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The Big Sick

di Michael Showalter. Con Kumail NanjianiZoe KazanHolly HunterRay RomanoAnupam Kher  USA 2017

Kumail Nanjiani ha scritto con la moglie, la scrittrice Emily V. Gordon, questa storia completamente autobiografica, basata sul loro amore e sulle difficoltà che hanno dovuto superare; la regia è andata, saggiamente, a Showalter alla sua terza prova come autore di commedie sentimentali con un retrogusto amaro-intellettuale. Il risultato è un Romeo e Giulietta wasp o, se volete, un Indovina chi viene a cena? multietnico, comunque gradevole, arricchito da un cast azzeccatissimo, a partire dalla nipote di Elia Kazan, Zoe, credibilissima nel personaggio e dai grandi Holly Hunter e Ray Romano. The big sick è stato presentato al Sundance Festival ed ha vinto il Premio del Pubblico nel recente Locarno e, con un budget di partenza bassissimo (5 milioni – quasi niente negli USA), ha superato i 40 milioni di incasso negli States ed è stato venduto in decine di Paesi. Ecco come un racconto di integrazione e di superamento delle barriere culturali può essere affrontato con toni lievi o – talora – drammatici ma mai predicatori e saccenti ed arrivare al pubblico ovunque nel mondo.

Chicago, Kumail (Nanjiani), un giovane comico, mentre sta eseguendo il suo numero incentrato sulle proprie origini pakistane, viene interrotto da un grido di incoraggiamento dalla studentessa Emily (Kazan); la avvicina dopo lo spettacolo, la porta nella casa che divide con un altro comedian, Chris (Kurt Braunohler), ci fa l’amore e, quando lei chiama Uber per tornare a casa è il suo telefono a rispondere (il suo lavoro per vivere è quello). Nel ritorno a casa si scambiano promesse di non vedersi più per evitare complicazioni sentimentali ma, naturalmente, di lì a poco, hanno una relazione. Kumail, va regolarmente a pranzo dalla propria famiglia – la madre Sharmeen (Zenobia Shroff), il padre Azmat (Kher), il fratello Naveed (Adeel Akhtar) e la cognata Fatima (Shenaz Tresury) – ed ogni volta (per caso!) arriva in visita una ragazza pakistana: i suoi lo vorrebbero sistemato secondo l’abitudine dei matrimoni combinati della loro terra d’origine e – già provati dalla sua vocazione (insistono perché studi legge e divenga un avvocato) – non accetterebbero mai una relazione con una occidentale; lui, per non essere  espulso dalla famiglia, finge cordialità e poi ripone le foto delle pretendenti in una scatola. Quando i genitori di Emily – Beth (Hunter) e Terry (Romano) – vengono a trovarla, lui trova modo di evitarli ma, poco dopo, lei trova la scatola delle foto e nella discussione che segue, Kumail ammette di non avere il coraggio di mettersi definitivamente con lei per non causare un dolore alla propria famiglia. Emily allora tronca la relazione e lui si butta sul lavoro, ottenendo dal talent-scout Bob Dalavan (Jeremy Shavos) un’audizione per il Festival della Comicità di Montreal. Una sera una telefonata lo informa che Emily è stata portata in ospedale dopo essere svenuta. Si precipita da lei e un dottore (Jeff Blumenkrantz) gli comunica che lei ha una grave infezione ai polmoni e dev’essere immediatamente posta in coma farmacologico; lui firma il modulo di consenso fingendosi suo marito e chiama i genitori della ragazza. All’inizio Beth e Terry lo trattano freddamente e gli chiedono di andarsene ma lui resta e, mentre la malattia di Emily non sembra regredire, imparano a conoscerlo ed a capire quanto ami la loro figlia, tanto che, assistendo ad un suo show, Beth viene quasi alle mani con un bulletto (Spencer House) che gli aveva rivolto epiteti razzisti. I medici intervengono chirurgicamente ma l’infezione, che era inizialmente regredita, si allarga. Beth vuole trasferire Emily a un altro ospedale ma Kumail ha saputo dall’infermiera (Myra Lucretia Taylor) che accudisce Emily che sarebbe assai rischioso spostarla e convince Terry; i due coniugi litigano e lei gli rinfaccia qualche grave colpa. La notte Terry va a dormire da Kumail e gli confessa di aver tradito Beth, di averglielo confessato e che per questo il loro matrimonio è in crisi. Quando arriva il giorno dell’audizione per il Festival, Kumail, anziché recitare il pezzo che aveva preparato, racconta la sua disperazione e le sue paure per la sorte della ragazza e viene scartato. Si precipita in ospedale e trova che Beth ha convinto Terry a firmare per il trasferimento; tenta invano di fermarli ma è la direttrice sanitaria (Linda Edmond) ad opporsi e a convincerli ad avere fiducia nel suo staff. Infatti, di lì a poco, Emily si risveglia dal coma. A Kumail la bella notizia arriva mentre è a casa; quando sta uscendo arrivano i suoi genitori indignati perché lui ha scaricato la ragazza (Vella Lovell) che loro avevano scelto come nuora; lui confessa la verità e loro lo disconoscono. Arrivato all’ospedale, però, Emily, che non sa nulla della sua dedizione e che è ancora amareggiata con lui, gli chiede di andarsene. Quando lei esce dall’ospedale, Beth le organizza una festa di bentornato e lo invita; Kumail le chiede ad Emily di rimettersi insieme, ma lei non se la sente.  Allora lui – dopo essere andato a pranzo dai suoi e aver loro comunicato che non accetta il loro disconoscimento – decide di trasferirsi a New York con due amici comici, C.J. (Bo Burnham) e Mary (Aidy Bryant). Dopodiché si presenta a cena dai suoi, parla loro dei suoi piani e comunica che si rifiuta di permettere loro di disconoscerlo. Ad Emily capita di vedere su you-tube la registrazione della sua performance alle audizioni e va a trovarlo per dirgli quanto apprezzi quello che ha fatto per lei e lui le comunica che sta per partire. Durante un numero a New York, Kumail viene disturbato da qualcuno del pubblico…




The Place

di Paolo Genovese. Con Valerio MastandreaMarco GialliniAlessandro BorghiSilvio MuccinoAlba Rohrwacher Italia 2017

Dopo il successo di Perfetti sconosciuti Genovese (che pure veniva dagli ottimi incassi dei due Immaturi  e de La banda dei Babbi Natale) ha scelto di percorrere di nuovo la strada del racconto drammatico, corale ed emblematico. Per farlo ha preso le mosse dalla serie americana The booth at the end, riproponendone il format – l’uomo con l’agenda (nella serie è Xander Berkeley) seduto in fondo al caffè che propone scambi, spesso inumani, par realizzare i desideri – ma anche molte delle storie. Il tema, dal Faust in poi, non è nuovissimo: al cinema da Il milione di Renè Clair, a Se avessi un milione (film ad episodi, diretto da Ernst Lubitsch ed altri 7 registi), a Il carnevale della vita di Julien Duvivier più volte sono state sviluppate storie che scaturivano dalla possibilità magica di esaudire i propri desideri. Anche la commedia musicale, con il delizioso Un Mandarino per Teo (Soldi, soldi, soldi: ricordate la canzone?) aveva immaginato un tentatore che promette la felicità in cambio, in quel caso, della morte di uno sconosciuto (nel 2009 Richard Kelly aveva proposto un tema molto simile, traendo il suo The box da un racconto di Richard Matheson). Nella serie e nel film l’Uomo non è chiaramente (come nei titoli che abbiamo citato) un angelo o un demone ma piuttosto la rappresentazione dell’es (il termine psicanalistico dell’istintualità contrapposta all’Io) dei personaggi. Il cast è uno dei pregi ma anche uno dei difetti del film: sono tutti buoni attori ma si portano appresso un inevitabile alone di già visto e l’eccessiva teatralità del congegno narrativo (che era già nella serie televisiva ma i 23 minuti di durata di ogni episodio aiutavano ad asciugare il racconto) li porta ad una recitazione un po’ troppo d’accademia (la Lazzarini ce l’ha di suo e già in Mia madre di Moretti appariva in parte fuori contesto). Non a caso sono più credibili Mastandrea e la Ferilli che al teatro sono arrivati dopo il cinema, mentre la migliore, la meno scontata appare Silvia D’Amico. E’ comunque una buona prova, della quale la regia, le musiche di Maurizio Filardo – con l’irrompere di A chi di Fausto Leali e di Sunny di Bobby Hebb – e la fotografia di Fabrizio Lucci sono di veri punti di forza; disturba (ma forse solo me) il depistante moralismo delle varie conclusioni e qualche concessione al conformismo impegnato (l’allusione a Cucchi, il femminicidio). Rimane la voglia di una qualche ribalda libertà di ispirazione ma The place ha un suo coraggio e una lodevole voglia di novità.

Nel tavolino di un bar anonimo chiamato The Place un Uomo (Mastandrea) riceve persone che gli confidano i loro desideri; lui promette di realizzarli, in cambio di missioni – spesso ignobili – che affida loro, traendole da un’agenda piena di scritte. La signora Marcella (Giulia Lazzarini) –  -che vorrebbe far uscire dall’Alzheimer che lo affligge il marito – ha il compito di costruire una bomba per metterla in un luogo affollato; il professionista Gigi (Vinicio Marchioni), padre di un bambino leucemico, in cambio della sua guarigione deve uccidere una bambina; il poliziotto Ettore (Giallini) per ritrovare una refurtiva, che si è lasciato scappare, dovrà picchiare a sangue uno sconosciuto; ad Azzurra (Vittoria Puccini) per risvegliare l’antica passione nel marito l’Uomo chiede di mettere in crisi una coppia; il cieco Fulvio (Borghi) riavrà la vista se violenterà una donna; il garagista Odoacre (Rocco Papaleo) sogna una notte di sesso con la pin-up appesa nella sua officina: potrà averla se salverà una bambina in pericolo (quella del compito di Gigi); suor Chiara (Rohrwacher) ha perso Dio e per ritrovarlo dovrà rimanere incinta;  Martina (Silvia D’Amico), ragazzotta coatta, vuole diventare più bella e le viene chiesto di metter in atto una rapina che frutti 100.000 euro e spicci; di lì a poco lei porterà con se il teppistello Alex (Muccino), che l’aiuterà nella rapina se l’Uomo farà sparire dalla sua vita l’odiato padre.  L’Uomo è sempre schivo e stanchissimo ma la cameriera Angela, la sera quando sono soli, riesce a strappargli qualche rarefatta confidenza. Le storie dei personaggi si dipanano e spesso si intrecciano: Marcella, terminata la bomba, ha mille scrupoli; Gigi si accorge di Odoacre e, questi, dopo un maldestro tentativo dell’altro di travolgere la bimba con la macchina, decide di rapirla per tenerla al sicuro (intanto la modella della foto va nella sua officina e fa la carina con lui); Ettore ha picchiato brutalmente un fermato e trova la refurtiva ma il ladro – si tratta di Alex ed è suo figlio-  gli sfugge e lui cambia il desiderio: per rivederlo e cercare di recuperarlo (lui è stato un pessimo padre) accetta di nascondere una denuncia di stupro; Azzurra seduce un vicino di casa e fa in modo che la moglie lo sappia e, quando lui se ne va di casa e lei lo confessa al marito, questi ha una reazione, dapprima, solo passionale ma, via via, si fa sempre più violento e ossessivamente geloso; Fulvio incontra proprio suor Chiara e, dopo una serie di appuntamenti, arriva la sera in cui dovrebbe stuprarla.




La ragazza nella nebbia

di Donato Carrisi. Con Toni ServilloAlessio BoniLorenzo RichelmyGalatea RanziMichela Cescon  Italia, Francia, Germania 2017

Carrisi è uno dei nostri giallisti più tradotti in Europa, ha alle spalle un solido lavoro di sceneggiatore (Casa famiglia, Nassirya, Moana) ed è un accanato cinefilo come ben si vede in questa sua opera prima, nella quale abbondano le citazioni: da quelle dichiarate al Fincher diSeven e de L’amore bugiardo, a I soliti sospetti (la serie di finali a sorpresa) e a Fargo (la poliziotta con il colbacco, che nel romanzo era un uomo), alle atmosfere di The village di Shyamalan ma anche dei due Fiumi di porpora con Reno poliziotto scontroso, forse anche l’assai meno riuscito La ragazza del lago di Molaioli. Sicuramente meno voluti sono i riferimenti a Omicidio all’italiana di Maccio Capatonda e al recentissimo L’uomo di neve, anche se l’allegra satira sui format televisivi sanguinolenti del primo, qui, prendendosi sul serio, rischia di sfociare nel moralismo conformista, mentre la solitudine delle valli innevate di Carrisi è più efficace della stucchevole neve norvegese di Alfredson. Quest’ultima notazione aiuta a capire che siamo davanti ad un buon film, con un cast europeo notevole (anche se Servillo, come talvolta gli capita, sembra compiacersi troppo della propria a scapito della credibilità del personaggio), una regia nient’affatto insicura e soprattutto la scommessa vinta di fare un’opera di genere di qualità (anche commerciale – vengono in mente gli ottimi esordi di Petri con L’assassino e di Damiani con Il rossetto) .La trama gialla è ben calibrata anche se, nelle ultime scene, appesantita da finali via via un po’ telefonati. Insomma, però, ben venga un “whodunit” (poliziesco con scoperta finale dell’assassino) italiano non televisivo e di buon impatto. Avercene.

Ad Avechot, piccolo paese di montagna, l’agente Mayer (Cescon) porta l’ispettore Vogel (Servillo) dallo psichiatra Flores (Reno) perché, a seguito di un incident, sembra aver perso la memoria. Già dalle prime battute del colloquio, al medico appare chiaro che l’uomo finge l’amnesia e lo fa parlare; lui è un poliziotto famoso per aver risolto casi importanti sempre con grande clamore giornalistico ma che è incappato in un guaio giudiziario: l’ultimo suo arrestato, sospettato di essere un serial killer, era stato assolto in appello e aveva ottenuto un risarcimento milionario. Chiamato, insieme al suo braccio destro Borghi (Richelmy) ad Avechot per indagare sulla scomparsa dell’adolescente Anna Lou (Ekaterina Buscemi), una ragazzina dai lunghi capelli rossi tutta casa e comunità religiosa, si era subito messo all’opera chiamando la sua amica/nemica Stella Honer (Renzi), star giornalistica televisiva specializzata in casi criminali. La presenza della televisione convince la Polizia a mandare uomini, apparecchiature ed elicotteri per aiutare l’ispettore. Viene fuori che un ragazzo nevrotico, Mattia (Jacopo Olmo Antinori), era solito riprendere di nascosto la ragazzina e che in un video da lui girato il giorno della scomparsa vicino alla casa di Anna Lou si veda aggirarsi la macchina di Loris Martini (Boni), professore di liceo trasferitosi da poco dalla città nel villaggio, decisione non indolore, nata dal tentativo di ricucire il rapporto con la moglie Clea (Lucrezia Guidone) reduce da una relazione adulterina. Ora loro e la loro figlia Monica (Marina Occhionero) – che è furiosa con il padre per aver dovuto lasciare la città ed i suoi amici – vivono alla meglio con il magro stipendio di insegnante di lui e sono pieni di debiti. Vogel, sollecitato dai media e dai disperati genitori (Daniela Piazza e Thierry Toscan) di Anna Lou, si convince che gli indizi che portano a Martini – il filmato di Mattia, la mancanza di un alibi per il giorno della scomparsa, una misteriosa ferita alla mano e un sms ambiguo ad una sua allieva (Sabrina Martina) – siano prove sufficienti e comincia a costruirgli intorno un muro di sospetti, lasciando parte del lavoro sporco alla Honer  In paese si appalesa il famoso avvocato Levi (Antonio Gerardi) che si offre di difendere Martini, mettendolo in guardia contro la pericolosità e il cinismo del poliziotto ma dopo un drammatico incontro a due con il suo persecutore, a seguito del ritrovamento dello zaino di Anna Lou con tracce del sangue del professore, questi viene arrestato. Vogel si gode la ritrovata fama mediatica ma la telefonata di una giornalista tedesca (Greta Scacchi), che si è rovinata la carriera per inseguire l’Ombra (un serial killer che trent’anni prima uccideva in tutta la valle adolescenti dai capelli rossi rimetterebbe tutto in discussione ma…




It

It è uno dei titoli di maggior successo di Stephen King, sia commerciale che di critica. Certamente è uno dei più personali tra i suoi successi, ambientato (come altri romanzi dell’autore), nella immaginaria cittadina di Derry, assai prossima a Portland, sua città natale, negli anni ’50 della sua adolescenza (il film sposta, però, gli avvenimenti negli ’80, più vicini all’immaginario del pubblico di oggi). La New Line -Warner, nel decidere di produrre un remake cinematografico della miniserie del 1990, ne aveva inizialmente offerto la regia a Cary Joji Fukunaga che aveva predisposto di accentuare gli elementi splatter della storia, in disaccordo con la produzione. Il progetto è cosi passato a Muschietti che già con l’ottimo La madre aveva dimostrato di saper raccontare una storia terrorizzante, senza ricorrere a sanguinolenti effettacci (anche l’iniziale morte di Georgie, molto più raccontata in dettaglio di quanto non facesse la miniserie, ha – come accadeva con l’uccisione della bambina all’inizio di Distretto 13 – Le brigate della morte di Carpenter – il compito di immetterci nell’incubo, non di colpirci allo stomaco). Il coté del film è, infatti, più quello di Stand by me, splendido, malinconico film che Rob Reiner aveva tratto dal racconto autobiografico di King Il corpo, che dei thriller più duri. La vera qualità narrativa di Muschietti è, infatti, quella di farci vedere tutto attraverso gli occhi di adolescenti, immersi nel mondo spaventoso e misterioso di adulti crudelmente incomprensivi e violenti (fisicamente o psicologicamente). Il film è il campione di incassi in USA nella storia dell’horror e, anche da noi, è partito con grandi numeri e forse la ragione è proprio nel fatto che sa raccontarci le nostre paure e ce le esorcizza, come per qualunque essere fragile, proponendoci il modello di un insieme di debolezze che forma una forza invincibile, cioè l’uscita dal sé per entrare nel mondo dei sentimenti e delle relazioni (che altro sono le favole se non questo?).

di Andy Muschietti. Con Bill SkarsgårdOwen TeagueJaeden LieberherFinn WolfhardWyatt Oleff   USA 2017

Nel 1988 a Derry, cittadina del Maine, il piccolo Georgie Denbrough (Jackson Robert Scott) esce sotto la pioggia e fa navigare lungo un rigagnolo la barchetta di carta, regalatagli dal fratello Bill (Lieberher); quando questa finisce in uno scarico fognario, dal quale appare un pagliaccio (Skarsgard) che si presenta come “Pennywise il clown ballerino” e gli offre un palloncino ma, quando Georgie cerca di recuperare la sua barchetta, prima gli strappa via il braccio con un morso, poi lo divora. Qualche mese dopo, ultimo giorno di scuola, Bill e i suoi amici – il logorroico Richie Tozier (Wolfhar), l’ipocondriaco Eddie Kaspbrak (Jack Dylan Grazer) e l’ebreo Stanley Uris (Oleff) – vengono maltrattati, come sempre, dal bullo Henry Bowers (Nicholas Hamilton) e i suoi accoliti, Patrick (Owen Tegue), Belch (Jake Sim) e Victor (Logan Thompson). Nei bagni della scuola, intanto, Beverly Marsh (Sophia Lillis) dopo essere stata umiliata dalle compagne – guidate dalla gelosa Gretta (Megan Charpentier) – che la accusano di essere una sgualdrina, si scontra, urtandolo, con Ben Hanscom (Jeremy Ray Taylor), il nuovo arrivato sovrappeso e segretamente innamorato di lei. Di lì a poco il ragazzo nero Mike Hanlon (Chosen Jacobs) – un orfano che vive con il nonno (Steven Wiiliams) allevatore di ovini che gli rimprovera di non avere il coraggio di uccidere le pecore – mentre sta consegnando della carne, vede arrivare Henry e i suoi (che sono soliti aggredirlo con frasi razziste) e, nascondendosi, viene minacciato da Pennywise. Bill non si dà pace per la scomparsa del fratellino ed è convinto – inconsapevolmente esacerbando il dolore dei genitori (Geoffrey Pounsett e Pip Dwyer) – che sia ancora rintracciabile e che potrebbe essere finito in un terreno collegato alle fogne chiamato i Barrens. Ben, mentre è in biblioteca a leggere un libro sulla storia di Derry che descrive le tragedie e le sparizioni inspiegabili che, nei secoli, l’hanno tormentata, viene attirato da un palloncino e, seguendolo nel seminterrato, incontra Pennywise, che si è materializzato in un ragazzo senza testa (Carter Musselman). Scappato dalla biblioteca in preda al terrore, Ben finisce nelle mani dei bulli ed Henry gli incide con il coltello una H sulla pancia, lui riesce a fuggire nei Barrens dove trova Bill, Richie, Eddie e Stanley che, cercando Geoorgie, hanno trovato la scarpa di una ragazza scomparsa; intanto Patrick, che lo cerca in una discarica vicina, viene ucciso da Pennywise. Ben, viene medicato dai ragazzi, aiutati da Beverly che, facendo gli occhi dolci al farmacista (Joe Bostick), consente loro di prendere i medicamenti di cui Ben ha bisogno. Più tardi, mentre sta tornando a casa, Eddie passa davanti alla casa abbandonata di Neibolt Street e viene attaccato da Pennywise sotto forma di un lebbroso (Javier Botet). Stanley, invece, dopo essere stato rimproverato dal padre rabbino (Ari Cohen) per non aver studiato abbastanza la torah, vede materializzarsi la donna modiglianesca (Tatum Lee) soggetto di un quadro che lo ha sempre spaventato, mentre Beverly, che si era rifugiata in bagno per fuggire alle attenzioni lubriche del violento padre (Stephen Bogaert), sente le voci di molti bambini scomparsi provenire dal lavandino, dal quale sgorga una quantità di sangue. Bill, a sua volta, viene attirato nella cantina di casa dall’apparizione di Georgie e, qui, attaccato da Pennywise. L’indomani, tornati nei Barrens, Bill, Beverly, Ben, Richie, Stan ed Eddie salvano Mike dalla banda di Henry, affrontandoli con una sassaiola. E’ ora completo il “Club dei Perdenti”(come hanno deciso di chiamarsi) e i ragazzi capiscono di essere stato attaccati – ciascuno nel proprio punto debole (quello di Richie è direttamente la paura dei clown) – da It, l’entità che, con l’aspetto di Pennywase, si risveglia per alcuni mesi ogni 27 anni per nutrirsi dei bambini di Derry prima di riscomparire e che si serve delle fogne per spostarsi senza essere visto. Mentre nel garage di Bill esaminano le mappe della rete fognaria, i Perdenti vengono aggrediti dal clown ma riescono a scacciarlo e decidono di andare a stanarlo nella casa in Neibolt Street; qui It riesce a separarli e, dopo aver fatto cadere Eddie, che si rompe un braccio, si prepara a mangiarlo ma gli amici arrivano in tempo a salvarlo. L’apprensiva madre (Molly Atkinson) di Eddie – che, per ansia di protezione, lo ha reso ipocondriaco – giunge sul posto e porta via il figlio mentre Richie, Stan, Ben e Mike cedono alla paura e lasciano Bill e Beverly soli. Qualche tempo dopo Beverly, per difendersi dall’ennesima violenza del padre, lo uccide e, subito dopo, arriva Pennywise che la rapisce. Henry, intanto, svergognato di fronte agli amici dal padre (Stuart Huges) poliziotto, soggiogato da It lo uccide e parte alla caccia dei Perdenti. Bill, che è stato a casa di Beverly e ha capito cosa è successo, va a chiamare gli altri e con loro giunge nella casa di Neibolt per salvare la ragazza e con loro si cala nel pozzo che è al centro della costruzione; arriva Henry, che si scaglia contro Mike che era l’ultimo a scendere ma, nella lotta, è lui a soccombere, cadendo dal pozzo e sfracellandosi al suolo. Il gruppo giunge alla tana di Pennywise e, dopo un primo scontro con lui,trovano Beverly in stato catatonico sospesa nel vuoto con accanto i corpi degli altri bambini scomparsi; i ragazzi riescono a tirarla a terra e a rianimarla. It compare sotto forma di Georgie ma Bill non ci casca e lo ferisce con la sparachiodi di Mike; dal corpo del bambino riappare Pennywise che prende in ostaggio Bill, offrendo agli altri Perdenti salva la vita se gli lasceranno l’amico; loro non accettano e liberano Bill e sconfiggono Pennywise, che non avendo più il potere di spaventarli, comincia a disintegrarsi. Un mese dopo i ragazzi fanno un giuramento di sangue: se fra 27 anni It sarà tornato, anche loro torneranno a Derry per distruggerlo una volta per tutte.

 




L’uomo di neve (The Snowman)

di Tomas Alfredson. Con Michael FassbenderRebecca FergusonCharlotte GainsbourgChloë SevignyVal Kilmer   Gran Bretagna 2017

Jo Nesbo è – insieme a Stieg Larsson, Anne Holt, Camilla Lackeberg e Henning Mankell – uno degli esponenti di punta della scuola del giallo scandinavo e a Harry Hole ha dedicato sino ad ora 11 romanzi; L’uomo di neve è il settimo e alcuni dei personaggi (in particolare, l’assassino, che non riveliamo, erano già presenti nel precedente La ragazza senza volto. Lo svedese Tomas Alfredson si era rivelato autore capace di proporre una cupa profondità nell’interessantissima vampire-story Lasciami entrare, confermata dal successivo La talpa (da Le Carrè). L’uomo di neve, invece, è una delusione: un cast di grandi nomi e un romanzo di successo servono solo a mettere insieme un giallo poco più che televisivo. Forse è anche colpa dei sopravvalutati gialli nordici: tanta tristezza, tanta cupa violenza e, soprattutto, tanta neve ma un compiacimento narrativo (vale un po’ per tutti), senza il nerbo di un andamento narrativo potente in sé (come se gli eccessi di cui si nutre spesso quella letteratura poliziesca coprissero, per accumulazione, una carenza di ritmo). Nel ridurre al formato cinematografico il film, poi, gli sceneggiatori, Hossein Amini, Peter Straughan e Soren Sveistrup, hanno lasciato buchi e semplificazioni narrative evidenti (Nesbo ne ha preso le distanze). Fa freddo, insomma, ci sono tanti morti ma pochissime emozioni.

Ad Oslo l’ispettore Harry Hole (Fassbender), alcolista e depresso ma grande investigatore, specializzato nella caccia di serial killer, viene affiancato dalla giovane Katrine Bratt (Ferguson) e, mentre indagano sulla scomparsa di Edda (Jaime Clayton), giovane mamma di una bambina, Josephine (Jetè Laurence), in crisi con il marito Filip (James D’Arcy). Harry vede che Rebecca ha con sé i file di casi simili – che non sarebbe autorizzata a tenere – in particolare, la morte a Bergen di una donna (Sofia Henlin), il cui cadavere era stato trovato scomposto e vicino ad un pupazzo di neve (in tutto simile a quello che era stato messo da qualcuno di fronte alla casa di Edda). Harry vive solo perché è finita da un pezzo la sua relazione con Rakel (Gainsbourg), che ora vive con Matias Lund-Elgesen (Jonas Karlsson) – medico molto affermato – ma il cui figlio Oleg (Michael Yates) ancora gli è legato profondamente. Quando anche Edda viene trovata morta, le indagini conducono al dottor Vetlesen (David Dencik), che lavora in una clinica che pratica aborti (e le due donne si erano rivolte a lui prima di scomparire) e che è in relazione con l’ambiguo uomo d’affari e seduttore Arve Stopp (J.K. Simmons), che è al centro dei sospetti di Katrine. Ai due detective arriva la denuncia della scomparsa di una donna in campagna, Sylvia Ottersen (Sevigny); quando però arrivano alla fattoria la trovano viva e sorpresa ma, mentre stanno tornando indietro, un telefonata ripete la denuncia. Tornano alla fattoria dove vengono accolti dalla gemella Anne (Sevigny) e Harry rinviene, in fondo a un pozzo, un pupazzo con sopra la testa di Sylvia. Anche lei era andata da Vetlesen e Katrine decide di tentare il tutto per tutto e si presenta ad una festa di Stopp, riuscendo a farsi notare e a farsi dare la chiave della sua stanza per un appuntamento galante; mentre, aspettandolo, si guarda attorno viene, però, aggredita ed uccisa dal serial killer. Harry, che era andato a Bergen, scopre che la sua partner è la figlia del detective Gert Rafto (Kilmer), che aveva indagato sul misterioso assassino ed era stato ucciso. Tornato ad Oslo e avvertito della scomparsa di Katrina, si precipita nella villa di Vetlesen ma la trova morta insieme al dottore. Distrutto torna a casa e, dopo poco, viene raggiunto da Rakel, che lo ama ancora e vorrebbe fare l’amore con lui. Una telefonato di Matias li interrompe ma…

 




Baby Driver – Il genio della fuga (Baby Driver)

di  Edgar Wright. Con Ansel ElgortKevin SpaceyLily JamesEiza GonzalezJon Hamm USA 2017

Baby (Elgort) è in macchina con 3 gangster: il duro Griff (Jon Bernthal) e gli innamorati cocainomani Buddy (Hamm) e Darling (Gonzalez). I tre mascherati ed armati rapinano una banca e lui, con le cuffie eternamente alle orecchie, elude, a ritmo di Bellbottoms di Jon Spencer, con abilità prodigiosa tutte le auto della polizia che li inseguono. Nella fuga cambiano auto e Griff dimentica il fucile nella macchina che lasciano per strada. Arrivano al covo del loro capo Doc (Spacey) e si spartiscono in parti uguali i soldi ma quando scendono in garage, Doc, dopo avergli ordinato di portare allo sfascio la macchina dal cui portabagagli spunta il cadavere di Griff (che ha pagato per la sua pericolosa distrazione), si riprende la sua parte del bottino, tranne un mazzetto di banconote, comunicandogli che con il colpo successivo avrà saldato il debito – qualche anno prima, ancora ragazzetto, aveva rubato la macchina di Doc (ignorando chi fosse il proprietario e che contenesse un prezioso quantitativo di droga) e ora ripaga il danno facendo da autista nelle rapine che questi organizza. A casa Joseph (C.J. Jones) il vecchio sordomuto che lo aveva adottato quando, bambino (Hudson Meek), era stato coinvolto in un incidente nel quale i suoi genitori (Sky Ferreira e Lance Palmer) avevano perso la vita e a lui era venuto un costante fischio all’orecchio che solo la musica in cuffia riesce ad attutire. Joseph sa che lui corre dei pericoli ed è preoccupato ma Baby lo tranquillizza e va allo snack bar dove la mamma serviva ai tavoli e cantava. Qui incontra Debora (James), la nuova cameriera e se ne innamora ricambiato. Doc lo chiama per il nuovo colpo: dovrà accompagnare lo sciroccato Eddie (Flea), l’asiatico J.D. (Lanny Joon) e il rabbioso Bats (Jamie Foxx) ad una rapina ad un portavalori. Anche stavolta la sua guida li porta in salvo – lui ha anche deviato, sterzando, il colpo con cui Bats stava per uccidere un inseguitore. Doc gli conferma che ora il suo debito è saldato e lui, felice, telefona a Debora per invitarla a cena in un ristorante di classe; alla fine della cena, il cameriere (D.L. Lewis) comunica che il conto è stato saldato da Doc; preoccupato Baby lo raggiunge e il boss, minacciando ritorsioni su di lui, Debora e Joseph, lo costringe a ritornare a lavorare per lui. L’indomani vanno di fronte all’ufficio postale che Doc vuole rapinare dove, facendolo accompagnare dal nipotino Samm (Brogan Hall) per non destare sospetti, lo spedisce a valutarne le difese. Grazie anche all’aiuto di una gentile ed ignara impiegata (Allison King), Baby ha tutte le notizie che servono. Baby e i tre rapinatori – Bats, Budd e Darling – vanno dal Macellaio (Paul Williams) a ritirare le armi per il colpo ma Bats si accorge che i suoi uomini sono poliziotti e, insieme agli altri, ammazza tutti. Dopo essersi fermati a bere una Coca Cola nel locale dove lavora Debora (e qui, nonostante gli sforzi di Baby per dare a vedere di non conoscere l’esterrefatta ragazza, gli altri capiscono tutto), ritornano da Doc che arrabbiatissimo (gli uomini del Macellaio erano agenti corrotti da lui), vorrebbe far saltare tutto ma si convince a proseguire a patto che loro quattro dormano lì. Baby prova a scappare per fuggire con Debora ma Bats e Buddy lo bloccano. L’indomani mattina il colpo riesce ma al momento della fuga si frappongono vari intoppi e Bats spara ad un vigilante (Joe Loya), mentre Baby riesce a fermare la gentile impiegata che stava tornando al lavoro. Nella fuga a piedi (la macchina è sotto il tiro della polizia) Darling viene uccisa e Buddy, folle di dolore, fa una strage di polizotti. Muore anche Bats e Baby – che è riuscito a fuggire con la macchina di una anziana signora (Andrea Frye), alla quale restituisce, prima di sgommare, la borsetta – prima va a prendere Joseph e, lasciandogli tutti i soldi dei precedenti colpi, lo porta in una casa di riposo e poi va da Doc al quale chiede aiuto. Il boss, che in qualche modo gli si era affezionato, gli dà una macchina e una pistola ma, ferito e feroce, arriva Buddy che lo uccide. Baby riesce a scappare con Debora ma Buddy li segue ovunque, fino allo scontro finale. I due innamorati partono ma sulla strada un posto di blocco li ferma. Baby, per non coinvolgere Debora, ferma la macchina e si arrende. Al processo le testimonianze di Joseph, dell’impiegata delle poste e della proprietaria della macchina gli faranno avere una condanna relativamente lieve.

L’uscita di Bullitt di Peter Yates nel 1968 ha segnato una forte svolta nel poliziesco, instaurando una escalation di rocamboleschi inseguimenti in macchina, fino all’apoteosi dei Fast and Furious. In qualche modo anche il nostro poliziottesco ha avuto un percorso parallelo: nei primi anni ’70 i nostri registi di genere, quelli amati da Tarantino, hanno supplito alla mancanza di mezzi con geniali espedienti artigianali (nel suo godibile libro Il bianco spara Enzo G. Castellati ne elenca alcuni) e con degli stunt-men espertissimi e spericolati ma poi, le costosissime tecnologie americane hanno reso impossibile la realizzazione di action italiani. L’eclettico Edgar Wright (va dall’horror demenziale – L’alba dei morti dementi e il corto Don’t, finto trailer in Grindhouse di Tarantino e Rodriguez – alla commedia – Hot Fuzz– e al film per ragazzi – la trilogia Scott Pilgrim)  aveva già, realizzando il video di Blue Song dei Mint Royale, immaginato un autista-rapinatore musicomane e qui dà al suo protagonista una sorta di autismo: è bravissimo alla guida e, apparentemente, assente di fronte al mondo e gira tutte le scene in cui lui appare, in macchina o a piedi, virandole sulle canzoni che lui ascolta in cuffia. Le compilation nei suoi i-pad sono più che una colonna, sono una parte vitale del racconto: il citato Bellbottoms , Brighton rock dei Queen, Knocking on heaven’s door dei Guns n’ Roses, Let’s go away for a while dei Beach Boys e Harlem shuffle di Bob and Earl, tra gli altri, danno il tempo delle fughe in macchina, Tequila dei Bottom Down Brass, sottolinea la sparatoria dal Macellaio e i due innamorati si dedicano, rispettivamente, Debra dei Commodores , Debora dei T.Rex ,  Baby I’m yours di Barbara Lewis e Baby Driver di Simon and Garfunkel. Forse è poco più che una trovata ma l’impianto musica-azione, non certo nuovo, in questa chiave funziona benissimo e il film è una delle rare sorprese al botteghino americano di questa non eccelsa stagione.

 




7 Giorni

di Rolando Colla. Con Bruno TodeschiniAlessia BarelaGianfelice ImparatoAurora QuattrocchiMarc Barbé Italia, Svizzera 2016

Lo svizzero Colla non è un regista facilissimo. Non lo sono i suoi film che talora peccano di didascalismo (Oltre il confine), talaltra (Giochi d’estate) di sovraffollamento di personaggi e situazioni e – soprattutto, sin dall’esordio con Una vita alla rovescia – di astrattezza intellettualistica. Non è sempre agevole, inoltre, lavorare con lui: rigoroso al limite del maniacale, quasi incontentabile tanto da aver messo su una sua società di produzione – la Peackok – per essere sicuro di poter girare con la massima libertà. E’ però un regista vero e la sua capacità di girare e di raccontare con la macchina da presa è innegabile. 7 giorni è, in qualche modo, una vera svolta nella sua cinematografia: il tema della difficoltà di dichiarare ed accettare i sentimenti – molto centrale nella sua narrativa – qui esplode in un racconto molto più conchiuso e raccolto degli altri suoi film. L’erotismo delle scene d’amore – a differenza della freddezza, ad esempio, di Oltre il confine – rimanda una grande, rabbiosa, essenziale poeticità; cosi come le scarne scene subacquee (con i fiori finti che si depositano nel fondo) raccontano un mondo chiuso, povero ma non disperato. Anche alcuni limiti didascalici del racconto (gli abitanti dell’isola tutti buoni e generosi, il figlio piccolo teneramente down di Giuseppina, un incongruo pugno chiuso con il quale Ivan saluta il fratello), diventano accessori retorici accettabilissimi in un contesto di gran respiro.  Certamente il risultato è dovuto alla sua determinazione autorale (ha preteso che gli attori e la troupe rimanessero nell’isola – nella quale ha girato anche gli interni – senza confort, per tutto il periodo delle riprese più quattro settimane di prove), alla sua grande attenzione nella costruzione del cast, che vede attori professionisti (come la splendida Quattrocchi) e veri isolani ma anche alla saggezza produttiva della Solaria di Emanuele Nespeca (coproduttore) e della Movimento (produttore di Mario Mazzarotto (produttore esecutivo e anche distributore per l’Italia). Un film – è banale dirlo – è sempre un’opera collettiva e una seria capacità produttiva è importante e creativa quanto la scrittura e la regia. Queste considerazioni mi suggeriscono un’associazione di idee: la nuova legge sul cinema potrebbe, se non accompagnata da importanti correttivi nella stesura dei decreti applicativi, mortificare il tessuto artigianali di chi fa il cinema con capacità professionale. Speriamo proprio che non sia così.

Ivan (Todeschini) e Chiara (Barela) sbarcano nella piccola isola siciliana di Levanzo; lui è il fratello di Richard (Barbè) e lei la migliore amica di Francesca (Linda Olsansky), due ex-tossicodipendenti che si vogliono sposare lì perché la visone di una coppia di sposi sul faro dell’isola aveva dato a Richard la forza per uscire una prima volta dalla droga. Ivan e Chiara, che si sono presi l’incarico di preparare l’occorrente per le nozze in 7 giorni, vanno nell’unico albergo, ormai in disarmo, gestito da Giuseppina (Quattrocchi) per predisporre il pranzo e le camere degli ospiti. Lui è un botanico e lei una costumista teatrale – sarà lei a preparare il vestito di Francesca – e il loro incontro è molto poco cordiale; Ivan è scortese, scorbutico e polemico con l’idea di metter in piedi la cerimonia in quella terra quasi deserta e, apparentemente, senza nulla. Oltretutto, bisognerà anche rendere agibile il faro dove la coppia vuole passare la prima notte di nozze e quando lo vanno a visitare, accompagnati dal figlio di Giuseppina, Luigi (Fabrizio Pizzuto), lo trovano in completa rovina e, di nuovo, litigano aspramente. Cominciano, comunque, a darsi da fare e, mano a mano che lavorano, a provare una forte, reciproca attrazione. Prima di fare all’amore, però, lui le detta una condizione: passati i 7 giorni non si vedranno più, perché, lui dice, il tempo uccide l’amore. Lei ci pensa un po’ e poi accetta ma un scatto di rabbia di lui verso un negozio chiuso la fa fuggire via. Dopo poco però lei, dopo un primo approccio interrotto dalla donna delle pulizie, si fa trovare nuda nel suo letto e incomincia tra i due una storia di grande partecipazione sessuale tanto che Ivan le chiede di non tener conto del loro accordo e di stare insieme più a lungo. Ora è lei a rifiutare: ha una figlia ed un compagno, Stefano (Imparato), che forse non ama più ma al quale deve molto perché la ha salvata in un periodo difficile. Questo rifiuto – e la sofferenza che gli causa – mette Ivan di fronte alla propria incapacità di vivere l’amore, come confessa in una disperata telefonata alla sua ex Gertrud (Catriona Guggenbuhl) ma comunque lui e Chiara continuano ad alternare grandi momenti di passione erotica e malumori. Il giorno delle nozze tutto è pronto – ci sono anche musicisti e coristi ad accompagnare il pranzo di nozze con canti tradizionali – e, oltre agli sposi, arrivano i genitori di Ivan e Richard (Armen Godel e Laurence Montandon), gli ex-tossici del centro di riabilitazione nel quale Richard e Francesca si sono conosciuti e Stefano, che rapidamente intuisce l’intesa tra la compagna ed Ivan. Al pranzo tutti sono felici tranne Ivan che dovrà dire addio all’amore. La sera lui si appresta a partire con la barca che porta i musicisti a Trapani e Chiara si offre di seguirlo fino alla barca (lei però gli starà dietro e lui non dovrà voltarsi). Lui sale sull’imbarcazione e….




Transformers – L’ultimo cavaliere (Transformers: The Last Knight)

I giocattoli della Hasbro ne hanno fatta di strada dal 1984: sono da subito un cartoon, nel 1992 diventano un fumetto della Marvel, dal 1990 al 2000 sono – solo per i giapponesi – un manga, dal 2002 sono protagonisti di videogames di grade successo editati dalla Dreamwave e, successivamente, dalla IDW; dai videogames Steven Spielberg e la Universal hanno tratto nel 2007 il primo film della serie diretto, come tutti i successivi dal solidissimo Michael Bay (The Rock, Armageddon, Pearl Harbor). Ora siamo al quinto capitolo e gli alieni-macchina, che hanno fatto e visto di tutto, diventano un pezzo di Storia: combattono (con qualche anacronismo: il mito di Artù è collocato in po’ dopo il 484) al fianco dei Cavalieri della Tavola Rotonda, decidono, con una sortita nel quartier generale di Hitler, delle sorti della Seconda Guerra e sono alla base del mistero di Stonehedge. Gli autori, consapevoli dell’appesantimento che questa svolta dà alla storia, hanno accentuato le parti comiche, negli altri film affidate, principalmente, ai battibecchi tra i Transfomers soldatacci (Hound in testa): le gag del manierato Cogman che ad un certo punto viene chiamato da Cade: “Jeeves” (dal nome del celebre maggiordomo creato da Wodehouse ) e, soprattutto, una serie di doppi sensi tra Cade e Vivian; questi divengono addirittura vaudeville nella scena in cui la madre  (Sara Stewart), la nonna (Maggie Steed) e le zie (Phoebe Nicholls e Rebecca Front) della ragazza equivocano, eccitatissime, le esclamazioni dei due mentre cercano indizi nella stanza del padre (“Tiralo fuori!”, “Deve essere più duro!”). Anche questo è però un segno di stanchezza della serie che non sta producendo incassi incoraggianti (anche se, come il precedente, può sperare nel ricchissimo mercato cinese). Come sempre mi fa piacere constatare l’ottima resa del non facile adattamento e del doppiaggio, curati dal mago Carlo Cosolo. Non è forse un caso che, nonostante la difficoltà stagionale, in Italia il film stia reggendo bene.

 

 

 di Michael Bay. Con Mark WahlbergAnthony HopkinsLaura HaddockJohn TurturroStanley Tucci USA 2017

E’ il 484 e re Artù (Liam Carrigan), insieme a Lancillotto (Martin McCreadie) e ai suoi uomini sta strenuamente combattendo contro un esercito molto più numeroso del suo e aspetta Merlino (Tucci) che gli ha promesso di arrivare con un’arma potentissima; il mago, intanto, ubriaco fradicio è all’ingresso di una grotta e prega qualcuno di venire ad aiutarlo; ecco che arriva, in forma di drago meccanico, un Transformer/Drago che distrugge i nemici del re. Ora siamo in tempi moderni e l’America ha dichiarato fuorilegge i Transformers (sia i buoni Autobot che i perfidi Decepticon), creando un corpo speciale, il TFR, che li combatte e li tiene prigionieri in speciali recinti; in uno di questi, gestito dal capo del TFR, il colonnello William Lennox (Josh Duhamel), penetrano, curiosi, quattro bambini (Benjamin Flores jr.,Juliuscesar Chavez, Samuel Parker e Daniel Iturriaga); i militari li scoprono e del parapiglia che ne segue approfitta Izabella (Isabela Moner), un’orfana che vive in quel campo in compagnia di alcuni Autobot, per cercare di far scappare Bumblebee (voci: Eric Aadahl/Saverio Indrio) e il piccolo Topspin, un Transformer/Vespa Piaggio; gli uomini di Lennox li bloccano ma arriva Cade Yeager (Wahlberg), l’amico e protettore degli Autobot, con Hound (voci: John Goodman/Francesco Pannofino) e Drift (voci: Ken Watanabe/Andrea Lavagnino) e li salva. Giunto al suo deposito di auto, nel quale, aiutato dal recalcitrante assistente Jimmy (Jerrod Carmichael), nasconde e cura gli Autobot, con l’aiuto di Izabela rimette in sesto Bumblebee e la ragazzina ottiene il premesso di rimanere lì con lui ma, poco dopo, l’arrivo delle truppe del TFR li costringe a scappare. Intanto Optimus Prime (voci: Peter Cullen/Alessandro Rossi) è su Cyberthrone, un pianeta che si sta sfaldando e che lui pensa essere la sua patria, e la Trasfomer-Medusa Quintessa (Gemma Chen) lo convince che, solo distruggendo la Terra, che ne avrebbe provocato la rovina, il pianeta potrà risorgere. Lui rapisce due agenti della CIA e, per rilasciarli, chiede ed ottiene la liberazione di Megatron (voci: Frank Welker/Luca Biagini) e di altri pericolosi Decepticon; con il loro aiuto Quintessa spera di poter trovare il bastone di Merlino e, grazie alla sua potenza, di far sparire la Terra. Cade viene, intanto, prelevato dal Trasformer Cogman (voci: Jim Carter/Paolo Marchese) – un maggiordomo inglese pieno di sussiego e di manie – che lo porta al castello del suo padrone, sir Edward Burton (Hopkins). Qui c’è anche la giovane Professoressa di Storia Inglese Vivian Wembley (Haddock), il cui padre (Stephen Hogan) era stato un’autorità negli studi del mito di re Artù. Il lord spiga loro che il mondo è in pericolo e che solo loro (lui perché un Transformer morente gli aveva dato il talismano che lo indicava come l’ultimo Cavaliere della Tavola Rotonda e lei in quanto ultima erede del mago Merlino) possono salvare il mondo trovando il bastone del mago. Poco dopo da Cuba arriva al Pari una telefonata dell’ex-agente Simmons (Turturro), che si sta godendo lì con alcuni Transformers rifugiati i proventi del suo libro, che in cambio della nomina a baronetto rivela il luogo ove trovare la chiave del rapporto tra la Terra e Cyberthrone. Cade e Vivian – che sono un po’ cane e gatto ma anche molto attratti reciprocamente- e, guidati da Burton, si impadroniscono di un sommergibile   con il quale insieme a Cogman, scendono verso le coordinate che hanno trovate tra le carte del padre di lei, inseguiti da Lennox. Arrivano alla tomba di Merlino ma, appena prendono il bastone, Otimus Prime e i suoi li raggiungono e portano via l’arma. Quintessa ha già mosso i resti di Cyberthrone contro la Terra, che sta per essere distrutta e il generale Morshower (Glenn Morshower), il capo della difesa, è indeciso tra le indicazioni misticheggianti di Lennox (che ha deciso di fidarsi di Cade e Vivian) e i suggerimenti del fisico della Nasa (Tony Hale), che propone di usare una quantità enorme di energia nucleare. I nostri (anche sir Burton che viene ucciso dai Transformers) sono intanto arrivati ai dolmen di Stonehedge, indicati dalle profezie, quale luogo dell’impatto definitivo e qui Optimus Prime si scontra con Cade ma, quando sta per ucciderlo, si rende conto di essere stato raggirato da Quintessa e si rimette a capo degli Autobot.  Nella battaglia finale – nella quale Izabela e Topspin sono eroicamente decisivi – Vivian e Cade riescono a strappare il bastone alla Medusa e ad annientarla, salvando la Terra.

 

 




Lady Macbeth

Lady Macbeth del distretto di Mcensk è un romanzo scritto nel 1865 da Nicolaj Leskov e pubblicato quello stesso anno dalla rivista Epoch, diretta da Dostoeskij, che era un grande ammiratore dello scrittore. Nel 1934 Shostakovich ne trasse un’opera lirica, che il regime comunista bloccò (lo stesso Stalin scrisse di suo pugno un attacco contro la musica del compositore, considerata troppo “occidentalmente” moderna). Nel 1961 il regista polacco Andrzej Wajda ne trasse il film Lady Macbeth siberiana, trasposizione assai fedele del racconto originale. Oldroyd è un famoso regista teatrale inglese e dirige il prestigioso London’s Young Vic Theatre e per, questo suo primo lungometraggio ha usato, come sceneggiatrice, la brillante autrice di teatro Alice Birch, che ne ha modificato non solo l’ambientazione ma anche il finale: nel romanzo i due amanti vengono deportati in Siberia e lì lui la tradirà con un’altra reclusa. Nel film si avvertono anche echi di tragiche eroine della letteratura e del cinema francese: Madame Bovary, certamente, ma anche la Therese Desqueyroux di Francois Mauriac; in particolare Il delitto di Therese Desqueyroux di Franju del 1962 sembra aver suggerito l’atmosfera di rarefatta cupezza che si respira nel film. Lady Macbeth è certamente un’opera interessante ma non riesce a riscattarsi del tutto dall’imprinting teatrale dei suoi autori. Sono perfetti i costumi di Holly Weddington, gli attori (tutti poco noti) sono, a partire dalla bravissima Florence Pugh – che recita con tutto il corpo (il suo sedere offerto all’onanismo del marito è già un racconto di frustrazione) – sono perfettamente in parte e ottimamente diretti ma il racconto è, talora, più emblematico che scorrevole, più un insieme di belle scene che uno snodarsi di vicende conseguenti. Nel complesso, però, è un film che merita di essere visto ed una regia dalla quale si possono aspettare ottime cose.

di William Oldroyd. Con Florence PughCosmo JarvisPaul HiltonNaomi AckieChristopher Fairbank Gran Bretagna 2016

Inghilterra del nord, fine ‘800. La giovane Katherine (Pugh) va sposa al possidente Alexander (Hilton) e la prima notte di nozze, lui, dopo averle ordinato di spogliarsi, si caccia a letto lasciandola in piedi nuda e impietrita. E’ ben presto chiaro che in casa comanda il vecchio Boris (Fairbank), vero padre-padrone che tratta con disprezzo la nuora, rimproverandola di non ottemperare ai propri doveri coniugali; il realtà il sesso tra lei e il marito si riduce al suo stare in piedi nuda e con la faccia al muro, mentre lui si masturba furiosamente. Un giorno Alexander parte per un’incidente ad una miniera di proprietà della famiglia e il suocero continua a trattarla con disprezzo. Anche lui parte per affari e Katherine ha come unica compagnia la cameriera di colore Anna (Ackie), costantemente impaurita dalle durezze dei padroni. Un giorno Katherine sente dei rumori venire dalle stalle e sorprende Anna nuda, mentre lo stalliere Sebastian (Jarvis), insieme ad altri servitori la pesa per gioco con una rudimentale bilancia per maiali; lei ordina alla cameriera di andare a casa e agli uomini di riprendere il lavoro ma Sebastian le risponde sfacciatamente, prendendola in braccio. Poco dopo lui bussa alla porta della sua camera e, mentre lei lo sgrida aspramente, la abbraccia e, dopo poche resistenza della donna, i due fanno l’amore con violento trasporto. Ora sono amanti ma Boris torna e, avvertito dello scandalo – anche il Pastore (Cliff Burnett) aveva cercato di far ragionare Katherine ma era stato congedato con alterigia – prima cerca invano di far parlare la terrorizzata Anna, poi bastona selvaggiamente Sebastian e lo fa rinchiude in un fienile. Lei allora lo avvelena con i funghi e, sotto lo sguardo di Anna, lo chiude in una stanza a morire senza soccorsi. La povera serva, per lo shock diventa muta e lei corre a liberare il suo amato, leccandogli le ferite. I due adesso vivono apertamente insieme ma una notte torna Alexander e lei – dopo che Sebastian è uscito seminudo dalla stanza – lo riceve come se nulla fosse ma lui la insulta, dicendole che è divenuta “grassa e puzzolente” per aver aperto “le gambe e la fica” ad un estraneo ma, quando la minaccia di rinchiuderla per sempre in casa con un libro di preghiere, lei apre la porta e fa entrare il suo amante; i due uomini lottano e lei, armata di un pesante attizzatoio, spacca la testa al marito. Sebastian ne seppellisce il cadavere e lei spara al suo cavallo. Quando il marito scomparso è dato per morto, si presenta alla magione una donna di colore, Agnes (Golda Rosheuvel), con il nipotino Teddy (Anton Palmer) e documenti che comprovano che il bambino – la cui madre è morta da poco – è figlio di Alexander e che, quindi, è loro diritto vivere in quella casa. Katherine accetta, apparentemente di buon grado la situazione (con Teddy, che le si è subito legato, sembra esserci qualcosa di simile ad un affetto), mentre Sebastian, nuovamente relegato nelle stalle, è inferocito e quando lei cerca di comunicargli di aver scoperto di essere incinta non la fa nemmeno parlare. Un giorno lei lo vede passare e, per inseguirlo, spintona via il bambino che voleva giocare con lei. Il piccolo, angosciato, scappa nella brughiera e tutti gli abitanti del palazzo vanno a cercarlo. Lo trova Sebastian seduto su di una scogliera sopra una cascatella e lo spinge di sotto, per poi riportarlo a casa assiderato. Ad Agnes che lo veglia da ore, Katherine offre di sostituirla per lasciarla riposare un po’. La nonna accetta e lei, rimasta sola con il bambino, fa entrare Sebastian e, mentre lui lo tiene fermo, lo soffoca con un cuscino. Arrivano il detective Logan (Ian Conningham) ed il dottore (Bill Fellows) e questi rileva sul corpicino dei segni che comprovano i suoi tentativi di difendersi da un’aggressione. Sebastian, devastato dai sensi di colpa, confessa ed accusa Katherine anche degli altri due crimini ma lei ribalta le accuse contro di lui e la sua vecchia amante Anna, che non può parlare a propria discolpa; Agnes e gli altri le credono e lo stalliere e la serva sono condotti su di un carretto al carcere mentre lei allontana dal palazzo tutti e rimane lì sola come in una prigione.

 

 




Nessuno ci può giudicare vs. The Beatles: Sgt Pepper & Beyond

Nessuno ci può giudicare

di Steve Della Casa e Chiara Ronchini.  Italia 2016

vs.

The Beatles: Sgt Pepper & Beyond

di Alan G. Parker. Con Freda KellyPete BestRay ConnollyAndy PeeblesSimon Napier – Bell  Gran Bretagna 2017

Alla fine degli anni ’50 nacque in Italia il fenomeno degli “urlatori” (dall’inglese “shouter”, il termine con il quale venivano indicati i primi esecutori di Rhythm ‘n blues), cantanti che a piena voce cadenzavano i brani a ritmo terzinato, con evidenti influssi dal rock ’n roll. Arrivano al successo Tony Dallara, Betty Curtis, Mina, Jenny Luna e i rocker come Adriano Celentano, Little Tony, Ricky Gianco, Ghigo. Il cinema si interessò subito del fenomeno e così vennero fuori, ad opera del prolificissimo artigiano Lucio Fulci (divenuto poi uno dei grandi maestri dello splatter all’italiana: Quella villa accanto al cimitero, Lo squartatore di New York, Zombie 3, sono alcuni dei suoi titoli), due film corali con i più noti urlatori: I ragazzi del juke-box e Urlatori alla sbarra; a queste operazioni partecipava il giornalista, sceneggiatore e paroliere Piero Vivarelli, che firmò anche la regia del terzo film del filone: Io bacio, tu baci. Vivarelli è un curioso personaggio: ex-ragazzo repubblichino, poi fervente comunista (è stato l’unico italiano ad avere da Fidel Castro la tessera del partito Comunista Cubano) appare nel documentario con alcuni interventi, nei quali – in pieno godibilissimo stile cinematografaro e canzonettaro dell’epoca –  spiega di aver contribuito, con quelle opere, ad una rivoluzione di sinistra. Steve Della Casa lo prende, ironicamente ma affettuosamente, in parola e individua – attraverso preziose immagini di repertorio, commentate con il giornalista e P.R. Massimo Scarafoni, una imperdibile cavalcata che, tra canzoni, brani selezionati da alcuni film, immagini del Piper, dichiarazioni di Shel Shapiro, Rita Pavone, Gianni Pettenati, Tony Dallara, Ricky Gianco, Mal, Don Backy e Caterina Caselli e squarci del ’68 – un’ideale percorso tra quelle canzoni, quei film e le lotte studentesche della fine degli anni ’70. Steve Della Casa è il più geniale degli intellettuali di cinema italiani di questi anni – rimanendo all’ambito documentaristico, i suoi Uomini forti (sugli eroi del genere peplum) e I tarantiniani (sui registi italiani amati e citati da Quentin Tarantino) sono, contemporaneamente, tappe fondamentali nella costruzione di una storia del nostro cinema e film divertentissimi e colmi di ironia – e in questo film (complice il contributo della montatrice Chiara Ronchini, cui Steve fa firmare la co-regia) non si smentisce. Ci sono canzoni note: 24.000 baci e Ciao ti dirò di Celentano, Il Geghegè e Cuore di Rita Pavone, Non son degno di te di Gianni Morandi, Ma che colpa abbiamo noi dei Rokes, Yeeeeeeh! di Mal, Il cielo in una stanza di Mina, Bandiera gialla di Gianni Pettenati ma anche chicche imperdibili: Renato Zero giovanissimo e magrissimo che balla per Pettenati, il dimenticato Guidone che canta Ciao ti dirò e, soprattutto, il rocker Ghigo (che arrivò al successo con una scorrettissima Coccinella, dedicata a Coccinelle, il proto-trans francese divenuto di moda nei primi ’60), che alla maniera un po’ epilettica dei rocker post Presley, canta Jenny,Jenny. A chiosa del discorso vediamo, dal film Woodstock, Country Joe che incita la platea ad urlare contro la guerra in Vietnam e (in una sequenza che, da sola, vale il film) lo scrittore beat Gianni Milano recitare una sua poesia alla maniera di Ginsberg e Ferlinghetti. Insomma non è esattamente un film sui cosiddetti “musicarelli”( per questo aspettiamo ansiosi che Steve Della Casa ci metta mano, con la sua geniale e sapiente estrosità), infatti sono citati solo alcuni film (i due di Fulci, In ginocchio da te e Non son degno di te con Morandi, i due Zanzara della Wertmulller  e Rita, la figlia americana con Rita Pavone, I malamondo di Paolo Cavara per la canzone Sabato triste di Celantano, Io non protesto, io amo, Nessuno mi può giudicare e Perdono con Caterina Caselli, Pensiero d’amore con Mal e I ragazzi di Bandiera Gialla con Gianni Pettenati), funzionali all’idea di base: quando i giovani trovano una loro musica, non più mediata dai gusti degli adulti, comincia un cammino rivoluzionario.

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Pochi giorni prima usciva The Beatles: Sgt. Pepper and Beyond, presentato come un ideale sequel dello splendido Eight days a week di Ron Howard perché è incentrato sulla costruzione di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, sull’incontro con il Maharishi e sulla morte di Brian Epstein. In realtà è un’accozzaglia di interviste, per lo più irrilenvantissime, con personaggi, spesso secondari: la segretaria di Epstein, Pete Best (il batterista sostituito da Ringo), che, pateticamente, cerca di entrare nella fotografia per aver donato un oggetto che è nella copertina del disco e un paio di critici, uno dei quali ripete più volte che Sgt. Pepper sarebbe stato assai migliore se vi avessero inserito Penny Lane e Strawberry fields forever (?!). Tutto questo senza neanche un brano delle musiche dei Beatles (oltretutto messo in giro al prezzo maggiorato di biglietto degli eventi speciali!).

Come non essere, una volta tanto, fieri della grande serietà, competenza e perfezione di confezione del film di Steve Della Casa e Chiara Ronchini?