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Unioni civili: Roma oggi è capitale dei diritti

Una bella giornata quella di oggi per i diritti civili, finalmente dal Campidoglio arriva l’approvazione della delibera che istituisce il Registro delle Unioni, un atto che porta Roma a livello di molte altre metropoli, che interviene su un tema sul quale il Parlamento continua a latitare, mostrando che un’Amministrazione deve avere sempre come obiettivo la tutela dei propri cittadini e in questo caso, anche dei loro affetti. Da oggi, con la trascrizione dei matrimoni contratti all’estero e la possibilità per tante coppie di fatto di veder riconosciuto e meritevole di tutela il loro legame affettivo, si apre una fase nuova per la città, dove tutti possano sentirsi a casa: lo avevamo promesso in campagna elettorale e lo abbiamo fatto. – Lo dichiara Emanuela Mino, Presidente del Consiglio del Municipio XI.

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La vittoria di Tsipras fa rientrare l’Europa nella sua storia

Finalmente possiamo affrontare i problemi discutendo dei nostri fondamentali senza i filtri di una finanza non autoctona e con un orizzonte che sposta il baricentro nel Mediterraneo, cioè  lì dove tutto è iniziato.
Ci potremmo  riprendere quella autonomia di pensiero che nella visione mercantile continentale abbiamo perso da tempo.
Se da questa scelta,  che ha un alone di azzardo, date le dimensioni demografiche e la posizione decentrata della Grecia, sapremo esprimere una visione che non riguarda la generalizzazione della comprensione verso una povertà programmata, nata dalla dalla speculazione che ha cavalcato il vuoto morale di una classe politica greca, utilizzatrice del populismo allo scopo di perpetrarsi – il commento estemporaneo di un giovane greco davanti al caffè mattutino è stato: sono contento perché da novant’anni non c’è al Governo un componente della famiglia Papandreou, la dice lunga.
Se la scelta diventerà la proposta di un nuovo modello di sviluppo che propone una equa ridistribuzione delle risorse accumulate con processi compatibili, potremmo tirare un sospiro di sollievo e virare verso una aggregazione forte, uno stadio tre, dell’ Unione Europea.
Se la scelta sarà sentita quale elemento si rafforzamento di chi vuole far fallire le aggregazione possibili del nuovo soggetto politico EUROPA nello scenario mondiale allora – gli euro scettici brinderanno  leggendo questa scelta come un elemento di dissesto – il nostro orizzonte si restringera’ , forse tutelando  le singole gerarchie dei piccoli Stati ma, impedendo un reale peso nella politica internazionale.
Se invece la scelta immettera’ una accelerazione nei processi di cambiamento e nelle aggregazioni costitutive avremmo davanti una stagione  costituente.
È  chiaro comunque che il problema in Europa è ormai la Germania, incapace di assumere una leadership credibile, contornata da una piccola corte di imitatori, attenta a saldi ipotetici che porterebbero presto ad una inutilità  delle scelte più sagge.
Torniamo in Europa con le radici culturali della nostra  nascita, i valori della persona e della comunità, il rispetto delle idee e il loro confronto dialettico quale sistema di scelta, la partecipazione consapevole, il rispetto ambientale in un progresso compatibile.
La nostra sinistra dovrà affrontare un lungo percorso di riflessione davanti a questo esempio esemplare.
La speranza arriva o la speranza ha vinto?




Ripartiamo dall’Istituzione Biblioteche di Roma

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L’obiettivo dell’Istituzione Biblioteche di Roma era quello di snellire, sburocratizzare e renderle centri culturali di vicinanza, sportelli territoriali, luoghi di relazioni e di attività per le nuove esigenze di cultura.
Un ‘innovazione che ha sviluppato la sua crescita orizzontale nelle tante periferie della nostra città. Da luoghi di prestito e/o di lettura a spina dorsale di presidi culturali che hanno dato risposte sia alla crescita culturale che al disagio sociale. Antenne delle trasformazioni e misuratori reali della qualità socio-culturali dei territori negli ultimi 20 anni.
La cultura deve essere diffusa, innervata in tutta la città ma soprattutto nelle aree periferiche.
Partendo dalla nostra esperienza del progetto di rigenerazione urbana della periferia del quadrante di Corviale possiamo affermare che senza la Biblioteca R. Nicolini di Corviale il progetto non avrebbe avuto gambe su cui camminare.
E’ su quelle gambe che abbiamo costruito tante iniziative, eventi, manifestazioni e il coinvolgimento e la partecipazione di tanti cittadini.
I presidi culturali pubblici, danno al disagio sociale risposte, informazioni, comunicazioni, apprendimento.
Occorre riflettere, anche a livello europeo, dopo i fatti di Tor Sapienza e di Parigi, su come il patrimonio culturale possa contribuire a dare concrete risposte ai temi che le realtà periferiche ci stanno sbattendo in faccia.
La storia delle Biblioteche di Roma non riguarda solo l’assessorato alla Cultura ma anche quello delle Periferie, delle Politiche Sociali, della Scuola e Sport, dell’Urbanistica. E’ ora di rompere i compartimenti stagni per rigenerare la nostra città anche sfruttando le potenzialità di trasformazione che la rete sta imprimendo ad interi settori della filiera produttiva culturale.




Difendiamo l’Istituzione Biblioteche di Roma

Sono rimasto incredulo quando ho letto che l’Amministrazione Comunale ha intenzione di chiudere l’Istituzione Biblioteche di Roma per riportarle sotto un Dipartimento.
E’ necessario ricordare che l’Istituzione Biblioteche di Roma sono state frutto di un ‘ampia e partecipata discussione che il Consiglio Comunale di Roma, di cui facevo parte, approvo’. L’obiettivo era quello di snellire, sburocratizzare e renderle centri culturali di vicinanza, sportelli territoriali, luoghi di relazioni e di attività per le nuove esigenze di cultura che la società, dopo il periodo buio delle giunte democristiane che avevano spento le luci nicoliniane della nostra città, richiedeva.
Un ‘innovazione che non solo ha raggiunto i risultati previsti ma ha consentito la sua crescita orizzontale nelle tante perifirie della nostra città. Da luoghi di prestito e/o di lettura a spina dorsale di presidi culturali che hanno dato risposte sia alla crescita culturale che al disagio sociale. Antenne delle trasformazioni e misuratori reali della qualità socio-culturali dei territori negli ultimi 20 anni.
Centrale per lo sviluppo del sistema biblioteche è stata la capacità gestionale, competente e all’altezza della sfida.
Da già presidente della commissione cultura del Comune di Roma vado orgoglioso di essere stato parte di questa scelta voluta dall’ allora assessore Borgna . Un progetto realizzato partendo dai contenuti e fatto di buone pratiche. Diventato fiore all’occhiello sia a livello nazionale ma anche in campo européo intessuto da una sensibilità solidale verso i paesi del mediterrraneo.
Era nostra convinzione che la cultura doveva essere diffusa, innervata in tutta la città ma soprattutto nelle aree periferiche. E’ questo e stato e i risultati sono facili da riscontrare.
Voglio aggiungere che tutto cio’ è stato reso possibile sia da un management competente ma anche dall’investimento fatto sul personale che consapevolmente ha partecipato a questa sfida mettendoci passione, voglia di imparare e senso civico.
In qualità di coordinatore del progetto di rigenerazione urbana della periferia del quadrante di Corviale posso
affermare, dopo 6 anni di presenza quotidiana sul territorio, che senza la Biblioteca R. Nicolini di Corviale ed il Mitreo (altro presidio culturale da sostenere) il progetto non avrebbe avuto gambe su cui camminare.
E’ su quelle gambe che abbiamo costruito e otttenuto i riconoscimenti avuti e le opportunità di mettere in campo le tante iniziative, eventi, manifestazioni e il coinvolgimento e partecipazione di tanti cittadini che ci hanno sostenuto e ci sostengono.
Lentezze burocratiche, non relazionalità autonoma nel rapporto pubblico-privato, non interazione e integrazione con le altre realtà socio-culturali- ambientali e quindi pur essendo fisicamente presenti ma lontani dal capire ed essere parte della trasformazione positiva della nostra periferia. Termine in voga più che mai in questo periodo ma di cui un Dipartimento centralizzato non avrebbe sicuramente avuto cognizione con tutte le conseguenze immaginabili.
Lo smantallamento dell’Istituzione Biblioteche non é assimilabile alle ben novanta aziende (di proprietà o partecipate a vario titolo) che le amministrazioni comunali di centrosinistra e centrodestra hanno creato nel corso degli ultimi 20 anni aprendo buchi di milioni, anzi di miliardi di Euro di debiti che i cittadini romani e italiani stanno pagando.
Questa scelta dell’amministrazione sta smentellando quel documentato contributo che che la Cultura, e soprattutto i presidi culturali pubblici, danno al disagio sociale, allo sviluppo critico delle Comunità, alla crescita di tanti giovani che ne respirano l’aria, alle risposte di informazioni, comunicazioni, di apprendimento e di espressione per tutte le fasce di età ancora più preziose in questa crisi che ci attanaglia e che incide sulle spese da tagliare e la Cultura è tra queste, purtroppo.

Va inoltre detto con chiarezza che in questa vicenda non ci sono risparmi, tutt’altro, ma costi sociali e crescita del divario e delle disuguaglianze si’. E che la vicenda vada discussa pubblicamente e nelle sedi Istituzionali in cui fu approvata non dovrebbero esserci impedimenti.
Dall’ amministrazione Marino che abbiamo sostenuto, ci sareimmo aspettati, dopo i fatti di Tor Sapenza e di Parigi, una riflessione che sta avvenendo anche a livello di Unione Europea, sul perchè, il per chi e il come il patrimonio culturale possa contribuire a dare concrete risposte ai temi che le realtà periferiche ci stanno sbattendo in faccia.
Invece avverto una distanza da questi problemi e che la riflessione sia rimasta ferma a Cultura come costo o divertimento e non inclusione, opportunità di inserimento e di crescita nella società da parte delle future generazioni che rischiano di rimanerne escluse.
Mi sarei altresi’ aspettato che le trasformazioni che la rete sta imprimendo alle attività e ad interi settori della filiera produttiva culturale diventassero tema da affrontare di petto e che rischiano di pioverci addosso impreparati.
Questa storia delle Biblioteche di Roma non riguarda solo l’assessorato alla Cultura ma anche quello delle Periferie, delle Politiche Sociali, della Scuola e Sport, dell’Urbanistica. E’ ora di rompere i compartimenti stagni o l’abbracciarsi alle competenze. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Ci auguriamo di percorre insieme questa strada convinti, visto che la stiamo percorrendo da tempo, che possa dare quel contributo per rigenerare la nostra città.




La guerra dei nostalgici del mito dell’Armageddon alla società aperta

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Il dibattito che si è avviato a seguito dei fatti sconvolgenti avvenuti a Parigi una settimana fa, presso la sede di Charlie Hebdo, a Montrouge, e nel supermercato Kosher di Porte de Vincennes, rischia di perdersi nel nulla se non si hanno chiari alcuni passaggi storici di fondamentale importanza per comprendere le vicende odierne.
Il terrorismo islamico ha poco a che vedere con la religione musulmana ma ha molto in comune con le filosofie e i movimenti romantici, irrazionalisti e nazionalisti partoriti in Europa tra la seconda metà dell’ottocento e i primi decenni del novecento e che hanno dato vita ai totalitarismi (stalinismo, fascismo, nazismo). Non siamo in presenza di uno scontro di civiltà tra il sud e il nord del mondo o tra occidente e oriente. Siamo ancora una volta, in forme nuove, allo scontro frontale tra lo spirito di autodistruzione, che è figlio dell’Europa e che dal vecchio continente è stato esportato altrove, e i valori fondanti dell’Illuminismo che hanno portato nel tempo al riconoscimento dei diritti umani, all’idea della democrazia come processo in divenire di errori e correzioni di errori, all’importanza dello sviluppo scientifico-tecnologico e degli scambi, guidato  da una politica responsabile, e all’idea che una singola vita umana non debba mai essere sacrificata per un ideale politico o un sentimento religioso o un’esigenza comunitaria. È per questo che il terrorismo islamico incrocia ovunque un’area estesa di connivenza e di simpatia in individui e gruppi che continuano a coltivare pulsioni e idee autodistruttive e palingenetiche. Dinanzi al riemergere di questo scontro, la battaglia culturale, etica e morale da condurre è contro la riesumazione di queste pulsioni e idee in cui alle vecchie contrapposizioni di classe, di razza o di religione si aggiungono nuovi binomi: oppressi/oppressori, imprese locali/multinazionali, naturale/artificiale, nord/sud. Conflitti generalizzati costruiti astrattamente e mai verificati e differenziati, caso per caso, nelle situazioni concrete.

Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, in concomitanza con lo sviluppo delle culture europee che hanno dato vita ai totalitarismi, nascono in Medio Oriente e si espandono nel mondo arabo i movimenti fondamentalisti che si richiamano all’identità di razza e/o di religione. Essi sono figli dei primi movimenti di massa europei. Uno dei maggiori analisti americani del terrorismo islamico, Paul Berman, nel saggio Terrore e liberalismo. Perché la guerra al fondamentalismo è una guerra antifascista ha raccontato in modo puntuale i legami culturali e politici tra i primi movimenti di massa europei e le organizzazioni fondamentaliste ancora oggi attive nel mondo.  Negli anni trenta del secolo scorso, si sviluppa in tutte le maggiori città del mondo arabo una presenza comunista significativa collegata a Stalin e alla sua concezione totalitaria del potere. Il socialismo Ba’th è una branca del grande movimento panarabo fondato negli anni successivi alla prima guerra mondiale da Satia al-Husri, sulla base dei suoi studi filosofici, condotti in Occidente e focalizzati su Fichte e sui romantici tedeschi: i filosofi del destino nazionale, della razza e dell’integrità delle culture nazionali. I suoi interlocutori in Europa sono i fascisti e i nazisti. Uno dei testi più in voga nei paesi arabi è I fondamenti del diciannovesimo secolo di H. S. Chamberlain, che tratta la questione razziale. Il fondamentalismo che si sviluppa in Pakistan sorge negli anni trenta (con un’organizzazione nel 1941). I Fratelli Musulmani nascono come setta politica in Egitto nel 1928. E questi movimenti hanno contatti molto stretti con il franchismo e con il nazismo. I “Fratelli Musulmani” chiamano le loro unità organizzative “Falangi”. Gli scrittori islamici di quel periodo si abbeverano alle idee di Heidegger. Lo scrittore più influente della tradizione fondamentalista è l’egiziano Sayyid Qutb che nasce nel 1906, sette anni prima di Camus. Egli riceve nell’infanzia una rigorosa educazione religiosa. Ma ben presto accarezza l’idea del socialismo e si immerge nella letteratura occidentale, va a studiare negli Stati Uniti, ottenendo un master in pedagogia presso l’University of Northern Colorado, a Greeley. Torna in Egitto ed entra nei “Fratelli Musulmani”. Egli scrive una gigantesca opera di esegesi in trenta volumi dal titolo All’ombra del Corano. Emerge in quest’opera il concetto dell’islam come “totalità”. Anche per George Lukacs, il marxismo si distingue dal pensiero borghese per “il primato della categoria della totalità”. Come perspicuamente ha rilevato di recente il giornalista Giuseppe Sarcina, nel testo sacro dell’islam i riferimenti espliciti alla dimensione politica sono solo due. Il primo è il “versetto dei potenti” (Sura delle Donne, 4, 58-59): «Iddio vi comanda… quando giudicate fra gli uomini, di giudicare secondo giustizia… O voi che credete! Obbedite a Dio, al suo Messaggero e a quelli di voi che detengono l’autorità». L’altro passaggio, brevissimo, si trova nella Sura della Consultazione, la 42ª, versetto 38: «Coloro che obbediscono al loro Signore… delle loro faccende decidono consultandosi tra di loro». Tutta la costruzione teorica di Qutb e dei fondamentalisti islamici sull’identificazione tra politica e religione sembra poggiare su questi esigui dettati coranici. Ma in realtà poggia sul mito biblico della guerra dell’Armageddon, secondo il quale gli abitanti ricchi, corrotti e sovversivi di Babilonia saranno sterminati e con loro verranno soppresse tutte le loro abominazioni. Terminato il terribile sterminio di queste “forze sataniche”, si stabilirà il regno di Cristo e il popolo di Dio vivrà nella purezza.

Si possono riconoscere in questo mito i temi di base e lo spirito di questo mito in poeti come Rimbaud e ancor più in Rubén Darìo. Dopo la prima guerra mondiale, dalla letteratura e dalla poesia, il mito primordiale di Armageddon e di Babilonia passa alla teoria politica in versioni aggiornate: una “parte sana” della società che si vede minacciata dal “male”, il quale deve venire eliminato – a tutti i costi – e, per rendere possibile questa eliminazione, è necessario il sacrificio che si traduce di fatto in “licenza di uccidere”. A comporre la “parte sana” sono i proletari o le masse russe per i bolscevichi di Lenin e gli stalinisti, i figli della lupa romana per i fascisti di Mussolini,  la razza ariana per Hitler, i guerriglieri di Cristo re per la Falange di Franco, i musulmani per Qutb.  Mentre gli abitanti corrotti e sovversivi di Babilonia, che commerciano beni di tutto il mondo e corrompono la società coi loro abomini, sono la borghesia e i kulak per i bolscevichi e gli stalinisti, sono i massoni e le tecnocrazie cosmopolite per i fascisti e i falangisti, sono gli ebrei per i nazisti, e in misura minore per gli altri fascisti, e infine anche per Stalin, e sono i falsi musulmani, gli “ipocriti”, in combutta con gli ebrei e i “crociati” cristiani per Qutb. In ogni versione del mito avviene sempre il bagno di sangue dello sterminio totale per raggiungere il regno, cioè una società perfetta, unita su tutta la faccia della terra, ripulita dagli elementi corrotti e dagli abomini, capace di durare mille anni. La gihad non è altro che lo sterminio totale del mito biblico della guerra dell’Armageddon. Il culto totalitario della morte è figlio dell’occidente.

L’attacco all’idea di libertà e di democrazia da parte del fondamentalismo islamico coincide con la critica radicale al capitalismo che deriva dalle culture originarie dei totalitarismi del novecento e che ancora oggi imperversano. Ma il capitalismo non è più quello descritto da Karl Marx. Esso si è trasformato nella “società aperta”, secondo la più appropriata definizione data da Karl Popper agli attuali meccanismi economici, sociali e politici presenti nei paesi occidentali, in cui i sistemi giuridici, da perfezionare continuamente attraverso la democrazia, regolano il mercato e il libero scambio. E la società aperta è tale perché tutti nel mondo possono concorrervi e orientarla mediante procedure democratiche. Ha ragione Claudia Mancina quando scrive: «Basta con il senso di colpa dell’occidente, che produce un pacifismo autolesionista. Basta con il multiculturalismo banale, relativista, privo di principi». C’è in questo atteggiamento dimesso il senso di sfiducia nella democrazia e l’idea che la messa in campo di nuovi soggetti mondiali possa riaprire la strada per un sovvertimento totale. Non si ha l’ardire di richiamare l’idea di sterminio o il bagno di sangue, ma l’antefatto è quello. In un mondo di grandi migrazioni, la battaglia politica e culturale per difendere la società aperta è oggi tutt’uno con quella per il reciproco riconoscimento tra persone e gruppi di diversa cultura o fede religiosa. Concordo con Silvia Costa quando afferma che la via della interazione, ideata ma poco praticata in Italia, è quella più promettente per realizzare questo reciproco riconoscimento, rispetto all’idea del  multiculturalismo britannico e dell’assimilazione francese. Una interazione da fondare però sulla base di valori e diritti comuni, e a patto che non comporti la rinuncia alla propria identità, il relativismo culturale o la superbia intellettuale. Accanto alla sfida della sicurezza, della pacificazione e della cooperazione allo sviluppo, dobbiamo ripartire insieme in Europa e in Italia dalla educazione e dalla cultura inclusive, fondandole su valori di una comune dignità e libertà, sui diritti umani scolpiti nella Carta dell’Onu e sulla capacità di creare fraternità.

 




Dopo Mafia Capitale il Terzo Settore deve produrre innovazione sociale

Alcune cooperative sociali sono coinvolte in “Mafia Capitale” e l’opinione pubblica tende ora a identificare il mondo del non profit come luogo del malaffare e della criminalità organizzata. Sarà lunga e faticosa la strada da percorrere per restituire la reputazione al brand del Terzo Settore. Non si tratta solo di scartare qualche mela marcia ma di produrre un cambiamento che riguarda tutti. Mutare regole e comportamenti.  Come è potuto accadere che i servizi sociali destinati ai più deboli diventassero il terreno privilegiato del fenomeno mafioso? Come mai alcuni dirigenti di cooperative son potuti diventare protagonisti di un intreccio malavitoso così ripugnante con esponenti della pubblica amministrazione e con bande criminali? Cos’è che non funziona nel mondo del sociale? Per rispondere a questi interrogativi il 21 gennaio si svolgerà a Roma l’Assemblea del Forum del Terzo Settore del Lazio. Sarà l’occasione per aprire una riflessione a tutto campo nel mondo del non profit su quanto è venuto fuori con l’inchiesta giudiziaria. E, nel contempo, l’avvio della ricerca di soluzioni sui servizi sociali delle periferie di Roma.

Il comitato scientifico del Forum ha predisposto una traccia di discussione, i cui punti sono i seguenti:

1. Quanto è successo a Roma è frutto di un intreccio mafioso tra funzionari pubblici e dirigenti di cooperative (per lo più sociali) basato sulla realizzazione di servizi pubblici.

2. Perché si può parlare di mafia? Quali valori negativi emergono? Quali contromisure possono essere prese (sia di breve che di medio periodo)?

3. In prima analisi si può affermare che: nella nostra società non si è mai fatto nulla di davvero efficace per promuovere il merito, che potrebbe essere antidoto contro la corruzione. Non basta richiamarsi al merito, ma si deve stabilire come lo si vuole perseguire. La corruzione non si estirpa solo con la repressione. Forse anche a causa di un’ipertrofia normativa, si ricorre troppo spesso a procedure d’emergenza che eludono gli iter di garanzia (sia le normative nazionali che quelle comunitarie, recentemente rimodulate). Si è in assenza di una progettazione condivisa tra gli attori in gioco e la pubblica amministrazione in un quadro programmato e di ampio respiro. Servono iniziative capaci di prevenire il diffondersi della mafia, attraverso il ricorso alle istituzioni e ai corpi intermedi. Servono iniziative finalizzate a dare le adeguate garanzie e protezione a chi ricorre alla giustizia. La mafia si diffonde con più facilità dove c’è povertà, l’Italia per certi aspetti è un paese sottosviluppato. Per invertire la tendenza, il non profit e l’innovazione sociale possono avere un ruolo estremamente importante. Sarebbe utile avviare un percorso d’ascolto sia interno al Forum che rivolto alla società. Così come non si può demonizzare tutto il Terzo Settore per colpa di alcuni casi, non si può neanche affermare che tutto ciò che si trova nel Terzo Settore sia necessariamente sano. Si deve valutare caso per caso avvalendosi dei giusti strumenti interni ed esterni. Serve maggiore trasparenza nella gestione delle organizzazioni non profit. Questa potrebbe esser perseguita ad esempio anche con strumenti tipo bilancio sociale, certificazione di terzi, ecc. Il Forum Terzo Settore (FTS) Lazio si deve dotare di una “Carta dei valori” e ogni organizzazione aderente vi si deve conformare redigendone una propria; dopodiché il FTS-Lazio deve raccogliere tutte le “Carte dei valori” e gli Statuti degli aderenti.

4. Si invita a riflettere su: quale deve essere il ruolo del Forum Terzo Settore? Si deve intervenire sulle singole organizzazioni o su quelle di rappresentanza? Così come è attualmente configurata, la vigilanza funziona? Lo strumento della revisione è sufficiente e/o adeguato? Il FTS-Lazio potrebbe supportare dei progetti territoriali pilota da realizzare in alcune periferie romane per promuovere: la partecipazione, la coesione, lo sviluppo locale, la legalità e l’integrazione? Si possono individuare delle politiche regionali e nazionali che diano un orizzonte d’investimento al Terzo Settore e che rimettano al centro dell’economia dei servizi la valorizzazione della cittadinanza come spazio comune politicamente sano? Si può sviluppare una politica sociale basata sull’aiuto diretto a soggetti che con la propria libera preferenza scelgano i servizi (standardizzati e certificati) di cui fruire?  L’uso dei voucher può essere uno strumento per limitare la corruzione?

È da augurarci che su questi temi si sviluppi un dibattito intenso con l’apporto di tutti i protagonisti del Terzo Settore: dirigenti, operatori e utenti. Ma senza chiuderci nel nostro mondo. Bisognerebbe coinvolgere le periferie di Roma e l’insieme dei sistemi locali in modo intersettoriale e interdisciplinare. Solo in questo modo la diagnosi potrà essere veritiera e la cura potrà produrre risanamento e innovazione sociale.

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Non basta gridare: “Io sono Charlie”. La tolleranza come cittadinanza attiva

La risposta alla strage di Parigi non si può limitare alla difesa declamatoria delle nostre libertà colpite a morte dal terrorismo islamico. Ci vuole una risposta attiva di tutti coloro che si riconoscono nei valori della democrazia, indipendentemente dalle appartenenze politiche, ideali e religiose. La libertà di espressione e di opinione, come tutti i diritti umani, non ha bisogno di essere continuamente fondata, ma va costantemente promossa, impedendo concretamente che sia violata. E la guerra condotta dal terrorismo islamico al cuore delle nostre democrazie non è altro che il tentativo di fare in modo che questi diritti non siano più garantiti. È il tentativo di smorzare le virtù laiche della nostra civiltà: il rigore critico, il dubbio metodico, la moderazione, il non prevaricare, il rispetto delle idee altrui, la tolleranza. È il tentativo di distruggere la pratica della laicità che si esprime rigorosamente attraverso argomenti razionali senza mai dispensare false certezze a buon mercato. A questa guerra bisogna rispondere promuovendo ulteriormente sia le libertà che lo spirito laico, sia i diritti che la tolleranza.

io sono charlieLa risposta alla mattanza di Parigi non può, dunque, essere quella di innalzare muraglie difensive, rinfocolare stati di emergenza o rincorrere funeste semplificazioni, ma deve essere quella di governare freddamente una lunga fase in cui l’attacco nemico si farà sempre più intenso e insidioso. Se dinanzi a questo attacco, dovessimo mostrarci intimoriti, insicuri, frastornati, divisi, saremmo già sconfitti in partenza.

Non si deve negare il nesso tra violenza e Islam radicale. La gihad o guerra santa è davvero il sesto pilastro (arkan) dell’Islam, uno dei precetti fondamentali che i musulmani rispettano per meritare il paradiso. Se oggi è presente solo presso alcune correnti (ismailiti e kharijti), in passato era considerato un dovere da osservare ciecamente da parte di tutte le varie forme di Islam.  Il Corano è disseminato di appelli alla gihad. Quel precetto è stato più volte ritematizzato. Ora il centro dove portare il conflitto non s’intende più un luogo fisico, come poteva essere un tempo il campo di battaglia, ma direttamente l’anima degli individui, la sede dove le persone coltivano i valori della libertà e della democrazia. E lo strumento per attaccare l’anima delle persone è il terrore. Dinanzi a questa determinazione non c’è atteggiamento conciliante che tenga. Bisogna rispondere con analoga freddezza. E una delle risposte è praticare la tolleranza come cittadinanza attiva.

 

Come diceva Norberto Bobbio, la tolleranza non va interpretata come espressione di uno stato d’indifferenza di fronte alla verità o come atteggiamento di chi non crede a nessuna verità e per il quale tutte le verità sono egualmente discutibili. Nello stesso tempo, la tolleranza non va praticata, come fanno i credenti, come un minor male, e solo nel caso in cui sia strettamente necessario per la difesa stessa della propria verità. La tolleranza non deve essere considerata una mera regola di prudenza. Ma va vissuta come un metodo per rispettare la coscienza altrui, ponendosi però dei limiti ben precisi.  E dove sono questi limiti invalicabili? Nella formula seguente: tutte le idee debbono essere tollerate tranne quelle che negano l’idea stessa di tolleranza. Insomma, gli intolleranti non devono affatto essere tollerati. In che modo? Non già perseguitandoli, ma riconoscendo ad essi il diritto ad esprimersi liberamente e criticando aspramente le loro intolleranze. Insomma, basta con il buonismo tollerante e conciliante. Bisogna passare alla battaglia delle idee mediante l’argomentazione, il confronto duro, l’educazione, la progettualità condivisa e la crescita culturale. Tutto ciò non si fa con le chiacchiere ma investendo risorse adeguate nei territori multietnici delle nostre città.

Non è detto che l’intollerante, accolto nel recinto della libertà, capisca il valore etico del rispetto delle idee altrui. Ma è certo che l’intollerante escluso non potrà mai diventare un leale osservante della tolleranza. Può valer la pena di mettere a repentaglio la libertà accogliendo nel nostro seno il nemico, se l’unica alternativa è di restringerla sino a soffocarla. Meglio una libertà in pericolo ma che si espande che una libertà protetta che si chiude in se stessa. La vera libertà corre sempre il rischio di trasformarsi nel suo opposto.

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Mafia Capitale copre il vuoto della rappresentanza sociale

Il PD romano è comprensibilmente depresso. Lambito dall’inchiesta giudiziaria cosiddetta “Mondo di mezzo”, ha dovuto subire il commissariamento di Matteo Renzi. Ma la persona prescelta dal segretario a rivitalizzarlo è un parlamentare di Roma, Matteo Orfini. Il quale ha commissionato a Fabrizio Barca uno studio sui circoli democratici della capitale per  venire a capo delle ragioni del coinvolgimento del partito nei gravi fatti di collusione tra criminalità organizzata e amministrazioni pubbliche. Eppure i democratici americani e il Labour britannico, per affrontare le loro difficoltà, non sono partiti dalla propria organizzazione  ma dalla società con cui i partiti dovrebbero interagire. La stessa cosa andrebbe fatta a Roma perché la mafia copre il vuoto della rappresentanza sociale.

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L’ipotesi di lavoro intorno a cui Barca e la sua équipe si muovono si poggia su due elementi, entrambi individuati come fenomeni concomitanti all’origine dei fatti collusivi: a) l’accumularsi di errori nell’azione pubblica di governo della città, specie in quella che avrebbe dovuto assicurare inclusione sociale ai suoi cittadini più vulnerabili (servizi essenziali di urbanizzazione, di sicurezza, abitativi, di cura degli anziani e dell’infanzia, etc.); b) la progressiva trasformazione del partito in una “macchina per il bilanciamento del potere” priva di riferimento a una visione della città e a un progetto politico e mescolata in forme spesso improprie con l’amministrazione (municipale e comunale). Si mischiano così ingredienti diversi per una minestra di dubbia efficacia nella cura del morbo: a) le cordate dei “signori delle tessere” che avrebbero trasformato il Pd appena nato in un partito “feudale”, privo di una visione di città; b) gli strumenti e le regole per il governo della città, utili nella prima fase delle giunte Rutelli, ma rivelatisi fragili o addirittura perversi successivamente, fino a trasformarsi in mezzi di degenerazione con la giunta Alemanno. Il tutto per sostenere l’improbabile ipotesi secondo la quale sarebbero questi due fenomeni a scatenare il rapporto perverso tra partito e amministrazione. “Il partito – scrive Barca – non serviva più a raccogliere e traghettare fabbisogni, idee e possibili soluzioni dalla comunità di iscritti e cittadini agli amministratori, a tenere gli amministratori sotto controllo”.

Purtroppo l’ex ministro della coesione territoriale non ha sperimentato direttamente cos’era il Pci alla fine degli anni ’80 e non ha vissuto le diverse prove di “partito nuovo” con il Pds prima e i Ds poi. E quindi non può sapere che da almeno trent’anni la maggiore formazione politica della sinistra italiana non riesce più a sintetizzare la complessità sociale, non propone più decisioni da realizzare, non trasforma più i bisogni della società in scelte che gli amministratori e i cittadini possano comprendere e valutare e, soprattutto, non esercita più alcun controllo sugli eletti. Ma quello che maggiormente non vuole prendere in considerazione, nonostante le molteplici critiche di questi anni alla sua idea rinnovatrice del Pd, è che questa mutazione non è avvenuta per una qualche vendetta della storia o perversione dei gruppi dirigenti. Ma semplicemente per una ragione obiettiva: il modello di partito che Barca ha in testa non è più realisticamente compatibile con la società che la sinistra stessa ha contribuito a edificare mediante le sue conquiste storiche.

L’economista introduce, infine, una sorta di demarcazione conflittuale tra i vertici del Pd romano, individuati come detentori del potere feudale, e la base degli iscritti e dei dirigenti dei circoli, identificati come portatori del cambiamento. Un’ipotesi del tutto irrealistica perché le strutture di base non sono altro che lo specchio fedele dei “signori delle tessere” a cui fanno riferimento per le loro attività. L’obiettivo di Orfini e Barca sembra essere quello di cambiare metodo di lavoro del partito per renderlo capace di darsi una visione di città. Insomma, permane in loro l’idea fissa novecentesca del partito fine e non strumento per cambiare le cose. L’idea – questa sì perversa – che basti cambiare il partito per produrre innovazione sociale.

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Ma quella parte di società che potrebbe effettivamente produrre tale innovazione sta fuori del partito. E la mafia è annidata lì, nelle sue lacune e debolezze. Non a caso i partiti li ha solo sfiorati. Lo scambio è avvenuto con gli amministratori (i decisori politici) e coi vertici tecnici della pubblica amministrazione. Proprio per questo motivo “Mondo di mezzo” non è paragonabile a “Tangentopoli”. Gli scandali corruttivi dei primi anni ’90 videro coinvolti i tesorieri dei partiti che costituivano i comitati d’affari. Oggi l’associazione mafiosa è insediata negli interstizi tra cittadini e società, laddove appunto le rappresentanze degli interessi dovrebbero leggere e selezionare i bisogni sociali e tramutarli in richieste leggibili per la politica e per i cittadini. Afferma il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che «il vero collante [dell’associazione mafiosa] è costituito dalla convenienza reciproca: la possibilità di entrare nei luoghi decisionali della pubblica amministrazione e il denaro. Denaro in grande quantità, la possibilità di averne sempre di più, di mantenere i rubinetti sempre aperti».  E continua: «Nella nostra inchiesta tutto si mescola: il mafioso parla da manager e da burocrate, il funzionario si presta a operazioni corruttive di impatto economico a volte minimo a volte significativo, pronto a ripeterle qualunque sia la postazione che la politica sceglie per lui; l’imprenditore accetta o addirittura cerca la protezione del mafioso, mentre delicati incarichi amministrativi di nomina politica vengono affidati a persone indicate da Carminati». Sembra, dunque, abbastanza evidente che la mafia romana svolga una vera e propria attività lobbistica: “crea” emergenze e ne pilota la percezione nell’opinione pubblica, come ha efficacemente rilevato Cesare Buquicchio; offre una nuova agenda di bisogni comprensibili, come ha brillantemente scritto Gabriele De Giorgi; indica gli uomini giusti al posto giusto nella pubblica amministrazione per acquisire risorse pubbliche, sottraendole così ai servizi effettivamente necessari ai cittadini; non offre ai decisori politici solo soldi ma anche consenso elettorale in virtù del forte controllo del territorio da essa esercitato.

Sono tutte attività che la criminalità non potrebbe svolgere qualora vi fossero efficienti organizzazioni di rappresentanza delle forze sociali in grado di svolgere le proprie funzioni in un rapporto diretto coi cittadini, le imprese, il territorio. Ma queste strutture oggi hanno smarrito la propria funzione originaria e sono disperse in mille rivoli, divise per settori, categorie, forme giuridiche, bisogni speciali, storie ideologiche, ecc., intente a gestire pezzi di spesa pubblica per “mantenere” le proprie strutture organizzative: patronati, caf, caa, servizi per i sistemi di qualità, formazione professionale, attività promozionali, vigilanza agli affiliati, ecc. E invece le mafie agiscono in loro sostituzione “raccordandosi” con gli amministratori pubblici (sia decisori politici che strutture tecnico-amministrative), “cavalcando” i bisogni dei cittadini e trasformando le diverse esigenze in richieste funzionali ai propri affari illeciti. Non è un fatto nuovo. Già nel secondo dopoguerra si verificò questo fenomeno in alcune regioni meridionali laddove le organizzazioni democratiche erano estremamente deboli. Perché le mafie non sono anti-Stato ma altro-Stato.

Barca e Orfini farebbero bene a ispirarsi al Labour britannico che nel 2010, dopo la seconda peggior sconfitta della sua storia, ha scelto il community organizingcapacity building per rigenerare il proprio rapporto con la società. Si è insomma mosso dall’esterno del partito, mappando le comunità, i suoi leader naturali, la cittadinanza attiva e l’associazionismo diffuso. Oggi la priorità è quella di strutturare, in modo sano e trasparente, gli spazi di definizione dei bisogni sociali partendo “dal basso”, incrociando coloro che già lo fanno, spesso in silenzio e contrastati dalle “sigle” e “siglette” che pretendono di essere le depositarie della rappresentanza sociale senza svolgerne più le funzioni. Si tratta di capire i motivi che rendono difficili a Roma i percorsi partecipativi per la progettazione integrata territoriale, pur vivamente raccomandati dalle politiche europee strutturali e di coesione. Andrebbero approfondite a fondo le ragioni dell’inerzia nell’attuazione dei piani di zona dei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari e delle correlate forme partecipative. Bisognerebbe studiare il modo come connettere la governance delle cooperative sociali e delle associazioni di volontariato con gli utenti, i lavoratori e il territorio e sostenere la “valutazione” partecipata dei servizi offerti ai cittadini.

Solo se si creano, si rafforzano e si risanano questi luoghi, i partiti potranno svolgere un ruolo. Potranno, cioè, diventare strumenti di collegamento tra cittadini organizzati e istituzioni, oltre che promotori di classi dirigenti che si formano nell’ascolto dei bisogni. Ma c’è la necessità di una iniziativa politica nella società per avviare tale processo, con la consapevolezza che il problema non è prevalentemente nei partiti ma è fuori di essi. Spetta però ai partiti prenderne coscienza e agire di conseguenza.

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Contro le mafie: legalità, legalitarismo e disobbedienza civile

L’azione di contrasto alle mafie ha bisogno congiuntamente di legalità, legalitarismo e disobbedienza civile. Ognuna di queste parole rappresenta concetti diversi e distinti ma, tenute insieme, possono contribuire a un vero e proprio programma di iniziative concrete per liberarci dalle mafie.

La legalità è uno dei principi che caratterizzano lo Stato di diritto ed esprime l’idea che ogni attività dei pubblici poteri debba trovare fondamento in una legge. Le norme possono disciplinare una certa discrezionalità entro cui la pubblica amministrazione si può muovere. Ma se si oltrepassano gli spazi di discrezionalità consentiti dalla legge si cade nell’arbitrio. E l’arbitrio, il favoritismo, il clientelismo  creano malgoverno e non governo, sottraggono risorse pubbliche ad un loro utilizzo efficiente, comprimono i diritti civili e sociali dei cittadini e favoriscono la corruzione e il malaffare,  in cui si annidano e prosperano le mafie. Battersi per la legalità è, dunque, esigere che i pubblici poteri agiscano nel rispetto della legge e non già in modo arbitrario. E, nello stesso tempo, promuovere ogni forma di collaborazione tra istituzioni e cittadini per denunciare qualsiasi atto illegale e favorire così il rispetto della legge.

Il legalitarismo è, invece, una concezione etico-politica generalmente professata da partiti e movimenti politici  che, prefiggendosi radicali e profonde riforme di carattere economico e sociale, cercano di realizzarle attraverso un confronto democratico nelle istituzioni e nella società anziché ricorrendo a metodi e mezzi violenti. Essere legalitari significa, dunque, raggiungere i propri fini politici di giustizia sociale con gli strumenti della democrazia e non imponendoli con la violenza.

Infine, il concetto di disobbedienza civile o di obiezione di coscienza risponde alla domanda: è giusto disobbedire alle leggi ingiuste? Un contributo originale volto ad approfondire questo tema è stato fornito da don Lorenzo Milani nella famosa Lettera ai giudici. Nel 1965 il priore di Barbiana scrive la Risposta ai cappellani militari che avevano sottoscritto un ordine del giorno in cui «considera(va)no un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà».  Avendo difeso gli obiettori, don Milani viene denunciato da un gruppo di ex combattenti per apologia di reato. Durante il processo, egli scrive la Lettera ai giudici in cui affronta il tema dal punto di vista laico e civile che qui ci interessa.

Don Milani parte dal principio che le leggi vanno amate perché il loro rispetto da parte di tutti è alla base degli ordinamenti democratici e della convivenza civile. Ma aggiunge di non poter dire ai suoi allievi «che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla». Perché? «Posso solo dir loro – continua – che essi dovranno tenere in tale onore le leggi da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate».

Fin qui non c’è ancora il tema della disobbedienza civile. C’è l’incitamento a battersi per cambiare le leggi quando sono ingiuste, cioè quando permettono ai forti di vessare i deboli. E la lotta per cambiarle non fa venir meno la tensione morale per osservarle. Ma il testo continua così: «La leva ufficiale per cambiare le leggi è il voto. Ma la leva vera è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti. E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza  che è cattiva e accettare la pena che essa prevede».

La disobbedienza civile è, dunque, per don Milani un atto educativo («…non c’è scuola più grande…»), un atto di testimonianza, un modo per pagare di persona (davvero e non per finta!) la pena prevista per aver violato una legge ingiusta. «Chi paga di persona – precisa il sacerdote – testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri».

Come si può chiaramente notare, nella concezione di don Milani riguardo alla disobbedienza civile non c’è alcunché di anarchico ma «un amore costruttivo per la legge» (sono parole sue). Si potrebbe dire che nel suo pensiero il concetto di legalità è declinato fino alle estreme conseguenze: battersi per migliorare le leggi fino a renderle giuste mediante atti concreti che comportino anche il sacrificio di pagare di persona per la violazione di norme ingiuste. Per l’educatore di Barbiana è in questo modo che si formano cittadini consapevoli e responsabili e classi dirigenti capaci di mettere l’interesse generale innanzi ad ogni tornaconto personale o di gruppo.

Cosa può significare tutto questo nella lotta alle mafie?

Promuovere la legalità, cioè battersi perché i pubblici poteri osservino le leggi. Le mafie si diffondono quando la discrezionalità delle pubbliche amministrazioni esorbita dalle norme legali e diventa arbitrio. E nell’arbitrio pullulano la corruzione e il malaffare. Diventa, quindi, necessaria una mobilitazione per scovare ogni forma di illegalità, sopruso, prepotenza, favoritismo, clientelismo che si consuma nelle istituzioni a danno dei cittadini e combattere tali comportamenti a viso aperto e con tutti i mezzi legali e non violenti, dalla denuncia all’azione penale. La mobilitazione per la legalità è, al contempo, conflittuale e collaborativa. Ed è legalitaria perché si svolge nelle regole democratiche senza alcun uso della violenza.

Battersi per cambiare le leggi quando negano i diritti dei più deboli fino al punto di disobbedire alle norme che la propria coscienza reputa ingiuste, ma accettando di buon grado la pena prevista per chi le viola. Guai a venire a patti coi pubblici poteri per ottenere l’impunità mediante un atto d’arbitrio o un favore di chi è tenuto a far osservare le leggi che si violano. La lotta per la giustizia sociale scadrebbe in collusione con chi, nella pubblica amministrazione, invece di applicare le leggi agisce in modo arbitrario e clientelare. La testimonianza è efficace, cioè muove altri ad agire per il cambiamento, se la mobilitazione sociale non provoca soprusi o favoritismi da parte dei pubblici poteri e se non assume il significato di scardinare l’ordinamento ma di migliorarlo mediante un’azione legalitaria, ossia non violenta, e che porta a pagare di persona l’obiezione di coscienza.

Si toglie acqua di coltura al proliferare delle mafie se maturano la consapevolezza e la responsabilità degli individui e dei gruppi, se crescono i diritti sociali e civili delle persone, se aumentano le occasioni di lavoro mettendo a frutto risorse pubbliche e private, se migliorano la qualità e l’efficienza delle istituzioni pubbliche. È questo il senso della legalità che dovremmo sempre più accogliere nel nostro modo di essere e di pensare per contrastare le mafie.
19marcia-legalita-acerra-16-marzo-2010




Roma metropolitana: Marino fermi il treno prima che vada a sbattere

Ignazio Marino fa ancora in tempo a fermare il treno in corsa che distruggerà la prospettiva di Roma come effettiva capitale d’Italia. Domani il Consiglio metropolitano discuterà a Palazzo Valentini lo statuto del nuovo ente messo a punto dalla commissione competente. Non se ne conosce il contenuto. Ma sembra che l’orientamento sia quello di confermare la nascita di un carrozzone che sostituirà di fatto la Provincia e depotenzierà la capacità del Comune di Roma di svolgere i poteri speciali di capitale previsti dalla Costituzione.

Il Coordinamento Promotori Nuovi Enti Locali (Co.Pro.N.E.L.) ha chiesto al Sindaco di Roma capitale di sospendere ogni decisione e proporre all’Assemblea capitolina la creazione delle zone omogenee dotate di autonomi poteri e di trasmettere la relativa delibera al Consiglio metropolitano come emendamento alla proposta di statuto.

Spetta, infatti, a Roma capitale indicare gli enti territoriali che potranno formare la città metropolitana. Tali enti dovrebbero essere i seguenti: i 15 municipi di Roma capitale; i comuni attuali di Fiumicino, Pomezia, Ciampino, Fonte Nuova; i comuni costituenti e confinanti di Boville e Tor San Lorenzo. Si tratta della delimitazione contenuta nella proposta di legge d’iniziativa popolare annunciata al Consiglio Regionale del Lazio il 19 gennaio 2000.

Con la suddetta proposta – scrive il Co.Pro.N.E.L. a Marino – si porterebbe  a compimento quel moderno processo riformatore che le comunità metropolitane aspettano da decenni, conciliando le comuni esigenze metropolitane e capitoline, da ricollocare nello stesso ente costituzionale omogeneo, con  quelle diverse  e distanti di altre comunità. E’ infatti del tutto paradossale che la capitale d’Italia ampli le sue propaggini fino ai confini con l’Abruzzo e con il Frusinate, considerando metropolitani anche quei territori che hanno caratteristiche marcatamente rurali e con notevoli problemi di sviluppo.

Finora ci sono state solo delle anticipazioni da parte di qualche consigliere circa l’orientamento favorevole  per l’elezione diretta del Sindaco e del Consiglio metropolitano e per il rafforzamento dei municipi di Roma capitale. Sarebbero fatti positivi se fossero accompagnati dalla conferma del disegno di riforma maturato in questi decenni che vuole la convivenza di Roma capitale (coi suoi poteri speciali) e della sua città metropolitana (con le sue nuove funzioni) in un unico ente omogeneo operante in un territorio appropriatamente delimitato in funzione dei complessi compiti da esercitare.

La vicenda ha del paradossale. Mentre in alcuni palazzi romani si sta distruggendo la prospettiva di Roma capitale in altri palazzi,
alcuni parlamentari del PD (in primis Roberto Morassut e Raffaele Ranucci) hanno presentato alla Camera e al Senato la proposta di attribuire a questa città il rango di Regione, in considerazione della specialità già prevista dalla Costituzione. Una proposta senza dubbio riformista. L’Italia si allineerebbe così ai paesi europei più importanti che hanno capitali coincidenti con regioni o distretti.

Ma alcune domande nascono spontanee: “Cari amici, perché non proponete al Governo la sospensione immediata di un percorso del tutto assurdo che sta portando alla creazione di una città metropolitana distinta da Roma capitale? Non vi sembra paradossale creare un nuovo ente che anziché rafforzare le funzioni della capitale le indeboliscono? Come può essere credibile la vostra iniziativa – che ha bisogno di una legge costituzionale – se non siete in grado di ottenere dall’esecutivo un provvedimento immediato di sospensione di un percorso che porterà alla creazione di un nuovo carrozzone del tutto inutile? Perché non proponete un dibattito serio e approfondito a Roma e nel Paese per seguire un percorso che porti alla trasformazione di Roma capitale in città metropolitana?”

Se il PD romano vuole superare la profonda crisi di credibilità in cui si sta dimenando, non può proporci la solita tragicommedia che vede la mano destra fingere di non sapere cosa fa la mano sinistra.

 

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