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Young Market Lab: ecco l’innovazione sociale che rigenera le periferie

Se nel 1869, nell’opera L’Idiota, Dostoevskij scriveva che “la bellezza salverà il mondo”, oggi il positivo auspicio del grande interprete della letteratura russa potrebbe essere trasformato in un propositivo incoraggiamento: “le donne salveranno il mondo”. E non si potrebbe pensarla diversamente quando a Bari (ma potrebbe valere ovunque), per la rinascita sociale e culturale di “Carbonara” – una delle tante periferie del Sud nelle quali, spesso, le relazioni sono definite più dall’uso delle pistole che delle parole – ad attivarsi è una giovane ragazza. Determinata e appassionata, competente e intelligente. Lucia Abbinante, innovatrice sociale e project manager dell’Aps Kreattiva, con altre associazioni come Pop-Hub e ActionAid, ha deciso che il mercato coperto del suo territorio natio non poteva continuare ad essere parzialmente inutilizzato e sottratto ai giovani del quartiere disponibili a mettersi in discussione. Per questo ha ideato il progetto “Young Market Lab” e per conoscere meglio questa esperienza di innovazione sociale, perciò, abbiamo rivolto a Lucia alcune domande.

Come e con quali finalità nasce questa iniziativa che vede il coinvolgimento di una rete di associazioni? Come si sono sviluppate fino ad oggi le diverse fasi dell’iniziativa?

“Young Market Lab” (Yml) è un progetto di “place-making” nato con l’intento di portare la comunità giovanile ad occuparsi dello sviluppo del municipio IV di Bari catalizzando, in un posto sottoutilizzato come il Mercato Coperto di Carbonara, le energie urbane (quelle rimaste!) della città e del territorio di riferimento. L’idea ha previsto il coinvolgimento iniziale di cinque associazioni baresi, nazionali ed internazionali, come gestori di un processo di consultazione e co-costruzione del percorso di riattivazione. E, infatti, la prima azione intrapresa è stata quella di aprire lo spazio e di chiedere ai giovani cosa volessero farne per trasformarlo in un luogo strategico per il municipio e per la città. Nasce così YML: qualche pallet recuperato dall’AMIU e trasformato in salotto, cartoncini a colorare il grigiore dei muri mercatali e teste piene di buoni propositi. Successivamente alla fase consultiva, che con molto orgoglio ha tenuto anche conto dei bisogni espressi dai minori del Municipio, si è aperta una fase di empowerment attraverso lo scambio di pratiche con alcune realtà nazionali ed internazionali, attive anche in altre città nella riattivazione e costruzione di comunità attorno ad uno spazio pubblico. Dopo aver studiato i modelli applicati altrove, con la collaborazione del Comune di Bari – capofila istituzionale del progetto – è stata lanciata la fase della “Call for solution”: una chiamata ai giovani baresi per intraprendere attività nel mercato che soddisfacessero i bisogni espressi e creassero valore economico e sociale. Oggi siamo nell’ultima fase: esistono 5 team composti da under 35 baresi che si sono aggiudicati un premio di 10000 euro e che stanno muovendo i primi passi con noi nel mercato per intraprendere le loro attività e trasformare lo spazio.

Cosa vuol dire oggi agire per il “cambiamento”? Quali sono le sfide contemporanee, anche culturali, dell’innovazione sociale e come possono essere vinte in una città del sud e in una delle sue periferie?

Attraverso l’innovazione sociale, rendere equo l’accesso alle opportunità materiali, culturali e relazionali, perché tutti possano prendere parte ad una vita bella: questa credo sia la sfida contemporanea più importante da perseguire per poter parlare di un reale cambiamento o di azioni che mirino davvero ad una trasformazione impattante nella vita di ognuno. La povertà, per esempio, è un fenomeno reale al quale bisogna dare, collettivamente e corresponsabilmente, risposte sinergiche. Credo che il Sud sia un’officina naturale dell’innovazione pura: possiede risorse notevoli che stanno solo aspettando di essere utilizzate nel modo migliore, con tanti altri giovani pronti con tenacia a mettere in atto le procedure (lunghe!) per il cambiamento sociale. Una criticità, invece, soprattutto per le periferie, è l’accesso alle pratiche dell’innovazione sociale, ossia quella che io definisco “traduzione dell’innovazione”, per renderla alla portata di tutti e a tutti i livelli. L’innovazione, tuttavia, per essere davvero rilevante deve agire sui sistemi complessi e sovvertirli o migliorarli. E questo è un processo che richiede impegno, partecipazione, competenze e risorse finanziarie, oltre alla presenza di amministrazioni abilitanti e soggetti in grado di partecipare alle sfide.

Dopo circa otto mesi, quali sono le positività e le criticità di questo percorso collaborativo orientato a creare prima di tutto un nuovo senso di comunità e una nuova opportunità per i più giovani?

Tradurre l’innovazione, appunto. Raccontare ai mercatali, o a chi non ha mai sentito parlare di partecipazione, che insieme si può co-progettare una nuova visione strategica dello spazio pur non essendo operazione semplice, ma anzi essa richiede linguaggi adeguati e strategie diversificate. Quando si tratta di dover intraprendere un percorso di cambiamento di destinazione d’uso di uno spazio pubblico, coinvolgendo la comunità, occorre il tempo per consultare, comprendere, mediare, trovare soluzioni. Mettere le mani sulla cosa pubblica, del resto, è sempre una storia seria e complessa. Come difficile e articolo è stato il processo di innovazione del regolamento mercatale cui erano soggetti i box che abbiamo in affidamento. Oggi, però, possiamo raccontare una bella storia, con molti giovani che hanno scommesso su questo territorio e su questo spazio. Ed ora i residenti non vedono l’ora di vedere le serrande alzate e gli spazi rivitalizzati!

Quale dovrebbe essere o sarà il futuro di Yml?

Young Market Lab vuole diventare uno spazio collaborativo della comunità, nel quale le persone possano incontrarsi, scambiare idee-oggetti-saperi, apprendere cose nuove, interfacciarsi con i servizi pubblici (anagrafe, municipio, servizi di gratuità) e fruire di uno spazio bello e utile.

Su quali altri progetti stai lavorando? Quali sogni e speranze per il futuro?

Lavoro per un progetto di Associazione Kreattiva in collaborazione con l’Autorità Garante Infanzia e Adolescenza che si chiama SARAI ed è un network di radio gestite dagli adolescenti che si occupano di sviscerare temi attuali in chiave children. In generale mi batto perché tutti possano scoprire quanto la vita ha da darci e tutti possano trarre beneficio dalla cultura, dal potere di alcuni incontri, dalle scoperte di alcuni posti. Se vogliamo, possiamo abbattere le disuguaglianze e abilitare tutti al diritto di sognare, a scoprire e immaginare nuovi orizzonti.

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Dallo Stato la maggior parte dei finanziamenti per l’Innovazione sociale

Il rapporto del Ceriis (Università Luiss e Fondazione ItaliaCamp): le esperienze di innovazione sociale sono ancora scarsamente sostenibili dal punto di vista finanziario. Serve maggiore interazione tra profit e non profit.
Innovazione sociale al centro dell’attenzione con il secondo rapporto del Ceriis (Centro di ricerche internazionali sull’innovazione sociale), costituito all’interno dell’Università Luiss Guido Carli e sostenuto dalla Fondazione ItaliaCamp. Un documento che si pone l’obiettivo di comprendere e descrivere i principali modelli utilizzati nel nostro Paese al fine di realizzare progetti di innovazione sociale. Temi snocciolati anche nel corso di un convegno organizzato da ItaliaCamp e Agenzia Nazionale per i Giovani nei giorni scorsi alla Camera dei Deputati. Durante il quale, per intendersi, sono stati portati ad esempio di innovazione una società di consulenza a cavallo tra il profit e il non, ma anche una banca e una società che recupera abiti destinati al macero per dar loro una seconda vita.

La caratteristica di base dell’innovazione sociale è quella di soddisfare un bisogno collettivo, in maniera migliore di quanto fatto in precedenza. Ma quali sono gli interventi dei quali ha bisogno la società italiana? Assistenza sanitaria, assistenza sociale, integrazione sociale, formazione e inserimento professionale, cultura e valorizzazione dei beni culturali; miglioramento dell’ambiente e dell’eco-compatibilità delle attività umane, rivitalizzazione delle aree urbane e del territorio, mobilità sostenibile, sicurezza, sviluppo e condivisione di dati e informazioni, condivisione di beni, attività, conoscenze (sharing economy). Perché si faccia innovazione sociale, dunque, il pre-requisito fondamentale è comprenderne il contesto di applicazione e le possibili criticità.

Con l’analisi di 462 casi, il report insiste sulla tipologia innovativa dei progetti analizzati, che può essere di tecnologica o relazionale. “Nel campione”, dettaglia una nota, “non vi è una netta predominanza di una tipologia innovativa rispetto ad un’altra: relazionale (35%), tecnologica (35%), progetti caratterizzati da entrambe le innovazioni (30%). Tuttavia, la maggior parte degli attori intervistati considera quali elementi innovativi della propria offerta di innovazione sociale proprio la relazione, la collaborazione e lo scambio con gli altri attori evidenziando un probabile effetto delle relazioni sul successo dell’innovazione sociale”.

Per quanto riguarda invece la sostenibilità economico-finanziaria, la maggior parte delle iniziative risulta scarsamente sostenibile (54%). Quanto al finanziamento, il rapporto mette in luce che nel 2014 e nel 20151 sono stati stanziati fondi pari a circa 39 milioni di euro. Sono stati censiti nei 2 anni di riferimento un totale di 33 bandi, di cui 6 sono stati lanciati esclusivamente nel 2014 e 19 nel 2015: “La recente nascita del fenomeno necessita ancora del ruolo dello Stato come attore finanziatore dei progetti”, si dettaglia.

Investimenti per tipologia di attore e investimento medio
(cifre espresse in migliaia di euro)

Soggetto finanziatore Privato Pubblico Fondazione Totale

Totale investimenti 1.775 14.935 22.385 39.095
Totale in percentuale 5% 38% 57%
Numero finanziamenti 8 16 10
Media finanziamento 222 933 2.239

I protagonisti dell’innovazione si rivelano senza troppe sorprese le organizzazioni del non profit.
A livello di politiche da attuare, proprio la necessità di un dialogo tra mondo profit e no profit, che fino ad oggi si sono mantenuti sempre distanti, è risultata come centrale. E’ bene invece che i progetti a base etica trovino anche una loro sostenibilità economica.

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Indice-e-Prefazione-del-Secondo-Rapporto-sullInnovazione-Sociale




Periferie: sviluppo locale, innovazione sociale e sicurezza dei territori

Ne parlano:
Augusto Pascucci (UNIAT); Alfonso Pascale (CeSLAM); Marco Corsini (Avvocato dello Stato); Tommaso Capezzone (Giornale delle periferie); Giammarco Palmieri (PresV Municipio di Roma); Esterino Montino (Sindaco di Fiumicino); Sen. Stefano Esposito (Commissario PD Ostia); Padre Fabrizio Valletti (Coop. Soc. La roccia); Pino Galeota (Corviale Domani); Guglielmo Loy (Politiche territoriali UIL); Alberto Civica (UIL Lazio); Luciano Mocci (FederLazio); Alessandro Mauriello (CeSLAM); Leonello Tronti (Università Roma 3); Eugenio De Crescenzo (AGCI); Indra Perera (CNA World Roma); Laura Bongiovanni (Isnet); Umberto Croppi (Federculture Servizi); Angelo De Nicola (UPPI Lazio); Sergio Bellucci (NetLeft); Germana Cesarano (Magliana 80); Giorgio Benvenuto (Fondazione Bruno Buozzi); Paolo Masini (MIBACT); Andrea Masala (ARCI); Giorgio De Finis (MAAM); Massimiliano Valeriani (Regione Lazio); Aurelio Mancuso (Equality Italia)
Da tempo associazioni, comitati, università, gruppi di cittadini, italiani e non, provano a fare breccia nell’agenda delle varie istituzioni, lontane dai territori, chiedendo azioni concrete contro lo stato di abbandono e di sovraffollamento delle periferie. Secondo UNHABITAT (NAZIONI UNITE) il divario urbano che si sta creando tra la città ricca e quella povera è in aumento vertiginoso: 800 milioni di persone vivono negli slums (favelas,bidonville, baraccopoli) e circondano i centri residenziali dei ricchi sempre più protetti da guardie armate. La città europea moderna nella sua progettazione è stata attenta ad evitare condizioni di emarginazione di comunità e popolazioni mettendo molta attenzione alla vita sociale pubblica, ambientale e estetica dei territori urbani. Per queste ragioni negli anni passati si è discusso tanto sul “diritto alla città” e sulle motivazioni alla base della formazione delle disuguaglianze sociali (Henri Lefebvre – Diritto alla città – 1968). Negli ultimi decenni, però, la capacità di combattere le disuguaglianze è diminuita e oggi ci troviamo di fronte all’esplosione di conflitti sociali acuiti dal mancato riconoscimento delle diversità culturali e dall’assenza di strategie e politiche delle istituzioni pubbliche. Le ricadute sociali, economiche e politiche si evidenziano in programmi di governo caratterizzati dalla propaganda che orienta l’azione politica a respingere l’ immigrazione o a chiudere le frontiere piuttosto che a studiare politiche e programmi per attenuare il disagio e la separazione sociale. C’è bisogno di ricostruire la fiducia dei cittadini nei confronti del sistema politico e dei corpi intermedi e di ricomporre il rapporto tra istituzioni (regionali, nazionali ed europee) e società locale (intesa come comunità, società civile ed ente locale di prossimità) in cui le istituzioni mettono a disposizione la prospettiva e i mezzi dell’emancipazione e la società locale riaccende le sue tensioni al cambiamento e si riorganizza per trovare la strada e vincere la sfida dello sviluppo. In Europa le città inglesi, belghe e in primis francesi pagano da tempo i prezzi di queste scelte sbagliate e come si è potuto assistere tristemente nelle banlieue parigine e nei quartieri popolari londinesi e di Bruxelles, la questione dell’odio sociale ha favorito la crescita e l’insediamento di cellule criminali del terrorismo internazionale di matrice islamica connotando le periferie come habitat naturale per persone malfamate , pericolose e soprattutto diverse, quasi sub-normali. In Italia i programmi di rigenerazione urbana sono fermi agli anni 90, con i progetti Urban e al 2002 con i Contratti di quartiere, e il Piano Città dell’ex Ministro Lupi che non è mai decollato. Ciononostante le periferie delle metropoli italiane e soprattutto romane sono in continuo cambiamento, come segnalano Ilardi e Scandurra e guardare Roma è come osservare i mutamenti a livello nazionale. “Dalle borgate dei ragazzi di vita di Pasolini ai centri sociali occupati , dai territori abbandonati ai Rave illegali al movimento Ultras, fino agli anni 2000 con le tristi aggregazioni abitative sorte intorno ai giganteschi centri commerciali, le periferie romane sono state dei laboratori culturali, macchine formidabili che producono metropoli e i suoi potenti immaginari dove sono precipitati molto spesso i simboli dell’intera comunità nazionale” (M. Ilardi, E. Scandurra – Ricominciamo dalle Periferie – 2009).
MATERIALE
Relazione di Alfonso Pascale (CeSLAM)



Rigenerazione urbana e innovazione sociale

Un ossimoro?
Negli ultimi anni in Italia e più in generale in Europa si è assistito ad un proliferare di iniziative dal basso che si descrivono e vengono descritte come motori di rigenerazione urbana. Esperienze di autorganizzazione, forme di impresa sociale, professionalità ancora non ancora “codificate” e competenze variegate che si mettono in gioco come agenti di sviluppo territoriale. In molti casi c’è uno spazio fisico da rigenerare che fa da “innesco”, in altre situazioni parliamo di riattivazione di spazi già in uso ma che necessitano di nuova linfa per diventare sostenibili (pensiamo ad alcuni comuni in spopolamento o ai centri storici in crisi).

Progetti che interessano un quartiere, parti di città, ma allo stesso tempo le città nel loro complesso.
In Italia proliferano esperienze di questo genere. A Milano possiamo prendere ad esempio KCity, società che “riunisce competenze multidisciplinari per l’innovazione urbana e lo sviluppo integrato del territorio” oppure il caso di Ex Ansaldo che ha visto la collaborazione tra soggetti privati e not for profit e l’amministrazione comunale per l’avvio di uno spazio creativo nel cuore della città. A Torino pensiamo allo sviluppo della rete delle Case di Quartiere come esito di un processo di policy di lungo periodo e che ha visto una collaborazione virtuosa tra pubblico e privato not for profit. In Puglia l’esperienza Bollenti Spiriti che sembra aver lasciato sul territorio e all’interno delle istituzioni competenze inedite e capacità di cambiamento.

Tali progettualità si sviluppano in un contesto sociale e urbano in profondo mutamento: in Europa assistiamo oggi ad un rapido aumento della polarizzazione sociale e spaziale (Marcuse; van Kempen, 2000; Van Haam, 2015). In quartieri sempre più caratterizzati da diversità (culturali, sociali, di classe, di atteggiamenti) si sovrappongono complesse questioni sociali come povertà ed esclusione sociale o concentrazione delle provenienze nazionali. Allo stesso modo, complice soprattutto la crisi ma non solo, la capacità dello Stato di rispondere a bisogni emergenti è fortemente limitata. È sicuramente in crisi il sistema di welfare ma lo è anche la capacità del pubblico di attivare processi virtuosi che sappiano riprendere in carico e quindi rigenerare spazi fisici e sociali in disuso, senza identità, in degrado.

È in questo contesto che pratiche professionali e forme di rivendicazione sociale entrano in sinergia, nella maggior parte dei casi a partire da una conoscenza diretta del luogo e mettendo al centro una dimensione operativa, più che analitica, dell’agire professionale. Sono regimi di azione che vedono la partecipazione di soggetti eterogenei e dove l’iniziativa privata trova spazio in particolare in un momento di crisi di ogni forma di investimento pubblico.

Alcune questioni rimangono aperte e sono in continuo dibattito quando ci occupiamo di rigenerazione urbana e innovazione sociale. Quali sono le ricadute socio-spaziali di tali azioni di rigenerazione dal basso? Cosa significa, associata a tali pratiche, il termine innovazione sociale? Quale la relazione tra iniziative dal basso e istituzioni? Quando parliamo di soggetti privati, a che tipo di privato ci stiamo riferendo? Questo breve articolo propone alcune riflessioni su questi temi.

Mi soffermerò in particolare sulla relazione tra pratiche dal basso e istituzioni. La letteratura sull’innovazione sociale che trovo più interessante sostiene che tali spinte siano socialmente innovative se dirette a modificare sia l’agire dei soggetti che si muovono dal basso sia delle istituzioni. Il rapporto di mutuo apprendimento tra “basso” e “alto” può infatti da un lato riconoscere l’emergere di nuovi arrangiamenti istituzionali, formali e informali, dall’altro generare processi di upscaling per ampliare progressivamente in senso universalista le richieste e i riconoscimenti (Boltanski, Thévenot, 1991).

Senza rapporto, non per forza pacificato, con le istituzioni a mio parere tali pratiche dal basso rischiano di mancare di sostenibilità e di peccare di “privatismo”.

Un recente contributo di Paola Savoldi entra nello specifico di questo punto problematico: l’autrice sostiene che una pratica è pubblica se promuove l’accessibilità di pubblici diversi, se le sperimentazioni (spaziali e sociali) si aprono ad usi e fruibilità esterne e non della sola comunità che le ha prodotte. Una pratica è pubblica se è capace di produrre beni e servizi anche per chi non ha direttamente attivato tale sperimentazione (Ostanel, Iannuzzi, 2015).

Alcune città, dopo l’esempio di Bologna, hanno approvato il “Regolamento per la gestione dei beni comuni”, patti di collaborazione che regolano gli interventi di cura occasionale da parte dei cittadini, di gestione condivisa di spazi pubblici o di spazi privati ad uso pubblico, interventi di rigenerazione di spazi collettivi (ivi, 2015). Possono questi momenti di produzione normativa essere momenti di apprendimento collettivo? Quando invece hanno l’effetto di delegare al privato la risoluzione di problemi sociali complessi e che necessiterebbero di un nuovo sistema di welfare?

Se pensiamo che il rapporto di apprendimento per e con le istituzioni sia importante ci troviamo quindi a dibattere sul tipo di figura professionale che solitamente facilita processi di rigenerazione urbana dal basso. È questa figura un tecnico? Ha invece una responsabilità politica nel fare città dal basso in particolare in città sempre più caratterizzate da polarizzazione sociale?

Il tema di cui stiamo trattando ha rilevanza anche per l’agibilità in termini di risorse e finanziamenti. Pensiamo ad esempio all’ultimo bando culturability promosso dalla Fondazione Unipolis che ha finanziato “proposte innovative con l’obiettivo di riqualificare spazi urbani abbandonati o degradati, creando occasioni di rigenerazione urbana e di sviluppo a vocazione culturale”.

Uscendo dal contesto nazionale, nella nuova programmazione Europea 2014-2020 si assiste in generale ad un rafforzamento dell’approccio place-based e di sviluppo urbano integrato che chiede di agire simultaneamente in settori di intervento trasversali (es. capitale umano, inclusione sociale, innovazione, politiche energetiche, ambiente e smart building).

La città, affrontata e letta secondo un approccio integrato, ha un ruolo centrale nella nuova Politica di Coesione. Pensiamo che le città italiane potranno accedere, tra il 2014 e il 2020, a fondi europei per la rigenerazione urbana per almeno 1,05 miliardi cui si andrà ad aggiungere una quota di cofinanziamento nazionale (fonte AUDIS).

Una rinnovata attenzione al tema della rigenerazione urbana quindi, ma in un contesto sociale in profondo cambiamento e all’interno di una mappa degli attori sempre più complessa. Quali competenze devono essere mobilitate affinché tali spinte dal basso siano motori di sviluppo territoriale sostenibile? Come favorire la coesione sociale di territori in crisi senza generare fenomeni di esclusione? Quali sono gli inneschi da mobilitare per riattivare uno spazio pubblico in disuso? E quali le professionalità/sensibilità da coinvolgere? Quale la capacità mobilitante dello spazio e dei suoi abitanti?

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Un altro social possibile

Se per Freud il retaggio del passato costruisce incrostazioni falde e trabocchetti nell’inconscio, l’odierno tecno-inconscio collettivo si nutre della nostra libidine esibizionistica e voyeuristica.
Ma noi che sappiamo che il tecnico è politico vogliamo destrutturare un modello in cui moltitudini condividono pensieri foto video da cui ristrettissime élite estraggono valore tenendolo tutto per sé.
La teoria base del plusvalore c’insegna che bisogna costruire nuovi modelli di estrazione di valore perché i produttori di senso si riapproprino del frutto della propria creatività.
E’ come se qualcuno avesse messo a disposizione del genio di Van Gogh tele pennelli e colori e in cambio divenisse in automatico possessore e gestore delle sue opere.
Il cambio di paradigma necessita della riappropriazione dei mezzi di produzione da parte di utenti/produttori.
Ora che internet esce dalle nuvole ed entra nelle cose la produzione di informazioni produrrà direttamente oggetti d’uso.
Il salto sarà quindi da consumo ad uso: altro che condivisione.

stampante 3 D che costruisce case

stampante 3 D che costruisce case




L’innovazione sociale e le nuove forme dell’abitare

Oggi leggendo i giornali sembra che tutti abbiano finalmente capito che si riparte solo se si ricomincia a pensare, a studiare, a progettare.
Superate ormai – di fatto – le secche della riforma costituzionale, acquisita la possibilità finanziaria (col PIL tendenziale intorno al +1%) dell’abolizione della Tasi per la prima casa, gli editorialisti più lungimiranti pongono la vera questione in essere: come ricostruire su basi solide non solo la fiducia dei consumatori, ma anche e soprattutto un modello complessivo di rilancio.
Comincia Francesco Grillo in “Dai populismi la sorpresa di un nuovo ciclo politico” sul Messaggero che lancia il grande tema delle “tecnologie che…trasformano buona parte della crescita economica in incrementi di produttività e rischiano di cancellare milioni di posti di lavoro nei servizi”.
Maurizio Ferrera in “Il pensatoio che manca per costruire la terza via all’italiana” sul Corriere punta sul “paradigma dell’investimento sociale…strategia che vede nelle politiche sociali e nell’istruzione la leva del cambiamento”.
Istruzione su cui punta anche Marta Rapallini in “Una formazione politica per una nuova identità” sull’Unità “Bisogna restituire valore alla conoscenza…ripartire dalla formazione per tutti e non solo per le giovani generazioni”.
Letta in questa sequenza la sostituzione di posti di lavoro tradizionali con nuove professionalità legate alle competenze ed ai servizi ad alto valore aggiunto è strettamente legata ad una politica della conoscenza che non può essere calata dall’alto, ma va legata alle vocazioni territoriali e deve partire dalle esigenze locali.
Finora l’innovazione tecnologica si è fermata al consumer senza entrare nella vita quotidiana reale.
Si sono sovvertiti soprattutto il telefono e il computer, ora la rivoluzione riguarda la tv e la mobilità (vedi), il prossimo settore da sovvertire sarà quello dell’abitare.
Una rivoluzione che coinvolgerà l’internet delle cose e le stampanti 3D.
Ma il ribaltamento di paradigma necessario perchè questa prossima rivoluzione non abbia solo un profilo consumer con relativa perdita di posti di lavoro (dall’edilizia all’industria del mobile) risiede nella capacità di coinvolgere gli attori (sia inquilini che proprietari) nella trasformazione degli immobili da fonti di spesa (e d’impoverimento) a produttori di reddito.
Gli edifici possono diventare centri di produzione di energia, di alimenti, di acque, di compost, di materiali da riciclo nonchè centrali di recupero delle polveri sottili.
Una tale trasformazione, con gli ampi spazi occupazionali conseguenti, può davvero dare vita a quell’innovazione sociale necessaria alla fuoriuscita dalla crisi.




Da Mafia Capitale all’innovazione sociale

Di fronte al progressivo impoverimento generale, alle diseguaglianze economico-sociali, alle conseguenti tensioni di ordine pubblico, all’incapacità degli Stati di far fronte ai nuovi bisogni, oggi non basta ripensare le politiche sociali: serve, piuttosto, rivedere completamente il modello di sviluppo.
Lo hanno capito già Paesi come Gran Bretagna, Usa, Canada e Australia, che da alcuni anni hanno cominciato a introdurre il concetto di innovazione sociale alla base delle proprie scelte. Ciò ha significato ribaltare il concetto stesso di “politica sociale”, concepita non più come intervento settoriale e limitato a una parte minoritaria di cittadini, quelli colpiti da povertà e altri disagi: il sociale riguarda tutti, perché attiene allo sviluppo equilibrato di una intera comunità. La politica, infatti, non deve preoccuparsi solo di soccorrere gli ultimi, ma di fare in modo che ce ne siano sempre meno.
Come? Attraverso quelle politiche che vanno sotto il nome di social impact innovation, in cui il punto di vista è completamente rovesciato rispetto al passato. Lo Stato, infatti, non è più chiamato a risolvere ogni problema, né a farsi sostituire da soggetti privati e da no-profit, quanto, piuttosto, a diventare uno degli attori in gioco, insieme a investitori privati, intermediari finanziari, organizzazioni no-profit. Il risultato è uno Stato capace di spendere di meno, fare di più e meglio, creare benessere per tutti all’interno di una comunità.
Non si tratta di un’utopia, ma di una sperimentazione coraggiosa già avviata con il nome di Social Impact Investing: la finanza rapace comincia a diventare paziente e sostenibile, in quanto si pone come funzionale non più solo all’interesse privato ma anche a quello pubblico.
Naturalmente, questo non significa che gli investitori speculativi stanno diventando improvvisamente buoni, ma che si sono accorti di una doppia convenienza: scegliere il social impact investment, infatti, significa sia fare investimenti ad alto tasso di decorrelazione (meno soggetti al cosiddetto rischio Paese) e quindi meno volatili, sia guadagnare in termini di qualità della vita nella propria comunità.
L’innovazione a impatto sociale è una sfida per la cultura italiana, abituata a pensare la spesa sociale come un costo improduttivo, mentre, al contrario, può diventare generatore di benessere per la comunità e di crescita per l’economia, con un effetto moltiplicatore di posti di lavoro e, conseguentemente, di domanda interna.
Un esempio di investimento a impatto sociale sono le obbligazioni a impatto sociale, i cosiddetti social impact bond: nel Regno Unito è già stato sperimentato con successo nel settore carcerario già nel 2010. La nostra proposta è di seguire quell’esempio, magari coinvolgendo Cassa Depositi e Prestiti.
Del resto, anche la Commissione Europea ha cominciato a muovere i primi passi in questa direzione, istituendo una disciplina regolatoria e un sistema di certificazione e accreditamento per i fondi di Venture Capital sociali europei. Inoltre, ha deciso di istituire un fondo, denominato European Social Investment and Entrepreneurship Fund (ESIEF), con una dotazione di 90 milioni di euro.
Per quanto qualcosa si sia mosso anche in Italia, non si segnala ad oggi alcuna discontinuità significativa nella programmazione delle politiche sociali, improntate ancora allo schema tradizionale secondo cui è lo Stato a provvedere alla copertura della spesa sociale, mentre i privati investono altrove, salvo poi compensare con elargizioni filantropiche. Né può più essere considerata innovativa la delega in bianco che lo Stato consegna a soggetti no-profit per lo svolgimento di molti servizi.
Per questo abbiamo spinto affinché la nostra proposta, all’insegna dell’innovazione sociale, venisse recepita in una mozione parlamentare (1/00729), depositata alla Camera dei Deputati lo scorso febbraio.
Spazzare via corruzione e ruberie non passa certo dall’arruolamento di magistrati nei governi dei diversi livelli territoriali, quanto dal ripensamento del ruolo stesso del pubblico. Cosa dice il governo su questa che potrebbe diventare una riforma epocale del sistema di welfare?

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