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Come ripensare le città ritrovando un’unica identità urbana

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Il «rammendo delle periferie», secondo la suggestiva formula coniata da Renzo Piano, pare sia opera pubblica destinata a divenire punto programmatico del governo Renzi. Ed è dalla probabilità d’una sua concreta attuazione che viene il decisivo interesse nazionale di questa impresa, al cui fondo credo ci sia il voler riconoscere a quelle stesse periferie il rango d’inedite e autonome città storiche. Un riconoscimento che appare del tutto fondato, visto che la grande maggioranza degli uomini (il trend è infatti planetario) vive oggi in periferie urbane. Ma che male si adatta, fino a essere errore, all’ultramillenario quanto indissolubile e meraviglioso insieme di vere città storiche e di vero paesaggio storico che fanno dell’Italia un unicum nel mondo intero, un insieme in cui le periferie sono quasi sempre infelice o infelicissima presenza; non storica, bensì, per dirla con Alexandre Kojéve, «post-storica». Per quale ragione un grande architetto nato in Italia commette l’errore di non considerare il nostro Paese in primis per la sua facies storica? Perché il suo non è un errore, bensì la semplice presa d’atto, più o meno inconsapevole, del completo fallimento delle politiche urbanistiche finora adottate nel Paese. Un fallimento originato dalla distinzione – sempre presente nei piani regolatori, ancor più, dopo il 1972, dal passaggio alle Regioni delle competenze in materia urbanistica – tra un centro storico rigido e immodificabile e una periferia (post-storica) al contrario flessibile e modificabile; correlando infine il tutto con un’integrazione di funzioni più o meno variamente articolate, ma sempre studiate in modo da far salvo il principio che la flessibilità della moderna periferia post-storica possa compensare la rigidità del centro storico. Tutto ciò con il risultato d’aver creato una crescita metastatica delle periferie intorno ai centri storici, portando infine il tutto a un comune degrado. Il degrado oggi sotto gli occhi di tutti.
Prima però credo vada sottolineato come la crescita metastatica delle periferie rispetto ai centri storici sia avvenuta in Italia soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, cioè proprio nel momento stesso dell’avvento anche da noi della cosiddetta scienza urbanistica, la stessa che diceva d’avere in mano le carte per creare «l’uomo nuovo della Cité radieuse».
Evidentemente perché non erano in grado di capire, gli urbanisti di allora, che l’uomo nuovo era una balla di Le Corbusier e non la sola dell’architetto francese; il suo «modulor» di 2 metri e 40 d’altezza è infatti stabulario e del tutto funzionale «all’uomo nuovo» della speculazione edilizia, non certo all’uomo nuovo d’un nuovo ordine democratico. Balla passata in cavalleria perché mezzo secolo fa il ritardo culturale del Paese era immenso, ma con ancora dei tratti d’ingenuità, cioè non ancora completamente incanaglito verso furto e arroganza come ormai è oggi; e balla perciò fatta ingenuamente propria dalle Regioni, almeno nei primi tempi della loro istituzione, nel 1970; le stesse Regioni che al posto della Cité radieuse ci hanno ammannito nel vero, e direi inevitabilmente, le periferie di cui sopra.

Le ragioni del degrado delle periferie
Tutto ciò premesso, proviamo a cercare le ragioni per le quali un problema di tale evidenza e di così decisiva importanza per il futuro stesso dell’Italia e delle sue giovani generazioni è venuto lievitando in oltre mezzo secolo senza che mai lo si sia, se non risolto, almeno affrontato. Ragioni che sono numerosissime e che provo qui a citare in ordine sparso, ovviamente saltandone per sintesi alcune.
Prima ragione, è il gravissimo ritardo culturale in cui vive oggi il Paese e di cui ho appena detto. Quello soprattutto attestato dalla nostra classe politica che, proprio in causa della sua impreparazione, sempre più è andata scartando dai suoi «doveri» (Mazzini) la realizzazione di tutto quanto fosse complesso da elaborare sul piano delle scelte rispetto a ciò che è pubblico. Quindi mai si è preoccupata di predisporre razionali, coerenti e moderne politiche industriali, agricole, energetiche e quant’altro, come di mettere a punto piani a lungo termine su temi civili e sociali fondamentali quali istruzione, ricerca scientifica, ambiente, giustizia, fisco, sanità, pensioni, mobilità viaria e ferrotranviaria, urbanistica, salvaguardia del patrimonio storico e artistico, eccetera, per invece promuovere e autorizzare la politica economica più semplice, stupida, dannosa e redditizia che c’è: la speculazione edilizia. Ciò per assicurare il lavoro alla popolazione italiana (ma un lavoro, oltretutto infinitamente meno dannoso sul piano socio-economico e ambientale, è anche spostare le pietre da una riva all’altra d’un torrente, come Keynes ci ha insegnato), dove il far lavorare la popolazione fuori da un qualsiasi disegno razionale e coerente per il futuro del Paese ha reso la nostra classe politica compartecipe, non solo della devastazione dell’ultramillenario paesaggio urbano, agricolo e naturale del Paese, ma anche della cementificazione dei suoli, quindi della loro impermeabilizzazione, perciò principale responsabile, sempre la nostra classe politica, anche del dissesto idrogeologico del Paese, quello che sta producendo disastri ambientali con cadenza
sempre più ravvicinata nel tempo e sempre più diffusa sul territorio.
Seconda ragione, la sostanziale incompetenza della nostra università a formare i quadri amministrativi (dai soprintendenti, ai funzionari regionali e comunali) che dovrebbero risolvere – in via tecnica – l’immenso problema organizzativo, giuridico, tecnico-scientifico, urbanistico, viario e architettonico del rapporto tra città storica, periferia e territorio. Noto è che la recente introduzione di nuclei di valutazione della produzione scientifica dei docenti incardinati nelle nostre università ha evidenziato come molti di loro, specie quelli afferenti alle sedi di provincia, abbiano presentato titoli bibliografici dichiarati da quegli stessi nuclei di valutazione irricevibili, perfino articoli sulla cronaca locale del «Resto del Carlino» o sul bollettino della Comunità montana. Mentre, per restare al tema della tutela del patrimonio storico e artistico, sono stati di recente attivati corsi universitari di restauro dei beni culturali affidandone la direzione a docenti che non hanno mai toccato un’opera d’arte in vita loro, né hanno una bibliografia di specie, tanto da essere stati bocciati agli ultimi concorsi da professore ordinario. Da ciò l’evidente impossibilità che un’istituzione universitaria di tale modestissimo livello possa formare persone in grado di dar risposta al decisivo quesito sotteso al nostro vivere in un Paese, come è l’Italia, colmo fino all’inverosimile di storia: quale sia il senso della presenza del passato nel mondo d’oggi.
Terza ragione, a ribadire quanto appena detto, l’insensato numero dei circa 250.000 laureati in architettura e urbanistica (più o meno uno per kmq sul totale dei 301.340 kmq del territorio italiano, togliendo laghi, fiumi e inabitabili monti e valli) prodotti fino a oggi dall’università italiana. Oltretutto, architetti e urbanisti in gran parte formati secondo il principio di Bruno Zevi, per il quale il «nuovo» costruito non deve avere rapporto alcuno con il «vecchio». Una posizione illustrata nel Manifesto dell’architettura organica del 1945, testo fondativo d’una nuova scuola d’architettura, di cui Zevi era magna pars, che trovava forma e funzione nell’ambiente naturale, appunto l’architettura organica teorizzata dall’architetto statunitense Frank Lloyd Wright. Sfuggiva evidentemente a Zevi e ai suoi che, in Italia, la natura non è il luogo mistico di un Walt Whitman o di un Thoreau, bensì è un «ambiente culturale» indisgiungibile da un’ultramillenaria e infinitamente ramificata storia di sedimentazioni di civiltà. Quindi Zevi e i suoi non si resero conto di come, in Italia, da sempre si fosse costruita un’architettura che, per appartenere alla natura, quindi essere organica, mai aveva avuto bisogno di far scorrere al proprio interno una cascata d’acqua, come la «Casa Kaufmann» di Wright, peraltro edificio semi-inabitabile perché troppo umido; e si può andare, per l’architettura «naturalmente organica» italiana, dai Templi di Tivoli all’intera Venezia, a tutte le città storiche che ornano, intatte fino a qualche decennio fa, i profili delle nostre colline in forma di umanissime concrezioni nello stesso colore della terra su cui poggiano per aver da lì tratto i loro materiali da costruzione. Mai dimenticando, però, di là da questo esiziale errore culturale di Zevi e dei suoi, i tentativi svolti da alcuni architetti del secondo dopoguerra per recuperare un rapporto con le preesistenze storiche, come fecero Gustavo Giovannoni, Giuseppe Pagano, Roberto Pane, Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi o Saverio Muratori, per dirne alcuni.
Ciò a conferma di come l’aggressione al paesaggio e alle città storiche avvenuta in Italia nell’ultimo mezzo secolo non possa essere attribuita solo alla terribile miscela tra impreparazione culturale, ignoranza della Storia e volontà di potenza soi-disant creativa dei molti, troppi architetti. Decisiva è stata infatti anche la corresponsabilità d’una insaziabile speculazione edilizia, d’una classe politica troppo spesso ignorante e corrotta, ovvero arrogante e dirigista, e di masse popolari ingenuamente persuase che il comfort piccolo-borghese dei condomini equivalesse al bello.
Quarta ragione, la generale e bovina osservanza alla «istanza storica» (1952) della Teoria del restauro di Brandi. Una posizione per molti versi fondata, quando si tratta d’una lacuna d’un dipinto. Assai più problematica da difendere quando si parli di architettura. Un errore fu infatti la rigida posizione presa da Brandi, sia nell’assurda condanna (ex post) della ricostruzione tal quale del campanile di San Marco realizzata nel 1912 al seguito dell’improvviso crollo dell’originale, sia nella rigida, quanto di nuovo assurda, opposizione al rifare uguale il cinquecentesco ponte di Santa Trinità di Bartolomeo Ammannati, fatto brillare nel 1944 dall’esercito nazista in ritirata da Firenze. Per fortuna campanile e ponte furono ricostruiti tal quali, ma quello stesso principio ideologicamente storicista è stato invece fatto valere per la ricostruzione delle città e dei paesi distrutti da calamità naturali. Al posto di rimetterne in piedi tal quali case e cose, così da restituire a quelle comunità ferite e umiliate almeno il ricordo della loro così brutalmente perduta identità storica, la consueta miscela di soprintendenti, architetti, urbanisti, restauratori e politici (i soliti formati nelle nostre università) ha provveduto alla costruzione di edifici «nuovi», perciò in pace con la «Storia».
Dalle mortuarie casette tutte uguali del dopo-Vajont, alla tanto ideologica quanto velleitaria (e anche un poco fessa) «nuova Gibellina», alla ricostruzione in squallidi condomini, ossia in villette geometrili, tanto dell’Irpinia quanto delle zone tra Umbria e Marche, fino alle sciagurate new towns dell’Aquila e al criminale abbandono a se stessa della città storica – lasciata, dopo il terremoto del 1999, a sciogliersi alla pioggia, al vento, alla neve e al sole –, le istituzioni (soprintendenze, università, assessorati regionali e comunali ecc.), nella loro incapacità e incompetenza, hanno preferito dibattere per anni su temi tanto ideologici quanto privi di veri fondamenti culturali («com’era, dov’era, ma non com’era, lo facciamo stilistico, no post-moderno», e così via farneticando), perché nel vero del tutto impreparate a dare risposte rapide, razionali e coerenti ai cittadini circa un problema ormai endemico in Italia, le distruzioni e le morti provocate, lo ripeto, dalle catastrofi ambientali, d’origine idrogeologica o sismica.
Quinta ragione, la completa farraginosità del quadro legislativo che oggi governa l’urbanistica in Italia. Quello generato dall’ingresso nel 1970 delle Regioni nella politica nazionale. Regioni avviate in grande ritardo rispetto al 1948 della Costituzione che già le prevedeva, quindi non create sulla spinta morale e civile di quegli anni (e qui si torna alla «Costituzione inattuata» di Piero Calamandrei: come sarebbero state le Regioni se varate subito dopo il 1948, sotto il diretto patrocinio dei padri costituenti?). Bensì Regioni avviate sull’onda del cosiddetto «Sessantotto», il movimento che allora in molti credemmo una rivoluzione, mentre era solo l’ultimo sussulto agonico della civiltà occidentale definitivamente vinta dal pop planetario della società post-storica di massa. Quindi Regioni in un primo momento determinate a creare un (sessantottesco) «regno di utopia», vale a dire un nuovo e, appunto, rivoluzionario modello di democrazia diretta, antitetica a quella dello Stato centrale, che in breve si è però rivelato una vana promessa cui si era del tutto incapaci di dare concretezza organizzativa e culturale. Ed è questo un passaggio delicatissimo per il generale tema della tutela del patrimonio storico, artistico e del paesaggio italiano, come del futuro stesso del Paese, passaggio che vede le Regioni assumere una posizione di raddoppio dello Stato centrale, con la delega data loro, nel 1972, della potestà legislativa in materia urbanistica e, nel 1977, in materia ambientale; pensando, sempre le Regioni, di correggere inefficienze e errori dello Stato con il varo d’un rilevante numero di iniziative di decentramento, spesso formalizzate in specifiche leggi.
Una stagione tra utopia, demagogia, dilettantismo e improvvisazione durata una decina d’anni, passando poi, le stesse Regioni, a promulgare leggi in difesa dei ben più fruttuosi e concretissimi interessi clientelari di speculazione edilizia e piccoli proprietari, fin quasi rasentando la demenza, come la legge della regione Liguria che avrebbe consentito di costruire fino a tre metri dalle rive dei torrenti, legge di qualche mese fa e non varata solo in grazia (si fa per dire) della recente e ennesima e disastrosa alluvione. Mai dimenticando però alcuni esempi virtuosi, come i recenti piani paesistici della Puglia e della Toscana, quest’ultimo per molti versi eroico, a onore di chi l’ha così pervicacemente voluto, Anna Marson.
Infine – ma di ragioni per spiegare il completo fallimento della costruzione delle nuove periferie in Italia ce ne sarebbero molte altre – aver fatto le Regioni verbo ideologico della suddetta rigidità dei centri storici rispetto alle periferie, nel nome d’una puerile idea di conservazione a oltranza dell’esistente. L’idea inverata nella politica fatta solo di vincoli e divieti di cui può essere simbolo l’Emilia-Romagna dei primi anni Settanta, politica il cui principale effetto è stato d’aver museificato i centri storici ottenendo la fuga della gran parte dei residenti. Basti, per dire in concreto del fallimento di quella politica, che dagli inizi degli anni Settanta si è avuta nei centri storici italiani una diminuzione di circa il 60% di abitanti e attività produttive. La stessa che passa al 100% nelle molte migliaia di piccoli comuni ormai in via di abbandono in tutt’Italia. Uno spreco di risorse umane ed economiche: basti il problema immobiliare, che grida davvero la vendetta di Dio.

Un’idea di Cavour: le grandi regioni
Soluzioni? Prima cosa, abolire subito le attuali Regioni, portandole a numeri sensati e razionali, ad esempio mutuandone le dimensioni da quelle degli Stati pre-unitari; e sarebbero le stesse che con grande lungimiranza volevano istituire Cavour e Cattaneo al momento stesso dell’Unità d’Italia, ben capendo le difficoltà strutturali nel realizzare quell’Unità, le stesse ancora oggi sotto gli occhi di tutti, peraltro. Secondo, riaffidare allo Stato centrale il compito sia di indicare le linee guida delle politiche urbanistiche, sia di provvedere al coordinamento della loro messa in opera, sia infine di sovrintendere alla verifica dei loro risultati applicativi. Tutto ciò sempre conservando per sé (lo Stato) un ampio potere di censura. Dopodiché, resettare (di nuovo lo Stato) l’attuale quadro legislativo relativo a tutela del patrimonio storico e artistico, ambiente, paesaggio e urbanistica, semplificandolo radicalmente e finalizzandolo a essere un unico strumento organizzativo, così – tra l’altro – da poter favorire con facilità una armonica ricongiunzione tra città storica e periferia, e di questa con ambiente e paesaggio.
Favorire come? Facendo tornare nelle città – a partire dai centri storici – le attività lavorative oggi in genere confinate nelle estreme periferie, quando non disperse senza alcun senso nelle campagne, quindi facendo tornare dentro le città industrie, opifici e quant’altro dia concreta occupazione a operai, impiegati e dirigenti. Il che porterebbe a ridisegnare un rapporto armonico tra nuovo e vecchio costruito, e di questo con il paesaggio, aprendo in tal modo – soprattutto ai giovani – immensi spazi creativi progettuali, con la formazione di molte migliaia di posti di lavoro. Ridisegnare quel rapporto significherebbe, infatti, riprogettare le periferie ponendone le funzioni abitative e i servizi in diretto rapporto con i centri storici; ma al tempo stesso riprogettare i centri storici facendo dei vincoli non più, come è oggi, sempre meno sopportabili provvedimenti solo in negativo, ma trasformandoli in indicazioni in positivo per la progettazione di un nuovo compatibile per forme, tipologie, materiali e quant’altro con l’esistente storico. Quel nuovo costruito che va comunque realizzato per non far morire il «vecchio» patrimonio edilizio italiano di troppo storicismo. Si tratterebbe poi di:
– restituire alla coltivazione il terreno agricolo oggi occupato dai capannoni industriali (dismessi e non) così anche riconsegnando alle città i loro confini, ovvero il loro contesto paesaggistico;
– poter esercitare i cittadini un controllo diretto e immediato sulle emissioni inquinanti di opifici attivi sotto il loro naso;
– far abitare le persone vicino ai luoghi di lavoro, perciò riportando i consumi alimentari, vestiari, eccetera, nei «negozi di quartiere», così come favorendo la creazione di servizi culturali e civili, quali biblioteche, cinema e teatri;
– riportare gli uffici pubblici nelle città, dalle scuole primarie e secondarie, all’università, agli uffici comunali;
– ridurre drasticamente il traffico veicolare privato;
– smettere di dare la solita, ideologica e demagogica e quasi sempre fallita in partenza destinazione museale all’immenso patrimonio immobiliare demaniale di palazzi storici, rocche, caserme, ospedali obsoleti, mercati coperti dismessi, eccetera, progettandone un riuso di concreta utilità sociale;
– perciò favorendo un riuso che inizi dall’insediare in quelle stesse caserme, rocche ecc., le predette attività lavorative, ovvero trasformando le solite rocche, caserme, eccetera, in unità abitative.
Per fare un solo esempio – pur se poco trendy rispetto alle attuali politiche talebane di tutela – una delle principali ragioni della conservazione del Palazzo Ducale di Mantova viene dal suo essere stato ininterrottamente abitato. Dai Gonzaga, che lo fondano, e lo abitano fino al Settecento con i loro famigli o le loro truppe, per poi divenire residenza teresiana, fino a quando, dopo l’Unità, viene occupato dagli «sfollati», tanto che, come mi raccontava tempo fa una «vecchia» soprintendente di Mantova, Giuliana Algeri, prima di diventare negli anni Venti del Novecento l’attuale (e deserto) museo, vi vivevano circa 3.000 persone.

Tornare a una “cultura vissuta”
Obiettivo di questa possibile e auspicabile azione di tutela attiva delle città e del paesaggio – tutela, ribadisco, finalmente non museificante – è il ritorno delle città (centri storici e riconnesse periferie) e dei paesaggi a luoghi di vita, quindi luoghi di relazioni civili, sociali e economiche. Il ritorno a una «cultura vissuta» aperta in mille diversi ambiti di pubblica utilità. Ambiti tutti da progettare e che sono formativi, ambientali, giuridici (si pensi al delicatissimo tema della legittimità degli espropri), economici, fiscali, sociologici, agricoli, idrogeologici, infrastrutturali, storico-artistici, eccetera, fino alla grande sfida d’una azione architettonica e ingegnerile orientata a un riuso compatibile dell’esistente storico, quindi alla ricerca scientifica nella domotica, nelle energie rinnovabili, nei sistemi di trasporto leggero (vettori, loro fonti energetiche e vie di transito) per raccordare rapidamente i piccoli paesi in via d’estinzione con i luoghi di lavoro delle città, così da ovviarne lo spopolamento, fino alla conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, in primis la prevenzione del patrimonio monumentale, o più semplicemente edilizio, dal rischio sismico e da quello idrogeologico.
Sarà questa la ratio sottesa ai rammendi di Renzo Piano e alle future politiche di sviluppo territoriale del governo Renzi? Dar corpo a un grande «progetto nazionale» mirato a realizzare un coerente e razionale riassetto del territorio italiano attraverso una sua de-cementificazione? Un progetto cioè mirato alla fondazione d’una nuova e inedita «ecologia culturale»? Sarà perciò il contrario d’un maquillage estetizzante teso a mascherare ultradecennali e gravissimi errori progettuali, culturali e politici, economici e sociali, errori di cui oggi sono vittime soprattutto le giovani generazioni, come lo saranno ancor più le future, quando nulla dovesse cambiare?
Lo scopriremo. Tenendo però già adesso conto di due cose. Una, l’illuminata decisione di Brunello Cucinelli d’acquistare un piccolo e abbandonato paese storico dell’Umbria, Solomeo, facendone la sede della propria industria, con il risultato che gli operai tornano alla sera malvolentieri a rinchiudersi nei condomini di Perugia, dove perlopiù abitano. L’altra, che se i rammendi di Renzo Piano fossero rivolti solo a mascherare gli errori di cui sopra, sarebbero l’ennesima bugia raccontata agli italiani. Bugia dalle gambe corte, anzi cortissime, perché si risolverebbe nell’applicare alberi e alberelli a vecchi e nuovi condomini speculativi, magari verticali piuttosto che orizzontali, a dipingere di verde i container o i viadotti dismessi, a decorare la facciate in cemento con stecche di legno «ecologico» e così via. Si risolverebbe, cioè, nella definitiva resa del Paese alla speculazione edilizia. Ricordiamolo, industria in gran parte nelle mani di camorra, ‘ndrangheta, sacra corona e mafia. Nel Nord Italia, nel Centro Italia, nel Sud Italia e nelle isole.
Bruno Zanardi insegna Teoria e tecnica del restauro all’Università di Urbino «Carlo Bo». Questo suo saggio, che pubblichiamo per gentile concessione del Mulino, la rivista di cultura e di politica diretta da Michele Salvati, fa parte del dibattito intitolato «Abuso di territorio?».

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