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I cittadini rom e le periferie romane

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C’è un’anomalia tutta romana in una gestione tanto problematica della condizione abitativa dei Rom. Non è così altrove e non esistono serie motivazioni “originarie” o “culturali” perché si continui a fare danni sociali e a favorire l’arricchimento delle mafie, la discriminazione e la crescita di tensioni esplosive. Il superamento dei campi e della devastante logica emergenziale che li ha accompagnati per decenni è possibile. Richiede però determinazione e scelte politiche coraggiose. Tra gli interventi prioritari, c’è naturalmente la sottrazione a una gestione corrotta e criminale di fondi che vanno destinati ai quartieri perché attuino politiche di inclusione e convivialità attraverso soluzioni abitative destinate anche alle popolazioni rom. Va affermato uno spirito non discriminatorio che sviluppi una condizione di uguaglianza dei diritti e dei doveri. Qualcosa comincia finalmente a muoversi “dal basso” anche nelle periferie della capitale. Se ne parlerà in un ciclo di incontri che comincia il 13 marzo

L’abbiamo visto nelle recenti vicende di cronaca: la cosiddetta emergenza Rom é servita a inscenare campagne politiche allarmistiche e a finanziare imprese o finte cooperative che lucravano in modo spietato e indecente con lo stesso stile che avrebbero tenuto per lo spaccio di eroina. In alcuni casi, poi, i finanziamenti possono essere ricondotti alle mafie o a grossi e avidi interessi legali sul sociale. Né i Rom, né i cittadini hanno avuto la possibilitá di esprimersi sui modello segregante dei campi. I primi sono stati spostati da una parte all’altra come fossero pecore, i secondi hanno visto arrivare i campi senza essere né coinvolti né consultati finendo per subire tutte le conseguenze legate al degrado di queste sistemazioni.

Questo modello di gestione abitativa della popolazione rom, è un’anomalia tutta romana perché in altre zone d’Italia, e sopratutto d’Europa, esistono esperienze d’inclusione sociale di ben altro livello. Gli esempi europei sono molti, in Spagna – per citarne uno – i Rom hanno acesso alle case popolari. Senza andare tanto lontano, possiamo però guardare a cosa ha fatto la Regione Emilia Romagna, e in particolare la cittá di Bologna, per superare i “campi profughi”. come venivano chiamate un tempo quelle strutture, essendo state pensate e istituite per accogliere i profughi dalla guerra dei Balcani.

Insieme all’Università di Bologna, la Regione ha lanciato la proposta di un percorso di elaborazione per una nuova legge regionale su Rom e Sinti, in sintonia con la Strategia Nazionale d’Inclusione. L’obiettivo era iniziare a considerare i Rom dei cittadini italiani a tutti gli effetti, con pieni diritti e pieni doveri. Così, negli ultimi anni, a “Bologna, Ferrara, Modena, Piacenza e Reggio Emilia (…) sono stati sperimentati progetti di accompagnamento “fuori” dal campo, verso diverse forme dell’abitare: dalla microarea al terreno privato, all’appartamento (di edilizia pubblica e privata)”. Assunta la responsabilità di chiudere i campi e superare gli effetti devastanti di anni di politiche discriminatorie, sono stati gli enti locali a commissionare all’Università di Bologna studi dettagliati sulle popolazioni rom del territorio finalizzati a comprendere come innescare processi partecipativi e plurali di cambiamento. E’ cominciata, dunque, una raccolta dati sull’età, la provenienza, le competenze, i desideri di questi gruppi. L’analisi dei contesti sociali ha poi consentito la ricerca di soluzioni innovative per attuare politiche virtuose.

I progetti sull’abitare sperimentati in Emilia-Romagna sono diversi a seconda del contesto e della tipologia degli insediamenti della popolazione rom e sinti. “Tenendo distinte le esperienze di realizzazione delle microaree (Modena e Reggio Emilia) – cui abbiamo deciso di accostare l’acquisto di terreni privati da parte dei sinti – dai percorsi di inserimento delle famiglie in appartamento (si tratta per lo più di alloggi ERP) a Piacenza e Ferrara. Il progetto di Bologna – a differenza di quelli realizzati negli altri comuni – non riguarda la comunità dei sinti ma la popolazione dei rom e, in particolare, si riferisce alla chiusura dei campi allestiti per i profughi che all’inizio degli anni ’90 sono arrivati nel territorio bolognese”.

“In alcuni periodi degli anni ’90, nel campo di Modena sono state presenti più di 300 persone, tutte appartenenti alla comunità sinti (Puggioli, Santorso 2009, 215). Il racconto di un sinto che ci abitava ben evidenzia le condizioni di degrado, i disagi della convivenza forzata – qual è quella in un campo – e gli effetti di stigmatizzazione che derivano dall’essere identificati come “gli zingari che abitano nel campo”: «In un campo, anche con dei muretti, ci sarà sempre del degrado e della confusione. Pensate a come stavamo a Baccelliera, dove non si poteva dire niente al vicino se teneva la musica alta, e per qualsiasi cosa si finiva per litigare. Poi Baccelliera ha rotto la fiducia della città nei nostri confronti. Se qualcuno veniva a fare danni, la cosa ricadeva su tutti. I gagi del quartiere smettevano di sopportarci come se fossimo tutti uguali. Chi mi faceva credito o chi mi parlava con confidenza, smetteva: non ero più una persona ma “uno di loro”» (in Puggioli, Santorso, 2009 219)”. (Lugli & Crocitti: 2013).

La ricerca è estremamente interessante soprattutto perché gli amministratori, dopo molti anni di convivenza, decidono di valorizzare la memoria collettiva dei sinti che abitavano insieme alle popolazioni emiliane senza discriminazioni pesanti, e propongono di ritornare ad un sistema di parità in forma graduale, anche modificando i servizi sociali esistenti: “Tutelare il diritto alla casa dei cittadini sinti e proseguire nel percorso verso la loro autonomia richiede l’elaborazione di politiche integrate «in cui ci si assuma delle responsabilità» il tema dei nomadi «è sempre stato considerato un problema dei servizi sociali e non del sociale» (MO 1).

Anche al fine di superare logiche di assistenzialismo, i progetti non devono essere pensati come interventi “speciali” per le minoranze rom e sinti. E’ sufficiente che siano programmati secondo il principio di uguaglianza sostanziale e di equità”. Da quando il campo è stato chiuso, la figura degli “operatori dei nomadi” – le persone assunte dal Comune per svolgere attività di accompagnamento e sostegno alla transizione dal campo alle diverse formule abitative – non esiste più. Ci sono degli operatori comunali che svolgono compiti «a metà via tra l’amministratore di condominio e il portiere sociale» (MO 1); si tratta di azioni a supporto delle famiglie sinti in difficoltà non diverse da quelle previste per tutti i cittadini che si trovano in condizioni di disagio.

Questo non è stato semplice da accettare per alcune famiglie sinti che chiedevano perché gli operatori non facevano più l’iscrizione dei loro figli a scuola. E’ stato un cambiamento radicale, gli operatori spiegavano di essere disposti ad accompagnarli una volta per far vedere loro come funziona ma che poi, come normali cittadini, i Sinti dovevano imparare a farlo da soli. Nascono così figure di operatori di quartiere che mediano nelle relazioni quotidiane per far acquisire competenze alle persone ma non per sostituirsi ai Sinti nella relazione con il mondo esterno. Le seconde generazioni evidenziano il cambiamento: le persone sono completamente autonome e quasi tutte diplomate.

Il Piano integrato di Bologna per il superamento dei campi

Vogliamo focalizzare ora l’attenzione sul Piano Integrato di Bologna perché si parla di ambiti più simili a quelli delle periferie romane. Ne sono però anche lontani, vista l’accumulazione virtuosa di servizi sociali diffusi che in Emilia si verifica da anni. A Bologna, l’apertura dei campi è avvenuta in seguito a due flussi migratori che hanno determinato una situazione di “emergenza”: il primo è quello dei profughi in fuga dai Balcani degli anni ’90, il secondo è quello dei Rom rumeni dell’inizio del 2000, dopo l’ingresso della Romania nell’Unione Europea. Anche se i campi si sono poi trasformati nel modello amministrativo di gestione e controllo delle minoranze di cui si è già detto. Si consideri, infatti, che la chiusura dei campi è del 2008, quasi vent’anni dopo l’arrivo dei primi immigrati. In questo caso, i percorsi di uscita dal campo (…) sono complicati dallo status giuridico dei Rom: in quanto cittadini stranieri, per loro si pone il problema della condizione di regolarità sul territorio italiano connessa al rilascio dei documenti di soggiorno.

Nella prima metà degli anni ’90, il Comune realizza due “strutture pubbliche di prima accoglienza” per le popolazioni, rom e non rom, in fuga dalla guerra nei Balcani: il campo profughi di Pianazze (Sasso Marconi), aperto nel 1994 e quello di Trebbo (Castel Maggiore), aperto nel 1995. Nei dieci anni successivi, i campi si trasformeranno da soluzioni “emergenziali” a luoghi “permanenti”. All’inizio del 2000, inoltre, il Comune effettua lo sgombero di alcuni “insediamenti abusivi” di Rom, soprattutto rumeni e slavi, lungo le rive del fiume Reno, «in quanto luoghi ad alto rischio sanitario e di ghettizzazione e caratterizzati da forte conflittualità con la popolazione residente nel territorio» (Extrafondente 2011, 83). Le persone sgomberate vengono provvisoriamente alloggiate nel campo di Santa Caterina e, successivamente (nel 2006), trasferite nella Residenza Sociale Transitoria Gandhi di via del Piratino. La Residenza era un campo attrezzato con 16 container dove, prima dell’arrivo dei Rom, alloggiavano dei lavoratori pakistani. Nel 2005, l’ex clinica Villa Salus viene adibita a luogo di residenza temporanea per i Rom sgomberati dal Ferrhotel – che era stato occupato da un gruppo di rumeni. (Lugli & Crocitti: 2013).

Dopo l’approvazione della legge regionale n.5/2004 “Norme per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati”, che si proponeva tra l’altro di «garantire ai cittadini stranieri immigrati pari opportunità di accesso all’abitazione…[e] rimuovere eventuali condizioni di marginalità» (art.1), l’amministrazione comunale di Bologna inizia, nel 2005, la progettazione di interventi che mirano alla chiusura dei quattro campi profughi e alla predisposizione di percorsi individuali di trasferimento delle famiglie in soluzioni abitative non emergenziali (Extrafondente in Lugli & Crocitti: 2013). Nel “Piano d’azione straordinario per il superamento delle strutture di accoglienza d’emergenza temporanea e per l’accompagnamento e la mediazione sociale a supporto dell’integrazione dei soggetti in uscita”, approvato dal Comune nel 2007, si fissano le linee guida per il superamento dei campi.

Le soluzioni adottate sono state molto diverse

L’assegnazione di alloggi di edilizia pubblica residenziale; il trasferimento in strutture pubbliche; la stipula di contratti di sublocazione da parte del comune o contratti di locazione sul mercato privato; il rimpatrio volontario assistito – attraverso il progetto ROI (Ritorno Operativo Imprenditoriale) o il trasferimento all’estero. (Anci, 2010). Tra i vantaggi di questa soluzione abitativa (a differenza, ad esempio, dell’assegnazione di alloggi ERP) vi sono l’aver evitato concentrazioni di famiglie rom in determinati quartieri e l’aver mantenuto basso il livello di conflittualità con il vicinato.

Di non secondaria importanza è anche il risparmio dell’amministrazione comunale. Infatti, «la spesa a sostegno delle 53 famiglie beneficiarie del Piano è pari al costo di gestione di una sola della quattro strutture Si sottolinea la particolarità dell’approccio adottato dal Comune di Bologna: non una soluzione “calata dall’alto” ma un accompagnamento delle famiglie «nella ricerca della loro futura abitazione in maniera autonoma, di modo che potessero prendere coscienza fin da subito dei costi, delle spese e delle zone in cui sarebbero andati a vivere» (Piantoni in Lugli & Crocitti: 2013)

Al trasferimento sono stati affiancati operatori che hanno realizzato in anticipo corsi di lingua per adulti e giovani; corsi di economia domestica (capire la relazione con i condomini, luce, gas, acqua, tasse, servizi); incontri per comprendere i servizi in zona, capire a cosa servono e come utilizzarli e per accompagnare i genitori nell’inserimento scolastico, rendendoli autonomi nel confronto della scuola. Un aspetto importante è stato quello di seguire il progetto con borse di lavoro e formazione, consapevoli che richiedere di pagare un affitto senza un mezzo di sostentamento sarebbe stato fallimentare.

Gli operatori che si sono occupati dell’accompagnamento dal campo alla casa indicano due dei principali elementi che hanno rallentato i processi d’inserimento: la mancanza di decisioni politiche dovute al commissariamento del Comune e la crisi economica (Extrafondente in Lugli & Crocitti: 2013). Ulteriori punti critici sono emersi nella realizzazione del progetto e possono valere come proposte per la programmazione di futuri interventi: «Occorre investire più energie sull’alfabetizzazione degli adulti e sull’educazione civica e domestica, perché in alcuni casi l’inserimento nel mondo del lavoro risulta arduo non per mancanza di volontà delle persone da inserire ma per non possedere gli strumenti, le competenze e le capacità indispensabili e minime; occorre, insieme, preparare il vicinato alla nuova convivenza affinché un vero dialogo sia possibile, nella convinzione che la conoscenza reciproca aiuti a smorzare i pregiudizi e i conseguenti conflitti» (Extrafondente in Lugli & Crocitti, 2013).

Il Comune di Bologna si è occupato dei Rom anche all’interno del progetto europeo “Roma-net”, avviato nel 2009 e concluso con l’elaborazione del “Piano di azione locale per l’inclusione sociale delle persone rom e sinti 2013-2014”. Con riferimento specifico al tema dell’abitare, a partire dal confronto tra la realtà italiana e quella di altri Paesi d’Europa (Spagna, Ungheria, Francia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Slovacchia, all’interno di Roma-net si sono individuati alcuni punti chiave, quali la riduzione della segregazione fisica e sociale dei Rom, del sovraffollamento e delle degradate condizioni abitative, dello sfruttamento dei Rom da parte dei locatari privati, degli insediamenti “irregolari” e pericolosi per i Rom.

Di conseguenza, si sottolinea come le politiche locali debbano tendere a: favorire l’accesso a forme abitative adeguate, assicurare l’accesso ad una vasta gamma di abitazioni, aumentare la qualità degli alloggi sociali e dei servizi pubblici e garantire la sostenibilità dell’alloggio. Costituiscono obiettivi specifici del Piano: la «capacità del sistema locale di realizzare politiche per l’inclusione sociale dei gruppi rom e sinti» e in questa direzione si prevedono: la creazione di una “rete per l’inclusione sociale” composta dai «rappresentanti delle istituzioni e delle realtà più significative del Terzo e del Quarto settore»; la «costituzione di gruppi di lavoro tematici» dedicati all’abitare, alla formazione, al lavoro e all’Intercultura e l’antidiscriminazione; la «costituzione di un Osservatorio sulle politiche di inclusione sociale» che consenta di raccogliere, analizzare e diffondere «i dati necessari alla costruzione di politiche basate sulle evidenze e centrate su un approccio realistico»;
- l’aumento della partecipazione di rom e sinti nella costruzione delle politiche d’intervento e nei processi decisionali, e a tal fine si dispone lo sviluppo di: «azioni di formazione e supporto alle reti associative e gli altri strumenti di partecipazione attiva all’interno dei gruppi rom e sinti» e di «azioni di progettazione e valutazione partecipata da parte dei gruppi rom e sinti». (Lugli & Crocitti :2013)

Uno degli aspetti più interessanti di questo piano é che mira a utilizzare i fondi pubblici in modo intelligente, migliorando i servizi territoriali per i quartieri e ridando una condizione di paritá ai Rom con relativi diritti e doveri. Fare questo a Roma sarebbe rivoluzionario e riuscirebbe a disinnescare le logiche di lucro e profitto che le varie mafie hanno sui campi rom, tanto dall’interno come dall’esterno, e ridare allo Stato e ai vari sogetti della societá civile, la possibilitá di riprendere in mano una situazione che oggi é completamente fuori controllo.

Ma qualcosa si sta muovendo anche nella capitale: a dire basta a un  sistema di “autismo” nelle politiche sociali verso le popolazioni rom, sono ora cittadini, associazioni, centri di ricerca e universitá. Tutti iniziano a spronare l’amministarzione comunale per cambiare rotta.  Un esempio interessante è quello che propongono le associazioni e i cittadini della Rete Territoriale Roma Est, nata nel 2013 proprio per il superamento dei campi rom. La Rete dichiara subito che il suo impegno non può  limitarsi agli annunci sul “superamento dei campi” ma occorre predisiporre delle pratiche concrete,  mobilitandosi con le proprie risorse a livello territoriale.

Gli argomenti centrali,  su cui la rete ha lavorato in questi anni, cercando di coinvolgere  i municipi della zona est di Roma, sono stati: la valorizzazione delle risorse strutturali di un territorio ricco di terre da coltivare e di edifici abbandonati da recuperare;  spazi per la riconversione del lavoro nel ciclo della filera del riuso;  esperienze di associazionismo  di vicinato che sperimentano percorsi virtuosi di lavoro con comunitá rom in tutto il mondo, competenze e mestieri che le comunitá rom possono mettere a disposizione di una trasformazione urbana e sociale.

Di fronte alle ultime affermazioni dell’amministrazione comunale tendenti a ribadire la volontà di superare i campi rom,  la Rete ha deciso di organizzare un ciclo d’incontri che inizia il 13 marzo Vi parteciperà anche Francesca Danese, nuovo assessore alle politiche sociali e alla casa del Comune di Roma, che affronterá le 4 tematiche principali della Strategia Nazionale per l’ Integrazione dei Rom e Sinti: casa, lavoro, sanità, educazione.

La finalitá principale di questo ciclo di incontri è di creare un patto per l’unità d’azione, capace di far dialogare tra loro le associazioni, i comitati di quartiere, le parrocchie, le scuole, le famiglie rom e non rom che vivono in un territorio concreto, Tor Sapienza e Colli Aniene, in un rapporto dialettico con i Municipi. Le proposte per definire cosa si intende per “superamento dei campi rom”, dovranno essere rigorosamente identificate in termini di risorse (economiche, umane e organizzative) competenze assegnate, impegni temporali assunti con timing controllabili collegialmente e con l’individuazione di precise responsabilità

È in quest’ottica che sarà presentata una Mostra della Salviati University realizzata dalla University of Washington e l’ Universitá di Roma Tre, sui mestieri e le risorse che le famiglie rom dei campi di Via Salviati possiedono al giorno d’oggi. In anteprima sarà poi proiettato il film-documentario “Fuori Campo” del regista Sergio Panariello, che da Cosenza a Bolzano, passando per Firenze e Rovigo, segue le vite dei protagonisti (Sead Dobreva, Kjanija Asan, Leonardo Landi, Luigi Bevilacqua) svelandone a poco a poco la quotidianità e le ragioni che hanno permesso l’uscitadai campi.

*Parte di questo testo é stato tratto dal libro “Vincere il Confine. Tor Sapienza, nuove generazioni rom e nuove politiche urbane a Roma nella costruzione della cittá inclusiva e interculturale del futuro”a cura di Adriana Goni Mazzitelli, Aracne editrice 2015.

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