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Dreamworldcup 2018 ⊗ 13-16 maggio al Palatiziano

Viviamo Corviale perché? Perché le persone non parlavano tra di loro, Padre Eberth risponde così alla mia domanda, colui che ha creato l’iniziativa del “Volontariato Sociale”, evento che si realizza il secondo sabato del mese per recuperare il bene comune, pulire le aree verdi e dare supporto ai ragazzi di Corviale.

Siamo nella sede della Comunità Peruviana a Roma per la Commemorazione di Luis Ramon , scomparso solo qualche giorno fa e per l’occasione il Sacerdote ci ha incontrato per raccontare la realtà di Corviale coinvolta in questo nuovo Evento dove ha aiutato con il supporto del quartiere i ragazzi per la Dreamworldcup 2018,  evento che si sta realizzando in questi giorni a Roma.

Padre Eberth ha coadiuvato con Renato Lopez Sociologo Membro del Mental Health in Perù di Lima in contatto con lo Psichiatra ideatore del progetto Santo Rullo la ricerca dell’alloggio e delle strutture per ospitare i ragazzi peruviani in viaggio a Roma per la Coppa del Mondo di Calcio a 5 per pazienti psichiatrici.

Cos’è la Dreamworldcup? È la coppa del mondo di calcio a 5 dei pazienti psichiatrici nata dal documentario e libro Crazy For Football di Volfango di Biase e Francesco Trento, che ha vinto un David di Donatello nel 2017.

Lo Psichiatra Santo Rullo , Head Quarter del Comitato Internazionale di Calcio per la Salute Mentale (IFCMH), ispiratore del movimento Calcio per la Salute Mentale insieme a Valerio Di Tommaso Presidente di European Culture and Sport Organization (ECOS) associazione no profit individuata dal comitato internazionale per l’organizzazione complessiva dell’evento ;

Parlare della malattia mentale ed esserne consapevoli è il primo passo per contrastarla e superare barriere e pregiudizi questo è  lo slogan per inseguire il sogno di combattere uno stigma e per questo abbiamo scelto il 13 Maggio come data di inizio per ricordare l’anniversario dei quaranta anni della Legge Basaglia.

La Dream World Cup 2018  dal 13 al 16 maggio 2018 al Palatiziano di Roma ha coinvolto nove nazionali: Italia, Spagna, Argentina, Cile, Francia, Giappone, Perù, Ucraina e Ungheria.

Ha coinvolto oltre 200 organizzazioni tra associazioni sportive, strutture sanitarie e centri di salute mentale da tutto il mondo.

I Soci/Utenti del Club Itaca di Roma si occuperanno del servizio d’ordine, dell’accompagnamento delle squadre ospiti e della promozione dell’evento.

Mercoledì 16 Maggio in diretta su RaiSport alle 16.00 presentati da Paolo Ruffini andranno in onda le finali del Campionato in onda anche su Facebook e su Instagram e per chiunque volesse aiutare i ragazzi ad inseguire questo sogno sarà possibile effettuare una donazione  su www.dreamworlducup.net/it/dona/

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Papa Francesco a Corviale: la realtà si vede meglio dalle periferie

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Intervista a Pino Galeota

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Papa al Corviale, bagno di folla al Serpentone:
"Grazie a Francesco hanno tappato le buche"

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VISITA-PAPA-FRANCESCO-A3RIDOTTO--724x1024La nostra Comunità è uscita dal “Ghetto” da circa 10 anni avendo la stessa visione e proponimenti di Papa Francesco ovvero “la realtà si vede meglio dalla periferia”.

Questa realtà l’abbiamo guardata in faccia partendo dalle persone e dal nostro e loro vissuto quotidiano e costruito il nostro cammino.

Consapevolmente abbiamo mantenuto la barra e lo sguardo al disagio e alle fragilità, alle paure e alle diffidenze, alla crescita culturale e alle relazioni positive tra le persone, al come creare lavoro e sviluppo sostenibile attento all’ambiente che ci circonda.

Tutto ciò è stato reso possibile, nonostante gli tsunami attraversati, dal proficuo rapporto tra le Istituzioni presenti nel territorio, da operatori privati collaborativi e attenti ai contenuti che ci siamo dati e ultimo, ma non ultimo, da cittadini attivi e da un volontariato fattivo e propositivo.

Una storia scritta e documentata sia nei nostri siti e nel nostro giornale on line che in articoli, riviste, nei social, in programmi radio e televisivi e da incontri e attività cittadine, nazionali e internazionali.

Un percorso decennale non facile e ancora ad ostacoli che vediamo sempre più bassi, a cui interessi e attività delinquenziali e illegali messe in discussione hanno reagito con atti di persuasione anche fisica.

Rivendichiamo di aver “fatto capire” alle Istituzioni che si sottraevano alle loro responsabilità in quanto ritenevamo che la riqualificazione del nostro Territorio era impresa ritenuta quasi impossibile e senza ritorni personali che ce la potevamo fare.

“Noi siamo usciti dal Ghetto” da tempo, invitiamo a prenderne nota ben sapendo che le notizie negative fanno più audience, e stiamo picconando muri materiali e immateriali. I suggerimenti e le risposte sono leggibili dalla “realtà che si vede meglio dalla periferia”.

Benvenuto Papa Francesco

Pino Galeota
galeota.pino@libero.it
335.6790027 | 366.8198819

 




Il Sessantotto delle campagne

don milani

A differenza di quanto avviene in altre parti del mondo, il moto di contestazione che, nella seconda metà degli anni Sessanta, trasforma le coscienze, i modelli di vita e l’organizzazione collettiva di parti estese della società italiana, vede protagonista, in forme originali, anche il mondo rurale. Il Sessantotto non è, dunque, almeno in Italia, un fenomeno che riguarda esclusivamente studenti e operai, università e fabbriche. Non è un fatto meramente urbano. Averlo letto con le lenti urbanocentriche e operaiste è stato il motivo di fondo per il quale ancora oggi, a cinquant’anni da quell’evento, non siamo ancora riusciti a comprenderne il senso più profondo.

I limiti degli studi storici

Manca ancora una ricostruzione storica basata su documentazione non episodica o limitata. E soprattutto manca un quadro d’insieme del fenomeno nel lungo periodo. La crisi politica che allora si apre non si è mai risolta. Nonostante la domanda di profondi cambiamenti, in questi cinque decenni, non si è fatta alcuna riforma istituzionale seria, i partiti e le organizzazioni di rappresentanza non hanno per nulla rivisto i fondamenti dei propri statuti. La società civile ha dato vita a nuovi movimenti e organizzazioni sociali che però non hanno mai raggiunto un equilibrio con un sistema politico capace di rinnovarsi profondamente. La “guerra fredda” era di fatto finita con Kennedy, Krusciov, Adenauer, De Gaulle, Papa Giovanni e Togliatti. Ma usciti repentinamente di scena quei grandi protagonisti, i loro successori hanno continuato a “fingere” un conflitto che non aveva più ragion d’essere perché la “rivoluzione verde” aveva accresciuto enormemente la produzione agricola. Neanche, a seguito della caduta del Muro di Berlino, si prende atto che un mondo è finito e che bisogna costruire nuove istituzioni e nuove forme di rappresentanza politica e sociale. Arrivano la globalizzazione indotta dall’ultima rivoluzione tecnologica e la crisi economica del 2008. Ma niente. Tutto resta come prima. Perché la domanda di cambiamento espressa dal Sessantotto, dopo cinquat’anni non trova risposta? Per comprenderlo, bisognerebbe chiedersi: chi erano quegli studenti? chi erano quegli operai? Erano perlopiù i figli dei contadini fuggiti dalle campagne alle prese con la modernizzazione dell’agricoltura. Oppure i figli dei contadini che si erano appena trasformati in imprenditori. Era, dunque, tutta la società in ebollizione. E la storia di questo lungo ’68 va ricostruita esaminando tutti i gangli della società, l’insieme delle trasformazioni, se si vuole capire perché è una vicenda che non passa.

Le motivazioni di fondo del disagio sociale

Il grande esodo dalle campagne verso le città e dal Mezzogiorno verso il triangolo industriale non aveva spento la voglia dei contadini di partecipare alla vita del Paese. Anzi era emerso un protagonismo attento ai problemi nuovi e inediti, affiorati a seguito della “grande trasformazione”. E tale aspetto ora lo differenzia enormemente dal protagonismo che si era espresso in occasione delle lotte per la terra. Sono rimasti nelle campagne contadini che adesso posseggono finalmente il loro podere come veri imprenditori. L’hanno comprato o lo stanno riscattando oppure lo conducono in affitto e pagano un canone più equo. Ma si accorgono che il maggior grado di autonomia e libertà che deriva dalle condizioni più stabili di possesso della terra non si traduce in un’espansione soddisfacente dell’iniziativa economica.

La politica dei prezzi praticata da Bruxelles garantisce migliori condizioni di vita ma impedisce di crescere dal punto di vista imprenditoriale. All’agricoltore viene chiesto solo di produrre di più e se poi non vende quello che realizza non importa, perché è in parte comunque garantito. Non ci sono servizi che aiutino gli agricoltori ad utilizzare meglio le risorse del territorio, a diversificare le attività aziendali, a costruire relazioni economiche con le industrie di trasformazione e le imprese di commercializzazione di reciproca soddisfazione. Non ci sono azioni formative con cui migliorare le proprie conoscenze e competenze. Mancano rapporti stabili tra i centri di ricerca e sperimentazione e le aziende agricole per evitare che il progresso tecnico sia frutto solo dell’iniziativa dell’industria produttrice di mezzi tecnici e delle strutture commerciali. Non ci sono strumenti capaci di cogliere nuovi bisogni sociali che l’agricoltura può soddisfare da tradurre in un’effettiva domanda di beni e servizi e in nuovi mercati da costruire.

L’associazionismo imposto dai regolamenti comunitari in Italia è gestito quasi interamente dal sistema di potere che gravita intorno alla Coldiretti e alla Federconsorzi. Non costituisce, dunque, uno spazio di libera partecipazione per accrescere la dimensione economica della propria impresa. Si presenta, invece, sotto forma di un insieme di agenzie che gestiscono le politiche protezionistiche e sono fondate su meccanismi burocratici imposti dalla pubblica amministrazione.

Manca in generale una preparazione adeguata degli amministratori locali per organizzare i servizi civili e migliorare la viabilità nelle campagne, per avvicinare le condizioni di vita delle aree rurali a quelle delle zone urbane. Le differenze che permangono tra vita in città e vita in campagna vengono ora avvertite come un’ingiustizia non più motivabile nel nuovo contesto produttivo ed economico dell’agricoltura.

Gli effetti distruttivi di un “boom economico” non governato

Non si avverte l’urgenza di politiche pubbliche volte a mitigare il rischio idrogeologico connesso alla “grande trasformazione” e alle profonde modifiche negli usi del suolo e delle acque che si concretizzano a seguito della crescita dell’urbanizzazione e delle aree industriali nelle pianure e dei fenomeni di abbandono nelle alture collinari e montane. E gli eventi catastrofici non si fanno attendere: l’alluvione del 1954 nel Salernitano che causa oltre 300 morti; la frana che nel 1963 precipita nella diga idroelettrica del Vajont e provoca l’evento idrogeologico più grave nella storia dell’Italia unita, uccidendo 2 mila persone; la frana di Agrigento del 1966 che distrugge una parte consistente della città abusivamente edificata; l’alluvione del 1966 che colpisce Firenze e che ha come causa principale la costruzione avventata di due dighe idroelettriche; l’alluvione del 1968 nel Biellese che provoca oltre 70 vittime e trascina con violenza fino a Vercelli le spole dei lanifici Valmossesi incautamente edificati sugli argini di un corso d’acqua.

Tali episodi sono gli effetti luttuosi e distruttivi di un “boom economico” non governato. La gestione del territorio è, difatti, un aspetto del tutto marginale nell’agenda politica. E tutto ciò produce sgomento e spaesamento nelle campagne, dove invece è ancora viva la sensibilità alle pratiche secolari di manutenzione della terra. Sconcerta soprattutto l’incapacità delle classi dirigenti di ricordare che l’agricoltura è innanzitutto il grande archivio dove si conserva e si aggiorna la capacità degli uomini di riprodurre non solo gli agrosistemi ma anche l’insieme delle interrelazioni tra città e campagne.

La nuova condizione dei contadini

La condizione in cui molti contadini vengono ora a trovarsi mette in discussione due elementi di fondo della loro condizione precedente. Il primo è l’autonomia nell’introdurre il progresso tecnico in azienda e nell’organizzare le proprie relazioni economiche. Il secondo è la libertà di scegliere processi produttivi e attività in un ventaglio ampio di opportunità offerte dalle economie locali e informali.

Ma questi condizionamenti derivano direttamente dal progresso che si è realizzato nelle campagne e si possono attenuare solo con un protagonismo degli agricoltori sul terreno economico e con politiche che accompagnino e rafforzino tale protagonismo. In realtà, le politiche pubbliche che si realizzano svolgono proprio una funzione opposta perché sono improntate ad una logica assistenzialistica, tipica delle misure dei primi anni Cinquanta.

Le forme prevalenti d’intervento pubblico con riferimento ai mercati agiscono solo come sistema di garanzia e non costituiscono un’opportunità di crescita. Man mano che si rafforzano sul piano professionale e imprenditoriale, gli agricoltori avvertono sempre più l’importanza di questi nuovi problemi e fanno fatica a seguire le logiche della contrapposizione politica proprie degli anni della “guerra fredda”, che tra l’altro si riferivano a problemi che non esistono più o che si sono molto attenuati.

Non ci sono più i “capipopolo”

Del resto, la maggior parte dei “capipopolo” delle lotte contadine degli anni Quaranta, essendo i più svegli e intraprendenti, o sono emigrati definitivamente, oppure si sono trasformati in artigiani o in piccoli imprenditori industriali.

Nel Mantovano, Steno Marcegaglia, figlio di un emigrante e impegnato nell’Alleanza dei contadini, nel 1959 aveva deciso di avviare l’attività imprenditoriale nella metallurgia. Trasformerà in un trentennio la piccola azienda in un gruppo internazionale, leader nella lavorazione dell’acciaio.

Nelle organizzazioni agricole molti dirigenti sono stati, pertanto, sostituiti da agricoltori più giovani e meno legati ideologicamente ai partiti di riferimento. Ciò permette uno scambio più libero a livello di base tra le organizzazioni professionali. E la conseguenza è una richiesta sempre più pressante che si leva dagli agricoltori verso le rispettive strutture di rappresentanza per realizzare una maggiore autonomia dai governi, dai partiti e dai sindacati e organizzare la vita interna in modo tale che i gruppi dirigenti debbano rendere conto del proprio operato. Nella Coldiretti soprattutto, ma anche nelle altre organizzazioni, dove vigono pratiche verticistiche e gerarchiche, ciò che sta accadendo sconvolge la vita interna e genera crepe che si faranno sempre più vistose negli anni a seguire.

La scuola di Barbiana

Da una scuola di campagna, quella di Barbiana, e da una personalità del calibro di don Lorenzo Milani giungono due strali contro gli equilibri tradizionali che ne restano sconvolti.

Il primo è la pubblicazione di Lettera a una professoressa che rappresenta la critica più spietata che in quel periodo colpisce le istituzioni scolastiche. Il libro ha immediatamente un impatto enorme nella società italiana e contribuisce ad alimentare la protesta studentesca. Rivela, infatti, l’arretratezza dell’”istituzione-scuola” e il permanere di pesanti ingiustizie: “Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa di questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi”. Ed elogia l’azione collettiva: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.

L’altro strale è la difesa appassionata di un diritto relativamente nuovo, quello all’obiezione di coscienza. Fanno scalpore gli articoli di don Milani che affermano senza mezzi termini: “L’obbedienza non è più una virtù!”

Come osserverà acutamente Ernesto Balducci, don Milani opera nel passaggio cruciale dalla civiltà contadina a quella industriale, “non per facilitarne il traghetto, ma per porre una ricerca critica che investe lo stesso mondo industriale trionfante. E questa è la novità del suo contributo”. Lo riconoscerà anche Pier Paolo Pasolini quando esalterà lo “spirito critico” esercitato dal sacerdote di Barbiana “nei confronti degli uomini e della società” e definirà la sua esperienza che precorre il Sessantotto come “l’unico atto rivoluzionario di questi anni”.

Insomma, cova sotto la cenere un senso di ribellione che sta per esplodere. Non è la ribellione in nome del bisogno, che aveva caratterizzato l’Ottocento e la prima metà del Novecento. Ma è la ribellione in nome della felicità, della qualità della vita, del valore delle proprie capacità individuali. Un desiderio forte di liberarsi dal passato che trattiene e vincola, bloccando la libertà personale. E di liberarsi collettivamente.

Il disagio dentro la Coldiretti

I primi mesi del Sessantotto delle campagne sono caratterizzati, per la sua forte valenza simbolica, dalla manifestazione di protesta nei confronti del presidente della Coldiretti, Paolo Bonomi, e del ministro dell’Agricoltura, Franco Restivo. Ne sono protagonisti alcune centinaia di aderenti alla Coldiretti, che il primo marzo, alla Fiera internazionale di Verona, prendono d’assedio il tavolo della presidenza di un convegno a cui sono stati sollecitati a partecipare dalla stessa organizzazione. Lanciando cartocci di tetrapak pieni di latte, uova e ortaggi di vario tipo e dimensione, non smettono il tiro a bersaglio fino a quando non intervengono le forze dell’ordine.

Essi provano nei confronti della propria organizzazione un senso di delusione e, soprattutto, si sentono ingannati per il fatto di essere stati a lungo sollecitati dalla stessa Coldiretti a votare un partito (la Dc), che non mostra più di riservare la tradizionale attenzione verso il loro mondo. Gli agricoltori incominciano a comprendere che la scelta di Bonomi di attrezzare la Coldiretti come una sorta di “partito contadino” associato alla Dc non paga più. Alle manifestazioni che, da qualche anno e con crescente intensità, l’Alleanza dei contadini organizza in ogni parte d’Italia, partecipano, sempre più numerosi, anche molti agricoltori aderenti alla Coldiretti.

La manifestazione dei sessantamila

Per tutta la primavera del 1968, la mobilitazione nelle campagne diviene sempre più viva ed estesa. E sfocia, per iniziativa dell’Alleanza, nella “manifestazione nazionale dei sessantamila”, che si svolge il 5 luglio a Roma. Le parole d’ordine vanno dal “riequilibrio dei rapporti economici tra l’agricoltura e l’industria” al “miglioramento delle condizioni civili nelle campagne”, dalla “parità delle prestazioni previdenziali e sanitarie” ai “contratti agrari più equi”. Ma al di là delle rivendicazioni più immediate, si avverte il senso di aspirazione profonda a cambiamenti significativi delle stesse modalità della politica e dei rapporti tra cittadini e governanti, la cui portata dirompente sfugge agli stessi organizzatori della manifestazione.

Grande è l’impressione che suscita nella capitale il lungo corteo di agricoltori coi canti, i prodotti, i colori, gli animali e i mezzi meccanici delle mille campagne italiane. Si affacciano alle finestre e scendono in strada a salutarli centinaia di romani, che da quel mondo e dalle più disperse contrade, anche in anni recentissimi, sono giunti per occupare un posto di lavoro negli uffici pubblici.

Si fanno vedere anche gli studenti, che a febbraio avevano occupato la Facoltà di Architettura e si erano scontrati con la polizia a Valle Giulia. Distribuiscono ai coltivatori volantini che contengono parole d’ordine inneggianti alla socializzazione della terra; ma non già perché vogliono trasferire nelle campagne italiane il modello collettivistico esistente in Unione sovietica. I movimenti studenteschi sono, infatti, fortemente critici con l’autoritarismo e la restrizione delle libertà individuali che caratterizzano i Paesi comunisti. E non è a quel modello che essi guardano nel formulare i loro slogan per la manifestazione contadina. È piuttosto la lettura dei rappresentanti della Scuola di Francoforte ad influenzarli. In particolare, un loro esponente di spicco, Theodor Adorno, considera la famiglia contadina e il villaggio come contesti intrinsecamente incapaci di favorire l’emancipazione e la sprovincializzazione degli individui. Sicché per gli studenti solo un intervento esterno e una forma socializzante, come appunto la comune, potrebbero permettere di superare i limiti delle forme di vita borghigiane e rurali. È un modo per ribadire la presa di distanza dalla società tradizionale e dalle sue forme sociali autoritarie, ma anche per evidenziare il significato emancipante e liberatorio della cultura e della formazione insiti nella loro scelta di frequentare l’università. E i contadini, venuti a Roma a manifestare, sanno cogliere negli studenti quest’ansia di libertà e perciò dimostrano nei loro confronti affetto e simpatia.

Un’occasione mancata?

Tale ansia ha molto a che fare con l’assillo dell’autonomia che permea la cultura contadina più profonda. In questi valori dell’individualismo, dell’autonomia e della libertà, al di là dei contenuti specifici degli slogan utilizzati, potrebbero, dunque, esserci i termini per saldare le ragioni più intime degli uni e degli altri, ma nessuno sa trovare il modo per farlo. È forse un’occasione mancata per costruire movimenti intergenerazionali duraturi e profondi?

Emilio Sereni aveva appena scritto un saggio sulla rivista Critica marxista in cui invita la sinistra a cogliere le novità che si intravedono nelle lotte studentesche e ad aprire una riflessione critica e autocritica per adeguare le proprie strategie. Egli individua nella contestazione degli studenti, prima ancora di una ripulsa del sistema sociale, un rifiuto della collocazione che i primi sviluppi della rivoluzione scientifico-tecnologica assegna a studenti e ricercatori nell’ambito del sistema dell’informazione e della scienza. E coglie, dunque, il dischiudersi di una dialettica nuova che prelude il superamento di una società divisa in classi e l’affermarsi del protagonismo di un mondo che ha già compiuto il suo salto dal regno della necessità in quello della libertà.

Gaetano Di Marino, membro della presidenza dell’Alleanza, aveva tradotto, in un linguaggio più accessibile, questi concetti sul periodico dell’organizzazione Nuova Agricoltura, richiamando le grandi opportunità, che si aprono anche per il progresso delle campagne, quando sono posti al centro dell’attenzione i temi dell’istruzione e della conoscenza. E tuttavia, dopo la manifestazione di luglio, lo stesso Di Marino scrive una nota critica, dal titolo polemico “Non prestiamo tribune”.

“I gruppi studenteschi – denuncia – non hanno sollevato i temi della riforma dell’università, su cui si poteva fare un dibattito, (…) hanno invece preteso di indicare una strategia e una politica agraria del tutto nuova ed opposta a quella che faticosamente e autonomamente il movimento contadino è venuto elaborando.” Una posizione sacrosanta a cui però non dovrebbe seguire il rifiuto del dialogo e della reciproca comprensione dei significati più profondi nei propri convincimenti.

La riluttanza dei dirigenti dell’Alleanza a dialogare a tutto campo coi movimenti giovanili è il riflesso di una più generale incapacità della sinistra di offrire una sponda alla domanda di cambiamento, che le nuove generazioni esprimono. Una domanda che, qualora fosse letta attentamente, potrebbe incanalarsi, finalmente con un consenso molto più ampio, verso quella rivoluzione liberale mai avvenuta nel nostro Paese. Un’aspirazione storica che richiama antichi intrecci valoriali tra primato della persona, forme libere di gestione dei beni comuni e scambi fondati su relazioni di mutuo aiuto e reciprocità. Valori che erano stati eclissati e in parte distrutti dalle culture stataliste, nazionaliste e autarchiche, fondamentalmente illiberali e autoritarie.

Le cinque giornate di Asti

Intanto le manifestazioni contadine continuano. Memorabile è rimasta la forte e coesa mobilitazione di viticoltori che si sviluppa sulle strade di Asti, dentro e fuori la città, in cinque “giornate di lotta” con l’impiego di migliaia di trattori.

Dopo l’ennesima disastrosa grandinata che quasi ogni anno colpisce i vigneti del Monferrato e delle Langhe si avverte con maggiore acutezza l’esigenza di battersi per ottenere un fondo di solidarietà in grado di permettere ai coltivatori di fronteggiare la falcidie dei redditi.

Per tentare di spegnere la protesta viene impiegato lo schieramento delle forze di polizia in assetto antisommossa la cui imponenza è del tutto ingiustificata. La radicalità dei comportamenti e l’atteggiamento repressivo della polizia sono un tratto comune di tutte le azioni di lotta che in questo periodo si mettono in scena nelle città e nelle campagne.

L’eccidio di Avola

Alla fine di questo lungo Sessantotto rurale, una forte emozione suscitano i fatti di Avola, in provincia di Siracusa, dove il 2 dicembre due braccianti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, sono uccisi e altri cinquanta feriti dalla polizia. Scioperano per ottenere che i miseri salari agricoli siano almeno eguali all’interno della provincia. Ha molta eco nell’opinione pubblica l’uso immotivato delle armi su folle di contadini inermi. Insomma, si ripete quel moto spontaneo di solidarietà che avevano suscitato gli eccidi perpetrati dalla polizia in occasione delle occupazioni delle terre nel secondo Dopoguerra.

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Ma non se ne colgono le ragioni più profonde, i fili che collegano permanenze e cesure antiche e nuove domande di soggettività e di relazioni paritarie fondate sull’aiuto reciproco. Lo scontro di Avola è forse da mettere in relazione anche alla “strategia della tensione” che settori decisivi dell’apparato statale e dei gruppi dirigenti politici ed economici stanno avviando per respingere la domanda di cambiamento.

La protesta sindacale guidata dalla Federbraccianti-Cgil si propaga in moltissime province italiane coinvolgendo decine di migliaia di lavoratori agricoli. Il malessere crescente e il grave deterioramento delle relazioni sindacali nelle campagne inducono Alfonso Gaetani ad annunciare le dimissioni dalla presidenza della Confagricoltura e ad avviare la successione al vertice confederale. Si tratta di un primo segnale che indica con nettezza che gli equilibri di potere, che si erano costruiti solo da un paio di decenni nelle campagne italiane, si stanno sfaldando.

Alle iniziative di lotta dei lavoratori agricoli si uniscono gli studenti universitari e medi e nasce da qui, dal contatto diretto con le palesi e gravi ingiustizie sociali che si consumano nelle aree rurali, la decisione del movimento studentesco di alcune città di contestare le più aperte ostentazioni di sfarzo e di lusso. Il 7 dicembre, a Milano, come avevano fatto gli agricoltori il 1° marzo alla Fiera di Verona, si lanciano uova e ortaggi questa volta contro le pellicce e gli abiti da sera dei partecipanti all’inaugurazione della Scala, mentre il 31 dicembre la protesta riguarda il veglione che si svolge nel locale più prestigioso della Versilia, “La Bussola”, a Marina di Pietrasanta. Anche in quella occasione si fa viva in gran parata repressiva la polizia, che ferisce un ragazzo che manifesta, Soriano Ceccanti.

La lunga stagione dei movimenti collettivi

Le azioni di lotta nelle campagne continueranno intensamente anche nel 1969, alcune con caratteristiche diverse da quelle fin qui esaminate, ma rientranti comunque in quella che Guido Crainz ha definito “la stagione dei movimenti collettivi” che si dispiega nel “complesso rimescolarsi della società italiana”.

A Battipaglia, il 9 e il 10 aprile ci sarà una vera e propria rivolta a causa della crisi dell’industria conserviera dell’area e per la chiusura di uno zuccherificio e di un tabacchificio. Per la prima volta, la sinistra sindacale e politica sarà fuori dal movimento e fatta oggetto di contestazione. Anche a Fondi, nel Lazio meridionale, una manifestazione di alcune migliaia di contadini per protestare contro le conseguenze della crisi agrumaria porterà al blocco dei binari ferroviari. All’arresto di alcuni dimostranti, da parte delle forze dell’ordine, si risponderà con un assedio della locale caserma dei carabinieri sedato con idranti.

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La lunga e irrisolta crisi politica e sociale

Il lungo ciclo del Sessantotto delle campagne fa emergere una forte domanda di cambiamento da parte di una pluralità di nuovi soggetti sorti a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Non solo imprenditori agricoli professionali e a tempo parziale, ma anche tecnici, professionisti, operai specializzati, artigiani vivono nei territori rurali e chiedono a gran voce forme di rappresentanza politica e sociale capaci di affrontare i nuovi termini dello sviluppo.

Ma né i partiti, né le organizzazioni sociali sanno rispondere a questa domanda di rinnovamento adeguando la propria cultura politica, i propri programmi e le proprie strutture. È soprattutto carente un’analisi delle modificazioni culturali, economiche, sociali avvenute nelle campagne; e ciò impedisce di cogliere le interrelazioni tra i diversi settori produttivi, la pluralità dei soggetti sociali e i loro bisogni, le esigenze delle imprese agricole che producono per il mercato e le potenzialità dell’agoalimentare nel promuovere lo sviluppo dei sistemi territoriali.

Intorno ai problemi ambientali incomincia a prendere forma una consapevolezza individuale e collettiva che si trasforma in nuove sensibilità, in nuovi stili di vita, in nuovi comportamenti e sta per nascere così quel fenomeno – tipico dei paesi industrializzati – definito come «nuova ruralità». Nel Senato della Repubblica, grandi tecnici prestati alla politica affrontano in termini nuovi il problema del rapporto tra uomo e natura: Giuseppe Medici presiede la Conferenza nazionale delle acque, da cui emerge l’allarme per la scarsità di tale risorsa, e Rossi-Doria redige la relazione conclusiva dell’indagine conoscitiva sui problemi della difesa del suolo in cui prospetta un grande progetto per la salvaguardia e la valorizzazione della montagna.

Giungono dagli Stati Uniti le idee dei movimenti che avevano sostenuto il programma di ricostruzione ecologica, culminato nel Wildlife Restoration Act del 1937, col quale l’amministrazione Roosevelt aveva ritenuto di riparare a una politica d’indifferenza verso lo stato di conservazione della natura, e in particolare delle acque e delle foreste. Idee che si rafforzano con il principio di responsabilità di cui ha parlato Hans Jonas, allievo di Heidegger e sostenitore dell’esigenza di porre dei limiti alla nostra libertà, di coltivare un’etica dei valori in modo tale che ogni individuo possa agire nel rispetto di se stesso e degli altri, non sottovalutando l’ambiente nel quale vive l’uomo.

Alcuni avvertono l’esigenza di integrare tali apporti culturali di stampo anglosassone con la nostra cultura tecnico-scientifica, agronomica ed economico-agraria, che da tempo si cimentava, mediante un approccio aperto ad altre discipline, come la sociologia e le scienze dell’educazione, nell’accompagnare i processi di modernizzazione per prevenire i fenomeni negativi con cui si era manifestata la crisi ecologica. Un filone culturale combattuto, ridimensionato e ostacolato dalle forze dominanti, benché fosse erede di una lunga tradizione millenaria attenta a coniugare in modo equilibrato le ragioni produttivistiche dell’agricoltura, le ragioni conservative delle risorse naturali e i valori comunitari e solidaristici della civiltà agraria, non avversa alle innovazioni tecnologiche, ma decisiva per la configurazione di modelli-tipologie di sviluppo ecologicamente armoniche. Ma ancora oggi questa ricucitura culturale ancora non è avvenuta per poter avviare seriamente un ripensamento delle nostre idee di sviluppo e rimarginare la frattura ecologica che si produsse tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.

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CERCASI GIOVANI POLITICI (COMPETENTI)

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La politica è specchio della nostra società. Quante volte lo abbiamo sentito dire? Allora il cambiamento, se non partirà dalla classe dirigente attuale, dovrà avere origine nella comunità dei cittadini, e specialmente nei giovani, a cui il futuro appartiene. L’Italia è uno dei paesi più importanti del mondo, ma in questo momento stiamo trascurando la generazione che rappresenta il futuro di questa Nazione. Bisogna far partire un processo di integrazione dei giovani nelle istituzioni per poter produrre provvedimenti adatti a tutti e capaci di far riaccendere la scintilla della passione politica nei cittadini, ormai sempre meno disposti a partecipare alle decisioni comuni.

Partendo da queste considerazioni, ho intenzione di sviluppare un ragionamento di ampio respiro su alcune tematiche che mi stanno particolarmente a cuore:
giovani, immigrazione, diritti ed Unione Europea.

Io sono pronta a discuterne con te, tu sei disposto ad ascoltarmi?




Made in Italy

di Luciano Ligabue. Con Stefano AccorsiKasia SmutniakFausto Maria SciarappaWalter LeonardiFilippo Dini Italia 2018

Riko (Accorsi), operaio in una fabbrica di insaccati in Emilia, è in crisi: il suo rapporto con Sara (Smutniak), che gestisce con l’amica Angela (Alessia Giuliani) un negozio di parrucchiera, sta andando a rotoli (lui le mette da sempre la corna e ha capito che anche lei ha un altro); il figlio Pietro (Tobia De Angelis) sta per terminare gli studi al Dams (sarebbe il primo laureato della sua famiglia) ma, oltre a realizzare divertenti clip con parenti ed amici, l’attuale crisi non sembra consentirgli un qualche futuro; il lavoro di insaccare mortadelle, che fa da trent’anni, non lo esalta certo e, inoltre, l’azienda sta licenziando molti suoi colleghi, tra i quali il suo amico Rebecchi (Francesco Colella) che la prende malissimo; suo  padre (Giuseppe Gaiani), affetto da demenza senile, è ricoverato in un istituto e quando lui lo va a trovare o non lo riconosce o gli chiede ossessivamente se “va a figa”; lui rischia, per ragioni economiche, di perdere la casa che il nonno e il padre avevano messo su con sacrificio; la situazione del Paese, infine, gli manifesta l’inutilità dei sogni e delle lotte che aveva vissuto da giovane. Si ritrova un po’ solo con gli amici: il pittore Carnevale (Sciarappa), l’amico del cuore con gravi problemi di ludopatia, il collega Max (Leonardi) e Matteo (Dini), con i quali condivide partite a scopa, sbronze, spinelli, notti brave in discoteca e scazzottate. Riko, Carnevale e Max decidono di passare un giorno a Roma e, all’alba, vedono un corteo di dimostranti per l’art. 18 e, con loro, caricano la polizia. Riko prende una manganellata e finisce in ospedale; qui lo raggiunge Sara, che gli porta biancheria pulita; dimesso quasi subito, viene intervistato da un giornalista televisivo che cerca di farlo apparire un eroe della contestazione ma lui ribatte di aver avuto solo motivi personali nell’aggredire i poliziotti. Un giorno lui e Sara vanno a pranzo dal suo collega indiano Pavak (Jefferson Jeyaseelan) e si incantano nel vedere l’armonia di quella famiglia povera ma vivacissima; a fine pranzo lei si commuove al ricordo del loro secondo figlio, morto alla nascita e, al ritorno, confessa a Riko di essere stata, in un momento di particolare solitudine, a letto con Carnevale. Lui fa una scenata, va sotto la casa dell’amico, con una mazza gli sfonda la macchina, poi gli dà duemila euro per aiutarlo coi debiti di gioco e lo abbraccia. Tornato a casa, dopo un aspro chiarimento, lui e Sara fanno l’amore e, poco dopo, sono al centro di una scherzosa cerimonia nuziale, presenti tutti gli amici, officiata da Patrizio (Gianluca Gobbi), l’amico gay, da sempre bersaglio di affettuosi sfottò. Pochi giorni dopo, Carnevale si uccide e Riko, disperato, aggredisce un collega (Ettore Nicoletti) che fa un commento sulla vita dissipata del morto, rompendogli il naso. Quel gesto accelera il suo licenziamento e Riko, dopo vari inutili colloqui per trovare un nuovo lavoro, cade – come il Rebecchi gli aveva prognosticato – in una tremenda depressione, sconvolgendo anche la vita di Sara, fino a tentare il suicidio, gettandosi nel Po. Tornato a casa, fradicio ma vivo, fa l’amore – dopo mesi – con Sara e trova la forza di ricominciare la vita a Francoforte.

Nel 1983 uscì il saggio dello psicoterapeuta Dan Kiley La sindrome di Peter Pan – Uomini che hanno paura di crescere e, da allora, gli eterni bambinoni immortalati da Fellini ne I vitelloni sono diventati, soprattutto in America (ma il recente After the storm del giapponese Hirokazu ne è un altro esempio) un vero genere cinematografico: oltre ai 3 Una notte da leoni, campioni mondiali di incasso, c’è il Frat Pack, un gruppo di attori (Owen e Luke Wilson, Ben Stiller, Jack Black, Steve Carell e Vince Vaughn) che, oltre a condividerne lo stile di vita, ha dato vita a vari film sul bamboccionismo (2 single a nozze, L’isola delle coppie tra i più noti). Ligabue sin dal fulminante esordio con Radiofreccia ne ha dato una sua versione, più politica, più generazionale, più intrisa di tragedia e, soprattutto, più emiliana. Il successivo Da uno a dieci, però, era già un po’ di maniera e questo, girato a 15 anni di distanza, è retto solo dalla capacità di Accorsi (che dopo Veloce come il vento ha trovato una matura profondità attoriale). Per il resto più che un film sembra essere una lunga videoclip dei brani dell’album omonimo che fanno da colonna del film: Mi chiamano tutti Riko, E’ venerdì, non mi rompete i coglioni, Dottoresa, Ho fatto in tempo ad avere un futuro, Un’altra realtà, G come giungla, Non ho che te e il brano del titolo – diciamo sommessamente: una sorta di aggiornamento rock del vecchio Tre sorelle di Claudio Villa (“Roma, Napoli e Firenze/ son tre sorelle/…tutte e tre ugualmente belle). Non certo un film riuscito ma la simpatia emiliana che lo permea aiuta a vederlo con una punta di allegra malinconia.

Antonio Ferraro




Il degrado dell’Università del marciapiede

A Napoli, il recente susseguirsi delle azioni di bande di ragazzini di 10 -15 anni o poco più, ai danni di altri coetanei, assaliti senza motivi e ridotti in fin di vita o gravemente feriti, è un segno preoccupante del degrado del valore della vita nel nostro Paese.

Il fenomeno della delinquenza minorile non è prerogativa unica della bella città partenopea, ma è sempre esistito in tutto il mondo ed anzi, si deve osservare che, in Italia, non ha ancora fortunatamente raggiunto i livelli delle metropoli d’oltre Oceano od europee.

Infatti, negli stessi giorni in cui i mezzi di comunicazione davano ampio spazio all’impiego delle armi in possesso dei fanciulli, che gioiosamente si rincorrevano tra i marciapiedi, sparando in aria, facendo alcune vittime, colpevoli soltanto di trovarsi nel luogo e nel tempo sbagliato, a Rio de Janeiro i morti si contavano a decine nella favela di Roihna ed a Vittoria, capitale dello Stato di Espirito Santo, ironia della sorte, raggiungevano il numero di 85.

Il salto di qualità nelle attività dei piccoli scugnizzi napoletani è indice del degrado “dell’Università del marciapiede”, che da sempre ha rappresentato la loro unica scuola al ladrocinio, che soffre, come del resto le altre istituzioni ufficiali, della perdita di autorità da parte dei docenti e dei genitori.

La corporazione dei ladri, universalmente diffusa tra tutte le classi sociali, ha sempre seguito regole ben precise, e fin dall’antichità ha goduto di importanti protezioni, incominciando da Mercurio, che si era guadagnato il riconoscimento ufficiale da parte della categoria, per l’abilità e l’astuzia con cui era riuscito a sottrarre ad Apollo il bestiame degli dei, tirandolo per la coda, per non lasciare tracce e per venire a tempi più recenti a San Dismas (25 marzo) ed all’autorevole San Nicola (6 dicembre), che oltre ai commercianti ed ai viaggiatori si fanno carico anche degli esecutori dei furti.

Una delle regole principali che nobilitava la categoria era l’assoluta proibizione di fare ricorso alla violenza e di portare qualsiasi tipo di armi, motivo aggravante.

Per entrare a fare parte della corporazione, era necessaria una elevata preparazione specialistica, legata alle capacità individuali che variavano con l’età, l’attitudine fisica, la preparazione intellettuale, la conoscenza delle lingue, il ceto sociale, ma soprattutto la tradizione e l’ambiente famigliare.

L’arte, la letteratura, il cinema, e la televisione hanno illustrato ladri famosi, che con le loro vite avventurose e spericolate hanno affascinato generazioni di amanti delle forti emozioni, e che a volte hanno cambiato il corso della storia.

In questi ultimi decenni, con la rapida diffusione dell’informatica e dell’elettronica, il percorso formativo dell’“Università del marciapiede”, il cui primo diploma riguarda il furto del portafoglio, della borsetta, della catenina, dell’orologio, della pensione, ecc. non è più sufficiente e la specializzazione richiede tempi lunghi, che non rispondono alle esigenze delle giovani generazioni.

Per riuscire a compiere con successo l’asportazione di gioielli preziosi da una bacheca sorvegliata con un sistema elettronico molto sofisticato, nel volgere di pochi minuti, come si è verificato, di recente nella Mostra, Tesori di Moghul e dei Maharaja a Palazzo Ducale, a Venezia, è necessario un bagaglio conoscitivo delle tecnologie molto approfondito, mentre è più semplice compiere una rapina a mano armata, uccidendo, se necessario, per eliminare ogni ostacolo alla fuga.

La prospettiva allettante per i minori è, quindi, quella di abbandonare la vecchia e tradizionale corporazione dei ladri, per andare ad ingrossare le file di quella più moderna e dinamica dei rapinatori, dove la richiesta di nuove energie e di manovalanza è in aumento, su sollecitazione del ricchissimo mercato della droga.

Alle famiglie dei bambini che hanno difficoltà a risolvere il problema di riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena, il loro futuro interessa relativamente, poiché è importante che si rendano indipendenti, nel più breve tempo possibile.

Ne deriva che si stanno creando con l’impiego criminale dei minori, le premesse per un peggioramento diffuso dei rapporti sociali non solo nelle città, ma anche nei piccoli comuni.

Il presidio del territorio da parte delle Forze dell’ordine è un’esigenza prioritaria, ma non è sufficiente a riportare il rispetto della vita, che è la condizione fondamentale per dare significato alla sopravvivenza dell’umanità.

Lo aveva percepito con grande chiarezza un grande Santo italiano, Giovanni Bosco, due secoli orsono, quando aveva dovuto sostenere, con grande difficoltà e tra la generale indifferenza dello Stato e della Chiesa, il disegno degli oratori salesiani, che hanno contribuito all’inserimento nel mondo del lavoro di migliaia di giovani, costretti a vivere ai margini delle città, dominate dall’ansia della ricchezza.

Per il nostro futuro servono più poliziotti, più carabinieri, ma soprattutto più Salesiani.

Ervedo Giordano

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Giochi di bambini - Pieter Brueghel Il Vecchio

Giochi di bambini – Pieter Brueghel Il Vecchio

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Segna la data: Corviale a Mosca

Martedì 31 ottobre alle ore 19:00 conferenza dell'architetto Laura Peretti 
"I chilometri di architettura durante la prova del tempo"
LUOGO: SCUOLA ARCHITETTONICA DI MOSCOW 

mosca

Costruito negli anni ’70, il complesso Corvale è stato progettato dall’architetto Mario Fiorentino. Questo lungo edificio chilometro conosciuta a livello internazionale come un esempio della soluzione di successo del problema abitativo: per lungo tempo per la sorte del palazzo erano dispute, e alcuni anni fa e tutto è stato annunciato il suo eventuale distruzione, contro cui 7000 erano residenti del palazzo.

Demolizione o riparazione?
La discussione sul restauro di grandi complessi che rappresentano valore architettonico ha dato origine all’idea del concorso internazionale “Regeneration Corvale”. Il vincitore di questa competizione fu l’architetto Laura Peretti.

Il progetto vincente considera il Korvjale non solo come un complesso residenziale, ma come la struttura urbana più reale, la componente urbana che consente di ripensare la parte di Roma che confina con la campagna. Secondo la giuria, il progetto Peretti in misura maggiore al compito, come si prende il controllo di tutti i livelli, offrendo la loro percezione del complesso, sia in termini di paesaggio, così come con il punto di vista urbanistico, tra cui il movimento all’interno dell’edificio e lo spazio pubblico.

Laura Peretti è un architetto italiano. Principalmente impegnata nel restauro di edifici urbani e di progettazione del paesaggio. Da lungo tempo ha vissuto in Portogallo, ha collaborato con architetti come Eduardo Souto de Moura e Alvaro Siza Vieira, vincitori del Premio Pritzker. Fu in Portogallo che la sua carriera di architetto cominciò. Insieme a Kenneth Frampton ha insegnato design presso l’Accademia di architettura di Mendrisio è stato visiting professor in varie università americane con sede a Roma: Cornell University, l’University of Pennsylvania e l’University of Iowa. Dal 2005 Laura Peretti gestisce lo studio StudioInsito a Roma, dove lavorano professionisti di vari settori: architetti, ingegneri, artisti, esperti ambientali, sociologi e altri specialisti. [traduttore google]

Во вторник, 31 октября, в 19:00 в МАРШ состоится лекция архитектора Лауры Перетти “Километры архитектуры при испытании временем”.

Построенный в 70-х годах комплекс Корвьяле спроектирован архитектором Марио Фиорентино. Это километровое здание, известное на международном уровне как пример успешного решения жилищной проблемы: долгое время о судьбе здания шли споры, а несколько лет назад и вовсе было анонсировано его возможное разрушение, против которого выступили 7000 жителей этого здания.
Снос или ремонт?
Дискуссия на тему восстановления больших комплексов, которые представляют архитектурную ценность, породила идею международного конкурса “Регенерация Корвьяле”. Победителем этого конкурса стала архитектор Лаура Перетти.

Проект-победитель рассматривает Корвьяле не просто в качестве жилого комплекса, но как самую настоящую урбанистическую структуру, городскую составляющую, которая позволяет переосмыслить часть Рима, граничащую с сельской местностью. По мнению жюри конкурса, проект Перетти в большей мере соответствует поставленным задачам, поскольку он берет под контроль все необходимые уровни, предлагая свое восприятие комплекса, как с точки зрения ландшафта, так и с урбанистической точки зрения, включая перемещение внутри здания и общественное пространство.

Лаура Перетти – итальянский архитектор. В основном занимается восстановлением городских зданий и ландшафтным дизайном. Долгое время жила в Португалии, сотрудничала с такими архитекторами, как Эдуардо Соуто де Моура и Алваро Сиза Виейра, лауреатами Притцкеровской премии. Именно в Португалии началась ее карьера архитектора. Совместно с Кеннетом Фрамптоном преподавала проектирование в Архитектурной академии в Мендризио, была приглашённым профессором в различных американских университетах, расположенных в Риме: Корнеллском университете, Университете штата Пенсильвания и Университете штата Айова. С 2005 года Лаура Перетти руководит студией “StudioInsito” в Риме, где работают профессионалы из разных сфер: архитекторы, инженеры, художники, эксперты по окружающей среде, социологи и другие специалисты.

FONTE

 



Ammore e malavita

dei Manetti Bros.  Con Giampaolo MorelliSerena RossiClaudia GeriniCarlo BuccirossoRaiz Italia 2017

Non si può dire che il musical abbia in Italia una grande tradizione, se si escludono i “musicarelli”( e, prima ancora,  i vecchi film interpretati da cantanti di successo, Claudio  Villa e Luciano Tajoli tra gli altri, che erano flebili storie funzionali all’ascolto dei loro successi) e la sceneggiata (che sono però tutti film con canzoni) e, sul coté autoriale, Tano da morire di Roberta Torre e Belluscone- Una storia siciliana di Franco Maresco (in entrambi, peraltro, i brani neo-melodici hanno una funzione di contrappunto sociale). Ha avuto, certamente, punte importanti: il capolavoro Carosello napoletano di Ettore Giannini, il bel La Tosca di Luigi Magni, il colpevolmente dimenticato Per amore… per magia di Duccio Tessari e, in qualche modo, il recentissimo bel cartoon La Gatta Cenerentola ma ci volevano Antonio e Marco Manetti per dare alla nostra cinematografia un vero, grande musical. Loro, cinefili appassionati, ultimi eccezionali epigoni del nostro cinema di genere (Zora la vampira, L’arrivo di Wang, Paura), avevano già raccontato, con successo, Napoli e la sua musica (neomelodica in quel caso) in Song ‘e Napule; con Ammore e malavita compiono un passo più importante: mettono insieme un cast di cantanti e musicisti di generi diversissimi – dal re dei “cantanti di giacca” Pino Mauro, al vecchio Antonio Buonomo,  ai giovani (ciascuno innovativo a suo modo) Andrea D’Alessio, Tia Architto, Franco Ricciardi, Ivan Granatino, Ronnie Marmo e Claudia Federica Petrella, al percussionista Ciccio Merolla fino al sorprendente Raiz,  leader degli Almanegretta e musicista a tutto tondo e, qui, bravissimo attore – e, grazie alle coreografie di Luca Tommassini e alle musiche di Pivio e Aldo De Scalzi, dànno vita ad un film che rimarrà nella storia del nostro cinema. Io ho avuto difficoltà nel non alzarmi ad applaudire alla fine dell’esibizione di Pino Mauro, che canta Chiagne femmena seduto su di un trono di cornetti rossi in Piazza Plebiscito. Ovviamente, onnivori ed attenti, i bros. Non si sono fatti mancare il Rispo di Un posto al sole e Antonella Morea, la mamma della serie web Casa Surace, che come gli altri tasselli (tra cui l’ottima ressa di Buccirosso e Morelli) contribuiscono a definire un grande mosaico. Presentato a Venezia, con vari premi, era stato denominato Na Na Land (per dire: il La La Land napoletano) ma, in realtà Ammore e malavita è molto più musical del trattenuto film di Damien Chazelle). Gli incassi sono un bel segnale di controtendenza, in un periodo complicato per il cinema in Italia.

In una Napoli – nella quale la malavita è talmente centrale che l’operatore turistico Aniello (Andrea D’alessio) organizza una visita alle Vele e una delle turiste, appena scippata (Tia Architto), si mette a cantare e a ballare, felice dell’esperienza – ha luogo il funerale del boss Don Vincenzo Strozzalone (Buccirosso), “’o re d’o pesce”, ma mentre la vedova Donna Maria (Gerini), la madre Filomena (Graziella Marina), la sorella Bettina (Lucianna De Falco) e il nipote Franco Luigi (Antonio Fiorillo) lo piangono, il cadavere nella bara canta la sua sorpresa nel vedersi circondato da sconosciuti. In realtà nella bara c’è un sosia di Vincenzo, Francesco De Rosa, che il boss aveva fatto ammazzare dal suo braccio destro Gennaro (Franco Ricciardi). Qualche giorno prima Pistillo (Ivan Granatino), nipote del boss del clan rivale Nunzio (Gennaro Esposito), era andato con un gruppo di pistoleri nella pescheria per uccidere Vincenzo, ferendolo al sedere, mentre l’intervento di due killer in moto, le Tigri, Rosario (Raiz) e Ciro (Giampiero Morelli), lo aveva messo in fuga, convinto di averlo ucciso. Donna Maria, stanca come il marito degli stress di quella vita e appassionata di cinema, si ispira ad Agente 007 – Si vive solo due volte e concepisce il piano di uccidere lo scarparo Francesco e organizzare il finto funerale per potere fuggire e godersi la ricchezza accumulata, investita in alcuni preziosissimi diamanti. Con la complicità del dottor Spadafora (Marco Mario De Notaris), la notte Vincenzo si fa estrarre il proiettile in ospedale, dopo aver lasciato la guida della banda a Gennaro e la pescheria alle Tigri; l’infermiera Fatima però lo vede e lui ordina ai due killer di ammazzarla. Ciro la intercetta ma lei, a sorpresa, gli si butta tra le braccia: quando erano ragazzi (Lorena Russo e Andrea Saporito) si erano giurati eterno amore ma poi lui, arruolatosi nella malavita per vendicare l’uccisione del padre, era scomparso. Anche in Ciro si riaccende l’amore e, dopo aver sparato alle ruote della moto di Rosario per non farsi inseguire, porta in salvo Fatima, rifugiandola dallo zio Mimmo (Antonio Bonomo), un ex-contrabbandiere ora venditore di botti. Lei sta nascosta in casa di Mimmo e lui di notte affronta, via via, tutti i sicari mandati da Don Vincenzo e ne uccide parecchi, finché Rosario – interrogando la donna (Rosalia Porcaro) che ha cresciuto Fatima e, soprattutto, il cartolaio (Patrizio Rispo) del quartiere, che è arrabbiato con Mimmo per dei botti che da giorni doveva consegnare – capisce tutto. Arrivato in casa dell’ex-contrabbandiere, non trova nessuno ma una foto e delle lettere gli forniscono l’indirizzo di Mariellina (Claudia Federica Perella), la figlia di Mimmo che studia a New York; al cugino di Don Vincenzo, Frank (Ronnie Marmo) che gestisce lì una pizzeria, viene dato l’incarico di andare a casa della ragazza e di minacciare per telefono il padre che se non consegnerà Ciro e Fatima, vivi o morti, lui ucciderà Mariellina.  Fatima – che, stanca di stare chiusa in casa si era nascosta nel motoscafo – sente tutto e corre da Ciro, che è al porto per sistemare i conti con altri killer. Lei cerca di fermarlo ammanettandolo ma è costretta a fuggire con lui e ad assistere ad una sparatoria nel corso della quale lui uccide Gennaro e tutti i suoi uomini. Ora però sarà lei a prendere in mano la situazione: ruba i diamanti, fa arrestare Don Vincenzo e Donna Maria e, grazie ai trucchi teatrali di Hope (Juliet Essey Joseph), fa credere Ciro ucciso da Mimmo. Ora loro e lo zio possono partire, ricchi e liberi, ma ovunque vadano … Nun è Napule.




Modì Full Band – Concerto del 26 settembre h. 21:30 al Festival dell’Unità di Roma

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VIDEO:

A tutte le periferie del mondo.
Un omaggio a Torpignattara, alla “diversità”
di Roma est e alla sua multietnicità.
Modì sostiene la Ius Soli.




Sfratti alle associazioni: la Corte dei Conti fa cadere le accuse

Le sentenze sugli affitti alle associazioni sono assolutorie e i magistrati della Conte dei Conti sembrano decisi a lasciar decadere progressivamente la cause contro i funzionari comunali, che negli anni scorsi avevano firmato le concessioni di sedi ad associazioni ed enti non profit a prezzo agevolato e che di conseguenza si erano visti accusare di danno erariale. Dovrebbe essere una svolta definitiva, anche se non è chiaro che cosa succederà alle associazioni che nel frattempo hanno ricevuto lo sfratto e, in qualche caso, lasciato le sedi e già pagato gli arretrati richiesti.

LA STORIA

Sotto la fuorviante etichetta di “affittopoli”, dal 2015 in poi erano finite anche una serie di realtà non profit, che avevano sede e svolgevano le proprie attività in locali concessi dal Comune ad un canone scontato dell’80%. Il viceprocuratore regionale della Corti dei Conti Patti aveva visto in queste situazioni elementi di illegalità e di conseguenza aveva contestato ai funzionari comunali il danno erariale e chiesto i conseguenti rimborsi. Cifre importanti, richieste a 7 funzionari finiti sotto processo attraverso 300 cause, di cui 200 già arrivate a procedimento; 100 milioni il danno ipotizzato dalla procura.
Di conseguenza era partita un raffica di sfratti alle associazioni e di richieste di arretrati, che in qualche caso hanno raggiunto anche il milione di euro.

LE ASSOLUZIONI

Le sentenze sugli affitti alle associazioni sono però assolutorie nei 22 procedimenti arrivati a conclusione. Ieri è stata assolta in appello anche l’unica funzionaria che in primo grado aveva ricevuto una condanna. E le assoluzioni portano tutte le stesse motivazioni: si trattava di beni “indisponibili”, dunque non collocabili sul mercato; c’erano delibere e regolamenti che legittimavano le concessioni a canone agevolato; le onlus svolgevano attività che avevano un valore sociale o culturale. Se anche i locali fossero stati riacquisiti, comunque, avrebbero dovuto essere concessi ad altre onlus.
In più, la sentenza di ieri aggiunge una considerazione sulla “inarrestabile riduzione del del personale”, che ha ingolfato i procedimenti per le concessioni provvisorie e, più in generale, la gestione dell’«abnormità del patrimonio del comune».

IL VALORE SOCIALE

Nelle sentenze sugli affitti alle associazioni, la Corte dei Conti ha quindi riconosciuto le motivazioni e le istante portate avanti, tra l’altro, dal Coordinamento Valore Sociale-9 marzo, che già nel marzo scorso aveva presentato una richiesta di deferimento del viceprocuratore Patti alla Commissione disciplinare, proprio con le motivazioni su cui poi si sono fondate le sentenze assolutorie.

In tutta questa vicenda degli sfratti alle associazioni spiccano alcuni elementi solo apparentemente collaterali: il silenzio degli eletti al Campidoglio nei confronti tanto dei funzionari quanto degli enti non profit: né gli uni né gli altri sono stati difesi; l’incapacità, da parte loro, di individuare soluzioni e vie d’uscita, a parte una delibera rimasta lettera morta.

Alla base c’è il mancato riconoscimento del valore sociale di queste realtà, guardate con sospetto e pregiudizio, nonostante siano da anni una parte fondamentale del capitale sociale della metropoli. Su pieno di riconoscimento del valore sociale il Coordinamento continuerà a lavorare, perché se non c’è un rapporto di fiducia tra Pubblica Amministrazione e mondo non profit, non è possibile alcuna collaborazione.
Speriamo che i rappresentanti dei cittadini in Campidoglio trovino soluzioni per gli enti che – a causa di tutto questo – rischiano di chiudere.