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Europa non può perdere i suoi giovani

Diario Europeo n. 26

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Lisbona, 7 aprile. Ancora una volta è la Banca centrale (e federale) – attraverso il suo presidente Mario Draghi – che prende la parola.

“Nonostante sia la generazione meglio istruita di sempre, i giovani di oggi stanno pagando un prezzo troppo alto per la crisi. Ciò danneggia seriamente l’economia, perché a queste persone, che vorrebbero ma non riescono a lavorare, viene impedito di sviluppare le loro competenze. Per evitare di creare una generazione perduta, dobbiamo agire in fretta. Una questione chiave in questo senso è la disoccupazione giovanile, in quanto impedisce ai giovani di svolgere un ruolo attivo nella società”

Ieri, Draghi parlava al Consiglio di Stato del Portogallo; e ancora una volta chiamava in causa l’assenza della politica. “L’eurozona nel suo complesso è tornata ai livelli pre – crisi solo l’anno scorso, e alcuni paesi non ci sono ancora. Gli investimenti nel continente sono deboli. Le nostre economie sono ancora caratterizzate da debolezze significative, che devono essere affrontate rapidamente”.

In Portogallo, un terzo dei giovani non ha lavoro. In Italia, il tasso di disoccupazione giovanile è al 38,1 %. Il tasso medio nell’eurozona è di 21,6%, circa tre milioni di giovani senza lavoro. Le punte più alte: Grecia (48,9%), Spagna (45, 3%), Croazia (40,3%), Francia (25,7%), Belgio (22,3%).

Eppure siamo di fronte, come ricordava Mario Draghi, ad una generazione la meglio istruita di sempre. Non solo: con un passaporto con tanti visti, nativa digitale, orientata alla flessibilità come non mai. Tutto è da addebitare alla “grande crisi”? No, non tutto. Dei cambiamenti indotti dalla crisi, sappiamo purtroppo ancora poco. “Anche novità largamente positive come la” sharing economy” – che producono outpout qualitativi in quanto razionalizzano l’uso delle risorse (auto, posti letto, offerta di servizi)- non allargano la torta, se non per qualche forma di integrazione temporanea del reddito” (cfr. Dario Di Vico, Corriere della sera, venerdì 8 aprile 2016).

E’ la qualità della stessa democrazia europea che viene messa a rischio. L’ingrediente strategico per tenere “integrata” una società e per essere cittadini/e nel senso sostanziale della parola – “liberi ed eguali in dignità e diritti”, come affermato dalla Dichiarazione universale dei diritti – anche nell’era delle trasformazioni rapide e inattese, come quella che viviamo, continua ad essere il lavoro: vero pilastro di uguaglianza e cittadinanza (cfr. Mario Campli, Europa, ragazzi e ragazze riscriviamo il sogno europeo, Napoli, 2014).

Le dinamiche relative al “lavoro” si sono via via sempre di più disarticolate e ri-articolate in modi e forme nuove e preoccupanti. Tutte le consapevolezze di questa straordinaria mutazione non appaiono completamente acquisite, neppure nelle organizzazioni dei lavoratori.

Perché la sfida rappresenta, innanzitutto, una “conquista” da parte dei lavoratori e delle loro organizzazioni? Perché sono cambiati profondamente il contesto e i modi della rappresentanza del lavoro che mette in discussione anche il modo di fare ed essere “sindacato”.

Poteva non dover accadere questa trasformazione, mentre un cambiamento profondo si verificava nella natura del capitalismo? Penso proprio di no.

Il paradigma del Novecento, basato sulla dialettica/dinamica capitale-lavoro, con la fabbrica come luogo del conflitto e con lo stato ridistributore è stato affiancato (e in parte sostituito) da un nuovo, insorgente (ma non stabilizzato) paradigma: la dialettica/dinamica flussi-luoghi, con il territorio come luogo della dinamica e con lo stato regolatore (cfr. Aldo Bonomi, Sotto la pelle dello Stato, 2001).

Il rapporto McKinsey, condotto su otto Paesi UE, e presentato a Bruxelles il 13 gennaio 2014, presso il centro di ricerca Bruegel, Il viaggio tempestoso dell’Europa, dall’educazione all’occupazione, dopo aver riconfermato i dati già noti sulla disoccupazione, afferma che “queste cifre solo parzialmente sono dovute alla crisi economica: i problemi ribollono più nel profondo. Il 47% dei datori di lavoro italiani riferiscono che le loro aziende sono danneggiate dalla loro incapacità di trovare i lavoratori giusti, e questa e la percentuale più alta fra tutti i Paesi esaminati”.

Dunque: lo stacco tra la velocita dell’innovazione tecnologica e la lentezza della innovazione

dei sistemi formativi e, infine, la separatezza tra i due mondi sono le grandi questioni che tengono bloccate le prospettive anche del lavoro giovanile.

Ma è importante sottolineare, anche, il suo diversificato andamento nei diversi Paesi della stessa Unione economica e monetaria. Nella crisi il tasso di disoccupazione giovanile italiano e raddoppiato, quello spagnolo e triplicato, quello tedesco si e ridotto del 35%, quello dell’eurozona e aumentato del 56%. E dunque evidente che nella crisi la UEM – Unione Economica e Monetaria ha subito una grande divaricazione nei livelli di disoccupazione giovanile.

L’integrazione tra i Paesi membri della Unione europea, anche e soprattutto tra quelli che hanno adottato la stessa moneta, è incompleta e stà generando divaricazione invece di integrazione economica e sociale: il diverso tasso di occupabilità ne è una delle manifestazioni tipiche.

E’, dunque, sulla Unione Economica e Monetaria che dobbiamo concentrare tutti gli sforzi della leadership dell’Unione.

E non basta. Occorre dare prova di una generosa, rapida e coraggiosa innovazione, tutta finalizzata alla generazione post- Erasmus.

Perché Parlamento e Commissione – di comune accordo e con congiunta iniziativa non si assumono il compito di completare il programma “Erasmus”, ben riuscito e ben funzionante, con la presa in carico direttamente dall’Unione di un programma e di tutte le misure connesse per l’accesso al lavoro dei giovani e delle giovani che hanno completato un programma Erasmus?

Si obietterà: ma non è bene spezzettare i mercati del lavoro, quando – tra l’altro- le politiche del lavoro sono di competenza nazionali!

Ebbene, l’ora e la fase di questa Unione europea sono tali che ragionare con i vecchi argomenti non porta da nessuna parte. Bisogna assumersi la responsabilità di “strappare” la vecchia ragnatela. La sfida che il pericolo concreto di una lost generation pone a Europa è troppo grande ed è troppo significativa per non dover forzare le vecchie distribuzioni dei poteri.

Diamo ad Europa una chance e diamogliela con i nostri ragazzi e le nostre ragazze che da anni hanno imparato a percorrere le strade d’Europa.

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