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Bruno Manghi: “Il problema delle periferie è la qualità demografica”

«La particolarità di Torino sta nel fatto che per alcuni secoli è stata governata da un forte potere centrale. Dopo un periodo di smarrimento, ha sostituito in parte quel potere pubblico con l’auto, con la grande fabbrica, che è stata a sua volta un riferimento autoritativo. Tutto questo è finito, ma ha lasciato una traccia nella mentalità del territorio, per cui ci si aspetta sempre dalle autorità qualcosa di particolarmente rilevante, e invece non è così. Siamo entrati in una situazione nuova che si è accompagnata anche ad un grande cambiato territoriale di natura demografica»: Bruno Manghi, sociologo, una vita passata nel sindacato (Cisl), collaboratore di Prodi, attualmente presiede la Fondazione Mirafiori promossa dalla Compagnia di San Paolo. Sabato, in occasione dell’assemblea annuale di Confartigianato Imprese Torino, è intervenuto trattando il tema delle periferie, ma anche il ruolo dell’associazionismo. «Partiamo da una banalità: se le periferie sono i luoghi dove vivono le persone meno abbienti, dopo 7 anni di crisi le loro condizioni di vita non possono certo essere migliorate. La crisi colpisce in maniera più seria coloro che sono svantaggiati in partenza. La novità sta, invece, nel grande cambiamento territoriale avvenuto. Quando ero ragazzo la cintura torinese era un posto da evitare, ora, invece, a Grugliasco, Collegno, Nichelino, Settimo, ecc., abbiamo assistito ad una trasformazione positiva e ad un ringiovanimento medio della popolazione. Mentre nella cintura torinese è avvenuto un netto miglioramento reddituale, demografico e di attivismo, la povertà si è concentrata nella cerchia urbana, e questa è una novità di non poco conto. A Mirafiori Sud il nostro problema numero uno è strettamente demografico, nel senso che le periferie torinesi sono invecchiate, magari dignitosamente, ed i giovani si allontanano perché non hanno opportunità di qualità. Ad eccezione di Barriera di Milano, che fa caso a sé anche per la sua vastità, il problema di questi quartieri non è la delinquenza, ma l’invecchiamento, cioè la qualità demografica. Come ha spiegato bene Enrico Moretti nel suo saggio sulla nuova geografia del lavoro – dove traccia un’analisi comparata delle città americane – normalmente ciò che fa la differenza è la qualità del capitale umano che si insedia in un luogo. Per questo a Mirafiori Sud tra le attività più interessanti promosse dalla Fondazione, a parte gli orti urbani, c’è il sostegno a 130 studenti stranieri del Politecnico che vivono in via Negarville. Perché se in un luogo arrivano giovani in gamba con aspirazioni di reddito e di qualità della vita, questo non può non avere influenza su tutti i servizi di quel luogo».
Ma Bruno Manghi ha colto l’occasione dell’assemblea degli artigiani per una riflessione sul ruolo delle associazionismo. «A Mirafiori incontro tante persone, ma le associazioni sono poche e poco presenti. In pochi si presentano come associazione, con l’orgoglio di essere un’associazione e i valori di un’associazione. Confartigianato come le altre associazioni di categoria dà servizi cruciali, è una tecnostruttura importante, fa lobby verso le istituzioni, ma non è solo questo a fare un’associazione. Da Confindustria al sindacato, tutte le associazioni hanno attraversato momenti difficili, però ci sono alcuni esempi in controtendenza. Pensiamo alla Coldiretti: vent’anni fa era un’associazione finita, perché erano finite le relazioni con il mondo politico, erano cambiati gli interlocutori. Un gruppo di giovani l’ha presa in mano e l’ha riformata fornendo una identità professionale e non generica e intercettando la nascita della curiosità per l’ambiente e per l’agricoltura. Oggi le sue bandiere le conoscono tutti. Quando l’autorità centrale diventa più debole e meno decisiva, la parola torna alle associazioni, ma solo se sono associazioni e non semplici coalizioni di lobby. Gli artigiani, per esempio, sono anche degli educatori, perché quando trasmetti la bottega non trasmetti solo un’attività economica, ma trasmetti il senso di quella bottega, il gusto di fare qualcosa. Oggi si è riscoperto il valore del maker, del fare, c’è una grande ripresa del lavoro che non va confuso con il posto di lavoro ma con il senso di un’esistenza. Da questo, dall’orgoglio del fare, devono ripartire le associazioni».

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