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Condividere e collaborare a Roma

È nato a Roma un “Coordinamento di realtà collaborative” per collegare in rete le molte esperienze nate in città negli ultimi anni – tra coworking, fablab, riciclo, agricoltura urbana e sociale, welfare comunitario e digital social innovation -, e di dare fiato e gambe a un ecosistema collaborativo di soggetti paritari capace di trattenere nei territori il valore della produzione sociale. Il coordinamento ha già fissato per il week end del 9 e 10 gennaio 2016 un laboratorio di coprogettazione urbana, per immaginare insieme le risposte collettive che è possibile dare in uno dei momenti più drammatici per questa città.
Sono bastate poche affollate riunioni per capire che la strada è lunga e irta di ostacoli, ma non si tornerà indietro. Semplicemente perché tutti sono decisi a percorrerla, ognuno con le sue motivazioni. Parliamo infatti di gente diversa, con storie, culture politiche, professioni e obiettivi diversi, giovani e meno giovani, poveri e meno poveri, militanti e non, precari e non.
Ma di chi stiamo parlando?… Difficile trovare una definizione univoca, dipende dal punto di vista con cui li si osserva. Toni Negri direbbe che sono una forma embrionale di soggettivizzazione della moltitudine, o più puntualmente di cognitariato che si autorganizza per sostituire la logica della cooperazione sociale alla legge del valore. Jeremy Rifkin li chiamerebbe “change makers”, ovvero le legioni di “prosumers” che stanno traghettando il sistema mondo verso la terza rivoluzione industriale: una radicale trasformazione fondata su collaborazione, autoproduzione, indipendenza energetica e sistemi intelligenti, tra big data e internet delle cose, che sta determinando il passaggio epocale da un regime centralizzato, gerarchico e appropriativo di gestione delle risorse e della conoscenza a un regime collaborativo, orizzontale e aperto.
Come correttivo alla visione deterministica e tecno-ottimista di Rifkin, il guru del peer-to-peer Michel Bauwens darebbe una definizione più sfumata, che problematizza la soggettività nell’era del Web interattivo, mettendoci di fronte all’evidenza che le tecnologie in quanto tali hanno in sé stesse sviluppi possibili diametrali. Da un lato verso un’enfasi della centralizzazione appropriativa, dell’approccio estrattivo alle risorse e del controllo sociale esasperato, dall’altro verso un sistema di cooperazione aperto e orizzontale nella dimensione dei commons. Perché il tema del futuro non è se vincerà la collaborazione, ma è quale collaborazione vincerà, e cioè chi controllerà il valore generato dalla produzione sociale. Bauwens innestando il tema della collaborazione in quello dei commons restituisce una dimensione territoriale e politica a questa transizione epocale, e nomina con acutezza le soggettività che stanno giocando la partita: dal capitalismo netarchico degli imperi virtuali, tra Google, Amazon, Facebook, alle comunità resilienti, alle reti dei commons “glocal”, cioè coloro che organizzano localmente una condivisione globale di risorse.
E a Roma cosa succede? Le strutture che praticano questa nuova economia del fare collaborativo producendo commons e relazioni paritarie, cioé il variegato popolo della collaborazione e della condivisione, si stanno mettendo in rete con tante e diverse finalità, ma con una consapevolezza condivisa di essere uno degli attori che si giocherà la difficile partita del futuro. E lo stanno facendo in una fase difficilissima, nella quale i territori sono sempre più abbandonati a loro stessi da un potere che si ritrae dalla dimensione locale, si ricentralizza e si verticalizza.
Dall’anno scorso hanno cominciato a ragionare su come condividere saperi e strumenti, su come generare collaborazione diffusa, su come interagire con le istituzioni sollecitandole a praticare l’innovazione, su come ci si possa organizzare per offrire alla città un welfare collaborativo in maniera sistematica e generalizzata. E recentemente si sono unite in un “Coordinamento di realtà collaborative”, che ha già fissato per il week end del 9 e 10 gennaio 2016 un laboratorio di coprogettazione urbana, per disegnare insieme le risposte collettive da dare in uno dei momenti più drammatici per questa città. In un momento in cui sembrano prevalere soltanto le articolazioni complementari della crisi di sistema: nuove povertà, autoritarismo, austerity, criminalità ed esclusione sociale.
Il primo obiettivo è condividere saperi e pratiche tra le diverse esperienze collaborative e i diversi mondi della cooperazione, nei terreni più diversi. Dal coworking ai fablab, dal mutualismo alla cittadinanza attiva, dalla filiera corta all’open source. E ci sono già alcuni nodi di questa rete che si collocano nella frontiera della sperimentazione, modellizzando le pratiche e intrecciando i diversi contesti collaborativi. Emblematico il caso di Officine Zero, fabbrica recuperata che coniuga l’organizzazione mutualistica del lavoro precario, il coworking, le officine creative di riciclo e il fablab, ma su cui incombe la minaccia di un’asta fallimentare che vorrebbe spazzare via l’esperienza per una valorizzazione immobiliare.
Il coordinamento si è riunito il primo dicembre presso i “laboratori creativi multifunzionali” de “il terzo spazio”, nome evocativo di quel “third space” coniato dall’urbanista americano Edward Soja per indicare gli spazi liberati dalle determinazioni del capitale globale, dove un nuovo immaginario plasma nuove relazioni e accoglie le differenze. E loro s’insediano proprio in una spazialità drammatica, quella di Tor Sapienza, dove il terzo settore non è riuscito a colmare i vuoti delle istituzioni e ad arginare le manifestazioni delle comunità del rancore. E il “terzo spazio” indica la exit strategy: tenere insieme la “cura” e l’“operosità”, per dirla con Aldo Bonomi, hanno creato un ibrido tra un centro sociale e un laboratorio scientifico che coniuga robotica, biohackers, corsi di formazione, scuola popolare e attività per l’infanzia, in una logica di fusione di sociale, cultura, formazione e ricerca.
E non senza significato il coordinamento ha deciso di radunarsi in questo spazio esattamente un anno dopo le note tensioni territoriali con i centri di accoglienza all’immigrazione, perché “il terzo spazio” nasce proprio come risposta a quei giorni drammatici, frutto di una concertazione tra alcune realtà già attive a Tor Sapienza e gli spazi collaborativi di Garbatella, il coworking Millepiani e il FabLab Roma Makers, che dalla loro fondazione sperimentano fruttuosamente lo stare in rete sul territorio. Prese singolarmente queste realtà sembrano solo piccoli “semi di futuro”, ma tenuti insieme a tanti altri nel neonato coordinamento possono aspirare a quello che Alberto Magnaghi definirebbe “progetto locale”. Tra le tante realtà ci sono i coworking che praticano la sharing economy e che diventano hub su scala urbana connettendo saperi e produzioni collaborative territoriali, facendo da incubatori per start-up, orientamento al lavoro, centrali di progettazione e formazione.
In pratica sostituendosi alle istituzioni. E poi i FabLab che stanno diffondendo il verbo e la pratica dell’autoproduzione e della collaborazione open con un’attenta opera di mediazione tra mondi diversi, dalla scuola alle officine di quartiere, alle istituzioni, alla media e grande impresa. E ancora i gruppi e le associazioni che lavorano sui commons immateriali, dall’open source alla digital social innovation, alle infrastrutture cognitive che sotto forma di piattaforme indipendenti configurano nuovi e rivoluzionari geosocial, mappature collaborative che si fanno deposito di conoscenze territoriali e strumento di attivazione di reti. E infine reti intere di recente formazione che aspirano a sovvertire il ciclo di riproduzione agro-alimentare della città, tra agricoltura urbana e sociale, gas, orti condivisi, così come le reti della conoscenza a cui si collegano realtà “business oriented”, che cercano di gettare un ponte tra società e capitale per fare in modo che l’economia si misuri anche in termini di sostenibilità sociale e ambientale.

Sono molte le realtà, e non è necessario nominarle, perché come ogni vera rete collaborativa esse credono nel soggetto anonimo, plurimo, molteplice, acefalo, realmente democratico. Non saranno mai all’ombra del “corpo” del leader, perché rifuggono istintivamente l’organizzazione piramidale, fintamente rappresentativa, di fatto autoritaria. Credono nel qui e ora, nelle relazioni tra pari che praticano, in modi di esistenza concreti e in modi di azione reali. Non saranno mai un brand, una forma chiusa che produce identificazioni immaginarie, perché una vera soggettivazione si realizza nella relazione reale e non nei dispositivi autosufficenti. Con Nicolas Bourriaud sostengono “gruppo contro massa, vicinato contro propaganda, low tech contro high tech, tattile contro visivo”.
A fronte delle mancate risposte della politica della rappresentanza, emerge così una nuova possibilità, quella di comunità di pratiche collaborative che si collocano tra reti digitali e territori, tra globale e locale, contendendo lo spazio ambivalente e conflittuale della sharing economy. Da un lato il modello della collaborazione dominata dal codice proprietario, che estrae valore dalla produzione sociale fondata sulla figura atomizzata del prosumer. Dall’altro il modello di un ecosistema collaborativo che su una base territoriale cerca di trattenere il valore nei territori, per fondare un modo diverso di produrre e stare insieme, generando benessere diffuso, conoscenza condivisa, coesione sociale e sostenibilità ambientale. Perché è uno spettro? Perché è invisibile e potente. Perché è potente? Perché è una soggettivazione basata sul fare e sul desiderio, non solo sulla mancanza e sul bisogno. Perché non solo rivendica diritti, ma li pratica. E fa ora sistema costruendo (e non teorizzando) quel mondo dei commons inteso come matrice di un modello alternativo di economia e di società.

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