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Maleficent – Signora del Male (Maleficent – Mistress of Evil)

di Joachim Rønning. Con Angelina JolieMichelle PfeifferElle FanningSam RileyImelda Staunton USA 2019

 

Nella Brughiera, di notte un giovane bracconiere (Freddie Wise) che, insieme a due compaesani (Barry Aird e Jermaine Cope), dà la caccia ai piccoli esseri fatati, rapisce un funghetto magico ma si salva a stento dalla rabbia di Malefica (Jolie), che afferra gli altri due con i rami spinosi che le sue arti sanno far crescere. La creaturina, poi, viene consegnata insieme ad un fiore della tomba delle fate al nano-stregone Sicofante (Warwick Davis) Il giorno dopo Aurora, divenuta regina della Brughiera, sta dando udienza a tutte le creature del bosco e, mentre comunica la sua decisione di creare un ponte per superare i conflitti tra loro e gli umani del vicino regno di Ulstead, sopraggiunge il suo amato Filippo (Harris Dickinson), principe di Ulstead che le chiede la mano. Lei, entusiasta, accetta e le fate Giuggiola (Staunton), Fiorina (Lesley Manville) e Verdelia (Juno Temple) si apprestano a predisporre tutto il necessario. Il padre di Filippo, re Giovanni (Robert Lindsay), che condivide le idee di pace del figlio, è felice per il matrimonio e sembra esserlo anche la regina Ingrid (Pfeiffer) che invita a palazzo Aurora e chiede che venga invitata anche Malefica. Quando però Aurora va a dirglielo, la maga è furiosa e non vuole andare poiché non si fida degli esseri umani, che – nonostante il suo cambiamento –  la vedono ancora come una perfida strega. La ragazza e il corvo Fosco (Riley) riescono a convincerla. Intanto Ingrid – che vuole conquistare militarmente la Brughiera e non condivide affatto le idee di convivenza del marito e del figlio – si reca nei sotterranei del castello dove, in gran segreto, la sua ancella Gerda (Jenn Murray) prepara armi letali per gli esseri della Brughiera con le pozioni che Sicofante ricava dalle creature catturate. Durante la cena di fidanzamento, Ingrid sottilmente lancia pesanti accuse a Malefica e, quando questa sta per reagire – fermata però da Aurora – il re Giovanni, ferito alle spalle da un ago di arcolaio come quello che aveva fatto addormentare la fanciulla, cade in un sonno eterno. Ingrid accusa Malefica di esserne la colpevole e la costringe a fuggire e, mentre vola via, Gerda la centra con un proiettile di ferro (elemento letale per le fate), ma viene salvata da Conall (Chiwetel Ejiofor), una creatura, come lei, dotata di grandi ali e corna. Poco dopo si sveglia in una caverna dove vivono centinaia di esseri simili a lei, guidati da Borra (Ed Skrein). Sono i superstiti di una razza che discende dalla Fenice, che è stata nei secoli sterminati dagli umani. Borra – a differenza di Conall che spera in una pacificazione – aspetta il momento giusto per scatenare una guerra agli umani per poter conquistare le terre sovrastanti la grotta, dove vivere far crescere i bambini all’aria aperta ed alla luce e ora spera che i poteri di Malefica, che della Fenice è diretta discendente, rendano meno impari la lotta. Malefica è ancora convalescente ma una notte, insospettita dai rumori, sale nel bosco con Conall e scopre che i soldati di Ulstead hanno portato via tutti i fiori delle tombe delle fate, la cui polvere è letale per gli esseri delal Brughiera. I militi la attaccano ma Conall la salva, venendo colpito mortalmente. Ora lei è infuriata e Borra ha buon gioco nel proclamare la guerra agli umani. Al castello, intanto, il giorno delle nozze Aurora scopre il laboratorio segreto e vi trova l’arcolaio magico; capisce così che il re è stato colpito da Ingrid e queta la fa subito rinchiudere nelle sue stanze. Riesce a fuggire e a rivelare la verità a Filippo ma, quando questi affronta la madre, l’arrivo delle creatura alate costringe la regina e i militari – che stavano per arrestare anche lui – a combattere. Intanto nella chiesa dove si sarebbe dovuto svolgere il matrimonio, le creature della Brughiera sono da Gerda che, suonando l’organo, sparge povere di fiori delle fate ma Fiorina, sacrificando la propria vita, si infila nelle canne dello strumento, ostruendolo. Aurora, chiede perdono a Malefica e, parlandole come una figlia, la convince ad interrompere le ostilità; Ingrid, allora, coglie l’attimo per scagliarle addosso la polvere mortale, riducendola in cenere. Mentre, però, la regina si scaglia contro Aurora, Malefica risorge nella forma di Fenice e la salva. Il combattimento finisce e, con il matrimonio di Aurora e Filippo, gli umani, le fate e gli esseri alati vivranno in pace.

Non è un mistero che i sequel raramente eguagliano il film originale e Maleficent – Signora del Male è una piena conferma di questo assunto. In fondo già la riscrittura della fiaba La bella addormentata nel bosco (che non è stato tra i grandi successi Disney del periodo d’oro) dalla parte della strega cattiva era stato un bell’azzardo ma la divertente e divertita performance della Jolie, un cast solidissimo e le trovate coreografiche del regista/scenografo Robert Stromberg avevano fatto il miracolo: Malefica era una gradevolissima contro-favola femminista (la Bella Addormentata veniva, addirittura, svegliata da Maleficent  perché il bacio di quel baccalà del Principe non sortiva alcun effetto)  che aveva incantato i bambini (e gli scemi come me che, spesso, al cinema si ritrovano allegramente seienni). Il posto di Stromberg è stato preso dal più autorevole (sulla carta almeno) Joachim Ronning, autore dell’unico film norvegese che abbia vinto un Oscar, Kon Tiki. Il risultato però è molto deludente: il racconto fatica a dipanarsi, La Jolie non è più una sorpresa (e anche lei sembra divertirsi molto meno), le scenografie, i costumi e gli effetti speciali appesantiscono ulteriormente l’impianto e la Pfeiffer si limita a rinverdire la cattiva delle fiabe che aveva interpretato in Stardust. Gli incassi sono partiti abbastanza bene ma non è certo una sorpresa.

 

 




Quartett di Heiner Muller

Regia: Alessandro Marmorini

Con Cristina Golotta e Roberto Negri

Nel 1981 Heiner Muller strinse in un distruttivo duetto tra la Marchesa Isabelle de Merteuil e il Visconte Valmont Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos. Lei, all’inizio, lo possiede – in uno stato tra l’innamoramento ferino e la furia di un’Erinni –  addormentato (o forse morto) e quando lui si risveglia comincia tra i due un aspro duello verbale, nel quale fanno a gara nel dare testimonianza di cinismo. La Merteuil non sopporta che lui voglia sedurre Madame Marie de Tourvel, fedele e timorata sposa ma chiude con lui un patto: potrà conquistare la de Tourvel se corromperà la virginale Cecile de Volanges, appena uscita di collegio e promessa sposa di un ex-amante della Marchesa (che potrà vendicarsi dell’abbandono). Ora i due protagonisti si cambiano d’abito e lei/Valmont circuisce lui/Tourvel, alternando dichiarazioni di pentimento per la propria dissolutezza a lubriche proposte sessuali. Nuovo cambio e i due vecchi amanti si preparano ad una nuova recita: lui/Valmont inizia alle gioie del sesso orale la giovinetta lei/Cecile. Il senso di morte che ha aleggiato per tutto il dramma trionferà alla fine su tutti i protagonisti.

locandinaQuartett è un testo essenziale per entrare nella poetica di Muller; lui è stato certamente un autore “politico” e non a caso è succeduto a Bertold Brecht nella direzione del Berliner Ensemble. A differenza dell’autore de L’opera da tre soldi, però, il suo teatro è pieno di rabbiosi dubbi e di riferimenti – ancorché “politicamente” rivisitati – alla classicità. Questo lo ha esposto a critiche, censure feroci e ostracismo da parte di Berlino Est e Quartett, a pochi anni dalla caduta del muro, può anche essere letto come l’annuncio della fine del fatiscente regime comunista (così come Le relazioni pericolose era apparso un presagio della prossima Rivoluzione Francese e della fine della corrotta aristocrazia). Il testo è molto coinvolgente (parafrasando la celebre definizione del cinema di Hitchcock, verrebbe da dire: “E’ Le relazioni pericolose senza le parti noiose”) ma presenta alcuni rischi: è molto letterario – non a caso, alcune delle migliori realizzazioni sono letture pubbliche (vedi quella di Blandine Masson con Jeanne Moreau e Sami Frey) o radiofoniche (Giuseppe Marini con Anna Maria Guarnieri e Carlo Cecchi) – ed ha precedenti illustri: non solo la riduzione/regia/interpretazione di Walter Malosti con Laura Marinoni nella messa in scena del Piccolo ma – per quanto riguarda Le relazioni pericolose – tre importanti edizioni cinematografiche: il furbo e patinato film di Vadim del ’59 con Gerard Philipe e Jeanne Moreau, la premiatissima messa in scena di Frears con Gelnn Close e John Malkovich e l’erotico Valmont di Milos Forman con Colin Firth e Annette Benning (per tacere della modernizzazione in Cruel intentions di Roger Kumble e dell’opera lirica di Serge van Vaggel). Il pur giovane Marmorini affronta con vigore e rispetto il testo e – aiutato anche dalle scenografie di Chiti – ne restituisce la, per così dire, vitalità mortuaria e, soprattutto, pur senza rimaneggiamenti, ne fa un duetto che, dimentico della letterarietà d’origine, si snoda efficacissimo. Il merito maggiore, ovviamente,

va ai due interpreti che danno alla Marchesa e a Valmont sfaccettature molteplici e ci raccontano, in parallelo, il piacere prorompente e, al contempo, lacerante di recitare. Roberto Negri e Cristina Golotta hanno due storie attoriali molto significative. Lui frequenta da sempre testi e registi di grande potenza: ha cominciato con Albertazzi e ha lavorato, tra gli altri, con Pugliese, Ronconi, Nanni e Nagy e, negli ultimi anni, si è messo particolarmente in luce con testi di Beckett, Miller e, soprattutto Sciascia che ha più volte portato sulla scena e dà a Valmont tutta la partecipata sapienza di una recitazione di bella scuola. La Golotta – che ha recitato con tutti i registi emergenti dell’ultima generazione, collaborando spesso con Melchionna (insieme hanno vinto vari premi con il loro Dignità autonome di prostituzione) ma ha anche una solida esperienza cinetelevisiva (di recente ha dato un gran prova nell’interessante horror di De Feo The nest), – infuoca la Merteuil con la lubrica fisicità e la sofferente consapevolezza di morte che la fa grande personaggio.  Sulla scena i due – lei con il corpo parzialmente consunto dal vaiolo, lui con un pallore di morte – si rimpallano le ciniche e talora oscene ma dolorosissime e profonde battute dei due amanti in via di decomposizione ed è una festa seguirli e lasciarsi coinvolgere nella loro danza macabra. 

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Le verità (La vérité)

 di Kore’eda Hirokazu. Con Catherine DeneuveJuliette BinocheEthan HawkeClémentine GrenierManon Clavel  Francia 2019

La grande attrice Fabienne (Deneuve) ha appena dato alle stampe un’autobiografia e la figlia sceneggiatrice Lumir (Binoche) la raggiunge con il marito Hank (Hawke), attore di mediocri serie televisive, e la figlioletta Charlotte (Grenier) da New York, dove vive da anni. Il rapporto tra madre e figlia non è facile: quest’ultima la incolpa di non essersi mai davvero occupata di lei, presa solo dalla sua carriera e di aver causato il suicidio della sua amica-rivale Sarah, alla quale lei, da bambina, era legatissima. Naturalmente anche il libro è fonte di polemiche: Lumir si indigna nel leggere frasi sciroppose nelle quali la diva racconta di inesistente lunghe e affettuose passeggiate mano a mano con la figlia e anche il devoto segretario/maggiordomo Luc (Alain Libolt), che ha sacrificato anche la sua vita privata per starle accanto, si licenzia bruscamente perché nello scritto non c’è una parola su di lui. Solo Charlotte – che è convinta che la nonna sia la simpatica strega di una favola – sembra toccarle un po’ il cuore tanto che, stando al gioco, le dice che la tartaruga Pierre che sta in giardino sia il nonno che lei ha trasformato. Le dimissioni di Luc costringono la recalcitrante Lumir a sostituirlo come accompagnatrice e tuttofare sul set del film che sta girando, la cui trama è quella di una donna che vive nello spazio per non invecchiare ed ogni sette anni scende sulla terra per vedere la figlia Amy. Fabienne – che ha degli inconfessati senso di colpa per la morte di Sarah – ha accettato il ruolo di Amy a 73 anni perché la protagonista Manon (Clavel) è considerata la nuova Sarah (e in effetti la ricorda molto). Intanto, in famiglia, le tensioni non mancano: arriva, inatteso, Pierre (Roger Van Hool) per bussare a quattrini, Fabienne fa ubriacare Hank, che si stava disintossicando dall’alcool; il solo che non sembra essere a disagio è il nuovo compagno della diva, Jacques (Christian Crahay), pago del ruolo di cuoco, massaggiatore e, occasionalmente, amante cui lei lo ha relegato. Con il set del film, date le premesse, il rapporto è complicato: lei non studia la parte, accentua i capricci da diva, si lamenta che l’attrice (Ludivin Sagnier) che interpreta Amy a 38 anni non le somigli affatto e, durante una scena nella quale Amy anziana deve dichiarare il proprio deluso amore filiale a Manon, si impapina e se ne va furente dal set. Sarà Lumir, accusandola di vigliaccheria, a riportarla indietro e lei, ora, recita con un’intensità coinvolgente. Questo episodio serve anche a sbloccare i suoi rapporti affettivi: rivela alla figlia che, di nascosto, era andata a vederla durante un recita scolastica, regala a Manon un abito di scena di Sarah che lei aveva sempre custodito gelosamente, garantisce alla nipote che sarà una grande attrice e, dopo essersi fatta scrivere un testo di scuse da Lumir, convince Luc (che in realtà non aspettava altro) a tornare da lei. E’, forse in po’ più umana ma continua a pensare che sia valsa la pena la pena di essere una cattiva madre e una cattiva amica ma un’ottima attrice.

Kore’eda è noto e premiatissimo (sino alla Palma d’Oro a Cannes per il precedente Un affare di famiglia) come cantore di un Giappone minore, di piccole vite attraversate da forti – ma, spesso, attutiti – sentimenti. Sulla carta non è il primo nome al quale si penserebbe per la realizzazione di un film, apparentemente, così francese con due mostri sacri di quella cinematografia. Altri autori, altrettanto caratterizzati dalle proprie origini, in questi ultimi anni, hanno ambientato in paesi stranieri le loro opere: penso agli iraniani Farhadi (Il passato ambientato in Francia ma con protagonisti prevalentemente iraniani e lo spagnolo Tutti lo sanno) e Kiarostami con il giapponesissimo Qualcuno da amare. Il passo di Kore’eda è più ardito: non solo dirige, oltre alla Binoche (che, almeno, è sua amica), la complicata (anche per i cineasti francesi) Deneuve ma lancia una serie di richiami biografici su di lei: l’affetto/rivalità per la collega Sarah che richiama il suo rapporto con la sorella Francoise Dolréac, il vestito che lei regala alla collega emergente è una copia di una delle mise di Bella di giorno, il compagno amante del cibo e pacioccone ricorda Mastroianni e quando, elencando le attrici francesi con nome e cognome con la stessa iniziale, viene fatto il nome di Brigitte Bardot, Fabienne/Deneuve fa una smorfia (le due non si sono certo amate). La storia, poi, è molto francese: è vero che le attrici sono, nei loro tic, uguali in tutto il mondo ma il clima attorno a Fabienne è tipico della retorica da Comédie- Francoise. Eppure, se ne esce con lo stessa d’animo di empatia per piccole cose e lievi scostamenti sentimentali che proviamo dopo ogni film di Kore’eda: le inquadrature che accarezzano la scena sono tipiche del suo stile, cosi come l’attenzione per particolari che introducono a stati d’animo appena accennati (un albero che dolcemente si spoglia, la pacifica tartaruga, una festicciola di compleanno cinese). Il risultato è che la grande, egocentrica diva è tranquillamente accostabile, ad esempio, all’eterno adolescente di Ritratto di famiglia con tempesta o ai “ladri di bambini” di Un affare di famiglia: come loro è teneramente avvinghiata ai propri difetti che sono, in fondo, la loro più profonda umanità.

 




Joker

 di Todd Phillips. Con Joaquin PhoenixRobert De NiroZazie BeetzFrances ConroyMarc Maron USA 2019

1981, in una Gotham City inasprita, degradata e sommersa dalla spazzatura – forse gestita da un sindaco di nome Rays? (battutona!),  – Arthur Fleck (Phoenix), giovane disagiato, afflitto da un disturbo che, nei momenti di tensione, lo fa esplodere in una irrefrenabile risata, campa facendo il clown di strada. Un giorno, mentre lavora, quattro teppisti (Adam James, Xavyer Urena, Evan Rosado e Damin Emmanuel) gli rubano il cartello pubblicitario che esibiva e, dopo essersi fatti rincorrere nei vicoli, glielo rompono addosso e lo riempiono di calci. Torna nello scalcinato appartamento nel quale vive con la madre malata Penny (Conroy) e, in ascensore, una giovane vicina, Sophie (Beetz), che gli fa un sorriso di comprensione lo fa immediatamente innamorare. La madre continua a mandare lettere con richiesta di aiuti al miliardario Thomas Wayne (Brett Cullen), nella cui casa aveva lavorato anni prima, fiduciosa nella sua generosità e, quando, l’anchor-man Murray Franklin (De Niro) lo presenta nel suo show televisivo come probabile candidato alle prossime elezioni comunali, lei si entusiasma e lui – che vorrebbe essere uno stand up comedian – fantastica di essere, a sua volta, ospite d’onore nello show. L’indomani – dopo che l’assistente sociale (Sharon Washington) gli ha comunicato che, per effetto di tagli al welfare, non potrà più seguirlo né fargli avere i medicinali indispensabili per i suoi disturbi nervosi – si reca come ogni mattina, all’agenzia di artisti da strada Haha, dove il nano Gary (Leigh Gill) gli esprime solidarietà per l’aggressione subita, il collega Randall (Glenn Flescher) gli dà di nascosto una pistola per difendersi ma Josh (Hoyt Vaughn), il padrone dell’agenzia, gli chiede di rimborsare il cartello che  si era rotto. Mentre si esibisce in un ospedale pediatrico, la pistola gli cade di tasca e perde il posto. Ancora vestito e truccato da pagliaccio, in metropolitana ha uno dei suoi accessi di riso quando vede tre yuppies (Carl Lundstedt, Michael Benz e Ben Warheit) ubriachi infastidire una ragazza (Mich Szall); i tre lo aggrediscono e lui, estratta la pistola, li ammazza. Il giorno dopo, Wayne – quale datore di lavoro dei tre – dichiara in tv come il costume da clown dell’assassino sia emblematico della qualità morale di chi ha ucciso dei bravi giovani benestanti per odio sociale. Queste parole scatenano la rivolta dei disagiati di Gotham che, vestiti da clown, manifestano, sempre più violentemente, per le strade. Ora Arthur, gasato dagli omicidi compiuti e dall’essere preso come esempio di rivalsa, perde sempre più il senso della realtà: immagina di conquistare Sophie e trasforma, nella sua fantasia, una esibizione da cabarettista, nella quale era riuscito solo a ridere nervosamente, in un successo di ilarità. Un giorno, leggendo l’ennesima lettera dalla madre a Wayne, scopre che lei motiva la richiesta di aiuto sostenendo che lui è il figlio di una loro relazione; quando ne parla a Penny, questa ha un malore e viene ricoverata. All’ospedale lo raggiungono i detective Burke (Shea Whigham) e Garrity (Bill Camp), per interrogarlo sugli omicidi della metropolitana, lui li liquida rapidamente e va alla villa di Wayne; qui parla con il piccolo Bruce (Dante Pereira-Olson) ma viene brutalmente allontanato dalla guardia del corpo (Alfred Pennyworth). La sera, riesce ad infilarsi in una proiezione di beneficienza di Tempi moderni e a parlare con il magnate ma questi gli spiega con durezza che lui non è suo padre e che la madre, malata di mente, lo aveva adottato prima di finire nel manicomio criminale Arkham. A conclusione della tremenda giornata, Arthur vede Franklin che usa la sua catastrofica esibizione per far ridere gli spettatori. Il giorno dopo va all’Arkham Asylum e scopre la verità: la madre lo aveva adottato, fingendo che fosse il figlio di Wayne e aveva lasciato che il suo convivente di allora lo abusasse, ledendogli la mente. Ora Arthur non ha più limiti e uccide la madre con un cuscino e accoltella Randall, che aveva indirizzato i sospetti della polizia su di lui. Poi, con un nuovo costume da clown, un nuovo trucco e il nome d’arte Joker va allo show di Franklin – che, contro il parere del suo produttore (Maron), lo aveva invitato per divertire il pubblico alle sue spalle – e qui…

Joker è l’esempio perfetto di come il voler classificare i film (ma vale per tutte le manifestazioni artistiche) secondo astratte categorie valoriali sia limitativo e fuorviante. Alcuni critici, dopo la vittoria a Venezia, lo hanno definito cinecomic d’autore ma, allora, cosa dire della trilogia su Batman di Chistopher Nolan (Batman begins, Il cavaliere oscuro, Il cavaliere oscuro – Il ritorno)? Da che parte mettiamo il variegato e sulfureo Suicide Squad? In realtà il cinema è cinema: ci sono buoni film e film meno buoni, ci sono opere dichiaratamente autoriali e operazioni strettamente commerciali ma quasi ogni film è una storia a sé e va visto con lo sguardo scevro da preconcetti incasellamenti. Certo, in questo caso, il Leone d’Oro – meritato ma anche, probabilmente, anche necessitato dall’esigenza di far uscire la Biennale Cinema dalla nicchia minimalista nella quale si stava chiudendo – ha aiutato a dimenticare che Todd era stato il regista dei 3 Una notte da leoni (più o meno del livello, per i nostri miopi puristi, degli aborriti cinepanettoni) e in più la magistrale interpretazione di Phoenix – a Venezia gli hanno preferito il Marinelli di Martin Eden (?) – chiude la bocca a qualsiasi obiettore. Lui è il quinto Joker cinematografico e ha precedenti illustri (Cesar Romero in Batman nel 1966, Jack Nicholson in Batman nel 1989, Heath Ledger ne Il cavaliere oscuro nel 2008 e Jared Leto in Suicide Sqaud del 2016) ma riesce a dare una coinvolgente intensità al personaggio sino a farlo lievitare al di sopra del carattere di origine fumettistica ed assurgere a fool dolente e simbolo di angoscia universale. Per farlo, secondo le indicazioni più stringenti del Metodo Strasberg, è dimagrito paurosamente di decine di chili ed ha “vissuto” il personaggio per tutto il periodo delle riprese (d’altronde mentre interpretava il detective hippie di Vizio di forma non si è lavato i piedi per due mesi perché la loro sporcizia non fosse solo un trucco di scena). Todd Philips, oltre a firmare la regia di solido servizio ne ha scritto l’ottima sceneggiatura insieme all’”intellettuale” Scott Silver (8 mile, The fighter) e – insieme alle citazioni cinefile di Tempi moderni, Voglio danzar con te e Zorro mezzo e mezzo – cura la colonna musicale, con l’esplodere di That’s life di Frank Sinatra, il contrappunto di Smile di Chaplin nell’ironica e dolente interpretazione di Jimmy Durante e le irridenti incursioni di Slap that bass  di Fred Astaire e di Send in the clowns di Sinatra. Il film va benissimo da noi e negli USA.

 




Tutta un’altra vita

di Alessandro Pondi. Con Enrico BrignanoIlaria SpadaPaola MinaccioniMaurizio LombardiMonica Vallerini Italia 2019

Gianni (Brignano) è un tassista romano con problemi di tutti: una famiglia – la moglie Lorella (Minaccioni), e i figli Annibale (Gabriele Lustri) e Gaetano (Giordano Di Cola) – da mantenere, il mutuo, i soldi che non bastano mai; l’unica sua distrazione è la partecipazione, insieme alla partner sovrappeso Erminia (Daniela Terreri), a gare di ballo nelle quali non vince mai. Un giorno d’estate accompagna all’aeroporto una coppia in lite, Temistocle (Paolo Sassanelli) e Marta (Vallerini), che dimentica le chiavi di casa nel suo taxi. Lui va nella loro villa per riportarle ma non trova nessuno; si fa tentare dalla loro splendida piscina e, dopo una nuotata rinfrescante, si stende al sole. Torna a casa rosso come un gambero ma contento e il giorno dopo decide di concedersi un altro tuffo. Incuriosito entra in casa e si esalta per le meraviglie tecnologiche (il light follow: la luce che ti segue passo passo), le delizie della dispensa, il garage con varie fuoriserie e il ricco guardaroba; qui si prova un’elegante smoking e trova l’invito all’esclusiva festa di Lisa Von Schiele (Margherita Remotti). Con una rombante Lamborghini arriva alla festa ma il concierge (Elio Salvatore Pagano) lo blocca: il party prevede che tutti siano vestiti di bianco e il suo smoking è nero; arriva a salvarlo la splendida Lola (Spada) che con un abito bianco scollatissimo lo prende sottobraccio ed entra con lui. Tra gli invitati c’è il famoso stilista Manuel Del Grande (Maurizio Lombardi) che, riconosciuto nel vestito di Gianni una sua creazione lo prende in simpatia; lui corteggia Lola – che lo prende un po’ in giro perché voleva pagare i drink al barman (Emiliano De Martino) – e la conquista lanciandosi con lei in un travolgente ballo figurato; Manuel, entusiasta, li invita al party che darà la sera successiva. Gianni fa guidare a Lola la Lamborghini che la spinge al massimo, mettendolo nel panico quando due poliziotti (Fabio Vasco e Daniel Baldock) li fermano ma per fortuna lei li conosce e loro li lasciano andare. Arrivati alla villa, dopo una notte di fuoco, Gianni si precipita a casa per accompagnare i ragazzini al pullman per il mare dove li aspetta il loro vicino cinese (Jasper Gonzales Cabal), impapocchiando che la fuoriserie è una vettura di cortesia fornita dall’officina che avrebbe in riparazione il taxi. La sera del party dello stilista, Gianni si diverte come un pazzo (vince anche 2.000 euro alla roulette) ma, dopo un’altra notte di passione, lei blocca la sua dichiarazione d’amore chiedendogli i duemila euro quale tariffa per la marchetta. Gianni, disperato, torna alla sua routine (non può nemmeno consolarsi con la gara di ballo perché Erminia si è slogata una caviglia per un incidente di macchina). Una notte, però, lei gli telefona in lacrime: ha bisogno del suo aiuto perché il padre è tornato dall’Australia dove era emigrato anni prima e pensa che lei sia laureata e fidanzata con un ottimo partito. Lui si precipita alla villa e …


Alessandro Pondi nasce come sceneggiatore e, insieme a Paolo Logli, Riccardo Irrera e Paolo Graiani (che firmano con lui lo script questo film) ha fondato il team creativo 9mq Storytellers, imponendosi come una delle più interessanti novità nel panorama – da anni spesso asfittico – della scrittura cinematografica e televisiva. Tutti insieme – ma anche firmando a coppie o, talora, singolarmente ma sempre collaborando fra di loro – hanno lavorato a successi come Don Matteo, Il commissario Manara, Il restauratore, Diritto di difesa, I signori della truffa per la televisione e a film come Poli opposti, Copperman, Mio papà. Il loro metodo è, sostanzialmente, appoggiato al lavoro degli sceneggiatori del grande cinema italiano del dopoguerra: allora registi e scrittori lavoravano generosamente insieme, spesso contribuendo a progetti che non avrebbero firmato in una festosa creatività e, almeno i migliori, senza steccati culturali: scrivere una commedia di successo era gratificante ed importante quanto sottoscrivere una pensosa opera d’autore. Così Pondi e Logli, dopo l’uscita di Fausto Brizzi e Marco Martani, lavorano a due film di Natale: Natale in Sudafrica e Natale a Beverly Hills (ed è nota la accuratezza che il produttore De Laurentis metteva nella scrittura dei suoi film, chiedendo non meno di 20 revisioni per ogni sceneggiatura). Questa scuola (compresi gli inizi con Vincenzoni e Guerra) ha portato Pondi alla regia: dopo l’interessante esordio in Chi m’ha visto? – bel racconto, in parte limitato dal troppo attore Favino e dall’assai meno efficace Fiorello – ora firma una commedia della grande, vecchia scuola con una trovata iniziale, nel contempo, originale e tradizionalissima. Infatti, dall’impetuoso Una poltrona per due, infatti, allo sponsorizzato Filofax – Un’agenda che vale un tesoro, al tenero Borotalco, all’immortale Miseria e nobiltà, al reiterato Il conte Max, al solidamente popolaresco La famiglia Passaguai fa fortuna, fino a Totò a Parigi (“Vuoi un whisky o un Pernod” “Si: fammi un fischio e un pernacchio!”), per citare alla rinfusa, al cinema l’abito fa sempre il monaco (e Pondi lo ribadisce con una piccola sorpresa finale). Qui Brigano, la Minaccioni e la Spada sono – come è giusto in queste operazioni – al meglio del loro consolidato cliché, così come il resto del cast; va segnalata, a parte, la godibilissima performance di Maurizio Lombardi, notevole attore ed autore teatrale, che dà un suo tocco personale al personaggio – anche troppo collaudato – dello stilista gay. Gli incassi – considerando la concorrenza monstre de Il re Leone e di It – Capitolo secondo – sono più che discreti: il film è terzo con quasi un milione nel primo weekend.




It – Capitolo 2 (It: Chapter Two)

di Andy Muschietti. Con James McAvoyJessica ChastainIsaiah MustafaJay RyanJames Ransone

A ventisette anni dalla morte di Pennywise (Bill Skarsgard), a Derry il giovane gay Adrian Mellon (Xavier Dolan) viene pestato da alcuni bulli (Brandon Crane, Erik Junnola, Josh Madyga) e buttato nel fiume, dove, sotto gli occhi del suo compagno (Taylor Frey) è fatto a pezzi dal clown, mentre i soliti palloncini rossi – segnali della presenza di It – volano in cielo. Mike (Mustafa), l’unico del Club dei Perdenti rimasto a Derry, decide di chiamare gli altri che sono andati a vivere lontano e hanno rimosso i tragici accadimenti precedenti, compreso il giuramento di tornare insieme per combattere It qualora si fosse ripresentato. La telefonata provoca forti reazioni a tutti: Bill (McAvoy) ora è uno scrittore e sceneggiatore di successo e, di nuovo preda all’antica balbuzie, lascia il set del suo ultimo fllm; Eddie (Ransone), nevrotico analista di rischi con una moglie obesa (Molly Atkinson) identica alla opprimente madre, provoca uno spettacolare incidente; l’ex grassoccio Ben (Ryan), ora atletico uomo di successo, lascia precipitosamente una riunione d’affari; Richie (Bill Hader), brillante comedian, ha una crisi di vomito e non riesce a terminare uno sketch; Beverly (Chastain) lascia per sempre il marito (Will Beinbrink) violento, dopo l’ennesima scenata; il fragile Stanley (Andy Bean) consapevole – apprenderemo da una sua lettera ai vecchi amici – che la sua paura avrebbe indebolito il gruppo, si taglia le vene. Giunti a Derry, i Perdenti si incontrano in un ristorante cinese e la cena parte come un’allegra rimpatriata ma, alla fine, i biglietti dei biscotti della fortuna li avvertono della morte di Stanley mentre la stanza si riempie di minacciosi insetti. Sono, a quel punto, tutti decisi a tornare a casa ma Mike, convince Bill a seguirlo e gli mostra un piccolo braciere indiano, che i nativi americani del luogo gli avevano donato per compiere il rito di Chud: ciascuno di loro dovrà mettervi un oggetto significativo del proprio passato, che bruciando con gli altri darà ad It la sua vera forma, consentendo loro – purché rimangano uniti –  di distruggere il demone. Insieme convincono gli altri e ciascuno si reca nei luoghi del precedente incubo; Beverly, tornata nella casa dove, ragazzina (Sophia Lillis), veniva abusata dal padre (Stephen Bogaert), vi trova una malvagia strega (Joan Gregson) e riesce a portar via una poesia che Ben (Jeremy Ray Taylor) le aveva scritto; Eddie nella cantina della farmacia dove, ragazzo (Jack Dylan Krazer), prendeva le sue medicine, trova la madre (Molly Atkinson) legata ad un divano, nel tentativo di liberarla, viene sommerso dal viscido vomito di un mostro ma riesce a scappare con il suo inalatore; Mike, nella biblioteca del paese è tormentato da figure oppressive che gli ricordano quando, decenne (Chosen Jacobs), perse i genitori drogati in un incendio e porta con sé il sasso che Beverly lanciò contro i bulli, capitanati da Henry (Nicholas Hamilton), che lo tormentavano; Ben va nella sua vecchia scuola e, per portar via una pagina del suo diario d’adolescente (Jeremy Ray Taylor), se la deve vedere con Pennywise; Bill torna alla caditoia nella quale era scomparso il fratellino Georgie (Jackson Robert Scott) e ne trae la barchetta di carta che lui gli aveva costruito, qui incontra Dean (Luke Roessler), un bambino che vive nella sua vecchia casa che gli racconta di sentire strane voci; allarmato cerca di convincerlo a scappare con i suoi da Derry ma riesce solo a spaventarlo; Richie, ritrova un gettone del videogame del quale, bambino (Finn Wolfhard), era appassionato; per Stanley viene usata una cuffia con la quale, da giovanissimo (Wyatt Oleff) ipocondriaco, si proteggeva dagli insetti nel loro covo di allora. Intanto Henry Bowers (Teach Grant) evade, aiutato da It, dal manicomio criminale nel quale era rinchiuso per l’uccisione, 27 anni prima, del padre e, con una machina guidata dallo zombie di Patrick Hockstetter (Owen Teague) – suo accolito di allora, vittima di Pennywise – si mette sulle tracce dei Perdenti e, dopo aver attaccato Eddie e Mike, viene ammazzato da Ben. Pennywise continua a mietere vittime, tra le quali una bambina, Victoria (Ryan Kiera Armstrong) e Bill capisce che Dean è in pericolo; lo raggiunge al Luna Park ma, nel labirinto degli Specchi, il clown lo divora sotto i suoi occhi. Vanno alla casa di Neibolt Street, nei cui sotterranei avevano sconfitto It e compiono il rito ma, solo dopo un lunga lotta e il sacrificio di uno di loro, riescono a distruggerlo definitivamente.

Avevamo già sottolineato, parlando del primo It, come la regia di Andy Muschietti, messosi in luce con l’ottimo horror non splatter La madre, fosse riuscita a dare corpo agli incubi dell’infanzia/adolescenza con una forza narrativa, che richiamava le gotiche atmosfere delle favole tradizionali (spesso crudelissime) senza grandi concessioni agli effettacci che normalmente puntellano questi racconti. It – Capitolo 2, naturalmente, conferma questa chiave stilistica ma è gravato da due handicap: i protagonisti sono ora adulti – e talora (vedi l’Eddie dello specialista James Ransone) vagamente macchiettistici – facendo perdere al plot la suggestione di fiaba iniziatica del primo capitolo; qui, inoltre, viene ripresa la tecnica narrativa del romanzo di Stephen King che salta nel racconto dall’infanzia alla maturità dei personaggi senza un ordine cronologico: sulla carta funziona benissimo ma sullo schermo appare un po’ farraginoso e distraente. E’ evidente comunque come questa versione di Muschietti si sia consegnata al mito cinefilo: non a caso, oltre a Xavier Dolan (che ritrova nella prima vittima del clown i dolenti gay dei suoi film), si sono prestati ad un cameo Peter Bogdanovich nel ruolo di se stesso e Stephen King medesimo quale avido bottegaio. Il pubblico risponde anche se in misura leggermente minore rispetto al miracoloso precedente (a riprova, se mai ce ne fosse bisogno, che l’audience è sempre molto più attenta e competente di quanto si usi – quasi sempre in malafede – pensare).

 




Serenity – L’Isola dell’Inganno

di Steven Knight. Con Matthew McConaugheyAnne HathawayDjimon HounsouDiane LaneJason Clarke  USA 2019

Baker Dill (McConaughey) vive nell’isola tropicale di Plymouth e si guadagna da vivere pescando ed accompagnando i turisti a pesca di grandi prede con la sua barca Serenity. Da qualche tempo si è fissato nel volere catturare un grossissimo tonno, da lui battezzato Justice, che sfugge sempre alla sua lenza. Un giorno è in mare con il suo secondo Duke (Hounsou) e con due turisti (Michael Richards e David Butler) sbronzi di birra e il tonno abbocca; i due passeggeri si svegliano dal torpore e reclamano (come da contratto) di tirarlo su loro ma Baker, quasi in trance, li minaccia con un coltello e continua a dare lenza al pesce ma, quando fa per tirarlo su, ancora una volta il filo si spezza e Justice nuota via. I due turisti, ovviamente, non lo pagano e tutta l’isola – come sempre gli accade – è a conoscenza dell’accaduto. Ape (Ron Hobbs), il proprietario dell’unico bar-ristorante, cerca di dissuaderlo dall’accanimento della pesca al tonno che (così dice) “esiste solo nella tua mente” e la sua amante, la matura Constance (Lane), dopo aver fatto l’amore e avergli dato un po’ di soldi, gli dice più o meno la stessa cosa. Lui non intende desistere e, per non coinvolgerlo nella propria ossessione e affinché trovi un lavoro più sicuro, accusa Duke di portare iella e di essere, perciò, la causa dei suoi fallimenti; l’amico, ferito da quelle parole, se ne va. Poco dopo arriva sulla barca, l’elegante e bellissima Karen (Hathaway), ex-moglie di Baker (lei però lo chiama John) e madre del loro figlio Patrick (Rafael Sayegh); lei fa la carina ma lui – ancora inasprito per come la fine del loro amore – le chiede quale sia il vero motivo del suo arrivo. Karen, messa alle strette, gli racconta che il ricchissimo e potente marito Frank Zariakas (Clarke) è violento e alcolizzato, la picchia spesso e terrorizza Patrick, il quale, per difesa, sta sempre chiuso in camera davanti ad un computer; lei lo ha convinto ad andare nell’isola per una battuta di pesca, avendo in mente un piano: una volta in alto mare, Baker lo getterà agli squali, salvando così il figlio e guadagnando 10 milioni di dollari. Lui rifiuta, non solo di ucciderlo ma anche di portarlo a pesca. Passa una notte agitata e tutti gli isolani sembrano a conoscenza della vicenda. L’indomani mattina, Frank è sul molo con in tasca 10.000 dollari d’ingaggio e Baker, strada facendo, incontra Duke che, dicendogli di aver capito che lui lo aveva offeso per lasciarlo libero, lo convince ad accettare il cliente ma solo per andare a pescare. Durante la traversata, il milionario racconta con disprezzo e rabbia del figliastro, pronunciando, nei fumi dell’alcool, vaghe minacce. Baker ha – come sempre – la sensazione che Patrick gli parli da lontano. Giunti a terra, lui girovaga angosciato mentre Frank va nel quartiere povero alla ricerca di prostitute-bambine. In piena notte Baker va alla barca e lì lo raggiunge Karen con la quale fanno sesso e lui, che ha visto i segni delle frustate sulla sua pelle e che continua ad essere ossessionato dalle richieste di aiuto che sembrano giungergli da figlio, si convince ad eseguire il piano omicida. Tornando a casa, trova sulla porta il rappresentante Reid Miller (Jeremy Strong), che da giorni lo cercava affannosamente. Questi dice di essere lì per dargli in prova uno scandaglio per tonni ma, messo alle strette, lascia intendere di sapere che quello che sta succedendo è parte di un oscuro disegno. Duke, per impedire a Frank di salire sul peschereccio, ha ingaggiato dei teppisti che lo massacrano; ora lui è troppo malconcio per uscire ma Karen lo convince. Intanto Baker caccia Duke per essere solo con Frank ma Samson (Garion Dowds), il figlio di Constance si infila nella barca e, quando sono in mare, si offre di fare da secondo….

https://www.youtube.com/watch?v=Ya02NetKI5Q

Steven Knight è uno sceneggiatore di successo: ha esordito con Piccoli affari sporchi di Stephen Frears e ha partecipato, tra gli altri, agli script di La promessa dell’assassino di David Cronenberg, Allied – Un’ombra nascosta, Millennium – Quello che non uccide. Ha esordito alla regia con Redemption – Identità nascoste, regalando a Jason Statham la prima vera occasione attoriale nella sua carriera di action-hero, ha poi scritto e diretto il sorprendente Locke ed ora si cimenta con una sorta di doppio film. Serenity, infatti, parte come un noir tradizionale: c’è la dark lady e l’uomo che lei ha distrutto e che continua a voler usare per i propri fini. Siamo, diremmo, dalle parti de La fiamma del peccato di Billy Wilder, de Le catene della colpa  di Jacques Tourneur, del suo remake  Due vite, una svolta di Taylor Hackford, di Brivido caldo  di Lawrence Kasdan  ma segnali sempre più insistenti ci portano nel paranormale con echi di vari film: The game di David Fincher, The Truman show  di Peter Weir, Il sesto senso di M. Night Shyamalan, Frequency – Il futuro è in ascolto  di Gregory Hoblit, Shutter Island  di Martin Scorsese, I guardiani del destino di George Nolfi. Tutte queste citazioni non sono un mero esercizio cinefilo ma sottolineano come Knight- autore anche di romanzi fantasy – si sia lasciato prendere la mano da un elaborato troppo confuso. Probabilmente se si fosse accontentato di un onesto thriller con la sorniona Hathaway, il cattivo doc Clarke, la sensuale milf Lane e un McConaughey, che – smessi i tratti stravolti da Oscar di Dallas buyer club e The wolf of Wall Street – sembra aver voglia di tornare ai vecchi ruoli di maschio oggetto di desiderio, avremmo avuto un film ben fatto e una storia di solido stampo. Così non è e, in patria, il pasticciato Serenity è stato un flop epocale.




Domino

di Brian De Palma. Con Nikolaj Coster-WaldauCarice van HoutenGuy PearcePaprika SteenThomas W. Gabrielsson Danimarca, Francia, Spagna, Belgio 2019

Christian (Coster-Waldau) e Lars (Soren Malling) sono due poliziotti di Copenaghen, lavorano insieme e sono molto amici. Una mattina debbono prendere servizio all’alba e Christian, che ha passato un intensa notte di sesso, dimentica a casa la pistola. Mentre sono in macchina arriva la segnalazione di una violenta lite in un appartamento. Giunti sul luogo si scontrano per le scale con Ezra (Eriq Ebouaney) e lo ammanettano. Mentre Christian, con la pistola del compagno, sale all’appartamento, Lars telefona alla centrale. Nella casa c’è il cadavere del gestore (Joshua Joziah) del negozio di frutta Prima sottostante che è stato evidente torturato (gli sono state, tra l’altro, mozzate le dita) e Christian si precipita di sotto per avvertire Lars della pericolosità del prigioniero. Troppo tardi: Ezra si è liberato delle manette, ha tagliato la gola del poliziotto ed è saltato sul tetto. Lars incita l’amico ad inseguirlo. Lui si lancia e, dopo varie acrobazie, insieme all’arabo precipita da una grondaia sulle cassette di frutta e, semisvenuto, vede degli uomini portare via Ezra. Lars è in gravissime condizioni e in ospedale lo raggiungono la moglie Hanne (Steen), Chistian e la poliziotta Alex (Von Houten). A questi ultimi il capo Wold (Gabielsson) affida provvisoriamente – lui sta per finire sotto inchiesta per aver dimenticato la pistola e per avere (sia pure su sua sollecitazione) abbandonato il compagno ferito –  le indagini del caso. Intanto L’agente CIA Joe Martin (Pearce), che insieme ai suoi uomini (Bert Verbeke e Kurt Vandendriessche) aveva preso Ezra, ora lo sta torchiando: lui sa che l’arabo vuole vendicare il padre (Eric Goode) che era stato decapitato dall’Isis ed è alla caccia dello sceicco Salah Al Din (Mohammed Azaay), esponente di spicco del terrorismo islamico che aveva personalmente effettuato l’esecuzione, postandola poi in rete. Il commando americano ha sequestrato la famiglia di Ezra e lui è costretto, per liberarla, a collaborare. Intanto, lo sceicco sta dando a distanza le ultime istruzioni ad una donna, Fatima (Sachli Gholamalizad), alla quale ha fornito un mitra dotato di telecamera ed una cintura esplosiva perché compia un attentato suicida durante il Festival di Amsterdam. Portata a termine la strage, Salah consegna dei biglietti e un telefono ad un altro giovane fanatico, Yussuf (Ilias Addab), che aspetta ordini nel suo appartamento di Copenaghen. Ezra – che si è rasato barba e capelli per essere meno riconoscibile – lo individua e lo butta dalla finestra, per poi scoprire che era pronto ad andare ad Almeria. Christian ha, a sua volta, scoperto la destinazione di Omar e decide – ignorando gli ordini di Wold (che è in costante contato con Martin) di uscire dall’indagine – di partire con Alex alla volta della Spagna. Durante il viaggio vengono a sapere che Lars è morto e lei gli confessa di essere stata la sua amante. Lui – che non ne sapeva nulla e che è molto affezionato a Hanne (che è anche molto malata) – sulle prime si infuria e lei, furibonda a sua volta, gli lascia il telefono nel quale stava guardando le foto del loro amore e un’immagine dell’ecografia dalla quale lei risulta incinta. Per tutto il viaggio non si parlano ma arrivati in Spagna, si sfogano picchiando un piccolo spacciatore (Ilias Ojja) che si era avvicinato offrendo dell’erba. Nell’autostrada vedono lo sceicco, con due uomini (Tarik Rmili e Ibrahim Ibnou Goush) su di una camion della Prima; capiscono che le casette di frutta sono il tramite che usano per far passare l’esplosivo e lo seguono. Ad Almeria sono arrivati anche Ezra e Joe, che, dopo aver fatto fuori il proprietario (Younes Bachir), si mettono in attesa nel bar Miguel che è la base locale dei terroristi. Chistian e Alex, seguendo il camion, arrivano all’ingresso della Plaza de Toros e vedono Salah che dà una cassetta di bibite (chiaramente carica di esplosivo) al giovane Omar (Ardalan Esmaili) che entra nella Plaza. Alex lo segue mentre Christian segue gli attentatori fino al terrazzo di un palazzo adiacente da cui fanno partire un drone che farà brillare l’esplosivo ….

https://www.youtube.com/watch?v=x9j3WQpoVbk

De Palma non è un autore classificabile; talora lo si definisce frettolosamente come hitchockiano e lui non ha certo fatto mistero della sua ammirazione per il regista inglese, che ha ispirato sequenze e stilemi, ad esempio, de Le due sorelle, di Blow out o di Omicidio a luci rosse ma altri titoli (Scarface, Vittime di Guerra, Gli intoccabili) sono fuori dalla poetica di Hitchcock ma depalmiani a pieno titolo. Venendo a Domino non si può non tener conto che il regista l’ha parzialmente (la firma, però, la ha lasciata) disconosciuto, sostenendo che la produzione danese Schonne Film si sarebbe rilevata inadeguata e che lo avrebbe rimontato, tagliando scene fondamentali. Non posiamo che prendere atto delle sua dichiarazioni e notare i limiti del film: lo scritto – cui De Palma non ha minimante partecipato (come del resto in Mission Impossible ma è un’altra storia e un altro budget) – è poco più che un compitino da diploma di sceneggiatore (tema: “ Il candidato immagini di scrivere un film per Brian De Palma”), i due protagonisti – un po’ troppo bistrattati da alcuni critici – sono divi de Il trono di spade e un po’ di fissità televisiva la mantengono (lei però si porta sul set il marito Guy Pearce e non è poco) e, aldilà della solvibilità del produttore danese, una coproduzione che coinvolga 4 Paesi è sicura fonte di difficoltà di composizione realizzativa. Anche i due precedenti film del regista, Redacted (che pura aveva vinto il Leone alla regia a Venezia) e Passion non hanno avuto gran fortuna (il primo in Italia ed in altri Paesi importanti è uscito solo in home video). Il quasi ottantenne De Palma è convinto di aver ancora qualcosa da dare al cinema e, a mio avvio, ha ragione: anche lo sconciato Domino lascia intravvedere, ogni tanto, la zampata di un grande maestro che sa dare suspense con pochi, magistrali tocchi di regia. E’ vero le sequenze più riuscite sono richiami ad Hitchock (l’agguato sul tetto di Caccia al ladro) e dello stesso De Palma (la Plaza de Toros come la Boxing Arena di Omicidio in diretta) ma funzionano benissimo.