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Mafia Capitale: una slavina o un sistema?

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Lo sviluppo di Mafia Capitale precipita con la cadenza di una slavina, ad ogni alzo di temperatura si porta via una parte dell’esistente, della nostra struttura sociale a cui molti si sono abituati, altri addirittura ci sono nati, e di cui non riusciamo, forse, a discernere i confini. Ci vuole una tendenza visionaria per provare “a vedere dentro” tanto sconforto.

Come sempre la Politica cerca di prendersi le prime pagine e, tante attenzioni, sono giustamente dedicate a chi ha assunto una responsabilità pubblica e con questa una visibilità e quindi una inevitabile critica anche dura sulle scelte e sugli operati.

Ma questa volta la Politica non è sola, è raggiunta da un altro protagonista, un Terzo Settore che spesso fa da grillo parlante partendo da una propria posizione in favore dei deboli e, con grande mio personale dolore, da una Cooperazione Sociale che nella sua proposta sfida il mercato, le logiche della competizione e della concorrenza in un confronto serio che propone strumenti economici diversi, letture del territorio, scelte comunitarie, insomma tutto il contrario del sentimento che ci portiamo dietro dagli anni ’80 e dalla scuola di Chicago, che hanno tifato per individualismo e competizione con risvolti di voracità: ricordate il film Wall Street in cui Gekko Gordon consiglia: “se vuoi un amico prenditi un cane”?

Questo confronto, che diventa nel panorama globale una guerra economica qualche volta guerreggiata tra i territori deboli e quelli forti e ricchi, per la produzione di alimenti o lo sfruttamento energetico o l’applicazione della Carta dei Diritti dell’uomo, per una scuola libera e diffusa o per sanità che sia cura, nel nostro piccolo, nella piccola Italia terra di frontiera, diventa vicenda del confronto, che coinvolge tutti, ci attraversa dentro e quotidianamente ci mette in contatto con le nostre contraddizioni – vedi l’evento della migrazione – arricchendosi di un nuovo protagonista, in altri luoghi non così preponderante: la Pubblica Amministrazione.

Siamo uno Stato giovane, arrivati in fretta ad una maturità ancora non sbocciata e, forse, l’ evoluzione delle coscienze e delle società presenti su un territorio nazionale così variegato e con tante diversità e provenienze antichissime, ci ha complicato l’esistenza e reso incerta e difforme una intelaiatura di servizio che in altri paesi appare certa e funzionante.

Di questa mancanza si parla poco. Mancanza di certezza, mancanza di paritetica valutazione e applicazione, di un uso strumentale dei poteri pubblici a vantaggio o a svantaggio di alcuni.

Personalmente credo invece che sia fondamentale una analisi impietosa, una rigenerazione profonda dei sistemi e degli organici, una rivisitazione delle responsabilità e dei privilegi. Se la macchina pubblica, quindi di tutti, produce incertezza e ingiustizia non sarà possibile richiamare i cittadini ai loro doveri prima che ai loro diritti.

Allego di seguito una valutazione che mi è arrivata da un amico che ha avuto ruoli importanti nella P.A. che racconta da dentro la mutazione dell’organismo/apparato della P.A. sviluppatosi negli ultimi quaranta anni. Mutazione innestata all’inizio da una degenerazione della Politica ma poi, rapidamente, vissuta in proprio con proprie autoreferenti visioni.

“…A guardia della cassaforte, si fa per dire, ci sono i guardiani-ladri, che alcuni insistono a chiamare “burocrati”. Senza di loro, i clientes beneficiari e i politici donatori sarebbero impotenti, privi di braccia operative. Chiaro, chiarissimo, quindi, che i primi pretendano di partecipare al banchetto gratuito: i soldi sono di tutti e, quindi, di nessuno. Ovvero: a portata di furto e di borseggio da parte di tutti coloro che hanno il potere di firma sugli atti contabili degli enti pubblici appaltanti. I controllori (teoricamente, chi fa le leggi!), nel loro caso, conoscono benissimo il detto “l’occasione fa l’uomo ladro”. Ed è per questo che hanno cercato un rimedio preventivo alla disonestà umana ingabbiando i controllati in una rete fittissima di norme primarie e secondarie, che rendessero trasparenti procedimenti e procedure delle gare di appalto per lavori e servizi.

Con l’ovvia conseguenza che, da un lato, si è facilitato l’ingigantimento degli organici di personale pubblico per la complessa gestione (contenziosi compresi, che rallentano di anni la costruzione di un’opera pubblica!) di quella selva fittissima di norme. D’altra parte, si sono trovati mille e uno modi per sfuggire alle suddette maglie strette della legge, ricorrendo ad esempio ad affidamenti diretti e proroghe “ad perpetuum” a beneficio dei soggetti amici di burocrati e politici. Ovvio, quindi, che i beneficiari, del tutto illecitamente favoriti rispetto alla concorrenza, a loro volta costruiscano una rete fittissima di scambi di favori e di relazioni interpersonali, che non hanno nessun discrimine politico-ideologico.

Vanno bene tutti (le amministrazioni possono cambiare di mano, purché i mediatori e percettori di denaro pubblico restino sempre gli stessi!), perché il vero bandolo della matassa è saldamente in mano, sempre e comunque, alla dirigenza burocratica apicale e intermedia, che vive della manna delle ricadute economiche originate dalle dazioni ambientali, capillari e insostituibili. Si deve dimettere, quindi, Marino? Per me, non avrebbe mai dovuto essere eletto, talmente si è rivelato non all”altezza delle situazioni! Ma la verità del ragionamento sostanziale è un’altra: come e perché i burocrati corrotti perdono magari l’incarico, ma mai il posto e lo stipendio? Quali folli norme difendono costoro? Quando si metterà mano, in Costituzione, per equiparare lavoro pubblico e privato, liberando così lo Stato da un’enorme zavorra di pesi morti? “

Eugenio de Crescenzo

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