenzo, Direttore del Parco Tecnologico Padano di Lodi, centro di eccellenza nel settore delle biotecnologie e dell’agroalimentare: «Oggi – continua – l’agricoltura è una piattaforma su cui si innestano molteplici tipi di industrie, dalla alimentare alla chimica, dall’energia al tessile».
Ciò di cui parla Carenzo ha un nome: si chiama bioeconomy e comprende tutte le produzioni sostenibili di risorse biologiche rinnovabili e la loro conversione, come ad esempio quella dei flussi di rifiuti in cibo, mangimi, o prodotti bio-based, come le bioplastiche, i biocarburanti e bioenergia. Un macro-settore, questo, che seppur neonato in Italia vale già 241 miliardi di euro e occupa 1,6 milioni di persone. Al suo interno sono nate e crescono colossi come Novamont o piccole realtà innovative come Bio-on, giovane impresa modenese che produce plastiche dagli scarti della lavorazione delle barbabietole da zucchero e che venerdì 23 ottobre 2014 si è quotata con successo in Borsa, nel listino Aim dedicato alle piccole e medie imprese. O ancora, come la bioraffineria di Beta Renewables di Crescentino, in provincia di Vercelli, la prima di seconda generazione al mondo, che produce 75 milioni di litri di etanolo l’anno usando soltanto le biomasse di scarto – paglia di riso, soprattutto – disponibili in un raggio di 70 km dallo stabilimento.
«Nelle start up che incubiamo nel Parco Tecnologico Padano – spiega ancora Carenzo – lavorano assieme giovani laureati in agraria, ingegneri, informatici. Il loro potenziale innovativo sta tutto nel mix delle diverse competenze». Due anni fa, il Parco ha lanciato il concorso Alimenta 2 Talents, finalizzato a offrire formazione, risorse e le competenze dei ricercatori del Parco alle più innovative startup del settore. Tra i finalisti del 2013 ci sono realtà come Orange Fiber, che crea tessili sostenibili da rifiuti di agrumi – 700mila tonnellate solo in Italia – utilizzando le nanotecnologie. O come The Algae Factory che produce pasta, cosmetici e altri prodotti a base di alga spirulina. O, ancora, come Coffee Reloaded, che si occupa di usare i fondi di caffè – in Italia ne vengono consumati 45 quintali al giorno – come fertilizzanti.

Sia che si parli di agricoltura per uso alimentare, sia che si parli di bioeconomy, l’Expo dell’anno prossimo potrebbe davvero essere un trampolino di lancio: «Siamo crescendo – spiega ancora Carenzo – anche se ci muoviamo senza alcuna strategia nazionale sul tema». Per Expo, continua, «dobbiamo farci trovare pronti: è una straordinaria occasione per capire se e come potremo declinare le nostre tecnologie in un contesto globale che ci pone tante domande. Una su tutte, come si possono sfamare, vestire, riscaldare nove miliardi di persone senza distruggere il pianeta». Forse la nuova agricoltura non salverà solo l’Italia, insomma.

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Cibo ed eros

Edouard Manet: "Colazione sull'erba"

Edouard Manet: “Colazione sull’erba”

Il rapporto tra noi e il cibo e quello tra noi e gli altri, attraverso il cibo, hanno a che fare con l’eros. Il mangiare e il sesso hanno molte cose in comune. Entrambi sono sempre una mediazione tra natura e cultura e costituiscono elementi di fondo delle strutture sociali e delle regole che informano la convivenza umana. È per questo che il mangiare e il sesso rientrano nella sfera del “sacro”.

Il concetto di “sacro” precede quello di “religioso” e di “divino”. Non vanno confusi. Il sacro attiene a quegli aspetti metaumani che più occorrono quando due o più persone vivono insieme, pena il trasformarsi delle loro relazioni in rapporti mercificati, utilitaristici, pena la perdita della dimensione utopica. Senza il sacro l’uomo perde quello che, più umanamente, è umano.

L’idea di sacro richiama la cultura del frumento e del pane; dell’olivo e dell’olio; della vite e del vino. Si tratta di prodotti che in passato scarseggiavano e non erano accessibili a tutti i ceti sociali. La loro produzione, preparazione e consumo erano accompagnati da gesti, preghiere, formule, riti di propiziazione e ringraziamento. Appartenevano a quell’universo in cui ogni bene era necessario. E pertanto niente andava smarrito, perduto, gettato, sprecato. L’equilibrio produttivo e alimentare, la qualità della vita, la mentalità delle persone, ancora in un recente passato, risultavano strettamente legati alla bizzarria del clima, all’alternarsi di periodi di siccità e periodi di piogge torrentizie. Dal mattino alla sera, i contadini interrogavano il cielo, le nuvole, le nebbie, le stelle; osservavano attentamente la natura e gli animali che, coi loro movimenti e comportamenti, annunciavano pioggia, temporali, cattivo tempo. Tali modalità di vita del mondo rurale, lungi dal favorire atteggiamenti autoreferenziali e autarchici, si accompagnavano sempre ad un’apertura verso il mondo della ricerca scientifica e della tecnica e ad una predisposizione agli scambi tra i popoli.

La nascita dell’agricoltura

Sembra che siano state le donne a favorire, dieci mila anni fa, il passaggio dal nomadismo e dall’economia predatoria all’assetto stanziale e all’economia agricola, quando per prime sperimentarono la coltivazione del grano, dell’olivo e della vite, che richiedeva un’applicazione che durava quasi un intero anno in un medesimo luogo. E così inventarono il pane, l’olio e il vino per sostituire e integrare il cibo proveniente dall’attività pastorale-venatoria. Lo fecero per conciliare meglio i loro tempi di lavoro e di cura prima e dopo le gravidanze e contribuirono, in modo determinante, alla nascita dell’agricoltura.

Frapponendo tra sé e il cibo riti di macellazione, tecniche di cottura, maestria di miscelazioni, arte della presentazione dei piatti, del cibo e del vino, la donna e l’uomo cessarono di essere divoratori. Abbandonando l’atteggiamento dell’animale cacciatore che mangia la sua preda, la donna e l’uomo assunsero quello di chi crea un rapporto con il cibo. Si realizzò così la rivoluzione neolitica che costituì la prima rivoluzione agricola. Poi arriverà, tra il 1600 e il 1700 della nostra era, la seconda rivoluzione agricola e, infine, la recente rivoluzione verde. Una lunga traversata dall’invenzione della pratica agricola, dei miti, dei riti, dei numeri, della scrittura, alle attuali sperimentazioni degli organismi geneticamente modificati. Dalle democrazie assembleari delle proto-città e delle città-stato alla odierna “società aperta”.

L’eclisse del sacro

Le attuali società del benessere appaiono afflitte da una grigia mediocrità e da una piatta, monotona ripetitività. Stanchezza, usura psicologica e solitudine sono i mali del tempo presente. L’innovazione si riduce alla mera transizione dello stesso allo stesso. La forza delle differenze è vanificata. La creatività langue. L’etica della responsabilità è stata accantonata. Il rapporto tra le persone si è inaridito. Non è più un rapporto umano; è solo utilitaristico. Tra le varie forme di reciprocità prevalgono quelle distruttive (conflitti, guerre, vendette, ritorsioni) su quelle generative (confidenza, fiducia, cooperazione, sviluppo civile, mercato, mutualità, amicizia, amore).

Il sacro sembra eclissato da una molteplicità di fattori. Le filosofie irrazionaliste e autodistruttive, reinterpretando il mito della guerra dell’Armageddon, sono prevalse sulle idee dell’illuminismo e hanno contribuito a costituire le basi teoriche dei totalitarismi del novecento e del terrorismo islamico odierno. La liberazione dei rapporti sessuali, che si è manifestata al suo apice negli anni sessanta, ha costituito una tappa fondamentale nella conquista di una maggiore autodeterminazione. Tuttavia, si è molto intrecciata con l’affermazione di una mentalità utilitaristica e un atteggiamento competitivo e predatorio. Sia gli uomini che le donne spesso utilizzano la sessualità come strumento di negoziazione, di ricatto e di competizione. E quando non serve a questi fini, ci si rinchiude nei rapporti virtuali favoriti da internet. Perfino i rapporti tra le persone sono stati fagocitati nella sfera dell’efficienza. E dunque sono tenuti a livelli minimi fino all’evanescenza. Quando ci si incontra è da maleducati toccarsi, abbracciarsi, guardarsi negli occhi. Senza fini utilitaristici è da perdigiorno mangiare insieme e darsi del tempo. E così non mangiamo più insieme agli altri ma da soli, tristemente seduti davanti al bancone di un bar o del tavolo di un ristorante, gli occhi calamitati sul giornale per non guardare il cibo che si divora. E quelle volte che ceniamo in famiglia, spesso lasciamo il televisore e il computer accesi. “Per restare collegati con il mondo” è la giustificazione. Ma il motivo vero è che non abbiamo voglia di parlare nemmeno coi nostri congiunti.

Come ne usciamo?

Le società del benessere hanno modificato i nostri comportamenti e un’ inquietudine pervade le nostre vite. Una forte domanda di senso, a cui non sappiamo rispondere, ci afferra le viscere. Una nostalgia di “totalmente altro”. Un bisogno di trovarci in “luoghi totalmente diversi”. Una fame di eternità oltre l’effimero e l’inconcludenza. Questa domanda di senso altro non è che la ricerca del sacro.

Per recuperare la dimensione del sacro e rivitalizzare, in questo modo, i legami comunitari, gli individui dovrebbero imparare a vivere positivamente la sessualità. Si tratta di improntare i rapporti con gli altri più alla trasparenza e meno all’utilità, ove il gioco degli interessi prevale. C’è in noi un desiderio dell’altro come altro. Più esattamente di un altro come me, che mi è simile e compagno, che mi completa, ma soprattutto che vale non perché serve a me, ma per sé. Che quindi non posso mai ridurre a me – lo tratterei come cosa e lo perderei – ma che posso raggiungere solo nella sua libertà. L’amore non è – né può mai essere – possesso, ma è reciprocità positiva e perciò confidenza e fiducia. Ma per amare così è necessario contenere la prepotenza, la ricerca dell’utilità, comprendere che o si cresce insieme o qualsiasi accrescimento è solo apparenza, è solo un simulacro della potenza, in effetti un fallimento.

Così dovrà ristabilirsi il nostro rapporto con il cibo. L’uomo è un essere che ha fame e tutto il mondo esterno è il suo cibo. Noi dobbiamo mangiare per vivere, dobbiamo assumere il mondo e trasformarlo nella nostra carne e nel nostro sangue. L’uomo è quel che mangia e il mondo è la sua tavola universale. Ma cosa fa di un “tavolo” una “tavola”? Innanzitutto il fatto di incontrarsi guardandosi in faccia, comunicando con il volto la gioia, la fatica, la sofferenza, la speranza che ciascuno porta dentro di sé e desidera condividere. Il pasto è come il sesso: o è parlato oppure è aggressività; o è contemplato e ordinato oppure è animalesco; o è esercizio in cui si tiene conto degli altri oppure è cosificato e svilito; o è trasfigurato in modo estatico oppure è condannato alla monotonia e alla banalità. Prima di toccare il cibo dovremmo chiederci: “Da dove viene? Chi ha coltivato questi frutti? Chi li ha procurati con il suo lavoro? Chi li ha cucinati?”. Parlando del cibo lo assaporiamo e, con amore e in comunione con altri, lo facciamo diventare parte di noi. Il sacro – cioè la nostra umanizzazione – si riacquista e si espande aprendoci ad una sessualità e convivialità gioiose, fondate sulla fraternità delle relazioni.

 




Bando aree agricole, presentati i vincitori

F_diMajo_33771-1024x682Questa mattina, insieme al vicesindaco Luigi Nieri, l’assessore all’Ambiente Estella Marino e il presidente del III Municipio Paolo Marchionne, abbiamo presentato i vincitori del primo bando pubblico per l’assegnazione di aree agricole e immobili rurali in disuso di proprietà di Roma Capitale per lo sviluppo di nuove aziende agricole biologiche multifunzionali.

Dopo aver aperto, lo scorso maggio, un avviso pubblico per l’assegnazione di circa 100 ettari di terre divisi in 4 lotti oggi abbiamo i primi vincitori che realizzeranno nuove aziende agricole biologiche in aree bellissime e di grande valore.

La Tenuta Redicicoli, nella Riserva naturale della Marcigliana, è stata assegnata a un giovane di 21 anni, Daniel Burraiil progetto vincitore per l’area di Tor de Cenci, nella Riserva naturale di Decima, è stato presentato dal 33enne Mario Sonno e il lotto di Borghetto San Carlo, nel Parco di Veio, è stato assegnato alla cooperativa agricola CO.R.AG.GIO, costituita da 15 giovani agricoltori.

Tra le attività che verranno realizzate ci sarà la vendita diretta di prodotti a km 0 a disposizione delle cittadine e dei cittadini, fattorie didattiche e centri estivi per ragazzi, orti sociali, reinserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, un agri-ristoro e un parco avventura.

Un anno e mezzo fa in campagna elettorale delineammo con chiarezza quella che era la nostra visione politica, urbanistica e ambientale per l’area dell’Agro Romano e più in generale per la città intera: basta cemento e rigenerazione dell’esistente. Oggi diamo concreta dimostrazione di quel cambiamento annunciato e confermato da alcune scelte significative sul consumo di suolo.

Questa operazione mi rende particolarmente orgoglioso per i tanti obiettivi che riusciamo a raggiungere contemporaneamente. L’affidamento delle terre a giovani agricoltori rappresenta un vero e proprio investimento per il futuro, all’insegna dello sviluppo sostenibile: ai vincitori del bando chiediamo infatti di prendersi cura di questo bene comune e di metterlo a valore restituendo alla collettività e al quartiere servizi e iniziative sociali.

L’affitto ha un prezzo simbolico, dai 100 ai 200 euro a ettaro l’anno. Questo perché vogliamo incentivare la nascita di nuove realtà che fanno bene alla città e aiutano i giovani a essere protagonisti del futuro.

Il settore agricolo negli ultimi anni ha registrato una crescita costante nel territorio romano. Abbiamo, quindi, inserito nel bando un criterio di valutazione dei progetti volto a valorizzare lo sviluppo della biodiversità nella conduzione delle aziende che nasceranno.

Questo è solo il primo di tanti passi che vogliamo fare. Entro dicembre presenteremo il prossimo bando con altre quattro aree, complessivamente per 95 ettari. La prima si trova nel Municipio XI di 25 ettari due aree nel Municipio III di rispettivamente di 10 e 40 ettari e la quarta area nel Municipio IV di 20 ettari.

Quello agricolo è un settore vitale che per la nostra città e noi vogliamo valorizzarlo guardando al futuro.

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L’epopea contadina che ricostruì l’Italia

Ricorre oggi il 65° anniversario della strage di Melissa in cui furono recise tre giovani vite: Francesco Nigro, di 29 anni, Giovanni Zito, di 15 anni, e Angelina Mauro, di 23 anni. Altre 15 persone furono ferite.

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Nell’ottobre del 1949 i contadini calabresi marciarono sui latifondi per chiedere con forza il rispetto dei provvedimenti emanati nel dopoguerra dal ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo e la concessione di parte delle terre lasciate incolte dalla maggioranza dei proprietari terrieri.

Spettacolari colonne umane lunghe chilometri e chilometri escono dai paesi e sfilano alla volta dei feudi. I contadini vestiti a festa con gli abiti di velluto nero avanzano a dorso d’asino o di mulo, i braccianti a piedi con le zappe e i bidenti, le donne coperte da lunghi scialli neri o fazzoletti rossi coi piccoli in braccio, i barili dell’acqua in testa, le fiasche del vino a tracollo, le canestre piene di cibarie, pane rosso e nero, salsicce, pecorini, noci, uova, castagne secche, fichi infornati, meloni d’inverno; poi le fanfare, le bandiere rosse, gli aratri e in testa i bambini che schiamazzano.

Una ritualità zeppa di significati simbolici, che è il derivato di una cultura arcaica ancora viva.

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Irritati per questa ondata di occupazioni alcuni parlamentari calabresi della Democrazia Cristiana chiesero un intervento della polizia al ministro dell’Interno Mario Scelba. I reparti della Celere si recarono quindi in Calabria e uno di loro si stabilì a Melissa (oggi provincia di Crotone) presso la proprietà del possidente del luogo, barone Berlingeri, del quale i contadini avevano occupato il fondo detto Fragalà.

Questo fondo era stato assegnato dalla legislazione napoleonica del 1811 per metà al Comune, ma la famiglia Berlingeri, nel tempo, lo aveva occupato abusivamente per intero. La mattina del 29 ottobre 1949 la polizia entrò nella tenuta e cercò di scacciare i contadini occupanti con la forza. Vista la resistenza dei manifestanti la polizia aprì il fuoco.

L’episodio è ricordato da Lucio Dalla in una strofa del brano Passato, presente, quarta traccia dell’album Il giorno aveva cinque teste, che recita:

Il passato di tanti anni fa
alla fine del quarantanove
è il massacro del feudo Fragala’
sulle terre del Barone Breviglieri.
Tre braccianti stroncati
col fuoco di moschetto
in difesa della proprietà.
Sono fatti di ieri.

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Nel dicembre successivo, un analogo episodio accadrà a Montescaglioso, in provincia di Matera. La polizia inviata da Scelba colpirà a morte un altro giovane bracciante, Giuseppe Novello. Sarà Rocco Scotellaro a immortalare il fatto tragico in versi di inconfondibile pathos e bellezza:

Tutte queste foglie ch’erano verdi: si fa sentire il vento delle foglie che si perdono
fondando i solchi a nuovo nella terra macinata.
Ogni solco ha un nome, vi è una foglia perenne
che rimonta sui rami di notte a primavera
a fare il giorno nuovo.
È caduto Novello sulla strada all’alba,
a quel punto si domina la campagna,
a quell’ora si è padroni del tempo che viene,
il mondo è vicino da Chicago a qui
sulla montagna scagliosa che pare una prua,
una vecchia prua emersa
che ha lungamente sfaldato le onde.
Cammina il paese tra le nubi, cammina
Sulla strada dove un uomo si è piantato al timone,
dall’alba quando rimonta sui rami
la foglia perenne in primavera.

novello

Era accaduto più volte nell’Italia liberale che contadini in lotta per poter coltivare un pezzo di terra restassero vittime dell’azione repressiva dello Stato. Ma adesso si registra una novità: è l’intera opinione pubblica a rimanere scossa da tali episodi di gratuita violenza ai danni di una categoria considerata marginale nel contesto sociale.

È per questo motivo che il governo dell’epoca s’affretta a varare, nel corso del 1950, una serie di provvedimenti per attuare la riforma agraria in alcune aree del Paese, dove è maggiormente presente il latifondo.

Quel sangue non è, dunque, versato invano. Se oggi l’agricoltura è quella che è e il tessuto economico e sociale del Paese si è potuto ammodernare lo si deve al sacrificio dei contadini che nell’immediato dopoguerra conquistarono spezzoni di intervento pubblico con cui si poté avviare lo sviluppo del Paese.
metapontino




La caccia alle streghe

pascaleLa premiata ditta Pascale & Pascale svela la trama della caccia alle streghe che ha tagliato le gambe all’agricoltura italiana istallando nell’opinione pubblica la paura millenaria del diverso, dell’alieno, del diabolico: la disinformacija che dagli ultimi decenni ha cancellato l’eccellenza italiana della ricerca nel campo delle biotecnologie agroalimentari ha ricacciato il paese nel medioevo delle credulità e delle cacce alle streghe impedendo lo sviluppo di una vera lotta all’onnipresenza della dittatura chimica. In una tranquilla chiacchierata a Centocelle Alfonso e Antonio Pascale ci hanno con pacate e argomentate poche parole raccontato l’incredibile ennesima malastoria italiana: un’Italia che taglia le gambe alle migliori menti della ricerca per inseguire le chimere di una nicchia pauperistica del mercato alimentare mondiale: quella del rimpianto e dell’utopia del “buon tempo antico”. Un “buon tempo antico” fatto di sapori e saperi che si mantengono in vita grazie alla chimica e agli anticrittogamici, un non detto sempre celato dai politically correct sulla cresta dell’onda mediatica da legambiente a greenpeace. La verità sempre celata, come nel miglior medioevo prossimo passato, dell’unica vera strada per combattere la chimica: la predisposizione genetica delle difese antiparassitarie. In altre, semplici, parole un’accelerazione dei normali tempi d’ibridazione dei generi da sempre operata in agricoltura fin dai primordi della storia. Un’accelerazione ideologicamente negata che, però, ci consegna – di fatto – nelle mani della chimica degli anticrittogamici.

articolo collegato: La società scientifica contesta il movimento anti OGM




Agra-Press: Scaramuzzi (Georgofili) chiede di non fermare la ricerca scientifica sugli OGM

Ritengo doveroso e opportuno dare notizia delle chiare dichiarazioni relative agli OGM del Prof. Scramuzzi, diffuse il 21 gennaio u.s. dall’Agenzia Agra-Press.Luigi Rossi, Presidente FidafSCARAMUZZI (GEORGOFILI) CHIEDE DI NON FERMARE LA RICERCA SCIENTIFICA SUGLI OGM549 – 21:01:14/12:45 – firenze, (Agra-Press) – il presidente dell’accademia dei Georgofili Franco Scaramuzzi, a conclusione della cerimonia per la celebrazione dei cento anni dell’istituto superiore agrario e forestale di firenze, ha svolto “una relazione in cui ha auspicato che la piaga dolente dei veti imposti alla ricerca scientifica italiana per lo studio degli OGM e per il loro uso venga al piu’ presto cauterizzata, per arrestare i gravi danni materiali e morali che sta continuando a provocare”, rende noto un comunicato dei Georgofili. “Sara’ poi doveroso individuare i responsabili di tanto panico ingiustificato e degli interventi normativi conseguenti, accertare i danni provocati ed ottenere i debiti risarcimenti”, ha detto Scaramuzzi osservando che “l’inesorabile giudizio della storia coinvolgerebbe anche chi oggi si rendesse responsabile di un prolungamento della situazione attuale e dei conseguenti ulteriori danni che continuerebbero a prodursi”. Il presidente dei georgofili – segnala il comunicato – torna sull’argomento in un articolo  intitolato OGM, una ferita incomprensibile”, pubblicato su QN (Quotidiano Nazionale) di oggi. “la correttezza metodologica, il valore delle nuove conoscenze e l’eventuale pericolosità delle innovazioni – scrive Scaramuzzi – possono essere giudicate da scienziati competenti, che a questo scopo seguono principi e regole rigorose”. “qualsiasi diverso interesse non deve indurre a manipolare questi giudizi in sedi prive delle indispensabili conoscenze, per farli poi arrivare distorti all’opinione pubblica e nelle piazze”, sostiene il presidente dell’accademia che aggiunge: “siamo quindi chiamati a difendere la libertà, l’autonomia e l’universalità della ricerca scientifica e chiediamo che la deleteria vicenda italiana degli OGM si chiuda”. (cl.co)fonte: www.fidaf.it



La società scientifica contesta il movimento anti OGM

rubr_pascale (1)Vari siti web stanno rilanciando la notizia che da una indagine dell’Unione Europea 8 cittadini su 10 dicono che il bio deve essere OGM-free: guardate i titoli disponibili in rete.

http://www.newsfood.com/q/162cd32d/ue-80-vuole-alimenti-ogm-free/

http://www.ansa.it/terraegusto/notizie/rubriche/europa/2013/09/19/Ue-piu-8-cittadini-10-Bio-deve-essere-Ogm-free-_9325393.html

Da questi titoli sembra che hanno intervistato tutti gli Europei e che 8 su 10 difendono il Bio e dicono no agli OGM.

Questo è il modo in cui i media costruiscono le false verità. Qui sotto trovate il link all’indagine Europea

http://ec.europa.eu/agriculture/consultations/organic/2013_en.htm

e si scopre cosi’ che rispondevano solo quelli interessati (ossia non un campione rappresentativo, ad esempio quelli che vendono biologico si sono iscritti subito per dare la loro opinione?) ed inoltre solo quelli interessati al biologico.

Ma mi domando se l’80% degli interessati al biologico dice che dovrebbe essere OGM-free, allora vuol dire che addirittura il 20% di quelli del biologico accettano che ci siano OGM nel biologico, ossia non è il 100% come da disciplinare.

Inoltre visto che sono circa il 5% dei consumatori europei che mangiano biologico, secondo la loro logica per cui il 20% di “oppositori” vanno soppressi, anche loro stessi andrebbero soppressi (secondo la loro logica autoritaria) dal momento che il 95% degli Europei non mangia biologico.

Tra poco sentirete come i soliti italioti useranno questi titoli per rilanciare l’idea che l’80% degli Europei vuole essere OGM-free ed i giornalisti che leggono i titoli e non le fonti originali si convinceranno di un trucco facile da smascherare.

fonte:  www.salmone.org/indagine-europea-bio-e-ogm/