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Amicizia, angeli, coccole e primi amori. Il trionfo di Aria è la rivincita delle teen

Chi è Miriam Dubini, milanese di nascita e romana d’adozione, autrice del best seller che sta spopolando tra le ragazzine. “Greta è diversa dal prototipo della quattordicenne che viene propinata abitualmente da fiction, telefilm, dove sembra che tutte le ragazzine sognino di diventare cantanti o ballerine”. Dalle esperienze col circo ad Art Attack, la storia nasce a Corviale e in ogni personaggio c’è un po’ di lei…

I ragazzini di oggi sono ”vivi, vispi, attivi e reattivi, e anche competenti e preparati perché hanno più mezzi per apprendere. Ma sono anche selettivi, diciamo che tendono ad approfondire solo quello che trovano interessante”. Romantica e sgarrupata, una vita in bicicletta.

E’ l’idolo delle adolescenti: i suoi personaggi romantici e solari stanno facendo sognare una nuova generazione di piccole donne che si affaccia alla vita con il cuore che batte per i primi innamoramenti. Le sue storie di amicizia, angeli, dolci abbracci sulla spiaggia e pedali hanno conquistato il cuore di migliaia di ragazzine. Trentasei anni, milanese di nascita, romana d’adozione, occhi scuri vispi e due trecce da bambina, Miriam Dubini è l’autrice della trilogia “Aria”di un vero e proprio best seller tutto italiano, ambientato tra le strade di Corviale che i protagonisti attraversano con le loro biciclette e sulle ali della fantasia.
Laureata in semiotica, ha scritto e recitato per il teatro dei ragazzi, ha collaborato con la Disney, ha creato giochi per Art Attack, ha persino lavorato nel circo. Che esperienza è stata?
“Sono arrivata ad circo grazie al mio maestro dell’Accademia Disney di Milano, mi ha chiesto di sostituirlo per un lavoro e così ho conosciuto Ambra Orfei, una donna straordinaria, dolcissima, una donna che lavora da quando aveva quattro anni. Mi hanno chiesto di collaborare, penso che avrei detto di sì per qualsiasi cifra”.
E cosa faceva in particolare?
“Scrivevo idee e testi per spettacoli aziendali insieme allo staff dei coreografi, dei costumisti, e insieme ad Ambra naturalmente. Un’esperienza bellissima, potevo lavorare con la fantasia e creare situazioni magiche e impensabili”.

Mi racconti di Art Attack
“Ho collaborato per otto anni al mensile, lavoravo ai progetti e li realizzavo. Durante la costruzione veniva scattato il servizio fotografico per illustrare le fasi del lavoro”.
Un oggetto che si ricorda di aver inventato?
“Un pesce con tre occhi, costruito con il caschetto da bicicletta”.
Lei ha scritto libri per bambini e libri per ragazzi: quali sono le differenze nella scrittura, nello stile, nei contenuti?
“Quando scrivo libri per bambini sto attenta soprattutto alla costruzione del pensiero: un pensiero troppo complesso affatica i giovani lettori. Al contrario, una scrittura più complessa penso invece possa essere utile per i ragazzi per aiutarli a fare un salto di ragionamento. Inoltre le frasi complesse sono più appropriate per esprimere quegli stati d’animo che sono propri dell’adolescenza, l’incertezza, il dubbio, la sospensione, l’amore, si prestano a lasciare spazi personali di interpretazione che i ragazzi possono riempire”.
Cosa deve avere una fiaba per essere una fiaba?
“Mentre la favola ha sempre una morale, la fiaba è il racconto di qualcuno che ha capito qualcosa della vita e che vuole raccontarlo a chi ancora non ci ha capito niente”.
Ad esempio?
“Ad esempio Cappuccetto Rosso racconta dei pericoli che si devono affrontare per diventare donna, lascia intendere che esistono uomini cacciatori che possono rappresentare un pericolo o, al contrario, possono essere coloro che completano la vita. Una delle mie fiabe preferite è Hansel e Gretel, la fiaba a cui si ispira Aria”.
Cosa rappresentano per lei i due personaggi?
“Il maschile e il femminile, la madre cattiva rappresenta la minaccia, l’abbandono simboleggia la fase della maturità che sta arrivando, fratello e sorella, maschio e femmina uniscono le forze ed escono dal bosco con un tesoro”.
Come nascono i suoi personaggi?
“Mi vengono a trovare, mi bussano alla porta ed io li scelgo. Quando ho scelto il personaggio lo costruisco guardando la vita attraverso i suoi occhi. I personaggi che ruotano attorno al protagonista nascono attraverso il principio del contrasto”.
Veniamo al personaggio chiave della trilogia Aria, la ragazzina di cui tante adolescenti si sono innamorate: com’è Greta?
“Greta è diversa dal prototipo della quattordicenne che viene propinata abitualmente da fiction, telefilm, dove sembra che tutte le ragazzine sognino di diventare cantanti o ballerine. Un’immagine che non rappresenta la vita vera, evanescente e superficiale anche nei rapporti sentimentali. Greta è una giovane donna che non crede nell’amore ma poi tutto cambia e lei si trasforma”.
Nella trilogia ci sono tre personaggi femminili: Greta, Lucia ed Emma. Chi assomiglia più a Miriam?
“In ognuno di loro c’è qualcosa di me: diciamo che Greta è com’ero io a tredici anni, Lucia come ero a 8 anni, ancora bimba e infinitamente dolce, Emma rappresenta la fase della donna che sboccia, bella e intraprendente, già cosciente che la femminilità oltre ad essere una questione di sensibilità è anche una questione di strategia”.
E Anselmo?
“Beh Anselmo è il ragazzo che tutte sognano, beato chi se lo piglia direi, sfuggente e molto affascinante, misterioso ma solare”.
La storia è ambientata a Roma, ci sono luoghi di riferimento?
“La storia è ambientata nella periferia romana, in particolare a Corviale”.
Perché ha scelto la periferia?
“Perché io sono nata e cresciuta nella zona di via Meda, nella periferia milanese, popolata da persone simili a quelle che vivono a Corviale. E’ un’esperienza della mia vita di cui vado orgogliosa, mi piace pensare e trasmettere l’idea che si può emergere anche se si è cresciuti in quei posti e che conoscere quella realtà aiuta a comprendere le differenze, a capire le debolezze, ad accettare il male. Ma c’è anche un altro motivo direi sociale”.
Quale?
“La volontà di contrastare il modello preponderante proposto dalle fiction in cui tutto è ovattato e perfetto: credo faccia male ai ragazzi che stanno crescendo perché insinua l’idea che essere diversi dal modello proposto sia una loro mancanza, crea necessità finte spesso irraggiungibili che possono generare frustrazioni”.
Come sono gli adolescenti di oggi?
“Vivi, vispi, attivi e reattivi, e anche competenti e preparati perché hanno più mezzi per apprendere. Ma sono anche selettivi, diciamo che tendono ad approfondire solo quello che trovano interessante”.
Nei suoi libri esiste un oggetto simbolo, un leit motiv che rappresenta la libertà, la voglia di volare, il contatto con l’ambiente e la natura: si tratta della biciletta. Lei a quanti anni ha imparato a pedalare?
“Abbastanza tardi, a sei o sette anni, ho iniziato a utilizzare molto la bicicletta durante gli anni delle medie per andare a scuola”.
Quante biciclette ha avuto?
“Direi molte, ma ce ne sono alcune a cui sono rimasta più affezionata: la prima è stata Saltafoss una bici sgangherata recuperata nella casa diroccata di mio zio, a dodici anni è arrivata la prima mountain bike che usavo soprattutto durante le vacanze in montagna, poi c’è stata la bici del periodo universitario, originariamente era rosa ma, poiché è un colore che non sopporto, l’ho dipinta di giallo e ho disegnato dei soli. Successivamente ho adottato uno bici nera che era stata abbandonata, l’avevo chiamata Giuccamatta. Poi è arrivata la mitica Merlina: me l’aveva regalata il fidanzato di allora, avevo all’incirca trentadue anni, ci ero davvero molto affezionata”.
E che fine ha fatto?
“Me l’hanno rubata”.
Davvero? E dove?
“A Roma, a piazza della Repubblica, ero andata a fare una passeggiata a villa Ada, l’avevo legata ad un palo, hanno sfilato il palo e l’hanno portata via”.
Ed è rimasta senza bicicletta?
“Mio fratello me ne ha regalata un’altra, si chiama Irma, che in portoghese significa “sorella” ed è una bici da corsa azzurra”.
Quindi lei ha un fratello?
“E’ tre anni più piccolo di me, è il mio opposto, lui è un ingegnere meccanico, costruisce macchinari per fare le lamiere, è sempre in giro per il mondo”.
Ma lei non utilizza mai l’auto?
“Non ho l’automobile da cinque anni, ho fatto i conti, posso prendere il taxi per duecento euro al mese e risparmiare i soldi per la manutenzione della macchina”.
Non indossa mai i tacchi quindi?
“Al contrario, con i tacchi si va da Dio in bicicletta, certo non con il tacco dodici”.
E’ vero che pedalando le viene l’ispirazione?
“In effetti, quando scrivo e non mi viene l’idea giusta prendo la bici, il movimento, la sua velocità comprensibile mi permette di soffermarmi su quello che mi sta intorno e l’ispirazione arriva quando l’attenzione si appoggia su un dettaglio e si scalda”.
Le piace il nuovo sindaco di Roma in bicicletta?
“Marino arriva in un momento difficilissimo, spero riesca a realizzare le promesse che ha fatto in campagna elettorale, mi piace che vada in bici ma penso che stia caricando di troppi significati questo mezzo di locomozione che invece è l’oggetto più semplice che esiste”.
Che rapporto ha con Roma?
“E’ la città dove ho scelto di vivere, sono a Roma da quattro anni e l’innamoramento non è mai passato”.
Quali sono i progetti per il futuro?
“Nel futuro ci sono ancora libri per ragazzi, ma vorrei capire e affrontare argomenti diversi da quelli che hanno animato Aria”.
Quindi la trilogia è finita?
“Sì, la trilogia si chiude qui”.
La prossima non sarà una storia d’amore?
“Forse sì, forse no. Ci sto pensando”.
Si può vivere scrivendo libri?
“La risposta è sì se l’idea è quella giusta, altrimenti continua l’avventura”.
Da brava scrittrice, mi trovi due aggettivi che la descrivono…
“Li prendo in prestito da una frase della mia editor, la straordinaria Fiammetta Giorgi, che una volta mi ha definito romantica e sgarrupata”.

di Valentina Renzopaoli

da www.affaritaliani.it

http://www.ragazzimondadori.it/libri/aria-la-trilogia-completa

immagini di repertorio




C’era una volta un bel paese

La chiusura di un antico negozio di provincia e un incontro per festeggiare la lunga carriera di un uomo di cinema: perché mai un giornale dovrebbe occuparsi di fatti del genere se non nelle cronache minori? È vero, ma forse la condizione di un Paese la si intende meglio proprio dai fatti all’apparenza minori. Dove la realtà appare più vera e colpisce più immediatamente magari perché capita, come in questo caso a chi scrive, di esserle stati in qualche modo vicino.

Entrambi i fatti di cui voglio dire hanno per teatro l’Umbria. A Perugia (una città che conosco bene per averci insegnato a lungo) ha appena chiuso i battenti – per le ragioni solite: un centro storico ormai semideserto, il costo del lavoro troppo alto, un livello qualitativo che ormai è richiesto da un sempre minor numero di clienti – un’antica pasticceria, la pasticceria «Sandri». Come altri negozi del suo genere sparsi qua e là nella Penisola, era stata fondata da un cittadino svizzero subito dopo l’Unità, e, rimasta a tutt’oggi di proprietà di una famiglia d’Oltralpe, ancora esibiva nel grazioso affresco ottocentesco che ornava in alto le sue pareti la croce bianca in campo rosso della Confederazione.
Dal punto di vista dell’arte dolciaria e gastronomica era un luogo di «eccellenze», come si dice oggi. Assai più contava però il suo essere da sempre punto d’incontro e di ritrovo dell’élite cittadina; ma non solo: con il tempo, infatti, «Sandri» era divenuto un luogo di autoriconoscimento dell’intera comunità, un luogo della sua identità.

Più o meno nei medesimi giorni e a poche decine di chilometri – ecco il secondo fatto «minore» di cui dicevo all’inizio – il Festival di Spoleto ha festeggiato Enrico Medioli, uno dei più importanti scrittori del nostro cinema (e poi anche della televisione): sceneggiatore di film memorabili, in specie di Visconti, che restano tra le glorie artistiche di questo Paese: Rocco e i suoi fratelli , Il Gattopardo , La caduta degli dei . È stato festeggiato con la proiezione di un documentario che ne ha ripercorso la carriera. Nel buio del piccolo teatro rivisse così quella mattina, attraverso alcune immagini delle opere ricordate sopra, attraverso i ricordi intrisi d’intelligenza e d’ironia dello stesso Medioli e di tanti che avevano lavorato con lui, una grande pagina della storia culturale italiana. Quella del nostro cinema dei decenni postbellici: con la sua passione e il suo amore per le cose e la storia del Paese ma anche con la sua conoscenza delle cose e della storia del mondo; con la qualità artistica dei suoi uomini e delle sue donne; con il gusto e la suprema abilità artigiana dei suoi costumisti, arredatori, sarti, scenografi.
Ma che ne è oggi di tutto questo? Dov’è andata a finire l’Italia della pasticceria «Sandri» o quella in cui Visconti girava i suoi film? La risposta ha un tono inevitabile d’angoscia: svanisce, e già ne stiamo quasi perdendo il ricordo. Svanisce l’Italia delle cento città, l’antica, degna Italia provinciale insieme ai luoghi simbolici della sua socialità. Stravolta, come a Perugia e in mille altri luoghi, da politiche urbane demenziali, dall’arroganza distruttrice di una «gente nova» quasi sempre di origine politica o alla politica in mille modi collegata, abbandonata da una borghesia incolta e indifferente. Ma insieme a lei svanisce anche l’Italia moderna del Novecento, e agonizza quella cultura – il cinema, appunto – che per antonomasia ne accompagnò la straordinaria ascesa. Marghera, Mirafiori, Bagnoli, Sesto San Giovanni, Terni, l’Ilva sono i cimiteri, ormai abbandonati o quasi, del suo grande apparato industriale di un tempo, i cimiteri del suo grande sogno di stare alla pari con la parte più avanzata del Continente.

Un sogno che sembra finito: dappertutto, da Nord a Sud, non si contano le fabbriche ormai silenziose, così come non si contano lungo le strade le saracinesche abbassate dei negozi chiusi. Mentre a questa paralisi che avanza fanno da simbolico contrappunto l’eguale abbandono di Cinecittà, la desolazione produttiva e di idee di quella che un tempo fu la Rai, le tante librerie che scompaiono.

È un’intera, lunga pagina della nostra vicenda nazionale quella che oggi sembra chiudersi. Una grande pagina: la cui fine non solo si ripercuote drammaticamente sulla vita concreta di tanti, ma si accompagna all’aprirsi di un vuoto angoscioso, anche se spesso inconsapevole, nel cuore e nella mente di tutti. L’angoscia di avere imboccato la via verso un precipizio senza sapere se e quando riusciremo a fermarci.

Ma la politica, la politica, percepisce questo vuoto? Avverte questa angoscia? Nella crisi italiana il discorso torna necessariamente, implacabilmente, sempre allo stesso punto: alla politica. Più che mai le chiacchiere sulla società civile stanno a zero, infatti: più che mai l’Italia è condannata alla politica. Perché solo da lì possono venire non il miracolo ma innanzi tutto la parola, l’indicazione di marcia, la speranza di un futuro. Come ci ha spiegato a suo tempo Michael Walzer, l’Esodo degli ebrei dall’Egitto sotto la guida di Mosè è l’archetipo politico di ogni situazione sociale in cui è necessario rompere con il passato, imboccare arditamente vie nuove. Abbiamo forse, allora, bisogno di profeti? Ebbene sì, oggi l’Italia ha bisogno di profeti. È sbagliato farsi spaventare dalle parole: non sta scritto da nessuna parte, infatti, che non possano esserci profeti democratici: Roosevelt e anche De Gasperi a loro modo lo furono. Così come non sta scritto da nessuna parte che non possano esserci anche partiti capaci di spirito e di capacità profetica. Che poi vuol dire nient’altro che la capacità di trasmettere convinzione, fiducia, coraggio. Ma la capacità di farlo, vivaddio, uscendo dal consueto, osando modi e gesti inediti, dando segni emozionanti di rottura: che cosa c’è mai di così pericoloso in tutto questo, mi chiedo, per la democrazia? Nei momenti di crisi è piuttosto la banalità, il tran tran, il conformismo ripetitivo delle frasi fatte, ciò che uccide la democrazia. Consegnando i suoi cittadini – come sta accadendo oggi in Italia – alla passività, alla sfiducia e al disprezzo per la politica.

E. Galli della Loggia

corriere.it




Una segnaletica per la Libera Repubblica di San Lorenzo

Come si abita un territorio? Quali sono le relazioni, le trame, le vicende che vi si tessono? Si può trasformare un luogo a partire dal desiderio? Come ci prendiamo cura del quartiere? Come difendiamo e come re-inventiamo lo spazio che abitiamo?
Vogliamo raccontarlo, narrarlo, leggerlo, con un linguaggio nuovo.

Una segnaletica per raccontare San Lorenzo, il suo patrimonio, i suoi spazi, il suo passato, il suo presente che continuamente si intreccia al nostro. Una segnaletica per la conoscenza, la cura e la condivisione degli spazi. Una segnaletica per valorizzare le tante realtà di san Lorenzo, nuclei di produzione di saperi, di cultura, di incontro, di relazione, che funzioni come modalità per riportare questa dimensione nelle strade e nelle piazze.

Facciamolo a partire dal 19 luglio: la data in cui ricorre il 70 anniversario del bombardamento di San Lorenzo. Una giornata che ci riporta bruscamente nel difficile passato e nella profonda memoria del quartiere, che ci riporta alle sue battaglie, alle sue lotte, alla strenua resistenza contro tutti i fascismi e all’orrore per la guerra. Ma una giornata che allo stesso tempo ci spinge a seguire il filo della Storia fino ad oggi e ad andare a cercare in quelle stesse vie i luoghi di conflitto, di lotta e di ricerca che ancora oggi resistono e liberano.

Riappropriamoci degli spazi, segnaliamo i nostri luoghi, la nostra storia, con una segnaletica che possa comunicare immediatamente a tutti la vita, la storia, i sogni e le lotte che attraversano il nostro quartiere, tra resistenza e creatività.

Per questo abbiamo inventato un codice visivo per San Lorenzo, fatto di brevi poesie, citazioni, piccoli scritti, segni, indizi, immagini e disegni, per una segnaletica che parli del territorio e di chi il territorio lo abita, attraverso linguaggi artistici, che sia direttamente leggibili da tutti. Ridisegnamo la città, facciamo sconfinare l’arte, la cultura, la memoria, fuori dai teatri, dalle università, dai musei,… nelle strade, nelle piazze, nei cortili.

Lo stiamo facendo insieme: con gli artisti, gli artigiani, gli abitanti e gli avventori di san Lorenzo.
Abbiamo raccolto delle citazioni sul quartiere, tante, e abbiamo comprato delle mattonelle. 
Gli artisti di San Lorenzo le stanno dipingendo, altri ci scrivono le citazioni, dei brevi testi, delle poesie…
Stiamo rifacendo la segnaletica! Ogni luogo avrà la sua mattonella, i muri di San Lorenzo parleranno. Le mattonelle saranno affisse nelle strade per il 19 luglio,  il nostro gesto di cura per questo quartiere bombardato, resistente, libero.




La capacità di correggere gli errori

Ricorre quest’anno il Cinquecentesimo anniversario della pubblicazione di uno dei capolavori del pensiero mondiale, Il Principe di Machiavelli, opera che rivaleggia con la Divina Commedia di Dante per traduzioni dalla nostra lingua. Se avrete la pazienza di rileggere la fatica del Segretario fiorentino resterete impressionati da come, nella sua visione del Potere, degli Interessi, della Forza e della Strategia nulla sia mutato dai turbolenti giorni delle Corti e dei Principati. Obama contro Putin, Xi Jinping contro il premier giapponese Abe, le manovre navali congiunte Mosca-Pechino, i marines che arrivano in Australia, l’intero nostro tempo ancora si inquadra nel Potere che si fa Leone, Volpe, che si cura di Essere o di Apparire, di far Paura o indurre Amore.

 

Tutto, tranne i social media, il web, l’epoca dei personal media che rendono il Potere sottoposto a un caleidoscopio di informazioni, controlli, dibattiti, trasparenza. Se i familiari di Muktar Ablyazov, dissidente kazako, fossero stati deportati dall’Italia al loro Paese nei giorni della vecchia diplomazia e del vecchio potere, secondo la sintassi feroce così genialmente studiata (non difesa, si badi) da Machiavelli, nessuno di noi avrebbe mai sentito parlare di loro.

 

E questo articolo non sarebbe mai finito in prima pagina su La Stampa. Soffrire di nascosto e in silenzio era la pena dei deboli, imporre la loro ferrea volontà a piacimento era il privilegio dei forti. L’esilio, l’oblio, l’emarginazione, condivise da Dante e Machiavelli, venivano comminate dal solo capriccio del Principe. Se oggi il governo di Enrico Letta, Angelino Alfano ed Emma Bonino, dopo una campagna di opinione pubblica guidata da questo giornale, torna sui propri passi e riconosce l’incongruenza di affidare profughi inermi ai loro possibili persecutori si deve al potere morale dell’opinione pubblica diffusa dal web, oltre naturalmente alla loro sensibilità umana.

 

In altri tempi, la regola burocratica poteva essere applicata passando inosservata, magari seguendo alla lettera la legge e il protocollo l’espulsione poteva anche essere comminata, ma il web rende il motto antico «Summum ius summa iniuria» una legge morale più forte di quella scritta. Seguire un diritto la cui conseguenza è l’ingiustizia può salvare la coscienza di un burocrate, ma oggi non è più difendibile davanti a tanti cittadini con in mano uno smartphone e una connessione internet. L’ambasciatore italiano a Washington Bisogniero ha chiesto a dirigenti della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato e docenti Usa di dibattere la «cyberdiplomacy» tra Usa e Europa e il risultato è stato sorprendente: il consenso è che il web ha mutato per sempre i rapporti tra gli Stati.

 

Se per i tiranni, delle grandi e piccole potenze, questa è una minaccia che alla lunga potrebbe anche essere fatale, per i leader delle democrazie è insieme una costrizione e un’opportunità. A breve li rende soggetti a valutazioni da fare sotto pressione, come quelle opportunamente prese infine sulla famiglia Ablyazov. Alla lunga però concede un termometro di temperatura etica del Paese, dando ai governi, grazie al web, un dialogo fitto e continuo con la gente. La capacità di autocorrezione degli errori e il dibattito libero sono la vera forza della democrazia rispetto ai regimi autoritari, costretti sempre a restare ingessati nella volontà assoluta del Capo, e blindati ai loro errori.

 

Non si tratta di un antibiotico politico che cancella ogni male, naturalmente e presto i leader, anche studiando l’andamento dei Big Data sul web, riusciranno a manipolare e a guidare la discussione nei loro Paesi. Ma in profondo, oggi, i sistemi hanno una chance di essere davvero «società aperte» come sognava il filosofo Popper, che solo una generazione fa sarebbe stata illusoria.

 

Bene ha fatto dunque il governo Letta a recedere da una scelta non felice, bene hanno fatto tutti coloro che hanno lavorato online perché si arrivasse all’esito positivo. Meglio ancora se, in futuro, l’Italia saprà prevenire incidenti del genere, dandosi carattere da Paese amico dei dissidenti politici e aperto agli esiliati, come ricordano i libri di scuola è nella tradizione del nostro Risorgimento.

 

Quanto a Machiavelli, tornasse oggi tra noi a festeggiare il mezzo millennio del suo capolavoro, non esiterebbe ad includere un capitolo sull’online, indicando con la sua prosa lapidaria al Principe come governare il web da Leone e ai suoi rivali digitali come opporsi da Volpi internet.

G. Riotta

La Stampa




Omaggio a Maurizio Bartolucci

Lunedì 15 Luglio dalle ore 18.30 alle 21.30
Biblioteca Renato Nicolini
via Marino Mazzacurati 76

– Visita guidata a cura di Emiliano e Alberto Bartolucci
– Letture
– Proiezioni
– Musica dal vivo
– Presentazione del nuovo sito : www.mauriziobartolucci.it
Ingresso Gratuito

Con il patrocino del Municipio Roma XI (ex XV) Arvalia, di Biblioteche di Roma e nel circuito del Festival di Fotografia indipendente Occhirossi, prosegue prorogata fino al 31 Luglio, la mostra fotografica Passi del Nord “Luoghi, volti e parole del Nord Europa” di Emiliano Bartolucci, ideata e curata dal compianto Maurizio Bartolucci, protagonista ed organizzatore in questi anni di numerose iniziative culturali, sviluppate prevalentemente su tematiche sociali ed al quale è dedicata questa esposizione e la conseguente proroga.
La mostra in corso, Passi del Nord è un denso legame tra immagini e scrittura, racconta l’esperienza di viaggio condotta dall’autore da Amburgo fino al Circolo Polare Artico.
Un viaggio ispirato da grandi narratori, che hanno scritto pagine importanti nel secolo scorso e che ancora oggi, grazie alla straordinaria vena creativa del tutto nord europea, riescono a cogliere con ironia e inquietudine alcuni aspetti umani non semplici da raccontare.
Ad accompagnare la mostra con i loro scritti in questa selezione di immagini tra gli altri, Britt Annika Banfield, Jon Fosse, Hallgrímur Helgason ed il premio Nobel Halldór Laxness.
Allestimento e comunicazione a cura di Alberto Bartolucci.
info : http://myndroma.wordpress.com/2013/06/20/passi-del-nord/




“Io, criminale sopravvissuto vi mostro l’inferno di Scampia”

 

Gaetano Di Vaio è un produttore cinematografico con un passato pesante alle spalle: rapine, furti, carcere e lo spaccio di migliaia di dosi nella piazza di droga più imponente d’Europa. Per raccontarlo ha scritto un libro, “Non mi avrete mai”, insieme al regista Guido Lombardi. E ha realizzato un videoreportage esclusivo per Repubblica.it.

“Sono stato un delinquente, ho spacciato, fatto furti, rapine: ma sono sempre stato un indipendente, una vera e propria affiliazione alla camorra non l’ho mai voluta avere. Perché si può uscire dalla criminalità, si può uscire dalla droga, ma non si può uscire dalla camorra. Se sei camorrista muori fra i 30 e i 40 anni: io invece di anni ne ho 45. E  già per questo sono un sopravvissuto”. Capelli grigi, mascella decisa, volto tosto, voce con spiccato accento partenopeo insieme dura e gentile, Gaetano di Vaio racconta così – in un videoreportage realizzato in esclusiva per Repubblica.it – la sua prima vita: quella di maxi-pusher nell’inferno di Scampia, bravo ragazzo nel senso scorsesiano del termine, capace di controllare lo smistamento e lo smercio di cinque-seimila dosi al giorno. Nella più grande piazza di vendita di stupefacenti d’Europa, simbolo universale del potere dei clan.

“COSI’ VIVEVO DI DROGA”: IL VIDEOREPORTAGE ESCLUSIVO

Ma poi – dopo un percorso fatto di carcere, comunità di recupero, latitanza – Gaetano si è liberato dalle sue pendenze penali, ha voltato pagina e ha cominciato la seconda fase, quella attuale, della sua esistenza. Diventando produttore cinematografico, con l’associazione Figli del Bronx: tra le pellicole uscite dalla  sua scuderia ci sono il docufilm Il loro Natale, Napoli Napoli Napoli di Abel Ferrara (presentato alla Mostra di Venezia), e LA-BAS, emozionante che sempre al Festival della Laguna ha vinto, nel 2011, il premio come migliore opera prima. Ed è proprio col regista di quest’ultimo film, Guido Lombardi, che Di Vaio ha scritto un libro (appena pubblicato da Einaudi Stile Libero) in cui racconta la sua avventura umana, il suo autentico romanzo criminale.

Il titolo è già un programma, Non mi avrete mai, ed è una storia forte come il suo protagonista, a suo modo unica nel panorama letterario. Non solo per temi veri che tratta, personali e insieme capace di descrivere in presa diretta un grande male italiano; ma anche per la lingua utilizzata nei tanti dialoghi sparsi nelle 344 pagine del libro. Un dialetto molto colloquiale, comunque comprensibile da chi non è napoletano. E poi ci sono i tanti personaggi che incontriamo, andando avanti nella lettura: dai detenuti a cui il protagonista fa da scrivano in carcere al carabiniere che in cambio di due dosi al giorno lo avverte di eventuali blitz, e dei giorni a rischio cattura in cui è meglio non uscire a spacciare.

Ma non basta. Perché, in occasione dell’uscita del volume, i due autori hanno accettato di realizzare, davanti e dietro la macchina da presa, un videoreportage in esclusiva per Repubblica.it. Cinque minuti e mezzo di docu-cinema, in cui Di Vaio racconta ai nostri lettori alcuni momenti clou della sua vita. Mostrandoci le location autentiche in cui quei fatti si sono svolti. A partire da Scampia, dove Gaetano ci mostra il punto preciso in cui sovrintenteva alla vendita delle dosi a partire dalla fine degli anni Sessanta. “Materialmente non ho mai spacciato, lo facevano i ragazzi per me, io la droga la andavo a comprare e la preparavo”, dice davanti alla telecamera. Mentre nel libro spiega: “Qui ho rapinato, rubato, spacciato. Qui ho visto nascere la più grande piazza di droga d’Europa. Qui è nato mio figlio, che ora ha sei anni e mezzo. Qui sono nati i miei amici”.

Non solo Scampia, però: nel video realizzato per noi vediamo anche il casale di Villa Literno di proprietà del fratello, dove è stato nascosto da latitante. E l’ingresso del carcere di Poggioreale dove è stato l’ultima volta nel ’97. Un luogo che lui, nel filmato, definisce “Una vera e propria scuola, un moltiplicatore di criminalità là dentro, nella cella, dalla mattina alla sera si parla solo di crimini, e di come farli”.

Tutti luoghi, e temi, che il volume ovviamente approfondisce. Raccontandoci un’umanità brulicante, quasi sempre disperata, fatta di criminali e camorristi ma anche di immigrati. E insieme a tanta vita, nelle pagine di questa particolarissima biografia aleggia anche, e in maniera pesante, il suo opposto. La morte. Fatti di violenza, omicidi.  “Cose che succedevano sempre e comunque – si legge in un passaggio – anche se non c’era guerra tra i clan. A volte sgarri anche piccoli bastavano a provocare la punizione del Sistema. Secondo quella giustizia antica e animale che regna sempre nelle zone nostre”. E a cui lui, ex ragazzo balordo di periferia, a un certo punto ha detto no: “Non voglio sparare, non voglio picchiare, non voglio uccidere. Non voglio morire”. E ci è riuscito: diventando un Sopravvissuto, con la S maiuscola, come confessa davanti alla telecamera.

di CLAUDIA MORGOGLIONE

repubblica.it




“Avevamo la luna”, il bel libro di Michele Mezza

Non sono bravo a scrivere di libri, ma quello dell’innovatore Michele Mezza è davvero ben fatto e vale la pena cimentarsi. Anche perché con Michele discutiamo di innovazione dagli albori di Innovatori Europei nel 2006.

In ”Avevamo la luna” Michele mette su carta (e su evoluti supporti digitali, che interagiscono direttamente con il volume, attraverso l’uso di smartphone) una enorme mole di originali informazioni “connesse” tra loro nello storico ”anno – cronotopo” 1962-64: “tre anni di grandi corse, di spericolate acrobazie, di scoperte e innovazioni. Quaranta mesi vissuti tutti d’un fiato. Con una continua alternanza di improvvise accelerazioni e brusche frenate. Un sogno realistico concluso in una curva senza uscita, come l’elegantissima Lancia Aurelia del film Il Sorpasso, del grande Dino Risi, interpretato da un baldanzoso e un po’ gaglioffo Vittorio Gassman e da un timido ma fremente Jean – Louis Trintignant, prodotto proprio nel 1962, un fotogramma del quale abbiamo scelto per la nostra copertina” dice l’autore.

Un libro che parla di un periodo di potenziale svolta per il Bel Paese, intrecciandone fenomeni politici, nazionali ed internazionali, con le dinamiche delle nascenti industrie del futuro (principalmente elettronica – digitale, spazio ed energia) che mettevano le prime radici proprio nel nostro Paese. Proprio mentre il mondo cattolico viveva un incredibile periodo di innovazione con il Concilio Vaticano II, facendo di Roma il centro del mondo per vari mesi.

Un’Italia nel pieno di un potenziale protagonismo mondiale, fermata – secondo l’attenta analisi del libro, sviluppata anche attraverso numerose interviste con i protagonisti di quei tempi (come Reichlin, De Rita e tanti altri) – dalla assenza di una guida politica forte e consapevole.

– Una sinistra non capace e non interessata a leggere fenomeni a quel tempo destabilizzanti per la proprio ideologia e visione del mondo, come quelli che ad esempio già “vedeva” un Adriano Olivetti nel presentare al Presidente della Repubblica Gronchi i primi personal computer della storia mondiale – gli Elea – dicendo (siamo nel 1959!) che “L’elettronica….sta avviando l’uomo verso una nuova condizione di liberà e di conquiste”.

– Un partito governo (la DC) nei fatti ostacolato da un “quarto potere” (confindustriale e statunitense), che impedisce ad una leadership illuminata (come era già accaduto con Fanfani, in questo “cronotopo” con Moro) di riformare completamente il Paese, con lo sviluppo dei settori industriali strategici del futuro (soprattutto l’elettronica, ceduta agli americani), riducendone l’impatto – con la stagione del consumismo “all’americana” – alla troppo repentina trasformazione di un popolo, uscito troppo in fretta dalle campagne per entrare prima nelle fabbriche “fordiste” e poi “sentirsi” al centro del mondo come consumatore.

Ed è proprio dall’incrocio dei problemi di una sinistra incapace di leggere il nuovo e di un centro – motore di governo – impossibilitato a portare il Paese verso un futuro roseo dai suoi alleati extra politici ed internazionali, che viene  una esplicita richiesta al Paese alla rinuncia della leadership industriale del privato nei settori che avrebbero poi disegnato il futuro, in cambio di una accettazione di un esperimento innovativo di governo (quello di centro – sinistra).

Mezza conclude dicendo quello che da tempo penso anche io: che oggi il “centro sinistra” di governo ha una nuova (e ultima) opportunità di “leggere” il potenziale di innovazione e sviluppo legato alla rivoluzione digitale – originato proprio a partire quel “cronotopo”, cresciuto poi negli Stati Uniti e poi di nuovo accolto negli ultimi decenni da una Italia naturalmente portata a “lavorare in rete” – e farne driver di sviluppo sostenibile delle proprie comunità (territoriali ed imprenditoriali) puntando sulla naturale convergenza che esiste tra le nuove tecnologie digitali ed energetiche  per lo sviluppo delle città intelligenti.

E’ su questo punto che – come Innovatori Europei, insieme a vari partners – avvieremo da settembre un mini tour con Michele e il suo “Avevamo la Luna”: per arrivare a spunti ulteriori  sul come avviare politiche sistemiche di innovazione, che facciano incontrare i mondi del digitale e delle energie distribuite per creare sviluppo diffuso e sostenibile e maggiore democrazia.

di Massimo Preziuso




Accade a Corviale

Sabato 6 Luglio

ore 19.00

al Mitreo-ArteContemporanea


“King of Cypher”

Contest di Gruppi Rap

SPECIAL LIVE SHOW: LORD MADNESS – LUCI SOFFUSE

HOST: ESDI’

DJ SET: DJ FASTCUT – EL GABRO – BASCA


– Maggiori informazioni –